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anno scolastico 2011 - 2012

QUADERNO DI L AV ORO

QUARTA EDIZIONE

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Cultura finanziaria a scuola: per prepararsi a scegliere

Si ringraziano per i contributi portati alla presente pubblicazione:

Alberto BanfiFederico CarteiEnrico CastrovilliDario Di VicoRoberto FiniClaudio GuzziMaria Cristina QuiriciElide Sorrenti

Un ringraziamento particolare a Emilio Giannelli per la disponibilità e l’entusiasmo con cui ha realizzato le vignette per questa pubblicazione.

©Copyright 2012

by Osservatorio Permanente Giovani-Editori

progetto grafico e copertina: EssedicomEditing: Isabella Benfante

Stampa: Tipografia Contini, Sesto Fiorentino (Firenze)

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Cultura finanziaria a scuola: per prepararsi a scegliere

Temi10 I 10 “Temi” dell’economia/finanza

Introduzione di Dario Di Vico

Presentazionedi Federico Cartei

Formazione e ricerca del lavoro di Roberto Fini

Stage e prime esperienze lavorativedi Federico Cartei

Globalizzazione del mondo del lavorodi Roberto Fini

Moneta unicadi Claudio Guzzi

Inflazione, potere d’acquisto e valore del risparmio di Alberto Banfi

Strumenti di pagamento tradizionali e moneta elettronicadi Elide Sorrenti

Pillole di finanza pubblica: spesa, tasse, deficit, debito e modalità di finanziamento di Enrico Castrovilli

Rischio-Paese: tassi, spread e riflessi sull’economiadi Federico Cartei

Caratteristiche ed opportunità dei finanziamentidi Maria Cristina Quirici

Il sistema previdenziale di Maria Cristina Quirici

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Introduzionedi Dario Di Vico

Siamo nell’Anno Quinto della Crisi e tutti vorremmo avere in dotazione una bussola. Uno strumen-to che ci indichi la posizione e in qualche maniera ci metta in grado d’individuare un itinerario. I padri e le madri per orientarsi utilizzano molto l’esperienza ed è corretto che sia così, solo che vivendo in una stagione di forti discontinuità non è detto che il passato ci dia sempre i migliori suggerimenti. Anzi. La discontinuità, se vogliamo, possiamo spiegarla così: non sappiamo come il nostro Paese uscirà dalla sua crisi, come sarà preservata la sua identità di grande produttore industriale, come sarà rimodellata la sua geografia sociale e via di questo passo. Tradotto in termini di staffetta generazionale è assai probabile che alle nuove leve non tocchi solo il compito di avvicendare al meglio le vecchie ma di scrivere delle pagine nuove in un’epoca in cui la dimensione finanziaria ha assunto un rilievo primario. E capirne le leggi, le costanti, le culture, le conseguenze diventa imprescindibile. Lo spirito di questo tempo, di questa “seconda modernità” (copyright del sociologo tedesco Ulrich Beck) è impregnato di economia, lo si voglia o no.Un esempio su tutti. Nel lessico contemporaneo non si può prescindere dalla parola “globaliz-zazione”, spesso – è vero – viene mal usata, ma la chiave di gran parte delle trasformazioni della nostra epoca risiede lì, in una nuova e complessa fase d’integrazione economica tra i diversi Continenti e ciò a prescindere dai regimi politici che li governano. Il mondo si è prepo-tentemente allargato e la nostra cultura, di cui andavamo per altro fieri, si è rivelata inadeguata a fronteggiare la novità. Pensiamo solo a ciò che significa dal punto di vista della conoscenza delle lingue, ormai nelle grandi città italiane si frequentano normalmente corsi di cinese e di portoghese perché le nuove opportunità di sviluppo vengono dalla Cina e dal Brasile. Ma più in generale tutte le nostre visioni sono sottoposte a verifica, dovremo giocoforza allargare i nostri orizzonti perché il mondo ha cambiato marcia e protagonisti e Paesi come l’India e la Cina che prima consideravamo come la periferia del globo ne sono diventati, per alcuni versi, la punta più dinamica. Del resto la crisi che attanaglia le economie occidentali sarebbe stata molto più acuta e socialmente gravosa se le economie emergenti non avessero dato sbocco alle nostre merci, tecnologie e culture organizzative. Ciò è valso moltissimo anche per l’Italia, che ha dovuto ridurre l’occupazione in maniera minore di quanto la crisi facesse temere proprio perché le nostre imprese hanno continuato ad esportare con continuità anche sui nuovi mercati. Noi europei abbiamo orgogliosamente pensato di aver dato, per tempo, una grande rispo-sta alla discontinuità rappresentata dalla globalizzazione, una risposta che si chiama Unione Europea a 27 membri per di più dotata di una moneta unica (anche se estesa solo a circa la metà dei membri). Obiettivamente è stata una grande idea e vale la pena sottolinearlo adesso quando l’Europa sembra essere più matrigna che mamma, più un centro decisionale esterno che un’estensione della democrazia nelle nuove condizioni date dalla globalizzazione. La moneta è il più conosciuto e utilizzato degli strumenti finanziari e ci aiuta a capire e argomentare la scelta In

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fatta dall’Osservatorio Permanente Giovani-Editori insieme ad Intesa Sanpaolo di parlare di “cultura finanziaria a scuola”. L’euro in fondo è la dimostrazione di come una cultura comune agli europei abbia sentito le necessità di fare un passo più in là, si sia voluta dotare anche di strumenti comuni che regolano la vita economica e civile dei cittadini, non solo dei banchieri. Abbia voluto dare agli europei non solo la condivisione di alcune idee ma anche la materialità di una moneta comune che è sempre nelle nostre tasche. Non so si vi è mai capitato di osservare dei turisti italiani in visita in uno dei Paesi dell’eurozona e constatare il piacere/orgoglio con il quale usano l’euro e lo vedono circolare anche in terra ospite. Si sentono un po’ meno forestieri. Quello della moneta unica è dunque un caso in cui le grandi decisioni politico-strategiche hanno incrociato positivamente le aspirazioni delle persone, si sono fatte racconto quotidiano. Perciò, anche in questo tempo disgraziato, quando parliamo del futuro dell’euro, delle difficoltà della Grecia, del rischio che il contagio investa anche il nostro Paese, non dovremmo dimenticare quali sentimenti l’integrazione europea ha saputo mettere in moto. E come ha contribuito a modernizzare la nostra società, le nostre leggi, il nostro stesso modo di pensare e di rapportarci agli altri popoli.È tutto sommato da poco tempo che si osa parlare di “cultura finanziaria”. Fino a qualche stagione fa quell’espres-sione sembrava addirittura recare in sé una contraddizione in termini. Come se si dovesse scegliere: o cultura o finanza, le idee e i valori contrapposti al denaro. Poi c’eravamo illusi che con l’avvento e il boom dei fondi comuni d’investimento nella metà degli anni ’80 avessimo imboccato un processo di alfabetizzazione finanziaria irreversi-bile. Gli italiani abituati tutt’al più a detenere nel loro portafoglio-titoli i leggendari Bot dimostrarono una certa fles-sibilità mentale, la voglia di misurarsi con un alfabeto più complesso e con la necessità di attrezzarsi culturalmente per poter seguire il proprio personal business, come usavano dire i giornali finanziari dell’epoca. Ricordo come in quella fase addirittura “La Gazzetta dello Sport” si fosse posta il quesito se pubblicare o meno le quote giornaliere dei fondi comuni e il borsino di piazza Affari. E alla fine qualche esperimento, seppur timido ed estemporaneo, fu varato in linea con lo spirito del tempo. Adesso a tanti anni di distanza possiamo tranquillamente affermare che si trattò di una fiammata o se vogliamo – e dobbiamo dirlo con sincero accento autocritico – si è rivelata un’occa-sione mancata.Oggi il contesto è molto diverso. Come già detto siamo dentro una crisi di cui non conosciamo del tutto i meccani-smi di funzionamento e però siamo convinti che la finanza abbia giocato un ruolo negativo. Non è un certo un caso che tutto sia iniziato con la crisi americana dei subprime, i mutui concessi per comprar case con troppa facilità dalle banche americane ai loro clienti. E allora i comportamenti finanziari anglosassoni che avevamo lodato per anni e che ci sono sembrati più moderni dei nostri si sono rivelati alla fine inadeguati e pericolosi. Noi italiani ovviamente siamo diversi. Si pensi all’uso delle carte di credito, il denaro di plastica, che gli americani usano quasi compul-sivamente e soprattutto come carte di debito. Da noi si usa la carta solo se sappiamo che l’importo della spesa è coperto dai risparmi che abbiamo depositato su un conto corrente bancario: agiamo così per una paura atavica di contrarre debito, che in qualche maniera ci ha preservato nella Grande Crisi da ulteriori sconquassi perché le nostre banche non sono andate a carte quarantotto.Se quindi la via anglosassone alla finanza oggi è molto meno popolare di ieri è necessario però da parte nostra sviluppare comunque una cultura che ci faccia da bussola, che ci aiuti a capire il mercato del lavoro e la finanza. I nessi sono fin troppo evidenti: abbiamo bisogno drammaticamente di posti di lavoro e quindi di imprese sane, com-petitive, rivolte al futuro, ma a loro volta queste aziende hanno bisogno del credito bancario per investire in nuovi macchinari, per attrarre personale competente, per mettere piede nei mercati più promettenti ma anche più lontani

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di quelli di ieri. La finanza, dunque, serve. Eccome. Caso mai la domanda è: se abbiamo per-so la grande occasione degli anni ’80, come pensiamo oggi negli anni Dieci di trasmettere la comprensione delle dinamiche finanziarie ai giovani di oggi? La risposta non può che essere pragmatica e prevedere un approccio dal basso: fare un passo in avanti significa introdurre nella scuola una cultura finanziaria che aiuti i ragazzi a gestire il rapporto con il denaro proprio e della propria famiglia, li porti a saper utilizzare il denaro elettro-nico, a controllare la corrispondenza con le banche. L’obiettivo finale è mettere in grado i nostri figli, al momento in cui decideranno di mettere giù un loro progetto di vita autonomo, di saperne calcolare anche le variabili economiche. Da qui l’ovvia considerazione che una strumentazione di base, un alfabeto minimo, va trasmesso ai giovani come complemento del loro processo di responsabilizzazione. Vi sono innanzitutto evidenti motivi di sicurezza determinati dal fatto che gli studenti di oggi viaggiano molto di più dei loro padri e comunque hanno già in età scolare una frequenza di viaggi all’estero o di soggiorni per imparare le lingue molto elevata. La cultura finanziaria innanzitutto come “strumento” per districarsi nel mondo del denaro e per non rinviare sine die il momento della responsabilità. Quando facciamo queste riflessioni dobbiamo però aver presente che nel mondo della scuola c’è un diffuso timore. Molti docenti temono che anche solo per via strumentale, con la “scusa” d’insegnare ai ragazzi a usare un bancomat o una carta di credito, si voglia in qualche maniera indottrinare i ragazzi e renderli precocemente schiavi del “Dio Mercato”. Questo timore è am-plificato dalla storica difficoltà della scuola italiana a dialogare con l’economia, vista davvero come “scienza triste”, come un fattore costrittivo, quasi sempre negativo, orientato a razionaliz-zare e a comprimere la personalità e la creatività dei ragazzi. Allora diventa necessario sgom-brare il campo da qualsiasi equivoco: è giusto che i giovani si formino via via una propria idea del rapporto tra la sfera personale e quella economica, è evidente che questa dialettica sarà più vicina al vero man mano che alcune scelte di vita saranno più pressanti, ma dare più cultura finanziaria alla scuola non vuol tentare di piegarla surrettiziamente e anzitempo a un determinato orientamento di tipo socio-culturale. La si vuol rendere più libera, non certo prigioniera.

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IL QUADERNO DI LAVORO 2012-2013In tempi di recessione economica un aspetto positivo è rappresentato dalla diffusione sempre più capillare dei temi e delle problematiche finanziarie in ogni ambito della nostra vita: se guardia-mo un telegiornale, apriamo un quotidiano o una pagina internet difficilmente potremo riuscire a sfuggire ad un aggiornamento sull’andamento del Pil, della disoccupazione, dei consumi o dei mercati finanziari in generale, per non parlare dello sconosciuto “spread”, che per lunghi periodi è stato addirittura la parola più presente sui media. La diffusione dei concetti economici porta ad una familiarità e ad un interesse maggiori verso la cultura finanziaria soprattutto tra i giovani che hanno la fortuna di apprendere velocemente concetti nuovi e vicini alla loro realtà, ed il nostro compito è quello di aiutarli a comprendere fino in fondo queste tematiche che permetteranno loro di poter affrontare il mondo reale, quello che si troveranno all’improvviso davanti una volta finita la scuola, con maggiore consapevolez-za e preparazione.È a loro che questi anni di recessione economica hanno tolto di più: più di ogni altra cosa la spe-ranza di trovare un lavoro dopo gli studi, di potersi costruire una famiglia, di poter accendere un mutuo e comprarsi una casa, di poter girare per l’Europa godendosi i vantaggi di una moneta uni-ca, di poter avere un giorno una pensione adeguata allo stipendio percepito durante tutta la vita.La speranza e la fiducia sono concetti chiave in campo finanziario, non ci può essere ripresa economica e ripresa dei consumi se manca la fiducia in un domani migliore e la speranza di poter migliorare la propria condizione attraverso il lavoro.Con una disoccupazione ai massimi storici e quella giovanile oltre il 36%, quindi con un gio-vane su tre senza lavoro, non abbiamo in questo momento le condizioni migliori per diffondere ottimismo, ma siamo convinti che la conoscenza e la formazione in tema di cultura finanziaria possano dotare i giovani di strumenti che li aiutino ad essere competitivi sul mercato del lavoro e ad affrontare i problemi con maggiore consapevolezza, con la convinzione che operare scelte consapevoli e basate su conoscenze precise della realtà porti ad essere cittadini migliori e più liberi.È nell’ottica di poter approfondire quelle conoscenze pratiche della realtà che circonda i nostri studenti e che, subito dopo gli studi, li vedrà protagonisti in prima persona che nasce il Quaderno di Lavoro del presente anno scolastico, improntato all’approfondimento delle tematiche finanzia-rie concrete che dovranno essere affrontate dai giovani durante il loro ciclo di vita: in primo piano il mondo del lavoro con le caratteristiche della domanda e dell’offerta, l’utilizzo della moneta unica europea e di quella elettronica, l’acquisto dell’abitazione tramite la sottoscrizione di un mutuo, le problematiche dell’attualità relative allo spread ed al debito pubblico, gli investimenti, il risparmio e la previdenza integrativa.

Presentazionedi Federico Cartei

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Il percorso del Quaderno di Lavoro lungo il ciclo di vita finanziario dell’individuo Il filo conduttore del presente Quaderno è il ciclo di vita dell’individuo in relazione alla realtà e ai problemi finanziari che riguardano tutto l’arco dell’esistenza, approfondito attraverso dieci temi che spaziano a 360 gradi, dalla ricerca del lavoro fino alla previdenza integrativa, con una attenta focalizzazione sui problemi concreti dai quali dipende la vita di tutti i giorni e che quindi maggiormente stanno a cuore a chi questa vita si accinge ad affrontarla.Per ogni tema affrontato è stata realizzata una scheda e ciascuna delle dieci schede viene preceduta da un articolo tratto da un quotidiano al fine di favorire, da parte degli studenti, l’approccio alla lettura ed aiutarli ad approfondire tematiche complesse grazie all’utilizzo degli articoli di giornale che rappresenteranno la fonte principale di aggior-namento durante la loro vita.L’articolo viene utilizzato anche perché è nostra intenzione trattare temi economici con un riferimento alla realtà quotidiana: tale scelta ci aiuta infatti a far capire agli studenti che non stiamo trattando concetti teorici ma che ci atteniamo a temi che li riguardano da vicino e che li seguiranno per tutto il ciclo di vita. Il tema della scheda viene poi approfondito e commentato da un docente esperto in materia, il quale commenta l’articolo preso a riferimento e lo approfondisce con linguaggio e raffigurazioni semplici e comprensibili.Le parole chiave vengono evidenziate in un apposito box per fissare nella mente i concetti chiave dell’argomento trattato e in modo che diventino facilmente riconoscibili una volta che lo studente li ritroverà sui quotidiani o nelle proprie esperienze personali di lavoro o di vita, mentre i links indicati nell’altro box sono necessari riferimenti per chi volesse approfondire ulteriormente l’argomento. Le domande e risposte (Faq) rappresentano un approfondimento dei temi trattati nella scheda e servono sia per fo-calizzare l’argomento in poche battute che per verificare se l’argomento trattato è stato capito nei suoi punti chiave.La collaborazione con gli insegnanti, vero fulcro del nostro progetto, ci invita a suggerire loro una traccia per l’attività in classe, contributo dell’autore di ogni scheda riguardante le modalità per affrontare al meglio l’argomento con i ragazzi, dato l’aspetto tecnico delle tematiche trattate.Con veste grafica ancora una volta rinnovata e molto accattivante anche quest’anno il Quaderno è arricchito in ogni scheda da cinque domande finali a risposta chiusa grazie alle quali poter verificare immediatamente ed in modo concreto il grado di apprendimento del tema da parte degli studenti e magari confrontare le loro risposte prima e dopo aver affrontato la lezione per evidenziare i progressi e le conoscenze acquisite grazie al lavoro svolto in classe. Alla fine di ogni scheda sarà inserito un qr-code, un codice leggibile tramite smartphone che permette di collegarsi ad un video che l’autore di ogni scheda ha girato così da poter fornire un ulteriore contributo per affrontare l’argo-mento con gli studenti, tratteggiando per ogni scheda i temi chiave che ogni studente non potrà dimenticare una volta terminata la lezione.Tali video, così come il Quaderno e gli aggiornamenti, saranno disponibili anche all’interno del sito dell’Osservato-rio, nella sezione dedicata al presente progetto e potranno essere scaricati in ogni momento.

Il ciclo di vita finanziario: le dieci schedeNelle prime tre schede del Quaderno di Lavoro viene approfondito l’argomento che oggi riteniamo più vicino agli studenti: i giovani e il mondo del lavoro.

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Nella prima viene approfondito il momento critico del passaggio tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro, un momento caratterizzato dalla ricerca del lavoro a monte del quale è oppor-tuno che venga fatta una scelta oculata e consapevole del cammino scolastico da intraprendere, in modo che i ragazzi possano indirizzarsi verso quelle professionalità che il mondo del lavoro richiede e valorizza anche in periodi di recessione economica (Roberto Fini, Scheda n. 1).La scheda successiva approfondisce il funzionamento del mercato del lavoro con relativi problemi e potenzialità: analizza domanda e offerta per capire come sia possibile avvicinare le richieste delle imprese e le professionalità offerte dai giovani in cerca di lavoro. Si analizzano pro e contro degli svariati canali di ricerca del lavoro, i punti chiave di un buon curriculum, caratteristiche ed utilità degli stage in azienda, dei master di approfondimento e soprattutto il grande valore rappre-sentato dalle esperienze di istruzione all’estero per favorire nei giovani un’apertura verso il mondo e formare le nuove generazioni al concetto di cosmopolitismo (Federico Cartei, Scheda n. 2).La terza scheda affronta l’argomento di grande attualità legato alla globalizzazione del mondo del lavoro, alle opportunità che ne derivano per i giovani e alle insidie che questa comporta per le imprese che non investono in ricerca e non si rinnovano; sottolinea poi l’importanza di espe-rienze lavorative all’estero che consentono ai nostri studenti di apprendere le lingue straniere e di acquisire una mentalità più aperta (Roberto Fini, Scheda n. 3).La scheda successiva ripercorre il cammino dell’introduzione della moneta unica e i vantaggi che questa ha comportato per tutta l’area euro, sia negli scambi lavorativi e turistici, sia a livello di stabilità di tassi di interesse, del tasso di inflazione e dell’affidabilità dei singoli Stati nel far fronte ai propri impegni. Dato che di fronte alle difficoltà di alcuni Stati si è arrivati a mettere in discussione la tenuta dell’euro, in questa scheda vengono sottolineate l’importanza e le novità che l’introduzione della moneta unica ha comportato per il nostro futuro di cittadini europei (Claudio Guzzi, Scheda n. 4).Il gradino successivo del nostro percorso prevede l’approfondimento del concetto di risparmio, del significato della “tassa iniqua” rappresentata dall’inflazione e del concetto di potere d’ac-quisto del denaro, al fine di capire come varia il valore del denaro nel tempo e l’importanza di investire il denaro disponibile per non incorrere nel suo costante ma inesorabile deprezzamento (Alberto Banfi, Scheda n. 5).Nella scheda seguente poniamo l’attenzione ad un tema attuale, rappresentato dagli strumenti di pagamento diversi dal sempre più morigerato contante utilizzati per i più svariati motivi, dal lavoro agli spostamenti all’estero, che vanno dal tradizionale assegno alla moneta elettronica, fino al pagamento tramite gli smarthphone che sarà sempre più diffuso nei prossimi anni, che saranno protagonisti di una importante evoluzione tecnologica in tale settore (Elide Sorrenti, Scheda n. 6).Le due schede seguenti affrontano un tema che è stato di grande attualità negli ultimi mesi e che cerchiamo di chiarire andando a fondo del problema: nella Scheda n. 7 (Enrico Catrovilli) si analizza il funzionamento dello Stato con i servizi garantiti e le spese sostenute da un lato e le modalità di finanziamento tramite la riscossione delle tasse e l’indebitamento dall’altro. Il debito pubblico negli ultimi anni ha raggiunto livelli altissimi, tanto da far nascere dubbi sulla capacità dello Stato di poter onorare le proprie scadenze: da tali perplessità nasce il problema

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degli alti valori raggiunti dallo spread e degli alti tassi di interesse pagati dallo Stato per potersi finanziare sui mercati, con riflessi negativi per banche, imprese e famiglie. Tali temi vengono approfonditi nella Scheda n. 8 (Federico Cartei).La Scheda successiva affronta il tema dei finanziamenti, ovvero le diverse forme di approvvigionamento di risorse per far fronte alle spese familiari in un momento di deficit finanziario, tipico della realtà del mondo giovanile, dal mutuo prima casa al microcredito, dal prestito d’onore per gli studi ai finanziamenti per l’imprenditoria giovanile, strumenti utili per poter acquistare dei beni di consumo o iniziare un’attività, anche se tutte le risorse al momento non sono disponibili (Maria Cristina Quirici, Scheda n. 9).La prospettiva di una riduzione delle tutele dello Stato dal punto di vista previdenziale ci obbliga ad affrontare il tema pensionistico sin dai primi anni di lavoro: prepararci subito a costruire una pensione che integri quella pubblica aiuta a ridurre gli sforzi e ad incrementare la somma che andremo a percepire al momento opportuno, con una serie di vantaggi fiscali e di alternative interessanti per non rimanere all’improvviso spiazzati dall’esiguità della pensione al momento della fine della carriera lavorativa (Maria Cristina Quirici, Scheda n. 10).

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Formazionee ricercadel lavorodi Roberto Fini

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Caro Direttore, il problema del lavoro nel nostro Paese non è soltanto quello della inconoscibilità delle milioni di occasioni che il mercato offre ogni anno, in ogni parte della Penisola, ma anche quello della nostra incapacità di mettere a frutto alcuni enormi giacimenti di occupazione, che lasciamo quasi del tutto inutilizzati. Eppure sarebbero facilmente a portata di mano; e, come mi propongo di mostrare, il loro sfruttamento richiederebbe investimenti che sono certamente alla nostra portata. Il giacimento a cui mi riferisco è costituito dagli skill shortages, che restano permanentemente scoperti per mancanza di manodopera dotata della qualificazione necessaria per occuparli.[…] Dall’ultimo censimento svolto da Unioncamere risultano 117.000 posizioni di lavoro disponibili sparse in tutte le regioni italiane, distribuite in tutti i settori e tra tutti i livelli professionali. Gli studiosi di economia e di sociologia del lavoro avvertono, peraltro, che gli skill shortages effettivi sono molti di più: almeno mezzo milione. Così come per ogni disoccupato che cerca lavoro si stima che ci siano almeno tre “lavoratori scoraggiati”, potenzialmente interessati a trovare un lavoro ma che non ci provano neppure, allo stesso modo ci sono gli “imprenditori scoraggiati”: cioè quelli che avrebbero bisogno di personale qualificato, ma considerano talmente improbabile trovarlo che non fanno neppure l’inserzione sul giornale o la richiesta all’agenzia di collocamento.Per mettere questo giacimento di occupazione a disposizione dei nostri disoccupati o dei lavoratori che cercano un nuovo lavoro, basterebbe che un servizio specializzato facesse per ognuno di essi il bilancio delle competenze, individuasse i due o tre skill shortages più vicini professionalmente e geograficamente e delineasse i percorsi di riqualificazione professionale necessari per accedere ai due o tre posti individuati (preferibilmente in collaborazione con l’impresa interessata, utilizzando e retribuendo i suoi impianti e il suo personale qualificato). Tra questi il lavoratore interessato dovrebbe scegliere quello che meglio corrisponde alle sue aspirazioni ed esigenze familiari, per poi intraprendere l’itinerario di formazione necessario.Si obietta che i servizi pubblici per l’impiego non sono in grado di svolgere questo compito. Le agenzie di outplacement, però, sì. Oggi in Italia sono poco utilizzate, perché non abbiamo ancora maturato la cultura dell’assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca dell’occupazione; ma ci sono anche da noi, e funzionano bene.

2 Aprile 2012

OCCUPAZIONE: I GIACIMENTI FACILI DA SFRUTTAREdi Pietro Ichino

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[…] Certo, i servizi di outplacement costano cari (mediamente, l’equivalente di cinque o sei mensilità dell’ultima retribuzione del lavoratore interessato). Ma sempre meno della cassa integrazione “a perdere”: si potrebbe attivare un buon incentivo per l’azienda che licenzia, affinché essa ingaggi l’agenzia più adatta al compito; e le Regioni farebbero soltanto il loro dovere se riqualificassero drasticamente la propria spesa in questo settore, prevedendo i tre quarti o i quattro quinti del costo standard di mercato del servizio. Per questo potrebbe e dovrebbe essere utilizzato anche quel 60% dei contributi del Fondo Sociale Europeo che spetterebbero all’Italia, ma che finora non siamo stati capaci di utilizzare per inadeguatezza delle nostre iniziative nel mercato del lavoro rispetto ai requisiti di efficienza ed efficacia giustamente posti dal Fondo stesso.Oggi il fabbisogno prevedibile di qualifiche professionali scarse si potrebbe conoscere in anticipo per ogni zona e per ogni settore produttivo. Che cosa aspettiamo ad attivarci per porre questo giacimento occupazionale a disposizione dei tanti italiani che hanno difficoltà a trovare un lavoro?

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Chiavi di lettura dell’articolo

Tra le immagini che meglio documentano la durezza della depressione economica seguita alla crisi del 1929, le fotografie delle lunghe file di disoccupati davanti agli uffici di collocamento o dei poveri davanti alle mense che distribuivano un piatto di minestra calda, sono senza dubbio le più drammatiche. In Paesi come gli USA o la Gran Bretagna simili scene facevano purtroppo parte del paesaggio urbano abituale dell’epoca ed hanno contribuito a segnare in modo indelebile la memoria collettiva: la paura delle crisi e dei conseguenti aumenti della di-soccupazione sono diventati elementi costanti del dibattito economico-sociale e dell’inconscio individuale e collettivo1.Nella crisi attuale non esistono più le file di disoccupati e poveri in attesa: il mondo contempora-neo è più “virtuale” e la ricerca del lavoro avviene attraverso i canali dei curriculum vitae spediti per e-mail alle imprese o alle agenzie di outplacement o anche, semplicemente, il passaparola. Il sistema è cambiato, ma ciò non toglie che la disoccupazione rappresenti anche oggi una realtà, benché non raggiunga, per fortuna, i livelli degli anni Trenta.Certamente la crisi ha aggravato i tassi di disoccupazione e di sottoccupazione, specie fra i giovani, e tale situazione è destinata a non terminare nel breve termine, almeno fino a quando la fase acuta della crisi sarà superata. Ma, occorre osservare che le crisi mettono in evidenza un problema che, con minore drammaticità, si presenta anche nei periodi “normali”: quello della mancanza di equilibrio fra domanda di lavoro (da parte delle imprese) ed offerta di lavoro (da parte dei lavoratori). In linea generale la disoccupazione si crea perché le imprese non assumo-no i lavoratori in cerca di occupazione, ritenendo che le prospettive di mercato non siano tali da rendere necessarie nuove assunzioni, oppure perché alcune mansioni precedentemente affidate a lavoratori vengono affidate a macchine (disoccupazione tecnologica).I giovani in genere sono i più colpiti dalla disoccupazione: in tutti i Paesi la disoccupazione giovanile presenta tassi più alti (in qualche caso molto maggiori) della disoccupazione in gene-rale. Inoltre, i giovani tardano sempre più ad entrare sul mercato del lavoro: si prolunga, cioè,

il tempo che intercorre fra il conseguimento del titolo di studio e l’ottenimento del primo lavoro2.

1 Si veda a questo proposito il volume curato da S. Ricossa, Le paure del mondo industriale, Laterza, Roma-Bari, 1990, in particolare il saggio di Mario Deaglio, La paura delle crisi (pp. 115-136). Sulle dinamiche della crisi del 1929 e la successiva recessione degli anni Trenta il riferimento d’obbligo è il libro di John Kenneth Galbraith, pubblicato nel 1954, Il grande crollo (Rizzoli, Milano, 2003), ma anche la puntuale descrizione contenuta in Charles Kindleberger, Euforia e panico: storia delle crisi finanziarie, del 1978 (Laterza, Roma-Bari, 1996). Nella narrativa le più vivide immagini delle conseguenze della crisi si possono leggere nel libro del 1939 di John Steinbeck, Furore (Bompiani, Milano, 2001). Nel 1940 John Ford ricaverà dal libro di Steinbeck un intenso e drammatico film, cui parteciperà come sceneggiatore lo stesso Steinbeck, mentre l’interpretazione di Tom, il personaggio principale del romanzo, verrà affidata ad Henry Fonda. Nel 1941 il film vinse sette pre-mi Oscar. Sempre di Steinbeck si legga Uomini e topi (Bompiani, Milano, 2001), uscito nel 1937 e anch’esso ambientato negli anni della depressione succeduta alla crisi del ’29.2 Sulla condizione giovanile vi sono molti saggi interessanti: l’Istituto di studi sociologici IARD pubblica ogni quattro anni una vasta indagine campionaria sul tema; l’ultima edizione è del 2007 e tratta anche la condizione dei giovani in relazione al mondo del lavoro, a cura di Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli e Antonio

di Roberto Fini

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Non è facile affrontare l’argomento con distacco: la mancanza o la perdita del lavoro incidono sul tessuto collettivo e sui destini personali di chi viene coinvolto e della sua famiglia. Non è facile, ma è necessario: la solidarietà socia-le (e personale) nei confronti di chi non ha il lavoro o di chi, avendolo in precedenza, lo ha perso, è una delle grandi conquiste sociali e culturali del mondo contemporaneo. Ma tale solidarietà non deve far perdere di vista la realtà.E la realtà è costituita, anche, da un sistema che potrebbe essere migliorato: questo non risolverebbe alla radice il problema della disoccupazione, ma ne ridurrebbe di qualche valore il livello. L’articolo da cui prendiamo le mosse parte proprio dall’analisi di alcuni degli elementi che permetterebbero di attenuare l’impatto di disoccupazione o inoccupazione3. In sostanza, sembra essere un problema di informazione e di scarso collegamento fra domanda di lavoro e di offerta di lavoro: le imprese avrebbero bisogno di figure professionali dotate di specifiche competenze e i lavoratori (soprattutto i giovani) dovrebbero preoccuparsi di acquisire tali competenze; quello che manca è un sistema di informazione efficiente che metta in luce tali necessità.Tale mancanza genera un problema di “scoraggiamento bilaterale”: da una parte molti giovani, ritenendo che il mercato del lavoro non sia in grado di assorbirli, non cercano lavoro o si accontentano di “lavoretti” ben diversi rispetto alle competenze acquisite; dall’altra vi sono imprenditori che rinunciano ad esplorare il mercato del lavoro ritenendo difficile trovare le competenze professionali che ricercano. Tecnicamente il fenomeno viene definito skill shortage, cioè carenza di abilità o di competenze: le imprese ricercano figure professionali specifiche, ma non le trovano. E, non trovandole, “si scoraggiano”, sospendono la ricerca o si accontentano di figure con competenze diverse. In ogni caso, si genera un costo molto elevato, mentre, dal lato dei lavoratori, acquisire tardivamente com-petenze, ammesso che sia loro chiaro quali dover acquisire, può essere molto difficile.Significativamente l’articolo fa riferimento ai “giacimenti” occupazionali: come tutti i giacimenti occorre in primo luogo scoprirli ed esplorarne con attenzione le caratteristiche quantitative e qualitative. Già, ma chi si occupa di questa scoperta e di questa esplorazione? Certamente le singole imprese e i singoli lavoratori devono fare la loro parte, ma da soli non possono fare molto: è necessario che le informazioni siano veicolate da agenzie specializza-te. Quali sono le competenze maggiormente richieste dalle imprese e quali quelle maggiormente offerte da parte dei lavoratori? In quali territori si verificano i maggiori skill shortage?Il compito non è facile, tanto più se si tiene conto che in Italia solo nove regioni, tutte del Nord, sono ad oggi in grado di fornire indicazioni attendibili sulle caratteristiche qualitative del mercato del lavoro. Le regioni avrebbero istituzionalmente il compito di monitorare il mercato del lavoro, ma meno della metà si sono adeguate alle decisioni legislative: questo rischia di produrre un grave disallineamento fra domanda ed offerta. Vi sono strutture private di outplacement dotate di buona efficienza in grado di sostituire o di integrare i compiti delle Regioni. Naturalmente si tratta di imprese che vendono un servizio: non agiscono a titolo gratuito, né può essere garantito da parte loro un risultato positivo. Ma agire alla cieca, sia da parte dell’imprenditore sia da parte

de Lillo, Rapporto Giovani, Il Mulino, Bologna, 2007. Per una lettura sulla condizione giovanile si veda Carlo Dell’Aringa e Tiziano Treu (a cura di), Giovani senza futuro?, Il Mulino, Bologna, 2011. Un’analisi di respiro storico è quella contenuta nel volume di Paolo Sorcinelli e Angelo Varni (a cura di), Il secolo dei giovani: le nuove generazioni e la storia del Novecento, Donzelli Editore, Roma, 2004. Qualche interessante opera di narrativa sulla condizione giovanile si trova nella letteratura più recente. Per una fotografia cruda e provocatoria si può leggere Mariangela Mianiti, Una notte da Entraineuse: lavoro, consumi, affetti narrati da una reporter infiltrata, Derive/Approdi, Roma, 2005 e Saradisperata, Mi vendo, Newton Compton, Milano, 2007. Più positivo il messaggio contenuto in Angela Padrone, Precari e contenti. Storie di giovani che ce l’hanno fatta, Marsilio, Venezia, 2007. Sulle tragicomiche disavventure di un aspirante imprenditore si può leggere di Luigi Furini, Volevo solo vendere la pizza, Garzanti, Milano, 2009.3 Le condizioni di disoccupato e di inoccupato sono fra loro differenti: un disoccupato è una persona che aveva un lavoro, lo ha perso ed è attivamente alla ricerca di un nuovo lavoro; un inoccupato è invece una persona che non ha mai lavorato in precedenza ed è alla ricerca del suo primo impiego. Come è intuibile, la condizione di inoccupato è comune a molti giovani una volta usciti dal sistema formativo.

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del lavoratore è ancor meno efficiente e rischia di “costare” al lavoratore ben più delle cinque o sei mensilità cui fa cenno l’articolo da cui prendiamo spunto.Vi sono alcuni aspetti da chiarire riguardo ai problemi collegati alla ricerca del lavoro. In primo luogo: trovare un lavoro non è certo facile, specie in tempi di crisi; difficile sì, ma non impossibi-le. La tabella che segue mette in evidenza i tempi (in mesi) necessari ad un’importante agenzia di outplacement per ricollocare a lavoro impiegati ed operai nel primo semestre del 2011:

Attualmente, il meccanismo che porta al licenziamento di un lavoratore funziona così: se un’im-presa deve mettere in mobilità un lavoratore, lo comunica all’interessato e all’INPS perché venga avviata, se prevista, la procedura di cassa integrazione, in modo da garantire il reddito neces-sario anche in assenza di lavoro. Di solito la cassa integrazione dura molti mesi, se non anni, ed è a carico della collettività4. Stando ai dati della tabella, se affidati all’agenzia di outplacement, nella peggiore delle ipotesi i tempi di ricollocamento non superano i sei mesi: si potrebbe con-cordare che il costo di tale ricollocamento venga suddiviso fra datore di lavoro e lavoratore, con eventualmente un’integrazione da parte dell’INPS.L’agenzia di outplacement, grazie alla sua conoscenza del mercato, potrebbe garantire tempi relativamente rapidi e la collocazione del lavoratore in un nuovo posto di lavoro, adeguato alle sue competenze ed esperienza. In effetti, conoscere le esigenze del mercato può essere un pro-blema: le competenze richieste da parte delle imprese variano di continuo e non sempre è facile identificare quelle possedute dal lavoratore. È necessaria una buona dose di professionalità e un continuo monitoraggio delle caratteristiche di domanda ed offerta di lavoro.C’è certamente un problema: molto spesso le competenze dei lavoratori non corrispondono ai profili richiesti dalle imprese. Il sistema di istruzione, che dovrebbe fornire la base di competenze e conoscenze necessarie ad entrare nel mercato del lavoro, spesso non è in grado di farlo in modo soddisfacente. Inoltre, i profili professionali di cui il mercato ha necessità cambiano di continuo, in particolare per quanto riguarda alcuni settori caratterizzati da rapida obsolescenza tecnologica.Cosa può fare il lavoratore per rendersi competitivo sul mercato del lavoro? Non c’è una risposta univoca ad una domanda di questo genere, ma in ogni caso molto ha a che fare con la sua for-

4 In un altro articolo, sempre di Ichino, si cita il caso di due imprese venete i cui lavoratori sono in cassa integrazione da sette anni (Pietro Ichino, Se otto su dieci ritrovano un posto, in “Corriere della Sera”, 1 aprile 2012, p. 1). Si tratta di casi limite, ma episodi di cassa integrazione della durata di alcuni anni non sono rari. In realtà esistono due tipi di cassa integrazione: quella “ordinaria, che viene finanziata attraverso un contributo fisso posto a carico del datore di lavoro, mentre per la cassa integrazione “straordinaria” viene previsto anche l’intervento dello statoFo

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mazione, sia quella di carattere generale sia quella relativa a competenze specifiche, ma anche con le competenze attitudinali che il mondo del lavoro richiede. Si sa: buone conoscenze di informatica ed una buona abilità lingui-stica (in inglese, ma non solo) rappresentano requisiti importanti che il lavoratore deve possedere, se vuole essere concorrenziale sul mercato. Sono requisiti necessari ma non sufficienti: anche perché oggi molti dei giovani che si presentano sul mercato del lavoro, essendo a conoscenza di tali necessità, hanno già saggiamente provveduto a coprirsi su questo versante.Il problema è affrontare con intelligenza le altre esigenze del mercato del lavoro, in modo da essere competitivi. Può apparire cinico, ma ricercare un’occupazione significa indurre il datore di lavoro a scegliere una persona piuttosto che un’altra: maggiori e migliori sono le competenze che un aspirante lavoratore è in grado di esibire, maggiori sono le probabilità di essere assunto. Dunque, è necessario porsi alcune domande, tra cui: quali competenze ac-quisire? E in che modo?Per rispondere, è necessario un esame attento della realtà economica, ma soprattutto degli sviluppi che la caratteriz-zeranno: quali sono e quali saranno i profili professionali del mercato?5. Per esempio: lo sapevate che alla fine dell’at-tuale decennio, negli USA, la maggior domanda di lavoro sarà quella relativa ai giardinieri? Ma la domanda sarà alta anche per cuochi, camerieri, camionisti, vigilantes. Certo può apparire deprimente immaginare un futuro da giardinieri: ma che ne dite se gli cambiamo il nome e lo definiamo come “addetto alla paesaggistica degli spazi verdi”?È vero: cambiare il nome ad una professione, per quanto rispettabile essa sia, non la rende in sé più appetibile e, se un giovane non è portato per la “paesaggistica degli spazi verdi”, non varrà granché neppure come giardiniere. Né il lavoro di badante potrà essere più gradevole solo perché gli si cambia il nome definendolo “assistente domestico per la salute”. Questo non toglie, però, che alcuni profili professionali considerati, a torto o a ragione, come lavori di “serie B” saranno in un futuro non lontano quelli che avranno crescita maggiore. Una caratteristica unifica molte di queste attività: si tratta di servizi alla persona. La sfera del benessere individuale, dell’assistenza, dell’aiuto registrerà un boom con il progressivo invecchiamento della popolazione, un fenomeno già largamente in atto sia negli USA che in Europa e che è destinato ad aumentare6.Certamente immaginare per i nostri giovani un futuro come badanti o vigilantes non è il massimo. Ma attenzione: per quanto possano sembrare attività sotto-qualificate, se non ora sicuramente in un futuro molto vicino, esigeranno comunque una formazione universitaria. Gli stessi titoli di studio universitari, del resto, non sono tutti uguali in quanto a spendibilità sul mercato del lavoro: oggi in un Paese come l’Italia sono necessari pochi laureati in lettere e molti laureati in matematica. Vi sono pochi fisici o ingegneri e molti laureati in scienza delle comunicazioni: il problema è che il mercato chiede esattamente l’opposto e chi si iscrive ad una facoltà dovrebbe tener conto delle sue passioni e dei suoi interessi, ma anche delle prospettive di lavoro che una certa formazione può fornire.Dal punto di vista della domanda di lavoro dei laureati, non c’è dubbio che i titoli di studio in grado di garantire buone posizioni lavorative sono quelli delle cosiddette facoltà STIM (Scienze, Tecnologie, Ingegnerie, Matemati-che), ma anche in questi casi occorre prestare attenzione: per esempio, una laurea in ingegneria garantisce buone

5 Per quanto riguarda l’Italia, la più importante fonte di dati sulla domanda di posizioni professionali specifiche da parte delle imprese è contenuta nell’indagine annuale Excelsior, curata da Unioncamere. La ricerca censisce i fabbisogni occupazionali delle im-prese in relazione a titoli di studio, competenze professionali, ecc. La ricerca è liberamente consultabile e scaricabile a partire dall’URL: http://excelsior.unioncamere.net/.6 Per alcune interessanti notizie sul tema si veda l’articolo di Federico Rampini, Giardinieri, cuochi, muratori: le dieci profes-sioni del futuro, in “La Repubblica”, 14 febbraio 2011, p. 1. Nell’articolo si commenta un’importante ricerca dell’ufficio di statistica americano sulle prospettive occupazionali USA intorno al 2018. La ricerca cui si riferisce Rampini è recuperabile a partire dall’URL: http://cew.georgetown.edu/jobs2018/.

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prospettive di lavoro, ma un ingegnere civile ha minori possibilità di un ingegnere gestionale ed entrambi, a loro volta, sono maggiormente penalizzati rispetto ad un ingegnere informatico o aereonautico. Ma tutti dipendono dalle dinamiche di mercato, sia quelle a breve termine sia quelle prospettiche, peraltro non sempre facili da determinare con ragionevole attendibilità7.Quello che però può dirsi certo è che alcuni titoli di studio sono scarsamente competitivi perché ad una forte offerta non corrisponde un’adeguata domanda. Inoltre alcune professioni non esi-gono titoli di studio molto elevati: negli USA sono oggi laureati il 17% dei baristi, il 32% delle massaggiatrici e il 22% delle indossatrici. Non ha alcun senso che un barista sia laureato, pe-raltro quasi sempre con formazioni universitarie che nulla hanno a che vedere con il suo lavoro. In letteratura economica si parla, in casi simili, di overeducation: il titolo di studio è inutilmente superiore rispetto alla mansione occupata.Naturalmente è tutt’altro che facile riuscire ad orientarsi nella ricerca di un lavoro e, ancor prima, nel far collimare le scelte di studio con quello che chiede il mercato del lavoro: serve una “busso-la”, un criterio che permetta di orientarsi verso scelte ragionevoli. La tabella che segue consente di fornire indicazioni di carattere generale in questo senso.

Il modello ipotizza la presenza di quattro aree sul mercato del lavoro, differenziate a seconda dei parametri della presenza e della tensione:a. area dei fabbisogni fragili, caratterizzati da ruoli e competenze poco presenti e poco richiesti;b. area dei fabbisogni in declino, caratterizzati da ruoli e competenze molto presenti, ma poco richiesti;c. area dei fabbisogni emergenti, caratterizzati da ruoli e competenze poco presenti, ma che stanno per essere molto richiesti;d. area dei fabbisogni critici, caratterizzati da ruoli e competenze molto presenti ed ancora molto richiesti.Acquisire formazione nell’area dei fabbisogni fragili rappresenta una sicura chiave di insucces-so: si tratta di un’area rappresenta da lavori poco richiesti, sia in termini attuali (presenza), che prospettici (tensione); occorre poi prestare molta attenzione all’area dei fabbisogni in declino,

7 Le prospettive occupazionali dei laureati in termini di tempo di attesa fra il raggiungimento del titolo e il primo impiego sono analizzate con precisione da AlmaLaurea, una ricerca con cadenza annuale che esamina le caratteristiche dei laureati e la spendibilità di ciascun titolo di laurea sul mercato del lavoro in termini di oc-cupabilità a un anno e a tre anni dalla laurea stessa. L’indagine è giunta ormai alla sua 14° edizione e rappre-senta un punto di riferimento importante per chi voglia orientarsi negli studi universitari dal punto di vista delle prospettive occupazionali. La ricerca viene condotta sui laureati delle circa 60 università italiane che aderiscono al consorzio AlmaLaurea. Il sito che permette di accedere ai dati della ricerca è: http://www.almalaurea.it/. Da qualche anno il metodo della ricerca, sebbene su scala minore, è stato esteso ai diplomi di scuola superiore (si veda per questo: http://www2.almadiploma.it/).Fo

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perché può dar luogo ad “illusioni ottiche”: si tratta di un’area corrispondente a lavori molto presenti sul mercato ma privi di prospettive a medio-lungo termine; quella dei fabbisogni critici è un’altra area cui prestare attenzione: è costituita senza dubbio da lavori molto presenti sul mercato e con buone prospettive anche per il futuro, ma le modificazioni delle tecniche produttive possono facilmente rendere obsolete le mansioni appartenenti a questa area; l’area più promettente è quella dei fabbisogni emergenti: è costituita da lavori ancora poco presenti sul mercato, ma la cui domanda è destinata ad aumentare in futuro.Ovviamente, si tratta di un modello che ha validità relativa; tanto più in quanto le aree più interessanti, in negativo quella dei fabbisogni fragili e in positivo quella dei fabbisogni emergenti, riguardano il futuro e dunque si presta-no a previsioni attendibili solo in modo relativo. Resta il fatto che dedicarsi a impegni formativi destinati a profili professionali presenti nell’area dei fabbisogni in declino o anche in quella dei fabbisogni fragili rischia di costituire l’anticamera della disoccupazione o della sottoccupazione.

Traccia per l’attività in classeLa narrativa citata nelle note 1 e 2 può offrire molti spunti di riflessione: Steinbeck è sicuramente un autore di riferimento per le questioni sociali e leggerlo in italiano o nella versione originale in inglese permette molti proficui ragionamenti. Di recente la narrativa italiana si è misurata con i problemi della inoccupazione e della precarietà nel lavoro giovanile: i volumi citati nella nota 2, scritti da giovani che sperimentano sulla loro pelle questi problemi, benché non raggiunga-no le vette stilistiche dei grandi narratori, sono interessanti anche perché intercettano tematiche che il giovane lettore è in grado di comprendere in quanto parte della sua esperienza nella sfera personale, parentale o amicale.I dati sulla disoccupazione sono un altro modo per avvicinarsi al problema: oltre a alle indicazioni sitografiche citate nelle note, si veda il sito dell’ISTAT (www.istat.it) e quello dell’Eurostat, raggiungibile a partire dall’URL: http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/eurostat/home/. Inoltre l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) offre molte statistiche per ogni Paese (www.ilo.org), come pure l’OECD (www.oecd.org). Le agenzie interinali non godono in Italia di una grande popolarità: da molti vengono considerate come un modo per fornire alle imprese manodopera a buon mercato e precaria. In qualche caso questo può essere vero, ma non è certo la regola: la conoscenza che esse hanno del mercato del lavoro è in genere approfondita e intervistarne i responsabili può rappresentare un’utile occasione di riflessione.

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FAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. I fenomeni di disoccupazione e sottoccupazione giovanile possono essere affrontati e parzialmente risolti attraverso il sistema di istruzione? Sì: in ogni Paese, Italia compresa, è statisticamente evidente che coloro che possiedono titoli di studio più elevati sono esposti in misura minore al pericolo di restare disoccupati o di essere sottoccupati. Naturalmente questo dipende anche dal tipo di titolo di studio: alcuni titoli ed alcune competenze vengono richiesti in misura maggiore ed altri in misura minore. Si tratta di scegliere con attenzione, tenendo anche conto che tali scelte devono essere fatte con una visione prospettica: le esigenze del mercato del lavoro si modificano di continuo e il giovane deve abituarsi a ritmi di cambiamento molto rapidi. Ma se il futuro lavoratore compie scelte intelligenti dal punto di vista del titolo da conseguire e si dispone culturalmente ad adeguarsi in modo creativo alle sfide che il mercato del lavoro propone le dinamiche globali che oggi caratterizzano le economie possono rappresentare ottime occasioni di crescita individuale, sia in termini strettamente salariali sia in termini di soddisfazione personale.

2. Su quali basi deve essere scelto l’indirizzo di studio da intraprendere?Ognuno ha delle propensioni personali e delle preferenze riguardo alle competenze che vorrebbe conseguire. E ognuno sogna di fare un lavoro per cui “è tagliato”. Non c’è niente di male in questo: al contrario, non solo è normale e comprensibile, ma è anche l’unico modo per non condannarsi ad una vita di studio e di lavoro nei confronti delle quali non ci si sente attratti. Purtroppo però occorre fare anche i conti con le caratteristiche della struttura economica che ci circonda e con i condizionamenti del mercato del lavoro: occorre trovare soluzioni di studio che permettano di conciliare le preferenze personali con le prospettive di lavoro, altrimenti si rischia di doversi accontentare di soluzioni lavorative di ripiego e poco o nulla soddisfacenti. Certamente questo impone delle scelte non facili ed una programmazione intelligente delle competenze da acquisire, ma rappresenta l’unica strada per ridurre i rischi inevitabilmente collegati alle dinamiche del mercato del lavoro.

3. L’analisi dei fabbisogni del mercato del lavoro può essere utile nella programmazione del proprio futuro lavorativo?Sì: occorre osservare con una certa attenzione quali sono le dinamiche del mercato del lavoro e soprattutto in che direzione tali dinamiche si orienteranno. Verificare che un titolo di studio e le competenze che esso garantisce oggi hanno una buona domanda non garantisce che domani non risulteranno obsolete. Inoltre, qualunque siano le competenze acquisite dal giovane durante gli anni di studio, egli deve predisporsi ad affrontare un processo di revisione continua della propria professionalità, con modifiche anche profonde di quanto di volta in volta appreso. Questo esige uno sforzo di aggiornamento continuo del lavoratore durante l’intero arco della sua vita professionale, ma offre anche l’opportunità di non appiattirsi in mansioni ripetitive e, proprio per questo, prive di ogni stimolo. In sostanza, il giovane deve evitare di acquisire competenze che si collochino nell’area dei fabbisogni fragili o in declino e non accontentarsi di verificare quanto può offrire il mercato del lavoro relativamente all’area dei fabbisogni critici. Inoltre deve tener presente che l’area dei fabbisogni emergenti esige lavoratori dinamici, preparati ad affrontare cambiamenti rapidi e a volte di profondità considerevole.

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Test FINALE1. In che cosa consistono gli skill shortages?a. sono le competenze in uscita dal sistema della formazione dei lavoratorib. sono quelle competenze ricercate dalla domanda di lavoro ma poco presenti in termini di offertac. è un modo diverso per definire la domanda di lavorod. consiste nella domanda di fabbisogni fragili

2. Da che cosa sono caratterizzati i processi di overeducation?a. si tratta dell’insieme di fenomeni per cui i lavoratori hanno competenze di alto livello b. sono caratterizzati dalla presenza di un sistema scolastico e formativo di alta qualità c. riguarda il fatto che il titolo di studio e le competenze dei lavoratori che si presentano sul mercato del lavoro sono superiori rispetto a quanto richiesto dalle impresed. riguarda gli effetti di un sistema formativo di bassa qualità sul mercato del lavoro

3. Che cosa si intende per disoccupazione? a. la disoccupazione comprende tutti coloro che non lavorano pur avendo un’età compresa fra i 15 e i 64 annib. la disoccupazione comprende tutti coloro che non hanno un lavoro stabilec. la disoccupazione riguarda tutti coloro che non hanno mai lavoratod. la disoccupazione riguarda tutti coloro che lavoravano ma che, attualmente, non lavorano e sono alla ricerca attiva di un’occupazione

4. Che cosa si intende per area dei fabbisogni critici?a. attività sostanzialmente prive di prospettive sul mercato del lavorob. attività caratterizzate da alti livelli occupazionali ma con basse potenzialità di sviluppo per il futuroc. attività poco presenti sul mercato del lavorod. attività caratterizzate da una forte presenza sul mercato del lavoro sia allo stato attuale che potenziale

5. Quale fra i lavori che seguono non è, a vostro avviso, da inserire nell’area dei fabbisogni emergenti?a. insegnanteb. giardinierec. infermiered. ingegnere aerospaziale

Soluzioni : 1b. - 2c. - 3d. - 4d. -5a.

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Stage e prime esperienze lavorativedi Federico Cartei

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Il 36% degli italiani di età tra i 15 e i 24 anni che vorrebbero lavorare dichiarano di non trovare lavoro È colpa certamente della crisi e di leggi che scoraggiano le imprese ad assumere. Tuttavia ci sono anche altri problemi, che - se ben affrontati - potrebbero ridurre fortemente il numero dei ragazzi disoccupati. Fra i giovani italiani è molto forte la discordanza fra domanda e offerta di lavoro. Vediamo che accade in due segmenti opposti: quello delle occupazioni manuali, e quello dei laureati magistrali, che hanno alle spalle almeno cinque anni di università. Una recente indagine di Confartigianato - elaborando i dati sulle assunzioni previste dalle imprese e monitorate dal Sistema Informativo Excelsior di Unioncamere e del Ministero del Lavoro nel 2011 - mette in evidenza le professioni che faticano a trovare persone disposte all’impiego. Il 27% delle 1.100 richieste di pavimentatori e posatori di rivestimenti, in imprese artigiane e industriali, faticano a essere soddisfatte per scarsità di offerta. Seguono i montatori di carpenteria metallica (19% su 5.060), i camerieri (18,5% su 22.460), e poi i meccanici, i riparatori e manutentori di automobili, gli attrezzisti di macchine utensili, i sarti e i tagliatori artigianali, i modellisti e i cappellai, e così via. Risultati del tutto simili escono da una recente indagine di Fondimpresa del Veneto, fondo interprofessionale per la formazione continua. Sono introvabili i ciabattini e i mulettisti. Ma anche gli infermieri. Evidentemente, molti giovani o non vengono ben indirizzati, o possono permettersi di fare gli «schizzinosi», di attendere prima di accettare un lavoro diverso da quello sognato o forse solo immaginato.

I dati di Alma Laurea mostrano una distanza siderale nelle opportunità di impiego per tipo di laurea Guardiamo solo al guadagno netto dei vari tipi di dottori magistrali che - tre anni dopo la laurea - lavoravano, intervistati nel 2011, perché il guadagno è anche segno di quanto sono ricercate dal mercato le diverse professionalità. Tre anni dopo la laurea, più di metà dei dottori magistrali in Ingegneria, Statistica, Medicina ed Economia guadagna più di 1.400 euro al mese. Per contro, i laureati in Lettere, Psicologia e Scienze della Formazione raramente superano i 1.000 euro.

18 Giugno 2012

IL LAVORO CHE C’È, MA NON PIACE AI GIOVANIdi Giampiero Dalla Zuanna

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Questi risultati, nella loro semplice evidenza, suggeriscono tre considerazioni. Questa assordante sfasatura fra domanda e offerta di lavoro dimostra - una volta di più - che il mercato del lavoro non raggiunge, quasi magicamente, una posizione di equilibrio. Datori di lavoro e lavoratori dovrebbero possedere strumenti più efficaci per incontrarsi. I giovani dovrebbero essere informati meglio, dando più spazio a dati come quelli qui pubblicati, ma anche mediante strumenti come percorsi misti scuola-lavoro, stage, eccetera. In secondo luogo, in questi tempi difficili i giovani (e le loro famiglie) dovrebbero privilegiare scelte orientate più al lavoro futuro che ai sogni presenti, per evitare di trovarsi spiazzati e fuori mercato quando ormai è troppo tardi. Infine, molti laureati e diplomati che ora vivacchiano scontenti e scoraggiati fra un impiego precario e l’altro, facendo tutt’altra cosa rispetto a ciò che hanno studiato, potrebbero considerare l’opportunità di girare pagina. Non devono inventarsi un lavoro, ma accettare di imparare i lavori manuali disponibili che - se a volte sono faticosi e impegnativi - raramente possono essere pagati meno di 1.000 euro al mese. Con la crisi, gli italiani sono usciti da una specie di fiction, e ora in molti (28 milioni secondo il ministro Passera) debbono fare i conti con la dura realtà. Per molti giovani, accettare il lavoro che c’è può essere un primo passo importante verso la costruzione di una vita più dignitosa.

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Appunti

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Chiavi di lettura dell’articolo

La domanda e l’offerta di lavoroQuello che colpisce di più in questi anni di recessione economica è la distanza che divide le imprese e gli aspiranti lavoratori sotto molteplici punti di vista: tra le professionalità richieste e quelle offerte, tra i canali di reclutamento visitati dalle aziende e quelli con i quali si cerca lavoro, tra i posti di lavoro proposti dalle aziende e le aspirazioni di carriera dei giovani.L’articolo che ci precede mette in evidenza quanta sia la distanza in questo momento tra doman-da ed offerta di lavoro e spiega perché sia così difficile trovare un punto d’incontro: da un lato le imprese che, se vogliono sopravvivere, devono stare al passo con i mercati internazionali e con il continuo progresso, dall’altro una forza lavoro con una formazione essenzialmente teorica, aspirazioni lavorative sempre più alte ed una scarsa dinamicità nella ricerca fanno sì che si crei un’offerta di lavoro inadeguata alla domanda.I ragazzi sottovalutano l’importanza dei social network e di Internet nella ricerca del posto di lavoro, laddove alcune aziende americane, in particolare il fondo americano Union Square Ven-tures, stanno chiedendo ai propri candidati di non inviare neanche più il curriculum ma solo i link a cui collegarsi per trovare in Rete le informazioni sul candidato. Google, il motore di ricerca più famoso al mondo, ha assunto 7 mila persone lo scorso anno non con un classico colloquio ma con una serie di questionari strutturati rigorosamente online, attraverso i quali sono stati analizzati ben due milioni di curricula ricevuti.Social network come Linkedin e LetsLunch sono all’avanguardia nel settore: il primo è un servizio di social networking in Rete, impiegato principalmente per la Rete professionale, che conta oltre 135 milioni di profili di professionisti che lo utilizzano per scambiare informazioni, idee e oppor-tunità di collaborazione, mentre il secondo offre la possibilità di organizzare pranzi di lavoro con i propri contatti attuali e potenziali semplicemente “geotaggando”, ovvero localizzando tramite il proprio account LinkedIn la propria zona di lavoro.Facebook e Twitter rimangono i social networks più utilizzati dalle aziende per tracciare il profilo del candidato, per cui risulta importante curare il proprio profilo e dare un’immagine più comple-ta possibile di se stessi, privilegiando l’aspetto professionale a quello personale.In un’epoca in cui la Rete è diventata il mezzo più usato per comunicare, i canali sino ad oggi usati per trovare un’occupazione, risultano purtroppo scarsamente soddisfacenti: i centri per l’impiego che fino a qualche anno fa erano la piattaforma più utilizzata per trovare lavoro non hanno oggi l’efficienza che dovrebbero per avvicinare domanda ed offerta di lavoro e riescono a collocare solo il 3% di persone.Sarebbe necessario fornire un nuovo impulso a tali uffici che potrebbero essere di grande aiuto non solo per chi è in cerca della prima occupazione ma anche per chi il lavoro lo ha perso e ha bisogno di trovarne uno nuovo.

di Federico Cartei

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Un altro aspetto che salta agli occhi è la domanda sempre più pressante di artigiani e di mestieri manuali in generale che rimane insoddisfatta: le aziende cercano e spesso, almeno nel 30% dei casi, non riescono a trovare manutento-ri, sarti, modellisti, falegnami, meccanici, fabbri, stiratrici, ispettori di qualità, mentre dall’altro lato il 60% dei giovani esprime un giudizio negativo sui lavori manuali perché percepiti come poco retribuiti e troppo umili in relazione alle loro ambizioni e alla loro preparazione.La scelta del percorso di studi rimane fondamentale per avere successo nel mondo del lavoro e la scelta dei ragazzi di iscriversi sempre più numerosi agli istituti tecnici si sta rivelando in questi ultimi tempi una scelta vincente proprio per la forte richiesta di persone con una preparazione specialistica.Per questo diventano sempre più fondamentali le esperienze di stage in azienda durante il corso di studi che alcune scuole e università stanno iniziando a sperimentare e che aiutano a ridurre quel salto che c’è tra la preparazione teorica data dalla scuola e le competenze pratiche richieste dalle imprese.La conoscenza delle lingue straniere è ormai ritenuta indispensabile da qualunque azienda in cerca di forze fresche: l’internazionalizzazione sempre più spiccata delle aziende e i sempre più frequenti rapporti commerciali con altri Paesi, facilitati anche dall’utilizzo della tecnologia, rendono fondamentale poter parlare e scrivere correttamente almeno una lingua, l’inglese, e per questo un’esperienza di studio o di lavoro all’estero si rende indispensabile per ogni giovane in cerca di carriera.

La ricerca del posto di lavoro: le testimonianze dei managerVediamo quindi di delineare al meglio quelle che sono le richieste delle maggiori società al momento più attive nel reclutare personale, tramite le testimonianze dirette dei responsabili del personale, per capire come chi cerca lavoro debba uniformarsi a tali richieste e operare un cambio di mentalità se vuole avere successo nella ricerca.La dottoressa Cristina Danelatos, direttrice delle risorse umane di Coca Cola Italia, mette al primo posto tra le ca-ratteristiche del candidato ideale «le esperienze all’estero, già al momento degli studi universitari, per valorizzare il proprio curriculum con un’esperienza internazionale, per imparare bene le lingue straniere e per aprire la mente per confrontarsi con realtà diverse dalla nostra».Prosegue la sua analisi mettendo in evidenza che «è importante saper cogliere ogni opportunità di apprendimento: qualsiasi occasione può insegnarci qualcosa, a volte anche semplicemente ciò che non vogliamo fare da grandi».Le esperienze e le opportunità che contribuiscono a valorizzare un curriculum possono anche prescindere dal rap-porto diretto con il percorso di studi intrapreso e coinvolgere altri elementi che contribuiscono a formare una persona, quale ad esempio un primo approccio al lavoro con un impiego stagionale.Esperienze di studi all’estero organizzate dalle università, come Erasmus e Leonardo, invece, hanno un rapporto diretto con gli studi e sono fondamentali per migliorare qualità personali come la capacità di adattamento e di interazione in un ambiente internazionale, per confrontarsi con culture diverse e per imparare ovviamente una o più lingue straniere: «vivere all’estero ti obbliga infatti ad affermarti “out of your confort zone”, la tua casa, i tuoi amici, la tua città. Sono questi gli aspetti che fanno la differenza nella scelta di un candidato».Tra le caratteristiche ritenute importanti in un candidato, la responsabile del personale di Coca Cola ritiene che la leadership e la capacità di mettersi continuamente in discussione vengano al primo posto: «il mondo cambia ad una velocità sorprendente ed è essenziale, quindi, avere l’apertura mentale e la flessibilità necessarie ad assecondare il cambiamento: l’unica certezza è il proprio il cambiamento».

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Per quanto riguarda le politiche di inserimento e selezione dei giovani in Coca Cola, oltre al tradizionale percorso dei colloqui di selezione, è stato sviluppato un programma dedicato all’in-serimento dei giovani talenti tramite una strategia di employer branding mirata, che prevede la presenza dell’azienda presso università e sedi di master.Significativo in tal senso il programma “sales experience”, che mira ad individuare ogni anno 35 giovani brillanti neolaureati che entrano in azienda tramite un percorso di stage e forma-zione con successiva preparazione e successiva presentazione al senior management di un project work.La dottoressa Nadia Bertaggia, direttrice del personale della multinazionale Sodexo, che vanta 200 giovani tra neodiplomati e neolaureati assunti negli ultimi due anni nel settore dei servizi per la ristorazione, dice che «le nuove generazioni sono profondamente diverse da quelle che attualmente lavorano nelle aziende, sia per bisogni professionali che per preparazione. Molti giovani si avvicinano al lavoro con idee preconcette, con dei filtri per valutare la realtà che però possono falsare il loro giudizio proprio a causa di queste differenze. Il mio consiglio principale ai ragazzi è quindi questo: avere umiltà, intesa come approccio volto a comprendere, imparare e assorbire quanto più possibile dal posto di lavoro».Tra gli strumenti più importanti ed efficaci per trovare lavoro cita i social network ed i motori di ricerca, strumenti che vengono utilizzati ormai da tutte le aziende per trovare giovani professio-nisti con le caratteristiche richieste.La dottoressa Bertaggia mette in evidenza che «quello che fa davvero la differenza, per i ragaz-zi, è il modo con cui si utilizzano questi strumenti di massa: quando si invia curriculum via mail per esempio, bisogna sempre inserire un elemento specifico, particolare, che lo distingua da altri meglio se si tratta di una esperienza concreta che dimostri la voglia reale di imparare e di darsi da fare. Qui sta ai ragazzi saper cogliere ogni occasione per costruirsi un background interes-sante. Ma anche nelle poche righe di presentazione bisogna dimostrare di non aver inviato il curriculum tanto per provarci, ma di avere davvero la volontà e la determinazione per lavorare proprio in quella specifica azienda».La dottoressa Linda di Giacomo, responsabile della gestione del personale della divisione ita-liana della azienda farmaceutica Teva, che prevede l’assunzione di 20 neolaureati a pieni voti entro il prossimo anno, consiglia ai ragazzi in cerca del primo impiego di «partecipare ai job meeting organizzati dalle aziende, spesso in collaborazione con scuole ed università selezio-nando bene gli eventi relativi al settore al quale sono interessati. Quando ci si avvicina al recru-iter bisogna presentarsi bene, dimostrare non soltanto le proprie competenze accademiche ma anche buone capacità relazionali ed empatiche. Insomma, bisogna essere molto svegli, perché in pochi minuti di colloquio bisogna farsi conoscere ed ottenere dai selezionatori l’opportunità di reincontrarsi in un secondo momento».Se il contatto avviene in via indiretta, ovvero tramite l’invio del curriculum, i giovani devono evidenziare nelle lettere di presentazione le caratteristiche personali che possono essere impor-tanti: problem solving, proattività, capacità organizzative, ricorrendo dove possibile ad esempi concreti. Le lettere devono però essere brevi, certo non dei papiri interminabili.

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Per quanto riguarda il settore farmaceutico la dottoressa Di Giacomo consiglia di frequentare master mirati per ac-quisire esperienze regolatorie, di marketing farmaceutico e di prodotto. Occorre anche in tale settore, in continuo cambiamento, avere una mentalità aperta, saper risolvere i problemi velocemente ed in modalità multitasking.

contratto di apprendistato: la flessibilità in entrataStage eLa recente riforma sul lavoro varata su proposta del Ministro Fornero individua due canali principali per l’entrata nel mondo del lavoro lo stage e l’apprendistato.Gli stages sono la forma più diffusa di entrata nel mondo del lavoro, ogni anno in Italia si svolgono infatti oltre mezzo milione di tirocini, di cui oltre 300.000 nel settore privato e gli altri negli enti pubblici.Le aziende prediligono questa forma in quanto non è facile dal curriculum e dai colloqui conoscere le reali attitudini e l’effettiva personalità di una persona, mentre un’esperienza all’interno dell’impresa facilita la conoscenza reciproca ed è più facile valutare se si tratta per entrambi di una scelta azzeccata o meno per il futuro.Le offerte possono arrivare da grandi multinazionali come da aziende medio-piccole e nel 34% dei casi si trasfor-mano in un’occupazione vera e propria.In genere uno stage dura tra i 4 e i 6 mesi e la maggior parte delle offerte è riservata agli under 30, con una remu-nerazione media sui 400/500 euro, prevista ora per Legge.Per i tirocini in ambito europeo si possono consultare le offerte degli organismi UE, dal Parlamento al Consiglio d’Eu-ropa, dalla Corte di Giustizia al Comitato Economico Sociale, con oltre 700 proposte all’anno di tirocini retribuiti.Un’alternativa è aderire al programma Leonardo, uno dei programmi d’azione comunitaria nel campo dell’appren-dimento permanente, oppure visitare i siti della Farnesina o il portale Eures per trovare offerte di società italiane che cercano stagisti da inviare nelle proprie sedi e succursali estere.Il contratto di apprendistato è stato potenziato dalla recente riforma e su di esso si punta molto per favorire l’accesso al lavoro da parte dei giovani con alcune importanti novità: la durata minima del rapporto viene fissata a sei mesi, viene stabilito l’obbligo di confermare con contratti stabili almeno il 50% dei praticanti alla fine del tirocinio, se si vuole continuare ad utilizzare tale contratto per le nuove assunzioni, e l’azienda non può superare un rapporto mas-simo di 3 praticanti ogni due lavoratori qualificati se di grandi dimensioni, rapporto che scende ad un praticante ogni lavoratore qualificato per le piccole aziende.A tali novità si affiancano le caratteristiche tipiche del contratto di apprendistato date dalla “causa mista” in quanto lo scambio tipico tra lavoro e retribuzione viene arricchito da un elemento ulteriore, la formazione, che il datore di lavoro deve impartire al lavoratore con il vantaggio di ricevere in cambio un alleggerimento dei contributi da pagare e la possibilità di inquadrare il lavoratore sino a due livelli sotto a quello che sarà acquisito alla fine del periodo di apprendistato, con una riduzione quindi della retribuzione rispetto ad un’assunzione ordinaria. Da un lato quindi l’azienda si obbliga a fare formazione e ad insegnare un mestiere al giovane in cambio di minori contributi da pagare e di una leggera riduzione del costo della retribuzione, dall’altro il lavoratore ha la possibilità di imparare il mestiere e comunque percepisce uno stipendio dignitoso con la speranza di essere assunto a tempo indeterminato alla fine del periodo di apprendistato.L’esperienza di MyChef, gruppo della ristorazione, è quella di aver creato un’accademia per formare direttori e futuri manager attraverso il contratto di apprendistato «grazie al quale si può investire nella formazione e scommettere sul giovane neo-assunto trasmettendogli le competenze, e abbattendo contemporaneamente il costo del lavoro grazie agli incentivi contributivi previsti per tale contratto».

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La scelta di Deloitte, società che opera nel settore dei servizi professionali alle imprese, è quella dell’assunzione con il contratto di apprendistato per il 50% dei nuovi ingressi, neolaureati tra i 23 e i 26 anni di età media, con 200 assunzioni ogni anno e stabilizzazione che sfiora il 100% per chi completa il periodo di apprendistato.Da un lato l’azienda, che investe sulla formazione risparmiando sui contributi, e dall’altro i giova-ni, in particolare tra i 18 e i 29 anni, che riescono ad acquisire competenze tramite un’esperien-za retribuita in azienda, che arricchisce il proprio curriculum e spesso sfocia in un’assunzione a tempo indeterminato.

Traccia per l’attività in classeDopo aver letto la scheda ogni studente può scrivere una riflessione riguardante le proprie ambizio-ni scolastiche e lavorative, mettendo in evidenza, dopo una ricerca sui siti indicati nella scheda, la conciliabilità di tali aspirazioni con le richieste del mondo del lavoro e con le possibilità di sviluppo futuro della professione scelta.Formando dei gruppi di discussione su tali argomenti, proporrei di confrontare le diverse idee degli studenti, evidenziando anche i canali di ricerca del lavoro che secondo loro sono più adatti per quel determinato lavoro, iniziando a prendere dimestichezza con gli stessi. Stilare quindi una relazione di gruppo da discutere poi con l’insegnante e con tutta la classe cercando, nell’ambito della discussione, di far apprezzare l’importanza di scegliere un percorso scolastico specializzato in funzione del lavoro ambito e compiere esperienze lavorative anche all’estero per aumentare la propria professionalità ed arricchire il proprio curriculum. La discussione deve concludersi evidenziando l’importanza e la dignità del lavoro artigianale, la richiesta sempre attiva da parte delle imprese e il ruolo di spicco che esso riveste nell’economia ita-liana moderna, sempre più basata su piccole imprese specializzate in lavorazioni di alta qualità.

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FAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. Perché le aziende che hanno bisogno di nuova forza lavoro spesso non riescono ad attingere dalla enorme fascia di lavoratori inattivi?L’articolo posto all’inizio della scheda mette in risalto un problema molto attuale, il fatto che nei giovani non venga apprezzato il lavoro manuale ma si prediligano lavori più intellettuali ed in linea con il corso di studi seguito.La realtà italiana è fatta sempre di più da piccole aziende artigiane, specializzate nelle lavorazioni di alta qualità orientate alle esportazioni e solo se fabbricati con lavorazioni di grande qualità i prodotti italiani potranno essere apprezzati sui mercati internazionali. A tali aziende si sommano una miriade di imprese nell’edilizia e nel turismo, punte di diamante del Pil italiano prima della crisi, che ogni anno hanno bisogno di carpentieri, posatori, idraulici, camerieri, infermieri e così via che sono sempre più rari da reperire.È una realtà dura da accettare che spesso un lavoro manuale abbia un ritorno economico maggiore di quello che può ottenere un laureato e che trovare un’occupazione di questo tipo sia molto più semplice, ma è evidente che l’offerta di lavoro deve adeguarsi alla domanda e non il contrario.Tali tipi di professionalità anche se talvolta offrono occupazioni temporanee, creano comunque una formazione che sarà utile quando l’economia si sarà ripresa e le offerte di lavoro, ci auguriamo, torneranno quelle di prima, ma aspettare tale momento rimanendo inattivi è un costo troppo alto sia per il lavoratore che per le aziende.

2. Come utilizzare Internet alla ricerca del lavoro?Un’azienda su tre utilizza i social network in fase di recruiting: secondo un’indagine condotta su 100 direttori delle risorse umane il 12% cerca candidature su Facebook, Linkedin e simili, il 10% verifica le informazioni contenute nei curriculum vitae, il 6% comunica con i candidati mentre il 3% controlla le referenze sui profili più interessanti.Più di un giovane su quattro cerca lavoro via Internet, circa uno su dieci se consideriamo anche i non giovani.Ci sono i motori di ricerca specializzati, che aggregano annunci di lavoro pubblicati per facilitare agli aspiranti candidati la selezione delle posizioni più appetibili per area geografica e competenze richieste, come ad esempio Careerjet.it.Ci sono i siti specializzati in recruiting online che effettuano a monte controlli di qualità degli annunci pubblicati dagli inserzionisti come nel caso di Infojobs.it o Monster.it.Poi ci sono i veri e propri social network ai quali le aziende ricorrono non tanto per trovare il candidato ideale ma soprattutto per fare verifiche e controlli sui profili più interessanti: occorre scegliere bene il network in base al target cui si rivolge e alle informazioni che ci consente di veicolare. Quindi occorre predisporre un profilo personale e professionale ben definito, aggiornandolo perché sia davvero “2.0”. Bisogna tener ben presente che il brand, il marchio da promuovere, siamo noi stessi, magari attraverso l’allestimento di un personal site, meglio ancora di un blog, attraverso il quale dialogare e dar sfogo al nostro talento. Il prezzo per il servizio offerto dai social network è la partecipazione che essi esigono, che implica volontà e possibilità di inserirsi in Rete, far parte di gruppi di discussione, magari di eventi virtuali e soprattutto un’attenzione costante ad allargare la propria rete di contatti.

3. Quali sono i punti di forza di un candidato in cerca di lavoro?Capacità relazionali e di lavoro in gruppo, conoscenza delle lingue straniere tramite esperienze di lavoro all’estero, dinamicità nella scelta della sede di lavoro e disponibilità a viaggiare, praticità nel decidere e disponibilità di aggiornamento continuo adeguandosi ai cambiamenti che la dinamica realtà delle imprese impone.Tali aspetti andranno ben evidenziati in un curriculum ben curato, personalizzato e non standard, tagliato per ogni impresa presso la quale fare domanda, nel quale inserire gli aspetti che riescono a fare la differenza rispetto agli altri candidati: esami sostenuti, master, esperienze lavorative passate, anche se relative a lavori semplici o stagionali o part time, proprie attitudini e capacità, proprie aspirazioni e ambizioni future, una foto recente e che valorizza il proprio aspetto.

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Test FINALE1. Il curriculum vitaea. deve essere compilato con il formato standard europeo senza personalizzazionib. non ha più senso compilarlo nell’era di Internet c. va ben curato inserendo particolari che possono distinguere dagli altri candidatid. deve essere compilato una volta ed inviato uguale a tutte le imprese che assumono

2. Il lavoro artigianoa. riguarda una tipologia di lavoro antiquata ed ormai poco richiestab. è un lavoro umile con limitate possibilità di soddisfazioni professionalic. è molto richiesto e viene valorizzato molto dalle piccole imprese italianed. è adatto per gli stranieri che non hanno alcuna possibilità di trovare un altro lavoro

3. Il contratto di apprendistatoa. ha una causa mista, data dallo scambio tra attività lavorativa da un lato e formazione e retribuzione dall’altrob. è un contratto finalizzato all’apprendimento senza alcuna retribuzionec. ha vantaggi solo per le imprese che sostengono costi ridottid. è stato messo in secondo piano dalla recente riforma del lavoro

4. L’utilizzo del canale online per la ricerca del lavoroa. avviene solo da parte delle aziende tecnologiche Usab. sarà sempre più utilizzato dalle imprese per avere conferma delle informazioni fornite dai candidati e per aumentare la conoscenza del loro profiloc. viene utilizzato dalle agenzie di lavoro interinaled. non è affidabile in quanto pieno di trabocchetti

5. I punti di forza di un candidato alla ricerca di lavoro sono:a. essere alle prime esperienze in modo da poter essere formato a piacimento dell’azienda che assumeb. aver scelto un percorso di studi generico in modo da poter svolgere ogni lavoro possibilec. avere ambizioni molto alte e non accettare mai lavori non adeguati agli studi compiutid. conoscenza delle lingue, esperienze anche all’estero di studio e lavoro, capacità relazionali e di lavoro in gruppo, disponibilità agli spostamenti

Soluzioni : 1c. - 2c. - 3a. - 4b. -5d.

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Appunti

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Globalizzazione del mondo del lavorodi Roberto Fini

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13 Agosto 2012

ARDESIA LIGURE BATTUTA DALLE CARAMBOLE CINESIGià leader negli USA nelle lastre per i tavoli da biliardo, il crollo legato alla concorrenza low cost degli emergentidi Raoul de Forcade

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Un distretto scomparso. Dopo gli spettri della crisi, affacciatisi già nei primi anni Novanta, e un periodo successivo che sembrava di riscatto, con le imprese concentrate a battere la concorrenza dei competitori d’oltreoceano, il polo ligure degli ardesiaci della Val Fontanabuona è crollato. Tanto che l’ultima riunione dei rappresentanti delle aziende raccolte nel distretto risale a due anni fa. E oggi gran parte di quelle imprese hanno addirittura chiuso i battenti. A testimoniarlo sono gli stessi operatori del settore che spiegano come, di oltre 40 imprese raccolte nel distretto, oggi ne siano rimaste attive una decina.È un quadro sconsolante quello che emerge analizzando oggi la realtà della Val Fontanabuo-na e del Ponente ligure. Si ha la sgradevole sensazione di assistere alla fine di una tradizione lunga più di 130 anni (la prima teleferica per il trasporto dell’ardesia risale al 1876). Anzi, l’impressione è che un ciclo industriale sia definitivamente finito, con il ritorno a livello arti-gianale di attività che, fino a pochi anni fa sembravano destinate a rappresentare una delle eccellenze del made in Italy all’estero. Erano i tempi in cui gli ardesiaci avevano gran parte del fatturato proveniente dall’export, vendendo soprattutto negli Stati Uniti, le grandi lastre di pietra nera per i tavoli da biliardo.Un business fiorente, che è proseguito per anni. Erano i tempi in cui solo i biliardi con ardesia ligure erano validati per i campionati nazionali americani; in cui i giocatori professionisti afferma-vano che nessun tipo di tavolo aveva la risposta balistica di quello fatto con la pietra della Liguria.Allora pareva che quell’impiego dell’ardesia non dovesse esaurirsi tanto presto. Mentre diven-tava sempre più marginale il suo utilizzo per l’edilizia: i famosi tetti di case e chiese liguri, i pavimenti, le scale, l’arredo urbano e così via. Poi però, negli anni novanta, sono arrivate sul mercato le lastre brasiliane. E il settore ha subìto il primo colpo, seguito da quello inflittogli dalla Cina che ha cominciato ad esportare interi biliardi. Probabilmente le lastre di questi tavoli non sono perfette come quelle liguri. Ma i costi enormemente più bassi hanno menato una stoccata mortale all’industria della Val Fontanabuona, che pure ha resistito fino al 2008. Cinque anni prima, quando la giunta regionale di allora ha tracciato la mappa dei distretti liguri, fissandone dieci, quello dell’ardesia erano uno dei pochi ad essere già funzionante, a presentare aziende concentrate a lavorare su un unico settore e pronte, almeno sulla carta, a muoversi unite.

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Sulla carta, in effetti, più che nella realtà, perché la tradizione degli ardesiaci si basa su aziende familiari piuttosto restie alle innovazioni produttive e alla collaborazione con altre imprese. Non solo: all’interno del distretto si è subito creata una contrapposizione fra le imprese aderenti ad Assolapidei e quelle iscritte a Confindustria.Al di là delle divisioni, comunque, nel 2007 le aziende appartenenti al distretto erano ben 43 (una trentina delle quali con meno di dieci dipendenti ciascuna), che davano lavoro a 270 persone e raggiungevano un fatturato complessivo di 60 milioni. Di queste aziende, il 70% era dedito all’estrazione e lavorazione dell’ardesia, il 30% alla sola lavorazione. Le imprese più piccole erano la maggioranza di quelle impegnate sul mercato dell’edilizia tradizionale ligure; le più grandi, invece, operavano sul mercato dei biliardi. Le aziende liguri, inoltre, avevano la leadership assoluta negli scambi internazionali, con il 100% coperto dalle pietre lavorate nel distretto, le cui attività principali erano rivolte alla promozione dell’internazionalizzazione, all’innovazione di prodotto e alla realizzazione e registrazione del marchio di origine e qualità “Ardesia ligure”. Un brand, con tanto di consorzio di tutela, che, però, non è mai decollato, complice la crisi scoppiata nel 2008, prima negli Usa – il mercato di riferimento del distretto – e poi in tutto il mondo.«Da quasi due anni – afferma Franca Garbarino, a lungo presidente del distretto e alla guida del gruppo territoriale del Tigullio di Confindustria Genova – il distretto non fa più attività. Eravamo uno dei più attivi in Liguria ma se, un tempo, i volumi di lavoro erano 100, ora sono dieci. Da industriali siamo tornati ad essere artigiani».E mentre molte aziende italiane, per fronteggiare la crisi, si sono rivolte all’export, la lavorazione dell’ardesia ha subìto un percorso completamente inverso. «Non riusciamo più – prosegue la Garbarino – a fare quello che face-vamo un tempo. Ormai le nostre esportazioni sono pari a zero. La crisi dei subprime negli Usa ha dato il colpo di grazia al settore, che già subiva la concorrenza, sempre più serrata, di brasiliani e cinesi. Oggi tutte le aziende del distretto cercano di sopravvivere».Quando ci riescono, però. Perché Tiziano Roncone, segretario generale della Cisl Tigullio, che si è occupato a lun-go del distretto, disegna un quadro ancora più fosco. E mette in risalto come, nel mancato successo del polo degli ardesiaci, abbia giocato un ruolo precipuo anche una componente diversa degli effetti della crisi globale: la scarsa propensione delle aziende liguri, a dispetto del distretto, a misurarsi su progetti comuni.«Delle oltre quaranta imprese, per lo più di carattere familiare, che formavano il distretto – afferma il sindacalista – ne sono rimaste attive pochissime. Dei 270 addetti di un tempo resteranno 80-100 persone. E il fatturato complessivo delle aziende ancora in vita non va oltre i 5 milioni». Numeri che danno l’impressione netta del tracollo. «Una crisi rabbiosa ha colpito il comparto – prosegue Roncone – sferzando imprese che, pur esportando negli Usa, non ave-vano strutture aziendali composite e non sono riuscite neppure a consorziarsi. Il distretto ha cercato di introdurre il marchio e una sorta di denominazione di origine protetta. L’obiettivo era proprio quello di formare consorzi e di fare ricerca insieme. A mio parere, era l’unica via per sopravvivere, anche se non avrebbe potuto salvare il mercato. Nel-le aziende, però, ha prevalso la volontà di andare avanti da sole. Oggi, come ho detto, gran parte delle aziende ha chiuso i battenti e tra quelle aperte, che vivacchiano offrendo il prodotto a prezzi stracciati, alcune hanno attivato la cassa integrazione. La Fontanabuona oggi appare come una valle che ha chiuso i battenti».Tutto questo a dispetto del fatto che l’ardesia estratta dalle cave della valle è ancora una delle migliori al mondo, mentre i timori dell’esaurimento dei filoni, che in passato hanno assillato gli abitanti della zona, sono stati scalzati dalla triste consapevolezza che i mutamenti e i rovesci del mercato talora hanno ben più repentina incisività che non il corso della natura.

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Chiavi di lettura dell’articolo

Certamente tutti conoscono Barbie: dalla fine degli anni cinquanta in poi milioni di bambine sono cresciute giocandoci e, forse, cercando di assomigliare a lei. Probabilmente nessun giocat-tolo rappresenta in modo così perfetto il gusto estetico americano: gambe lunghissime, capelli biondissimi, vitino da vespa1. Lo stesso stile di vita di Barbie, “raccontato” attraverso gli accessori e i personaggi di contorno, ha contribuito al diffondersi di un way of life inconfondibilmente “yankee”. Barbie è prodotta dalla Mattel, un marchio americano con sede in California che ha nella bambola bionda il suo prodotto di punta2. Eppure…… Eppure se cercate negli USA uno stabilimento che produca fisicamente le Barbie non lo trovate. La prima bambola, immessa sul mercato nel lontano 1959 era prodotta in Giappone, un Paese che in quegli anni poteva considerarsi la Cina di oggi: bassi salari, alta produttività, scarsa tutela dei lavoratori. E conseguenti costi di produzione ridotti all’osso. Oggi le diverse parti di Barbie, la testa, i capelli, il corpo, i vestiti vengono prodotti in numerosi Paesi dell’Estre-mo Oriente: Cina, Taiwan, Vietnam. Vengono assemblati ad Hong Kong, da dove le bambole partono per le destinazioni più varie, in genere Europa e America del Nord.Perché produrre le Barbie così lontano dai mercati di destinazione? Per la stessa ragione per cui la prima bambola venne prodotta in Giappone: costi di produzione bassi! Per produrre ed assem-blare una bambola sono sufficienti 50 centesimi di dollaro, poi c’è la spedizione, che rappresenta un costo maggiore: fino a 10 dollari. Ma una Barbie, nel suo modello “basic” viene venduta a 20 dollari. E se ne vende una ogni due secondi: per la Mattel un profitto eccezionale, difficilmente eguagliabile da parte di altre imprese! Se Barbie fosse prodotta negli USA o in Europa certo i costi di trasporto sui mercati sarebbero inferiori, ma lieviterebbero di molto i costi di produzione fisica3.Che ci piaccia o no la globalizzazione è questo: la produzione si sposta dove le condizioni sono più favorevoli e tra queste un basso costo del lavoro è uno degli elementi chiave. Ovvia-mente non l’unico: la capacità dei lavoratori di produrre beni di alta qualità in alcuni casi conta moltissimo e fa sì che non si possa spostare la produzione semplicemente dove costa meno. Ciò che accade per alcune firme dell’alta moda o del lusso è significativo: brand come Armani o Ferrari non possono affidarsi ai cinesi per produrre i loro capi. O meglio: devono avere comun-que una garanzia di alta qualità dei capi che fanno produrre all’esterno4.1 Una delle critiche ricorrenti nei confronti dei produttori di Barbie è relativa al fatto che attraverso le linee sinuose della bambola si promuovesse un’immagine poco realistica della donna e si incentivassero nelle bambine e nelle adolescenti comportamenti anoressici. Per questa ragione, nel 1997 la Mattel ha modificato la conformazione di bacino e fianchi della sua bambola. Si veda a questo proposito http://news.bbc.co.uk/2/hi/business/32312.stm.2 La “storia” di Barbie è raccontata in modo piacevole ma al tempo stesso approfondito nel volume di Nicoletta Bazzano, La donna perfetta, Laterza, Roma-Bari, 2008.3 Per queste notizie si veda l’articolo di Rone Tempest, sul “Los Angeles Time” del 22 settembre 1996, Barbie and the World Economy, ora reperibile all’URL http://articles.latimes.com/1996-09-22/news/mn-46610_1_hong-kong.4 A proposito di queste tematiche si veda l’introduzione ai problemi della globalizzazione contenuta in Dominick Salvatore, Verso un’economia globale, Di Renzo Editore, Roma, 2006. Cittadino statunitense di origine italiana, Salvatore è uno dei più importanti economisti internazionali. Nel breve volume qui citato l’autore fa spesso riferimento al ruolo e allo spazio dell’Italia nei processi di globalizzazione.

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Ma se questo vale in alcuni settori, per quanto significativi essi possano essere, una tale logica non si applica in linea generale. La storia raccontata nell’articolo che qui presentiamo è significativa del modo in cui un distretto sia cresciuto nei decenni scorsi per poi entrare in crisi e “scomparire”, lasciando ben poche tracce sul territorio nel quale era nato e si era sviluppato5. Qui c’è da intendersi sulla natura della globalizzazione e sulle sue conseguenze sul mercato del lavoro e sull’occupazione, in particolare nel caso italiano. Se si vuole diffondere un prodotto di massa è necessario disporre di una grande scala di produzione, cioè di imprese di dimensioni ragguardevoli: come è noto l’Italia non ha molte grandi imprese, ma se si riesce a produrre beni differenziati a seconda dei diversi gusti o delle diverse esigenze, allora una scala produttiva più piccola non solo può essere sufficiente ma in molti casi costituisce la chiave del successo.In Italia non si fa molta ricerca di base, ma molte piccole imprese sono riuscite ad introdurre brillanti innovazioni nei prodotti e nei processi produttivi utilizzando le ricerche di base di altri. Non è un demerito: l’assenza della grande industria e la mancanza di consolidate strutture di ricerca avrebbe dovuto costituire uno svantaggio, e in parte lo è stato. Ma questi limiti sono stati superati grazie all’abilità dei piccoli imprenditori nell’utilizzo di tecniche produttive e commerciali provenienti dall’estero. Insomma: per lungo tempo siamo stati noi i cinesi!Tutto questo ha retto, e retto bene, fino agli inizi degli anni novanta, quando il mondo si è globalizzato. Fino ad allora le valutazioni in termini di competitività venivano fatte su piccola scala, al massimo a livello regionale: un’im-presa guardava le altre imprese sue concorrenti nello stesso territorio ed adeguava le sue strategie. Ma già la com-petizione su scala nazionale, e non più locale, rende tutto più complicato: immaginate quanto possa essere ardua la concorrenza con imprese situate in paesi diversi e persino in continenti diversi! Inoltre la scala globale comporta inevitabilmente l’adeguamento delle produzioni locali alle caratteristiche del luogo: un’impresa italiana che voglia vendere in Medio Oriente deve fare riferimento ai gusti dei consumatori arabi, al loro potere d’acquisto e alla legi-slazione che permette o vieta certi comportamenti di consumo.La globalizzazione è una vera rivoluzione, al pari di quanto lo fu la rivoluzione industriale. Ma mentre quest’ultima è avvenuta nel corso di un secolo, i processi di globalizzazione si sono verificati sotto i nostri occhi nel giro di un paio di decenni6. Con la globalizzazione è aumentata enormemente l’efficienza dell’economia nel suo complesso e la concorrenza su scala planetaria si è consolidata fino a diventare la regola che governa i mercati e ne condiziona gli sviluppi7. Qualcuno è riuscito ad adeguarsi, cambiando il suo destino economico: Paesi fino a pochi decenni fa ai margini dello sviluppo, oggi sono potenze mondiali e stanno ridisegnando la geografia economica del pianeta8.

5 Il distretto industriale è un’agglomerazione di imprese, in generale di piccola e media dimensione, ubicate in un ambito territoriale circoscritto e storicamente determinato, specializzate in una o più fasi di un processo produttivo e integrate mediante una rete complessa di interrelazioni di carattere economico e sociale. Notizie aggiornate sui distretti si trovano sul sito ad essi dedicato http://www.distretti.org/. L’autore che più di ogni altro ha contribuito alla definizione teorica dei distretti è G. Beccattini. Di questo autore si veda: Giacomo Becattini, Il distretto industriale. Un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico, Rosenberg & Sellier, Torino, 2000.6 Sono molti i lavori sulla globalizzazione. Tra i più elementari ma al tempo stesso analiticamente completi si veda: Gérard Lafay, Capire la globalizzazione, Il Mulino, Bologna, 1996; David Held e Anthony McGrew, Globalismo e antiglobalismo, Il Mulino, Bologna, 2003; Martin Wolf, Perché la globalizzazione funziona, Il Mulino, Bologna, 2006; Federico Bonaglia e Andrea Goldstein, Globalizzazione e sviluppo, Il Mulino, Bologna, 2008.7 La globalizzazione rende necessaria la presenza di istituzioni sovranazionali che fissino le regole necessarie al suo sviluppo. Tra queste istituzioni, senza dubbio le più importanti sono il Fondo Monetario Internazionale (IMF), la Banca Mondiale (WB) e l’Orga-nizzazione Mondiale del Commercio (WTO): una breve esposizione delle caratteristiche di tali istituzioni è contenuta in Michela Luzi, Protagonisti della globalizzazione, Bulzoni Editore, Roma, 2008.8 Si pensi ai BRIC. Il termine è formato dalle iniziali dei paesi protagonisti degli sviluppi più spettacolari degli ultimi decenni: Brasile, Russia, India, Cina. Ma già da tempo altri paesi si affacciano sulla scena mondiale, per esempio i MIKT: Messico, Indonesia, Corea del Sud, Turchia. Per le vicende delle economie emergenti si veda Andrea Goldstein, BRIC, Brasile, Russia, India, Cina alla guida dell’economia globale, Il Mulino, Bologna, 2011. Di recente è stato pubblicato un volume dell’inventore agli inizi degli anni duemila della sigla BRIC, Jim O’Neill, un economista della Goldman Sachs, che aggiorna le considerazioni a suo tempo fatte riguardo a quelle che all’inizio del millennio erano economie emergenti: Jim O’Neill, BRIC, I nuovi padroni dell’economia mondiale, Hoepli, Milano, 2012.

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ro3 Ma non tutti ce l’hanno fatta: parallelamente allo sviluppo di alcuni, altri sono rimasti al palo o

sono addirittura arretrati. Il Giappone ha vissuto una lunghissima crisi economica dalla quale non si è ancora ripreso; l’Africa appare sempre più un “continente perduto”, anche se esistono realtà in crescita tumultuosa, ma limitate a singoli Paesi9. Anche l’Europa si presenta in chiaroscuro, con Paesi che crescono, per esempio quelli dell’area baltica, altri che reggono bene, si pensi alla Germania o all’Olanda, altri ancora in moderata difficoltà, la Francia ad esempio, altri ancora in situazioni critiche tra cui, purtroppo, l’Italia, anche a causa di un alto debito pubblico che la recente crisi ha contribuito ad aggravare10.Quello che è successo ai Paesi è accaduto anche alle imprese e ai settori industriali: alcuni si sono rafforzati, altri indeboliti, altri ancora sono semplicemente scomparsi. La storia che viene raccontata nell’articolo presentato è appunto l’amara vicenda di un distretto industriale prospero e dinamico fino a non molti anni fa, ma che ormai non esiste più o quasi.L’ardesia è un minerale le cui le miniere sono concentrate in poche aree del pianeta. Facilmente lavorabile, ha molteplici usi: dai tetti delle case liguri dove sostituisce spesso le comuni tegole, agli scalini, ai pavimenti. È un materiale da costruzione molto apprezzato: le sue tonalità, che vanno dal grigio ferro al nero, lo rendono gradevole e la sua resistenza agli agenti atmosferici ne consente un uso efficiente nell’arredo urbano; ma, soprattutto, ha due impieghi principali: il ma-teriale meno nobile serve a fare le comuni lavagne, mentre quello di migliore qualità serve come base per i tavoli da biliardo. La qualità del materiale, la sua “risposta balistica” è fondamentale per il giocatore e, come racconta l’articolo, in anni passati la richiesta della base di ardesia estratta e lavorata nella zona di Lavagna e nell’entroterra di Val Fontanabuona era molto alta.Nel giro di pochi anni cambia tutto! Minor richiesta di tavoli da biliardo? Esaurimento delle miniere liguri? No: semplicemente sono arrivate sul mercato prima le lastre brasiliane poi i tavoli completi provenienti dalla Cina. Senza dubbio la qualità è peggiore: la “risposta balistica” è in-feriore e le micro-impurità dell’ardesia brasiliana o cinese rendono le traiettorie della palla meno precise. Ma i costi di produzione, e conseguentemente il prezzo di vendita, è molto più basso. Ed è questo che, alla fine, fa la differenza: dopotutto nella maggior parte dei casi non serve un biliardo perfetto, ma uno di qualità solo accettabile. Di fronte ad un prezzo di vendita di un biliardo made in China, che spesso non arriva alla metà di quello prodotto con l’ardesia ligure, molti acquirenti non hanno dubbi: scelgono quello a più buon mercato!Questo ha inciso profondamente sul territorio del distretto, sia in termini di riduzione drastica del fatturato (che è passato dai 60 milioni ai 5 milioni!), sia in termini di perdita di posti di lavoro: gli occupati sono calati di circa due terzi rispetto ai tempi d’oro (da 270 a 80-100 posti di lavoro). Questo è probabilmente il lato più oscuro della globalizzazione: la chiusura di un’impresa, la scomparsa o il drastico ridimensionamento di un distretto, la fine di una filiera produttiva hanno,

9 Per esempio il Sudafrica è stato ammesso nel “club” dei BRIC (che si è dunque trasformato in BRICS). La Nigeria sta assumendo sempre maggiore importanza per le ingenti riserve di petrolio, ma anche per un processo di industrializzazione di grande rilievo. I paesi del Nord-Africa hanno tassi di crescita in alcuni casi notevoli e si candidano a diventare protagonisti di grande importanza sia nel bacino del Mediterraneo sia nel complesso dell’economia planetaria.10 Certamente in modo non lusinghiero, è stato inventato l’acronimo PIGS (porci): Portogallo, Irlanda, Gre-cia, Spagna. Da questo acronimo è rimasta fuori l’Italia (a meno di non usare la I originariamente destinata all’Ir-landa), ma è stato sufficiente coniarne un altro: GIPSI (zingaro): l’accentuazione negativa resta e anzi si rafforza.

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sempre ed inevitabilmente, conseguenze sull’occupazione. I lavoratori sono le prime, e forse le principali, vittime dei processi di globalizzazione.Il fatto che esistano ammortizzatori sociali quali la cassa integrazione o i sussidi di disoccupazione, non deve trarre in inganno: niente sostituisce il lavoro e l’orgoglio di produrre11. Quando un territorio è colpito da alti livelli di disoc-cupazione si instaurano processi di degrado sociale, di perdita di identità collettiva che vanno ben al di là della, pur importante, mancanza del salario. Per di più, sostenere il reddito attraverso provvedimenti quali la cassa integrazione ha un costo notevole che ricade inevitabilmente sui cittadini e rischia di aggravare il già precario disavanzo pubblico.Il lavoro che prima veniva eseguito in Val di Fontanabuona ora viene svolto, a costi molto più bassi, nei Paesi emer-genti. E questo non vale solo per il lavoro nelle catene di assemblaggio a bassa specializzazione, la cui produzione si è spostata da tempo verso aree geografiche dove i salari sono più bassi e le tutele (sindacali, ambientali, ecc.) sono minori o inesistenti: anche mansioni che richiedono competenze elevate, l’uso del computer o conoscenze in-gegneristiche vengono sempre di più presidiate da forza lavoro di Paesi che fino a poco tempo fa erano poco più che “espressioni geografiche”.È forse ora di rendersi conto che sul pianeta esiste una forza lavoro competitiva, volenterosa e in grado di svolgere le stesse mansioni ad un costo molto inferiore rispetto a quello dei lavoratori dei Paesi ricchi. E in futuro è probabile che la tendenza allo spostamento di interi settori produttivi verso nuove aree del mondo rispetto a quelle tradizionali, costituirà un processo dalle dimensioni crescenti. Non solo nel settore manifatturiero ma anche nei settori che forni-scono servizi la globalizzazione impone le sue regole: ad esempio si calcola che circa 4000 lavoratori giamaicani sono collegati via satellite con gli USA e adempiono a mansioni di medio livello quali prenotazioni aeree, emissione di biglietti, numeri verdi e inserimento di dati per le compagnie aeree statunitensi.Un buon numero di imprese italiane, soprattutto del Nord, finita la giornata lavorativa, trasferiscono per via telemati-ca i dati contabili in Bangladesh o in India per l’aggiornamento dei libri contabili. Contando sulla differenza di fuso, alla riapertura dell’azienda la mattina successiva, l’imprenditore si troverà i dati aggiornati e organizzati secondo le regole di contabilità italiane. Data questa situazione, è comprensibile che i lavoratori dei Paesi più avanzati sollevino grosse obiezioni a questo gi-gantesco trasferimento di lavoro, specializzato e non, all’estero. Ma, occorre riconoscere, i governi dei Paesi avan-zati possono fare ben poco per arginare questa tendenza produttiva: supponiamo come il governo italiano cerchi di limitare il flusso di lavoro all’estero, per esempio vietando alle imprese nazionali di delocalizzare la produzione in Paesi con costi più bassi. Sarebbe un modo per proteggere il proprio mercato nazionale, ma le imprese che vi operano rischierebbero di perdere competitività a livello internazionale e sarebbero destinate alla chiusura. Oppure si potrebbe vietare l’importazione da Paesi quali la Cina o il Brasile: già, ma vi immaginate comperare una t-shirt, oggi prodotta in Vietnam o in Turchia, ad un prezzo dieci volte superiore a quello che paghiamo12?Ovviamente il problema esiste e soluzioni facili non sembrano essercene: anzi, occorre guardarsi da chi propone rimedi che adombrino l’uso di strumenti protezionistici, che peraltro non è possibile applicare perché i Paesi colpiti

11 Sugli effetti dei processi di globalizzazione sulla qualità del lavoro e sulle condizioni dei lavoratori, si veda l’ancor utile lavoro di Richard Sennett, L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, 1999 e il volume di Giulio Sapelli (a cura di), Antropologia della globalizzazione, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2002.12 La ricostruzione del ciclo di vita economico delle t-shirt viene ricostruito con attenzione da P. Rivoli, I Viaggi di una T-Shirt nell’economia globale, Apogeo, Milano, 2006.

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possibili, anche se non garantiscono un successo certo. Torniamo in Val di Fontanabuona per fare qualche riflessione: perché il distretto dell’ardesia è scomparso? In primo luogo perché le imprese del territorio non sono state in grado di innovare le loro tecniche produttive: contando sull’innegabile qualità della materia prima e sulla maestria dei lavoratori, non si sono mai poste il problema di innovare le tecnologie, mantenendo un sistema produttivo di tipo artigianale che garantisce sì l’alta qualità del prodotto, ma anche il suo alto costo di produzione.Inoltre le imprese del distretto si sono dimostrate incapaci di “fare rete”: come racconta bene l’ar-ticolo riprodotto, il tentativo di lanciare un marchio comune è rimasto sostanzialmente sulla carta. Presentarsi sui mercati potendo fare riferimento ad un consorzio di qualità, o anche solo contando su sinergie commerciali, avrebbe potuto costituire una carta vincente. Non è facile superare le paure e le gelosie dei singoli imprenditori, ma se le imprese del distretto dell’ardesia lo avessero fatto, oggi non si troverebbero nella situazione drammatica descritta dall’articolo.Le poche imprese che sopravvivono devono comunque mantenere un alto standard di qualità: competere con brasiliani e cinesi sui bassi costi di produzione è inutile. Che in Brasile o in Cina facciano pure biliardi di bassi livelli qualitativi: le imprese del distretto possono, forse, ritagliarsi una nicchia di mercato in grado di soddisfare i clienti più facoltosi. Può essere una strategia vin-cente anche in tempi di crisi: la domanda dei clienti più facoltosi non diminuisce, o diminuisce meno, nei periodi di difficoltà economica. Certamente gli spazi di manovra sono ristretti e le strategie di mercato devono essere aggressive e intelligenti, ma quel poco che resta del distretto dell’ardesia può ancora reggere allo scontro globale. Lo stesso vale per imprese che operano in altri mercati, anche quelli che oggi appaiono in buone condizioni di salute. Le imprese, i distretti, i Paesi e i governi devono ricordare il concetto chiave con cui si conclude l’articolo: i cambiamenti delle condizioni di mercato sono spesso improvvisi e non facilmente controllabili e possono incidere in modo determinante sulle sorti di un territorio.In genere i processi di globalizzazione vengono dipinti come una minaccia per l’occupazione, almeno per la parte di mondo in cui il costo del lavoro è nettamente superiore a quello dei Paesi emergenti. Ovviamente è vero che molte attività con bassi livelli di specializzazione presentano costi del lavoro che possono essere affrontati solo in Paesi poveri nei quali il salario è molto più basso che nei Paesi ricchi, ma non bisogna esagerare dipingendo la situazione in modo più drammatico di quanto in realtà sia. Le indagini più accreditate dimostrano che nei Paesi ricchi esistono ampie possibilità di lavoro per quei lavoratori che nel corso dei loro studi e durante l’attività professionale sono stati in grado di orientarsi verso competenze che nei Paesi emergenti non sono ancora sufficientemente presidiate (anche se probabilmente lo saranno in futuro).Ogni anno l’Unione delle Camere di Commercio Italiane presenta un articolato rapporto su quanto viene richiesto dal mercato del lavoro, sia in relazione alla forza-lavoro “italiana” sia in relazione a quella “immigrata”: vi sono professioni, mestieri e competenze che si presentano

13 Un’intelligente esposizione delle tesi a favore del commercio internazionale e dei processi di globaliz-zazione si trova in Jagdish Bhagwati, Contro il protezionismo, Laterza, Roma-Bari, 2006.

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come difficilmente reperibili. In altre parole vi sono lavori per i quali le imprese cercano lavoratori adeguati alla mansione ma non li trovano o li trovano con difficoltà! E non si tratta sempre di mansioni che prevedono alti livelli di studio e titoli molto specialistici. Certamente, gli inge-gneri aereonautici si caratterizzano per un’offerta da parte dei lavoratori inferiore alla domanda da parte delle imprese, ma i punti di maggior tensione fra offerta inadeguata rispetto alla domanda sono anche gli informatici aziendali, gli infermieri (che infatti l’Italia “importa” dall’estero), i termoidraulici e i tecnici della tutela ambientale.I processi di globalizzazione hanno avuto effetti dirompenti sulle caratteristiche del mercato del lavoro, spostando interi settori produttivi da un punto all’altro del pianeta, con conseguenze negative imponenti per il mercato del lavoro. Ma, insieme a tali conseguenze negative, si sono aperte prospettive positive per Paesi come l’Italia: prodotti e servizi con un elevato contenuto specialistico o molto legati al territorio di origine (si pensi al “made in Italy”), non possono essere delocalizzati all’estero solo perché il costo del lavoro è diverso e, altrove, inferiore.Certamente si tratta di “inventarsi” nuove specializzazioni e competenze, ma anche di riqualificare quelle tradizio-nali. Ne è un esempio quanto oggi richiesto dal settore turistico, che per l’Italia rappresenta un importante punto di forza e per un’attività al suo interno che potrebbe considerarsi dequalificata e secondaria: quella dei camerieri e degli altri addetti ai servizi di sala nei ristoranti. In particolare nelle zone maggiormente caratterizzate da un flusso turistico proveniente dall’estero appare sempre più importante la conoscenza non elementare di (almeno) tre lingue straniere ed in generale una cospicua attenzione alle esigenze del cliente da parte della figura che rappresenta il “ponte” fra il cliente stesso e l’impresa di ristorazione. Le caratteristiche dei flussi turistici quanto ad aree di provenienza sono poi in via di cambiamento rispetto ad un pas-sato pure recente: in corrispondenza con le modifiche della geo-economia mondiale, le nostre spiagge e le nostre città d’arte si riempiono di frotte di cinesi e di russi che fino a pochi anni fa rappresentavano un’eccezione nell’am-bito dei flussi turistici prevalenti, tradizionalmente costituiti da europei (inglesi e tedeschi soprattutto) e americani. Occorre saper rispondere adeguatamente a tali modifiche, anche perché si tratta di un profilo turistico economica-mente interessante: “nuovi” ricchi con una forte propensione di spesa e fortemente interessati a “consumare” l’Italia.Inoltre la globalizzazione non va considerata solo come un modo per “importare” lavoratori a bassa qualificazione e con esigenze salariali modeste, ma anche come un modo per “esportare” le proprie competenze: vi sono numerosi ambiti nei quali le imprese estere richiedono lavoratori con alte specializzazioni e provenienti da Paesi come l’Italia. Le imprese che si occupano del mercato culturale, per esempio, richiedono figure professionali che provengono da aree del mondo nelle quali gli aspetti culturali sono storicamente ben presidiati: i musei e i teatri cinesi sono disposti ad assumere scenografi e performance specialist provenienti da Paesi culturalmente avanzati come l’Italia con livelli stipendiali di tutto rispetto e, soprattutto, meglio se giovani.Si tratta di opportunità che si sono aperte con la globalizzazione e che non è possibile perdere: quegli stessi gio-vani non avrebbero possibilità sul mercato interno, troppo “piccolo” per assorbirne in quantità, e finirebbero per fare i precari a vita. Un lavoro all’estero rappresenta una opportunità di crescita professionale e personale cui non conviene rinunciare, anche se ovviamente non è facile trasferirsi dall’altra parte del mondo, in Paesi con culture e stili di vita molto lontani da quelli cui siamo abituati. Sono scelte difficili ma, in prospettiva, promettenti: anche le imprese italiane hanno imparato ad apprezzare chi all’inizio della propria vita professionale ha deciso di affrontare i rischi di un’esperienza all’estero e un curriculum vitae nel quale siano presenti riferimenti ad attività di questo genere rappresenta un elemento a favore dell’aspirante lavoratore.

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Traccia per l’attività in classeProbabilmente non c’è tema oggi più dibattuto di quello collegato alla globalizzazione. In ef-fetti le conseguenze dei processi di globalizzazione sono talmente rilevanti da permettere molti approcci e molte riflessioni critiche. In primo luogo è opportuno chiedersi: la globalizzazione rappresenta un processo inevitabile? Si poteva evitarla? E attraverso quali strumenti economici e/o legislativi?L’elemento forse più evidente di tali processi è la modifica di peso dei diversi sistemi economici nel corso del tempo; i dati statistici in proposito possono costituire un’utile verifica: per esempio si può verificare come sono cambiate le dimensioni percentuali del PIL dei diversi Paesi. Quanto pesava in percentuale sul prodotto mondiale il PIL italiano, americano, cinese negli anni cinquan-ta? E oggi? Quali sono le dimensioni economiche dei BRIC? Qual è il loro tasso di crescita? E quale il tasso di crescita dei Paesi ad economia matura?Uno degli elementi che più incidono sul costo del lavoro e sul trasferimento internazionale di attività è la produttività, cioè la quantità di beni prodotti per unità di lavoro: quale è stato il suo andamento nel corso del tempo? Quali sono le caratteristiche statistiche della produttività del lavoro in Paesi come l’Italia o gli USA? E in India?Indicatori come il PIL o la produttività del lavoro dei diversi Paesi sono facilmente reperibili sui siti e scaricabili in formato Excel. In questo modo è possibile operare confronti, elaborare grafici e procedere con calcoli elementari quali il tasso di crescita o i pesi percentuali; come fonti di dati sui singoli Paesi o aree si possono usare i siti delle organizzazioni internazionali: qui citiamo il sito del Fondo Monetario Internazionale (www.imf.org); navigando al suo interno si può consul-tare la banca dati reperibile all’URL: http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2012/01/weodata/index.aspx. Inoltre riveste un grande interesse per ricerche di maggiore respiro storico quanto contenuto nei lavori di Angus Maddison, un econometrico olandese che ha dedicato la vita alla raccolta dei dati quantitativi riguardanti tutti i Paesi del mondo. Alcuni dati, come il PIL complessivo, la popo-lazione, il PIL pro-capite sono presenti a partire dall’anno 1 d.C., mentre per la maggior parte dei Paesi sono presenti dati a partire dal 1950. I files in Excel sono scaricabili a partire dall’URL: http://www.ggdc.net/ /oriindex.htm. maddison

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GlobalizzazioneProduttività del lavoroConcorrenza internazionaleBRIC-MIKTProtezionismo

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FAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. La globalizzazione produce effetti sulle caratteristiche del mercato del lavoro? Sì, produce effetti differenziati: sul piano mondiale si verifica uno spostamento dell’importanza relativa di alcune economie a vantaggio di altre, con conseguenze importanti sulle dimensioni dei singoli mercati del lavoro. In linea generale, i processi di delocalizzazione e di internazionalizzazione hanno come conseguenza un aumento della disoccupazione nei Paesi con un alto costo del lavoro ed una riduzione della disoccupazione nei Paesi caratterizzati da un costo del lavoro più basso.

2. Le politiche protezionistiche sono un possibile rimedio contro gli effetti negativi della globalizzazione? No: in primo luogo perché se un Paese mette in atto misure protezionistiche come il divieto o la limitazione ad importare da un altro Paese, quest’ultimo opererà nello stesso modo contro il primo (condotta di reciprocità); in secondo luogo occorre tenere conto che proteggere le imprese o i settori con costi della produzione più elevati può risultare efficace nel breve periodo, ma nel medio-lungo periodo rende non competitivi beni prodotti dal Paese in questione.

3. Perché Paesi come quelli riuniti sotto la sigla BRIC sono oggi protagonisti della scena economica mondiale? Originariamente sono stati Paesi caratterizzati da un bassissimo costo del lavoro e in grado di produrre beni seriali di non elevata qualità (tessile-abbigliamento, calzature, meccanica, ecc.). Nel tempo questi Paesi hanno mantenuto le lavorazioni di bassa qualità, integrandole però in molti casi con produzioni di medio-alto livello (informatica, elettronica, meccatronica, ecc.) e anche con l’erogazione di servizi specie per le imprese (contabilità, call-center, ecc.)

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Test FINALE1. In che cosa consistono le politiche protezionistiche?a. nel rendere possibile il progresso tecnico in ambito produttivob. nel tentare di preservare la produzione nazionale nei confronti dei Paesi produttori di materie prime c. nello sviluppo di strategie per la protezione dei consumatori d. nel favorire metodi per la tutela della produzione nazionale rispetto a quella estera

2. La dimensione delle imprese italiane incide sul loro livello di competitività?a. sì, nel senso che le grandi dimensioni delle imprese italiane favoriscono una crescita della loro produttività e quindi le rende competitive sui mercati internazionalib. no, non vi sono influenze particolaric. sì: le imprese italiane hanno mediamente piccole dimensioni e questo le rende in generale meno competitived. le piccole dimensioni sono un problema se non si riesce ad utilizzare al meglio la dimensio-ne artigianale

3. Esiste un metodo per misurare il peso delle singole economie?a. sì: il Prodotto Interno Lordo costituisce un buon indicatoreb. no: non esistono sistemi affidabili per misurare le dimensioni di un’economiac. sì: può usarsi il livello del risparmio generato da ogni singola economiad. no, perché i valori del PIL, essendo espressi in valori monetari non sono comparabili

4. Con la globalizzazione il peso dei Paesi ad economia matura, fra cui l’Italia, è andato au-mentando?a. sì: le economie mature sono oggi più importanti rispetto al passatob. no: si è avuta una perdita di peso percentuale delle economie mature a vantaggio di altre aree e Paesic. sì, perché sono caratterizzate da un maggiore progresso tecnologico d. no, perché con la crisi tutte le economie mondiali hanno registrato valori negativi

5. Quali sono le caratteristiche della produzione dei BRIC? a. produzioni di alta qualità e alto costob. produzioni di bassa qualità e basso costoc. produzioni di qualità differenziata e basso costod. produzioni di alta qualità rivolte ad una nicchia di mercato

Soluzioni : 1d. - 2d. - 3a. - 4b. -5b.

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Moneta unicadi Claudio Guzzi

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«L’unica strada per fare uscire l’Europa dalla crisi; un’Europa che coesa in una politica non solo monetaria, fiscale e culturale unitaria, potrà essere seriamente concorrenziale con gli Stati Uniti d’America, soprattutto nell’eliminazione delle disuguaglianze sociali e nella qualità della vita, finalità contrarie alle logiche del capitalismo finanziario».

È sempre stato estremamente stimolante apprezzare le lucide analisi sulla crisi economica di uno dei maggiori economisti viventi, Paul Krugman, il quale non ha poi mancato oltre che di sottolinearne con sapienza le cause, di indicarne spesso anche le vie d’uscita. L’ultimo articolo di venerdì su “Repubblica”, dal titolo L’Europa può salvarsi solo se si libera dell’euro presenta due argomentazioni. La prima, sull’attuale politica di austerity europea, precisa e indiscutibile; la se-conda sul prospettato salvifico abbandono dell’euro, decisamente sbagliata, anche e soprattutto nei riferimenti storici. I suicidi dei disperati europei senza lavoro o degli imprenditori che vedono fallire insieme la propria azienda e la propria vita, sono fenomeni che hanno colpito in modo straziante anche Paul Krugman e l’opinione americana, memore della Grande Depressione. Le conclusioni di Krugman legano questi impietosi suicidi alla determinazione dei leader europei «a far commettere un suicidio economico all’intero continente». A questo porta senza ombra di dub-bio la politica di austerity, imposta agli altri Paesi, soprattutto dalla Germania, e dal Leviatano burocratico-tecnocratico del capitalismo finanziario mondiale. E intanto, sulla pessima tenuta dei titoli del debito pubblico italiano, le grandi banche d’affari americane si arricchiscono abbondan-temente, come ha dimostrato ieri “Il Sole 24 Ore”. E così la depressione invade tutti i Paesi europei.E anche il nostro Paese vede la situazione generale in continuo peggioramento, mentre le conso-latorie dichiarazioni ufficiali si riducono a promesse non mantenibili né di crescita, e neppure di sicuri pareggi di bilancio, indifferenti all’aumento della disoccupazione, al fallimento delle impre-se, e alla distruzione dello stato sociale. Tutto ciò purtroppo viene nascosto dalla dichiarazione che non siamo ancora come la Grecia, addirittura con una caduta di stile, di diplomazia e di vergogna enumerandone con precisione i casi di suicidio. Insomma, i programmi di austerità e il loro continuo irrigidimento portano, come ormai è evidente, a peggiorare lo stato di depressione, dal quale sarà sempre più difficile uscire per l’Europa intera.

13 Agosto 2012

L’EURO NON È RELIQUIA BARBARAdi Guido Rossi

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Né qui vale, tuttavia, l’alternativa proposta da Krugman. Questi, richiamandosi agli anni ’30, fa riferimento al requisito basilare di allora per la ripresa, cioè all’uscita dal sistema aureo (Gold standard), la cui “equivalente mossa” sarebbe oggi l’uscita dall’euro e il ripristino delle valute nazionali. Già altri hanno sostenuto con dovizia di argomentazioni che l’abbandono dell’euro provocherebbe una sorta di disastro finale nelle economie occidentali e nella finanza mondiale. Ma val la pena allora di sottolineare che il gold standard era la riserva aurea delle banche centrali, agganciata al valore convertibile delle singole monete, e che solo il suo abbandono impedì che le politiche monetarie destabilizzassero l’economia orientata solo alla ricerca del mantenimento delle riserve. Si creò così final-mente stabilità dei prezzi, bassi interessi, e largo credito alle imprese, stimolando la crescita attraverso la creazione di nuova domanda. Già peraltro il grande John Maynard Keynes, in un famoso articolo del 1923 e ancora dieci anni dopo, qualificava il simbolico e convenzionale valore del gold standard come una “reliquia barbara”.Ebbene, caro Krugman, l’euro non è una reliquia barbara e il suo paragone è sbagliato. È invece la moneta unica di un’Europa che si salva solo se continua nel suo processo di unificazione, affiancando all’euro una politica fiscale e monetaria unitaria e una forte spinta verso una vera Europa federale. Si potrà allora dotare la Banca centrale europea di veri poteri di una banca centrale, favorire l’emissione degli eurobond, il cui progetto ha molti sostenitori ed è già stato ampiamente illustrato nei particolari e fors’anche stimolare la domanda con meno riguardo a pur controllati processi inflazionistici.Ma di questo pare che ai leader europei, schiavi della logica del capitalismo finanziario, poco importi, tant’è che il tanto esaltato fiscal compact firmato a marzo trova le risposte alla depressione europea solo nell’austerità fiscale: ba-sta che i mercati finanziari speculino e guadagnino. È dunque l’ora di cambiare rotta senza alterigia e non solo a parole.Quella sopra indicata è allora, piaccia o non piaccia anche ai politici e agli intellettuali americani, l’unica strada per fare uscire l’Europa dalla crisi; un’Europa che coesa in una politica non solo monetaria, fiscale e culturale unitaria, potrà essere seriamente concorrenziale con gli Stati Uniti d’America, soprattutto nell’eliminazione delle disuguaglian-ze sociali e nella qualità della vita, finalità contrarie alle logiche del capitalismo finanziario.

Appunti

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Chiavi di lettura dell’articolo

Euro sì, euro no…Paul Krugman è uno dei più famosi economisti viventi. Premio Nobel per l’economia nel 2008, grazie alle sue analisi nell’ambito dell’economia internazionale, si è distinto per i suoi interventi molto critici verso la politica economica (e non solo) dell’Amministrazione Bush. In un articolo pubblicato nella primavera del 2012, ha criticato duramente le politiche economi-che adottate dai leader europei dopo l’esplosione della crisi economica. Sottolineata l’incapacità della leadership politica europea a contrastare con misure efficaci la crisi, ha ipotizzato l’uscita dall’euro e il contestuale ripristino delle valute nazionali come una possibile via per aiutare i Paesi maggiormente in difficoltà, come l’Italia. Ha paragonato questa misura alle politiche adottate durante la Grande Depressione degli anni Trenta, quando i Paesi europei scelsero di uscire dal sistema monetario allora in auge, il sistema aureo (Gold standard).L’autorevolezza di Krugman e l’enorme impatto, economico e sociale, che avrebbe una scelta di questo genere, ha originato un ampio dibattito tra gli economisti, di cui l’intervento di Guido Rossi costituisce un esempio significativo.

Come nasce la moneta unicaLa domanda alla quale cercheremo di fornire una risposta è se è realmente conveniente per un Paese, specificatamente per l’Italia, l’adesione all’euro o se non sarebbe invece meglio tornare a una valuta nazionale, come la vecchia lira. Per poter rispondere a tale quesito, crediamo sia necessario innanzitutto riassumere, sia pure in modo necessariamente sintetico, le diverse tappe che hanno portato alla nascita della moneta unica.I primi passaggi di questo lungo percorso sono rappresentati dall’istituzione della Comunità Eu-ropea del Carbone e dell’Acciaio, sancita con il Trattato di Parigi del 1951, e della Comunità Economica Europea, creata con il Trattato di Roma del 1957. Questi primi due Trattati furono firmati da sei Paesi: Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo; essi miravano alla progressiva eliminazione di ogni tipo di barriera al libero movimento delle merci, in particolare attraverso l’abolizione dei dazi doganali e l’introduzione di un’unica tariffa esterna verso i prodotti importati dagli altri Stati. Prevedevano, cioè, la nascita di un mercato comune europeo, che vedrà la sua completa realizzazione nel 1968.Dopo una lunga fase di crisi, che caratterizza tutti gli anni Settanta dello scorso secolo, il pro-cesso di integrazione europea riprende vigore. Innanzitutto si amplia progressivamente il numero dei Paesi aderenti: dall’Europa dei sei, del 1957, si arriva all’Europa dei ventisette del 2007, che diventeranno ventotto con la prossima adesione della Croazia. La spinta più significativa all’integrazione, peraltro, è fornita dall’allargamento dei compiti: ac-canto alle finalità di natura più strettamente economica, legate principalmente all’armonizza-zione e alla stabilizzazione economica nei Paesi aderenti e alla garanzia di piena libertà di

di Claudio Guzzi

La scheda4

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circolazione, oltre che delle merci, di persone, capitali e servizi (obiettivi definiti dall’Atto Unico Europeo del 1986 che stabiliva le modalità per la creazione di un mercato unico europeo), si introducono obiettivi di coesione sociale e politica, ad esempio attraverso l’istituzione della cittadinanza europea prevista dal Trattato di Maastricht del 1992. In un’economia fortemente integrata, come quella concretizzatasi con la completa realizzazione, nel 1993, del mercato unico europeo, i costi di conversione tra le unità valutarie degli Stati comunitari costituiscono un handicap significativo. Questa è una delle ragioni che spiega perché, a circa cinquant’anni dall’istituzione della prima Comu-nità Europea, si arriverà all’introduzione dell’euro. Anche in questo caso il processo sarà lungo e complesso. Nel 1972, nel periodo di progressiva decadenza del sistema monetario internazionale stabilito nel 1944 a Bretton Woods1, alcuni Paesi europei crearono il cosiddetto Serpente Monetario Europeo, impegnandosi a limitare entro una fascia ristretta le oscillazioni dei tassi di cambio reciproci. Questo tentativo portò a risultati modesti e fu seguito, nel 1979, dall’istituzione del Sistema Monetario Europeo (SME). Lo SME prevedeva la creazione di una partico-lare unità di conto, l’ECU (European Currency Unit), costituita da un paniere di monete (nello specifico: da una media ponderata delle valute che la componevano, ciascuna delle quali rapportata all’importanza economica del Paese corrispondente), mentre i tassi di cambio tra i Paesi aderenti potevano fluttuare soltanto entro un margine di oscillazione del 2,25%, sebbene per la lira italiana fosse prevista una banda di oscillazione più ampia, fino al 6%.Le violente crisi valutarie nel biennio 1992-93 comportarono l’ampliamento della banda di oscillazione (fino al 15%), ma nel frattempo, grazie al Trattato di Maastricht, verranno fissate le tappe per la creazione di un’unione mo-netaria fondata su una moneta unica e su una politica monetaria gestita da una Banca Centrale Europea (BCE). Nel 1998 il Consiglio dell’Unione Europea stabilì che Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna rispettavano i criteri di convergenza2 stabiliti dal Trattato di Maa-stricht. Successivamente venne fissato il tasso di conversione tra le singole monete nazionali e l’euro (in particolare, per l’Italia, fu stabilito che 1 euro valeva 1936,27 lire). Dal 1° gennaio 2002 questi undici Paesi si sono dotati della moneta unica; a essi si sono successivamente aggiunti la Grecia, la Slovenia, Cipro, Malta, la Slovacchia e l’Estonia. Oggi oltre 320 milioni di persone utilizzano l’euro, che rappresenta circa il 20% degli scambi commerciali e delle riserve valutarie mondiali.

1 Il sistema monetario precedente a quello di Bretton Woods (affermatosi in particolare nel corso del XVIII e del XIX secolo) è definito Gold Standard, poiché utilizza l’oro come unità di misura del valore delle monete e un sistema di cambi fissi tra le monete nazionali. Poiché in quell’epoca i pagamenti internazionali erano effettuati in oro, quando un Paese presentava un deficit nella bilancia dei pagamenti, doveva contestualmente ridurre la quantità di moneta in circolazione, producendo effetti deflazionistici, ossia la ridu-zione dei prezzi interni e dei salari. Al contrario, il Paese che riceveva i pagamenti in oro, incrementava l’offerta di moneta e quindi i suoi prezzi. Il calo dei salari e l’aumento dei prezzi dei beni importati rischiavano di produrre effetti sociali molto pesanti, specie per i ceti meno abbienti dei Paesi in disavanzo. Anche per tali ragioni, durante gli anni Trenta, nel mezzo della Grande Depressione, i Paesi europei abbandoneranno tale sistema. Nel 1944, in una cittadina del New Hampshire, Bretton Woods, Gran Bretagna, Stati Uniti e altri 42 Paesi istituiscono il Gold Exchange Standard, un sistema monetario che prende ancora l’oro come unità di misura ma assegna solo agli Stati Uniti il compito di mantenere la parità tra il dollaro e l’oro (con un rapporto pari a 35 dollari per oncia di oro) mentre gli altri Paesi si impegnano a stabilizzare il proprio tasso di cambio a un valore fisso rispetto al dollaro, che diventa così mezzo di pagamento internazionale. Il sistema cessa formalmente di esistere nell’agosto del 1971, quando il Presidente Nixon dichiara l’inconvertibilità tra la moneta statu-nitense e l’oro. Da quel momento il sistema monetario internazionale torna a essere basato su cambi flessibili.2 Tali criteri riguardavano principalmente: la stabilità dei prezzi, dei tassi di cambio e dei tassi di interesse, nonché la situazio-ne della finanza pubblica. Su quest’ultimo elemento occorre sottolineare che conteneva i parametri più difficili da rispettare per il nostro Paese. In particolare, si stabiliva un rapporto tra disavanzo pubblico annuale e prodotto interno lordo non superiore al 3% e un rapporto tra debito pubblico e Pil non superiore al 60% (attualmente, in Italia, quest’ultimo valore sfiora il 120%). Con il Patto di stabilità e crescita del 1997 i Paesi che hanno adottato l’euro si sono vincolati a rispettare i parametri della finanza pubbli-ca anche successivamente al loro ingresso nell’Unione monetaria europea, impegnandosi in particolare a raggiungere una situazione di bilancio strutturale in pareggio (questo principio è stato costituzionalizzato in Italia con la recente modifica dell’art. 81 della Costituzione).

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a4 I vantaggi (e i problemi) della moneta unica europea

Per comprendere il primo e più immediato vantaggio della moneta unica è sufficiente pensare a che cosa accade quando facciamo un acquisto in un Paese aderente all’Unione monetaria oppure al di fuori di tale area: nel primo caso il valore del bene o del servizio acquistato ci è immediatamente evidente, perché espresso nell’unità di misura che utilizziamo tutti i giorni; nel se-condo dobbiamo convertire il valore espresso in moneta locale nella nostra valuta. Ad esempio: se un bene acquistato negli Stati Uniti costa 20 dollari, dovremo innanzitutto conoscere qual è il prezzo del dollaro rispetto all’euro (ossia il suo tasso di cambio). Supponiamo che occorrano 80 centesimi di euro per acquistare un dollaro (è questo il metodo di calcolo del tasso di cambio definito “incerto per certo”); dovremo allora moltiplicare 80 centesimi per 20. Quindi, in termini di valuta nazionale, il valore del nostro acquisto è pari a 16 euro.In realtà esiste un ulteriore elemento da tenere in considerazione: quando si acquista valuta estera, ma lo stesso ragionamento si applica nel caso di vendita, al tasso di cambio vanno aggiunti i “costi di conversione”, in buona parte legati alle commissioni da pagare a chi offre tale servizio. Per una singola transazione tale valore può apparire modesto; moltiplicato per il numero delle transazioni tra i diversi operatori (economici e non), si è calcolato valga una cifra vicina ai 25 miliardi di euro. Per le imprese, poi, la moneta unica, oltre a rendere meno onerosi i pagamenti, produce un ulte-riore vantaggio: la fine del rischio del tasso di cambio. Nei sistemi monetari a cambi flessibili, infatti, quando un’impresa acquista prodotti dall’estero, rischia di pagarli molto di più del previsto nel caso di una svalutazione della moneta nazionale. La riduzione delle incertezze, sia dei consumatori sia delle imprese, rende più agevoli, e quindi incrementa, i commerci internazionali. Favorisce poi la crescita dei risparmi e incentiva gli investimenti, determinando in tal modo condizioni favorevoli per la crescita dell’occupa-zione e del reddito nazionale. L’adozione dell’euro ha fornito una forte spinta all’integrazione dei mercati finanziari europei, aiuta a costituire una “massa critica” in grado di rispondere in modo più efficace alle manovre speculative, riduce i rischi di crisi valutarie sistemiche come quelle dell’inizio degli anni Novanta, e garantisce un maggior peso dell’Unione Europea nell’economia mondiale (è auspicabile, da questo punto di vista, che l’euro si trasformi sempre più in moneta di riserva a livello mondiale, diminuendo così la dipendenza dell’Eurozona dal dollaro). Per certi versi, quindi, l’euro ha rap-presentato la risposta europea al fenomeno della globalizzazione.In Italia, poi, l’introduzione dell’euro ha prodotto un ulteriore effetto positivo: la sensibile riduzio-ne del tasso di interesse sul debito pubblico. Ciò ha permesso risparmi consistenti allo Stato che, sommati ai tagli di spesa attuati negli anni Novanta, hanno determinato una progressiva riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo: nel 1994 esso era infatti pari al 122 per cento, mentre nei primi anni 2000 scende fino a sfiorare il 100 per cento. Poteva rappresentare una grande occasione per mettere in sicurezza i conti pubblici ma le politiche economiche fallimentari degli ultimi anni hanno fatto sì che deficit e debito abbiano

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ripreso a correre; è questa una delle principali cause della crisi del debito sovrano che ha colpito il nostro Paese negli ultimi mesi. L’introduzione dell’euro, tuttavia, presenta alcuni elementi di criticità. In primo luogo, come molti critici della moneta unica hanno spesso osservato, la mancanza di una valuta nazionale impedisce le cosiddette “svalutazioni competiti-ve”. È questa una strategia, peraltro utilizzata a più riprese dall’Italia ai tempi della lira, che consiste nel deprezzare la valuta nazionale rispetto a quella degli altri Paesi. In questo modo, specie nelle fasi di recessione economica, si rendono più appetibili le esportazioni e dunque si aumenta la produzione di quello Stato (anche se, non va dimen-ticato, aumenta contestualmente il valore, e quindi i prezzi, dei beni importati). L’euro mette le imprese tutte sullo stesso piano e senza la spinta del cambio molte imprese nazionali si sono dimo-strate meno competitive rispetto a quelle di altri Paesi europei. Questo fenomeno è in gran parte dovuto al fatto che gli imprenditori italiani hanno troppo spesso privilegiato una logica di mantenimento di alti profitti nel breve periodo, senza sfruttare le potenzialità della moneta unica per fare nuovi investimenti. Altre situazioni di criticità sono legate al modello di governance della moneta unica adottato dalla normativa comuni-taria: non è stato chiarito a sufficienza, al di là delle dichiarazioni formali, quale debba essere il livello di autonomia della BCE rispetto alle autorità politiche dei singoli Paesi dell’Unione. La stessa Banca Centrale Europea, poi, appare dotata di modesti strumenti rispetto ad altre Banche Centrali (specie in rapporto alla FED, la banca centrale degli Stati Uniti), peraltro in gran parte orientati al mero controllo dei rischi di natura inflazionistica. Nell’attuale fase economica, fortemente recessiva, il problema più importante da affrontare è invece sicuramente quello dell’occupazione: occorre individuare e adottare politiche efficaci per combattere il fenomeno della disoccu-pazione, che ha raggiunto livelli insostenibili sotto il profilo economico e inaccettabili dal punto di vista sociale. Le recenti scelte operate dall’attuale Governatore della BCE, Mario Draghi, manifestano grande consapevolezza di tali problemi e appaiono orientate da un lato a garantire una maggiore autonomia e dall’altro a indirizzare la politica della Banca Centrale Europea in un’ottica più ampia rispetto a quella originariamente definita nei Trattati istitutivi. Vanno infine considerati anche alcuni elementi di natura non strettamente economica: ad esempio, per quanto forte possa essere la mobilità lavorativa (e studentesca) all’interno dell’Europa, la presenza di Stati nazionali e sovrani, con culture e identità proprie, con molte e differenti lingue parlate, può costituire un impedimento alla realizzazione di un progetto, come quello prefigurato con la nascita dell’euro, che necessita della formazione di un “senso di ap-partenenza comune” da parte dei cittadini europei. La storia è ricca di esperimenti di aree valutarie comuni, senza peraltro l’adozione di una moneta unica e la nascita di una sola banca centrale, fallite per il prevalere di interessi egoistici e nazionali. È un rischio da non sottovalutare, sebbene sia il caso di ricordare che esistono anche esperien-ze diverse, laddove l’unione monetaria ha, al contrario, preceduto e “aperto la strada” a quella politica, come è ad esempio accaduto con lo Zollverein (l’accordo stipulato tra 38 principati tedeschi nel 1818).

L’euro e la crisi economica: carnefice o vittima?La crisi finanziaria è nata nel 2007-2008 negli Stati Uniti, ed è legata alla grande bolla del mercato immobiliare america-no e all’uso sconsiderato di strumenti finanziari (alcune tipologie di titoli derivati) da parte delle banche dello stesso Paese3.

3 La questione, peraltro, appare tutt’altro che risolta: nuovi scandali hanno colpito, di recente, banche come Goldman Sachs, Barclays, JP Morgan Chase, accusate di speculazioni azzardate sui titoli derivati (in alcuni casi di vere e proprie truffe verso i rispar-miatori), che sono state poi condannate a pagare sanzioni superiori agli 8 miliardi di dollari. “L’Economist” ha di recente coniato, per i banchieri coinvolti, il neologismo banksters (traducibile, nella lingua italiana, con l’espressione “banchiere-gangster”).

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Si è poi tradotta in crisi economica, con dinamiche fortemente recessive, ossia con la riduzione di investimenti, produzione e occupazione. L’euro ne sta scontando le conseguenze negative, in particolare per la diminuita propensione al rischio da parte degli investitori internazionali, che preferiscono comprare titoli tedeschi, ancorché poco remunerati, e vendere massicciamente titoli di stato italiani e spagnoli. È peraltro assai probabile che, se invece dell’euro in Italia fosse ri-masta la lira, gli effetti sarebbero stati ancora peggiori: una fortissima svalutazione della moneta nazionale con un impatto sul debito pubblico dalle conseguenze nefaste per il nostro Paese.Abbandonare l’area euro non è di conseguenza una scelta desiderabile, non perché l’euro sia una “reliquia barbara”, bensì perché non sarebbe la soluzione del problema (al contrario: rischierebbe di aggravarlo). È tuttavia necessario un “salto di qualità” nelle politiche economiche adottate dagli Stati europei: le scelte operate fino ad oggi (le politiche di austerity alle quali ac-cenna Guido Rossi) hanno ottenuto lo scopo, nel migliore dei casi, di “limitare i danni” (in altri, come in Grecia, si sono addirittura rivelate controproducenti e mortificanti per un intero popolo). Per salvare la moneta unica si possono adottare strategie diverse, eliminando le troppe ambi-guità che ancora oggi caratterizzano i rapporti tra i Paesi dell’Unione. Innanzitutto su chi deve governare tali politiche: se esiste una moneta unica europea, deve anche esistere una politica economica europea (e non tante politiche diverse quanti sono gli Stati aderenti). In tale prospet-tiva vanno, ad esempio, interpretate proposte come quella di creare titoli di debito pubblico garantiti da tutti i Paesi (gli eurobond). Occorre poi chiarire quali interventi operare: stimolare la domanda per favorire la crescita è oggi la ricetta obbligata per evitare il rischio di un’ulteriore e rapida involuzione nelle economie europee.Per impedire che le difficoltà economiche si traducano nella percezione di un’Europa impotente o, peggio, che grandi progetti come la moneta unica siano vissuti dai cittadini europei come causa di declino, anziché come un mezzo per raggiungere un maggiore benessere collettivo, bisogna intensificare gli sforzi per creare un governo europeo solido ed effettivo, in grado di gestire in modo efficace politiche adeguate per un quadro così complesso come quello attuale. È questa la sfida più importante per un’Europa che deve diventare sempre più unita e solidale se non desidera assumere un ruolo marginale negli scenari di un mondo globalizzato e perdere la sua capacità di avvicinare, economicamente, socialmente e culturalmente, popoli diversi.

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mercato comune europeomercato unico europeoSistema Monetario Europeo (SME)European Currency Unit (ECU)moneta unica europeatasso di cambio

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Appunti

Traccia per l’attività in classeIl tema affrontato si presta per un confronto puntuale tra conoscenze prgresse (o spontanee) dello studente e le possi-bili riflessioni che si possono sviluppare al termine della lettura della scheda (nonché degli eventuali approfondimenti, con ricerche mirate in rete sui temi trattati). Suggeriamo, quindi, uno sviluppo delle attività in classe che si innesti su alcune domande chiave proposte prima della lettura della scheda, alle quali gli studenti potrebbero rispondere individualmente o in gruppo. Le domande potrebbero essere, a titolo esemplificativo, le seguenti: •  Da quanto tempo esiste l’euro? Per quali ragioni è stato creato?•  Quali vantaggi comporta l’euro per un consumatore? Quali per le imprese? Quali per gli Stati?•  L’euro ha prodotto anche degli svantaggi? Quali? •  Esiste a tuo parere un legame tra crisi economica e moneta unica europea? Qual è?Gli stessi quesiti possono essere riproposti dopo la lettura (e la relativa discussione) dei contenuti della scheda e delle FAQ. L’obiettivo è rendere lo studente consapevole delle implicazioni legate all’utilizzo di uno specifico strumento mone-tario (la moneta unica europea) tutt’altro che “neutrale” rispetto alle scelte economiche e sociali e alle condizioni di vita dei cittadini di un Paese.

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FAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. Che cos’è la politica monetaria e quali strumenti utilizza? La politica monetaria è data dall’insieme degli interventi in grado di modificare la quantità di moneta in circolazione. Può essere di natura espansiva, quando la quantità di moneta offerta aumenta, o restrittiva, quando invece tale quantità diminuisce. Insieme alla politica fiscale, definisce la politica economica di un Paese, ossia i provvedimenti che uno Stato può adottare all’interno di un sistema economico.È gestita dalle Banche Centrali e si manifesta principalmente con le operazioni di acquisto e di vendita di titoli e con la fissazione del tasso di interesse di riferimento. Nel primo caso la Banca Centrale può aumentare o diminuire l’offerta di moneta direttamente, acquistando o vendendo titoli. Il tasso ufficiale di riferimento è, invece, applicato dalla Banca Centrale per finanziare le aziende di credito: se lo innalza, il “costo del denaro” aumenta (determinando una riduzione della moneta in circolazione); in caso contrario il “costo del denaro” diminuisce.

2. Qual è la differenza tra cambi flessibili e cambi fissi?Nel sistema a cambi flessibili (in vigore dal 1973) il tasso di cambio viene determinato sul mercato dei cambi dalla domanda e dall’offerta di ogni singola valuta. Nel sistema a cambi fissi, invece, il tasso di cambio rispetto a un’altra valuta è determinato (si parla di parità) e la Banca Centrale interviene sul mercato dei cambi per mantenere la parità invariata. La decisione di aumentare il prezzo della valuta è chiamata rivalutazione, quella di ridurlo svalutazione.

3. Che differenza esiste tra mercato comune europeo e mercato unico europeo?Il mercato comune europeo, previsto dal Trattato di Roma del 1957 (che istituiva la Comunità Economica Europea) ed entrato in vigore nel luglio del 1968, prevedeva l’eliminazione dei dazi doganali interni tra gli Stati partecipanti, ossia delle somme di denaro dovute allo Stato per l’ingresso o l’uscita di merci dal suo territorio. Venne contestualmente fissata una tariffa doganale comune per tutti i prodotti importati dai Paesi non aderenti. Il mercato unico europeo, entrato in vigore il 1° gennaio 1993, introdusse la piena libertà di movimento da un Paese all’altro dell’Unione Europea di beni, servizi, capitali e persone, abolendo ogni forma di limitazione, di natura fiscale, fisica o tecnica.

4. Che cosa sono gli eurobond? Si tratta di titoli di debito pubblico emessi da uno qualunque dei Paesi a moneta unica ma sottoscritti da tutti gli Stati dell’Eurozona. In questo modo se ne garantisce congiuntamente la solvibilità, riducendone il rischio associato. Il meccanismo è quello di un’obbligazione tradizionale: il titolo ha un valore nominale, una scadenza e un tasso di interesse in base al quale viene staccata l’eventuale cedola.Si tratta di uno strumento proposto, in varie versioni, da diversi economisti e politici (tra gli altri, ricordiamo il progetto presentato da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio), ma attualmente osteggiato da alcuni Paesi dell’Unione (in particolare dalla Germania).

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Test FINALE1. La moneta unica europea ha cominciato a circolare liberamente a. nel 1951b. nel 1979c. nel 2002d. nel 2008

2. Il prezzo di una moneta rispetto a un’altra si definiscea. ECUb. tasso ufficiale di riferimento c. tasso flessibiled. tasso di cambio

3. L’ introduzione dell’euro ha determinato a. un aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico italianob. una riduzione dei tassi di interesse sul debito pubblico italianoc. una riduzione del risparmio a causa degli effetti inflazionistici che ha prodottod. un aumento sensibile dell’indebitamento dello Stato per i costi di conversione tra lira e nuova moneta unica

4. Non è un effetto della nascita della moneta unica europea

a. la fine del rischio del tasso di cambiob. la possibilità di utilizzare la svalutazione per rendere più competitive le imprese nazionalic. la riduzione delle incertezze per consumatori e impresed. una maggiore integrazione dei mercati finanziari europei

5. La Banca Centrale Europeaa. definisce tutti gli interventi di politica economica (monetaria e fiscale) dei Paesi dell’area euro b. definisce gli interventi di politica monetaria ma non quelli di politica fiscale c. può impedire ai governi dei Paesi aderenti all’Unione Europea di aumentare o ridurre l’imposizione fiscaled. ha il solo compito di stampare la quantità di moneta richiesta dai diversi operatori economici

Soluzioni :1c. - 2d. - 3b. - 4b. -5b.

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Inflazione, potere d’acquisto e valore del risparmiodi Alberto Banfi

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«Attraverso un continuo processo di inflazione i governi possono confiscare in segreto e inos-servati una parte importante della ricchezza dei loro cittadini. Con questo metodo non solo la confiscano, ma la confiscano arbitrariamente, e mentre questo processo impoverisce molti, ne arricchisce in effetti alcuni», sosteneva Johon Maynard Keynes nelle Conseguenze economiche della pace del 1919. Da quel testo è passato quasi un secolo, ma poco o nulla è cambiato: nella riflessione economica e nell’esperienza pratica il carovita resta la più iniqua e occulta delle tasse. L’erosione del potere d’acquisto della moneta non colpisce solo i salari e stipendi, ma determina anche effetti pesanti sui risparmi e investimenti. Per capire se e quanto siano in grado di tutelare il capitale investito dall’effetto del costo della vita, dai rendimenti lordi degli strumenti finanziari, infatti, occorre detrarre non solo l’imposizione fiscale, ma anche il tasso di inflazione. Maggiore è la crescita dei prezzi, maggiore dev’essere il rendimento offerto dagli investimenti per impedire che il capitale venga “rosicchiato” dal carovita.D’altronde la perdita di valore della moneta porta a risultati paradossali come spiegava Ugo Tognazzi “inflazione significa essere povero con tanti soldi in tasca”. Certo il tasso annuo di in-flazione non viaggia più ai livelli a doppia cifra del periodo in cui l’attore cremonese esprimeva salacemente la sua opinione. Con il 3,3% annuo rilevato dall’Istat a giugno, il carovita resta sotto controllo. Ma i rendimenti di numerose classi di investimento estremamente risicate non consentono di recuperare nemmeno quel valore. All’investitore interessato a riservare il proprio capitale, così occorre porre attenzione nella scelta di allocazione dei propri risparmi. A meno che la principale preoccupazione sia la sicurezza di lungo periodo dello strumento. In quel caso come dimostra la domanda di titoli di stato tedeschi dai rendimenti reali negativi l’inflazione è il minore dei mali.

Come proteggersiCosa sono i bond indicizzati all’inflazione?Le obbligazioni indicizzate all’inflazione, dette anche “bond reali”, come anche i buoni fruttiferi postali indicizzati all’inflazione, sono strumenti di investimento ideati per proteggere nel migliore dei modi il potere d’acquisto dei risparmi. Questi strumenti finanziari infatti indicizzazione il capi-tale e le cedole al tasso d’inflazione: maggiore è il tasso d’inflazione maggiore è il rendimento.

14 Agosto 2012

LA TASSA NASCOSTA CHE ROSICCHIA I RENDIMENTI

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Meglio le lunghe o le brevi scadenze?In astratto dato che nel lungo periodo il rischio di inflazione è significativo, il vantaggio dei bond reali a lungo termine è maggiore rispetto a quelli a breve termine D’altronde la caratteristica principale di questi titoli è la loro capacità di difendere dall’inflazione inattesa dagli operatori di mercato, al contrario delle obbligazioni tradizionali in grado di difendere i risparmi solo dall’inflazione attesa dal mercato che evidentemente potrà essere ben diversa da quella che effettivamente si realizzerà in futuro. Da ricordare comunque che nel breve termine la correlazione tra inflazione e ritorni dei bond reali è solo modesta, in quanto i prezzi delle obbligazioni reali, come per quelle tradizionali, possono variare a causa di diversi fattori, come i movimenti del tasso reale. Il tutto però va ovviamente sempre parametrato alla funzione che questi strumenti svolgono e agli obiettivi di investimento che variano da rispar-miatore a risparmiatore.È meglio entrare e uscire da questi strumenti in funzione delle proprie necessità o mantenerli in portafoglio?Per un investitore che desidera proteggere i risparmi dall’inflazione la soluzione principe è quella di detenere questi titoli fino a scadenza. La formazione dei prezzi infatti riflette spesso acquisti o vendite di grandi operatori istituzionali ed hedge fund che possono determinare anche cali vistosi delle quotazioni nel brevissimo termine.

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Appunti

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L’articolo mette in evidenza gli effetti “nascosti” determinati dall’inflazione, che possono trarre in inganno coloro che dispongono di somme di denaro.L’inflazione trae in inganno un risparmiatore perché il valore del denaro posseduto diminuisce nel tempo dal momento che viene meno il suo potere d’acquisto e in un certo senso è come se il ri-sparmio fosse assoggettato ad una “tassa iniqua ed occulta”, subendo così una sua decurtazione. Un’altra forma di “inganno” è dovuta alla circostanza che l’inflazione penalizza i risparmiatori ma nel contempo arreca “ingiusti e subdoli” vantaggi a coloro che sono indebitati (cioè a coloro che si sono fatti prestare i soldi dai risparmiatori) dal momento che essi – quando restituiranno le somme ricevute – ridaranno un potere d’acquisto diminuito.A tale riguardo l’articolo segnala in modo evidente come sia indispensabile la tutela degli inve-stimenti effettuati per salvaguardarne il potere d’acquisto, e quindi proteggerli dalla tassa occulta derivante dall’inflazione e dall’iniquo vantaggio di coloro che prendono a prestito il risparmio, emettendo strumenti finanziari. Nell’articolo, infatti, viene riportato come proteggersi dall’infla-zione acquistando obbligazioni indicizzate al tasso di inflazione (come lo sono i btp€i), dando alcune indicazioni sui criteri per la loro scelta da parte dei risparmiatori.In questa sede pare opportuno in ogni caso ricordare alcune cautele assolutamente necessarie al fine di evitare “rischi” negli investimenti finanziari.In primo luogo, non tutti gli strumenti finanziari indicizzati assicurano una tutela di natura “reale”, ossia correlata all’andamento del tasso di inflazione; infatti, come vedremo nel successivo para-grafo, sono presenti diverse forme di indicizzazione in funzione del parametro a cui è correlato il rendimento dello strumento finanziario.In secondo luogo, occorre rilevare che l’indicizzazione può essere totale o parziale, e solo nel primo caso c’è una forte correlazione tra evoluzione dell’inflazione e rendimento dello strumento finanziario.In terzo luogo, anche il parametro e il meccanismo di indicizzazione più perfetto non sono in grado di salvaguardare il capitale investito se il risparmiatore non dà la dovuta attenzione a colui al quale presta i propri soldi: se quest’ultimo si rende insolvente (cioè non rimborsa alla scadenza il denaro ricevuto) non c’è meccanismo di indicizzazione che tenga.

Il valore e l’importanza del risparmio e delle forme di investimentoQuando si parla di risparmio, a tale termine viene associato normalmente un concetto positivo; esso è infatti una risorsa che genera effetti positivi sotto molteplici punti di vista e che proprio per questa ragione deve essere oggetto di particolare attenzione e tutela.Come noto, il risparmio rappresenta un “avanzo” (o un “utilizzo oculato”) di risorse. Nell’ambito finanziario il risparmio è dato dalla differenza tra i flussi finanziari che un soggetto (o una famiglia) ottiene nel corso di un determinato periodo e i flussi finanziari che nel medesimo

di Alberto Banfi

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periodo tale soggetto (o famiglia) vede uscire dalla propria disponibilità. In altre parole, nell’ambito di una famiglia si genera risparmio se ad esempio nel corso di un anno i redditi ottenuti attraverso il lavoro di un genitore (o di entrambi) risultano superiori a tutte le spese che la famiglia ha dovuto sostenere, sempre nel medesimo periodo: in tal modo, infatti, i flussi finanziari in entrata (ad esempio, lo stipendio del genitore o dei genitori) risultano superiori ai flussi finanziari in uscita (ad esempio, l’affitto dell’abitazione, le spese per il mantenimento della famiglia, per le vacanze, per l’istruzione dei figli, ecc.).Ogni gestione famigliare dovrebbe poter generare in una situazione “normale” un avanzo tra flussi finanziari in en-trata e in uscita in quanto tale risparmio dovrebbe costituire una “riserva” di disponibilità per fronteggiare esigenze straordinarie o impreviste che si dovessero manifestare in futuro.Questa funzione di “accantonamento di risparmio” per affrontare con relativa tranquillità eventi futuri deve essere so-stenuta e auspicata per ciascuna famiglia (o ciascun soggetto), ma soprattutto è necessario che nel tempo le somme “non spese” e quindi accantonate debbano quantomeno preservare il loro valore.L’importanza del risparmio e della sua tutela sono così rilevanti, da essere oggetto di richiamo nella nostra Costitu-zione, all’art. 47.

Costituzione italiana - Art. 47La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese. Poiché non sempre è agevole risparmiare in quanto ciò dipende sia dalla condizione socio-economica di ciascuna famiglia, sia dallo stato della congiuntura in cui si trova un’intera economia (si pensi alla situazione economica di questi ultimi tre anni nei principali Paesi industrializzati e agli effetti generati sulle famiglie dal prolungato stato di recessione), oltre alla tutela del risparmio sancita come principio generale e di alto valore sociale è necessario che sia salvaguardato anche il potere d’acquisto del denaro così faticosamente accantonato.Infatti, con il termine “potere d’acquisto” si intende la capacità di spesa data dal denaro posseduto indipendente-mente dal momento del suo utilizzo; detto in altro modo, al risparmiatore interessa che le somme risparmiate nel tempo siano sufficienti a conseguire gli scopi per cui sono state accantonate.Ad esempio, un genitore vuole acquistare per il figlio un motorino (che oggi costa 3000 €) ma non dispone dei soldi necessari per comprarlo; potrebbe decidere di risparmiare 250 € al mese per i prossimi dodici mesi e quindi dar corso all’effettivo acquisto del motorino non appena dispone dei 3000 € richiesti. L’acquisto del motorino dopo dodici mesi potrà aver luogo al verificarsi di una delle seguenti circostanze:•  che il prezzo del motorino dopo un anno sia rimasto invariato, ossia pari a 3000 €;•  che le somme risparmiate nel corso dell’anno mantengano il “potere d’acquisto” per comprare il motorino anche qualora il prezzo dello stesso dovesse aumentare.

Ne discende, quindi, che salvaguardare il potere d’acquisto del risparmio significa consentire a chi risparmia di poter utilizzare in futuro le somme non spese oggi senza perciò subire degli svantaggi in termini di beni o servizi acquistabili.

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5 A questo punto si pone un ulteriore problema: perché nel tempo i prezzi dei beni e dei servizi tendono a salire e non a rimanere stabili? Perché il motorino oggi costa 3000 € e fra un anno potrebbe costare ad esempio 3075 €?Per rispondere è necessario introdurre il concetto di “inflazione” ossia di un fenomeno economico che porta con sé l’incremento dei prezzi dei beni e dei servizi a disposizione dei consumatori (e quindi delle famiglie).L’inflazione si manifesta quando appunto c’è un aumento dei prezzi; aumento dei prezzi che può essere determinato da almeno due differenti circostanze (che talvolta possono anche manifestarsi congiuntamente). In primo luogo, il prezzo di un bene o di un servizio aumenta perché la do-manda dei consumatori per quel bene o quel servizio è superiore alla loro offerta e pertanto pur di disporre di quel bene o di quel servizio, il consumatore è disposto a pagare un prezzo più elevato: ciò rappresenta la cosiddetta “inflazione da domanda”. Ad esempio, quando un’econo-mia sta conoscendo una fase di espansione e quindi di aumento del benessere e della capacità di spesa della propria popolazione (si pensi recentemente alle economie emergenti quali quella cinese, indiana e brasiliana) spesso essa deve fare i conti con un incremento della domanda di beni e servizi da parte dei consumatori (che prima non c’era o era molto debole) e che determina un incremento dei prezzi se l’offerta rimane invariata o aumenta in proporzione minore rispetto alla domanda. Al riguardo, si può ricordare l’aumento dei prezzi dei beni tipici di un’economia in crescita quali quelli degli elettrodomestici, dei mezzi di trasporto, come pure delle abitazioni.In secondo luogo il prezzo di un bene o di un servizio può aumentare se aumentano i costi per produrlo e chi lo produce e lo vende non intende rinunciare ad una parte del proprio guadagno lasciando invariato il prezzo: in tal caso si parla di “inflazione da costo”. Un esempio di tale for-ma di inflazione lo si può individuare nell’incremento dei prezzi dei beni e dei servizi, generato dall’aumento del prezzo dell’energia necessaria per far funzionare gli impianti di produzione: si pensi ai continui incrementi del prezzo del petrolio e dei suoi derivati. Analogamente si consideri l’impatto sul prezzo finale di un prodotto generato dai costi per il suo trasporto dal luogo di pro-duzione a quello di commercializzazione, come pure l’impatto derivante dall’aumento del costo della materia prima per la realizzazione del prodotto.Nei sistemi economici le ipotesi di incremento dei costi illustrate son quasi sempre presenti (ancor-ché con intensità e frequenze differenziate da Paese e da periodo storico) e quindi l’inflazione accompagna la vita di tutti i giorni delle persone: ne discende allora la necessità di prevedere varie forme di tutela e salvaguardia del potere d’acquisto nei confronti di coloro che sono in grado di risparmiare. La difesa del potere d’acquisto è una fondamentale tutela dei risparmiatori. Ma allora si pone un’ulteriore domanda: cosa deve fare un risparmiatore per vedere salvaguardato il proprio potere d’acquisto? In presenza di inflazione (e quindi con il sicuro incremento atteso dei prezzi di beni e servizi) non si ha la certezza che i soldi attualmente a disposizione (sufficienti ora per acquistare un bene o servizio) lo saranno ancora fra un anno. Il risparmiatore deve allora preoccuparsi affinché

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possa aumentare in un anno l’ammontare di denaro a disposizione. Ciò può avvenire, ad esempio, investendolo in strumenti finanziari (titoli di stato, obbligazioni, depositi bancari o altre forme più rischiose quali le azioni) al fine di recuperare da tale investimento quell’importo aggiuntivo necessario per mantenere invariata la propria capacità di spesa. Ritornando all’esempio dell’acquisto del motorino il cui prezzo oggi è pari a 3000 € e fra un anno – quando si intende acquistarlo – a 3075 € (ossia il 2,5% in più), il genitore che oggi dispone di 3000 € dovrà investire tale somma e ottenere un rendimento annuale pari proprio al 2,5%, in quanto tra un anno si vedrà restituire le somme prestate (3000 €) maggiorate dell’interesse (ossia 75 €). Tale risultato si può ottenere, ad esempio, sottoscrivendo oggi un bot (buono ordinario del tesoro) di durata annuale con rendimento (al netto dell’imposizione fiscale) del 2,5%, che alla scadenza permetterà di mantenere invariato il potere d’acquisto (e quindi acquistare il motorino anche se il suo prezzo è aumentato). In alternativa, si può sotto-scrivere un titolo di stato con scadenza maggiore: ad esempio un btp (buono del tesoro poliennale) con scadenza decennale, che per tale caratteristica di durata più lunga dispone di un rendimento annuale più elevato (in ipotesi il 3,5% netto). In tal caso, vendendo sul mercato secondario il btp allo stesso prezzo a cui lo aveva acquistato un anno prima, il genitore avrà salvaguardato il potere d’acquisto e in più avrà ottenuto un ulteriore guadagno: infatti, recupera i 3000 € investiti dalla vendita del btp e in più ottiene una somma aggiuntiva (pari a 105 €) data dal rendimento del 3,5%, calcolata sulla somma investita, che oltre a permettergli di acquistare il motorino gli consente un ulteriore incremento di risparmio.Questa ipotesi, però, presenta un grado di rischio maggiore, in quanto presuppone che fra un anno il risparmiatore ri-esca a vendere il btp allo stesso prezzo al quale lo acquista oggi (circostanza non sempre così facilmente verificabile). Inoltre, nell’effettuare investimenti allo scopo di salvaguardare il potere d’acquisto, va considerato che ad ogni investimento è associato il rischio che non vengano restituite alla scadenza le somme prestate dall’investitore; tale rischio è più o meno elevato in relazione alla tipologia di strumento finanziario e al soggetto (o ente) al quale vengono prestati i risparmi. Come noto, ma non è questa la sede per ulteriori approfondimenti, a rischi più elevati corrispondono rendimenti più elevati; sta al risparmiatore scegliere il tipo di investimento che, se rischioso ma par-ticolarmente remunerativo, gli consentirà sia di recuperare il potere d’acquisto perso, sia di incrementare l’entità delle somme a disposizione.Una soluzione che nel tempo si è sviluppata per salvaguardare il potere d’acquisto è stata quella di proporre al risparmiatore forme di investimento il cui rendimento sia correlato (o, come si dice in gergo economico, “indicizzato”) al livello dell’inflazione. In altri termini, se negli anni l’inflazione aumenta, analogamente cresce il rendimento offerto da queste forme di investimento; se però l’inflazione si riduce scende anche il rendimento. Si parla in tal caso di strumenti finanziari indicizzati all’inflazione, e recentemente il Tesoro italiano ha dato nuovo impulso a tali forme di strumenti proponendo le emissioni di due tipologie di titoli di stato aventi tale caratteristica: i buoni del tesoro poliennali legati all’inflazione europea (btp€i) e i buoni del tesoro poliennali legati all’inflazione italiana (btp Italia), descritti nel dettaglio di seguito.In conclusione, preme ancora una volta sottolineare quanto sia importante il risparmio accumulato, sia per un singolo soggetto, sia per l’intera comunità; il risparmio, infatti, se ben salvaguardato e investito oculatamente costituisce una fondamentale risorsa per l’intero sistema-Paese.

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5 Forme di indicizzazione e parametri di riferimentoIl rendimento generato da una obbligazione indicizzata dipende dal parametro di riferi-mento, ossia dall’indicatore esterno al prestito obbligazionario che trasferisce sul rendimento delle obbligazioni le variazioni intervenute. Rendimento che – come noto – viene influenzato sia dall’evoluzione del tasso di interesse nominale delle obbligazioni, sia dall’evoluzione del prezzo di rimborso. La scelta del parametro di riferimento è cruciale in quanto da essa dipende il realizzarsi in via più o meno accentuata di forme di tutela per gli investitori. Di conseguenza un parametro di riferimento deve essere selezionato sulla base della sua idoneità a rappresentare correttamente le variazioni intervenute nei mercati che essi rappresentano. L’esperienza mostra che possono venire presi a riferimento mercati dei più disparati beni: materie prime, prodotti industriali (o più sovente panieri compositi di beni ricondotti ad un indice), una o più attività finanziarie, una o più valute estere. La classificazione più comune dei parametri di riferimento distingue tra indicatori di natura finan-ziaria, reale e valutaria. La variabilità del tasso di interesse nominale e/o del prezzo di rimborso si definisce di natura reale quando la loro variazione viene correlata ai mutamenti intervenuti nei prezzi riferiti al più generale settore dell’economia produttiva (indici generali) oppure ad uno o più mercati, singo-larmente considerati, di materie prime, di beni, merci o servizi (indici specifici). Nel caso di indici generali, qualora essi assumano a riferimento panieri di beni rappresentativi dei consumi della collettività, si può ritenere che il loro andamento approssimi in misura soddisfacente il tasso dell’inflazione; ne deriva che il legame attraverso il quale variano nel tempo tasso nominale e prezzo di rimborso può essere in grado di salvaguardare il potere d’acquisto dei capitali investiti. Nella quasi totalità dei casi osservati nel mercato italiano, gli indicatori reali rivestono carattere generale in quanto assumono a riferimento l’andamento dei prezzi di panieri di beni. La realtà più recente, domestica ed internazionale, mostra come il Tesoro italiano, oltre a quello inglese, francese, tedesco e greco, facciano da tempo consistente ricorso a prestiti ad indicizzazione re-ale. Accanto al debitore pubblico anche gli emittenti privati, più in particolare le banche, offrono sul mercato tali strumenti seppure con un’indicizzazione limitata alla cedola. La variabilità del tasso nominale e/o del prezzo di rimborso di un prestito si definisce di natura finanziaria quando la modifica di tali caratteristiche tecniche dipende dai mutamenti intervenuti in un indicatore di un mercato nel quale si negoziano attività finanziarie; normalmente tale indica-tore può essere un tasso, più raramente anche un prezzo o un indice di prezzi. Si è soliti parlare di parametri di natura finanziaria in senso stretto quando la variabilità è determinata dall’osser-vazione delle condizioni prevalenti per attività finanziarie a medio e lungo termine; quando, invece, le variazioni o l’andamento dei tassi che determinano il variare del tasso nominale e/o del prezzo di rimborso del prestito sono riferiti a mercati di attività finanziarie a breve termine si è in presenza di parametri monetari, individuabili comunemente nei rendimenti dei buoni ordinari del tesoro e nei tassi denominati euribor (riferiti al mercato dei fondi interbancari).Qualora nei titoli la variazione del tasso nominale e/o del prezzo di rimborso siano determinati dal rapporto di cambio tra due monete ovvero tra una moneta e un paniere di altre monete si è in

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presenza di una indicizzazione di natura valutaria. L’utilizzo di un’unica valuta quale parametro dell’indicizzazione ha avuto nel tempo un riscontro pressoché nullo per l’elevato rischio che ciò comporta in capo al debitore qualora si verificassero notevoli oscillazioni nel tasso di cambio. Viceversa, l’utilizzo di un parametro rappresentato da un paniere di monete è in grado di attenuare il manifestarsi degli effetti di trasmodanti oscillazioni del tasso di cambio di riferimento di qualche valuta inclusa nel paniere.Si possono avere anche dei parametri misti quando la variabilità dei tassi e/o del prezzo di rimborso è determinata dall’operare congiunto di più parametri. La ragione del ricorso ad una tale formula di indicizzazione va essenzial-mente individuata nel principio della diversificazione del rischio, cioè nella volontà di limitare l’alea conseguente al riferimento ad un unico indicatore che potrebbe risultare eccessivamente gravoso per il debitore. Ad esempio, la variazione del tasso nominale e/o del prezzo di rimborso potrebbe dipendere per il 50% dal rendimento dei bot a 1 anno (indicizzazione monetaria) e per il 50% dal rapporto di cambio euro/sterlina (indicizzazione valutaria).

I buoni del tesoro poliennali indicizzati all’inflazione Dopo aver sperimentato senza successo un’unica emissione nei primi anni Ottanta, a distanza di un ventennio il Tesoro italiano è tornato ad offrire, questa volta incontrando il consenso degli investitori, prestiti caratterizzati da parametri di indicizzazione reale. Lo ha fatto dapprima, a partire dal 2003, collocando i buoni del tesoro poliennali legati all’inflazione europea (btp€i) e successivamente, da inizio 2012, offrendo i buoni del tesoro poliennali legati all’inflazione italiana (btp Italia).

I buoni del tesoro poliennali indicizzati all’inflazione dell’area dell’euro (btp€i)I buoni del tesoro indicizzati all’inflazione europea (btp€i) sono titoli che garantiscono un flusso periodico annuo pagabile semestralmente, composto da una parte fissa (il tasso di interesse “reale”) e da una parte variabile diretta a permettere il recupero dell’inflazione maturata nel corso della loro vita (per questo definita “premio per l’inflazione”) attraverso un particolare meccanismo di variabilità della cedola e del prezzo di rimborso. I btp€i hanno durate di 5, 10, 15 e 30 anni, e sono emessi solitamente sotto la pari. La cedola “reale”, pari alla metà del tasso di interesse “reale”, viene rivalutata a cadenza semestrale moltipli-cando il suo valore per il coefficiente di indicizzazione; tale coefficiente è pari al rapporto tra il valore dell’In-dice Eurostat dell’inflazione europea al momento del ricalcolo della cedola e il medesimo indice al momento dell’emissione. Qualora tra un semestre e l’altro il coefficiente di indicizzazione evidenzi un incremento, la cedola in pagamento risulterà superiore al suo valore “reale”; qualora invece si evidenzi un arretramento, la cedola in pagamento risulterà inferiore alla cedola “reale”.Alla scadenza, anche il prezzo di rimborso viene ricalcolato moltiplicando il valore nominale del titolo per il coef-ficiente di indicizzazione, determinato rapportando l’indice di riferimento dell’inflazione europea all’epoca della scadenza del titolo all’indice di riferimento relativo all’epoca dell’emissione; al contrario di quanto previsto per il ricalcalo delle cedole, qualora il coefficiente di indicizzazione finale risulti inferiore a quello iniziale, il prezzo di rimborso non potrà scendere al di sotto del valore nominale.

I buoni poliennali del tesoro indicizzati all’inflazione italiana (btp Italia)I buoni del tesoro indicizzati all’inflazione italiana (btp Italia) garantiscono un flusso periodico annuo pagabile semestralmente, composto da una parte fissa (il tasso di interesse “reale”) e da una parte variabile, diretta a per-

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5 mettere il recupero dell’inflazione maturata di semestre in semestre (per questo definita “premio per l’inflazione”), attraverso uno specifico meccanismo di variabilità della cedola e di rivaluta-zione del valore nominale. I btp Italia hanno durata di 4 anni, sono emessi e rimborsati alla pari; per coloro che li sotto-scrivono e li detengono ininterrottamente sino alla scadenza è stabilito un “premio di rimborso” pari allo 0,4% del valore nominale. La cedola “reale”, pari alla metà del tasso di interesse “reale”, viene rivalutata a cadenza seme-strale moltiplicando il suo valore per il capitale nominale rivalutato al momento del pagamento della cedola; quest’ultimo viene calcolato moltiplicando il capitale nominale per il coefficiente di indicizzazione; tale coefficiente è pari al rapporto dell’Indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, osservato in ciascuna epoca di messa in pagamento degli interessi, e il valore del medesimo indice relativo al semestre precedente. Qualora tra un semestre e l’altro il coefficiente di indicizzazione evidenzi un incremento, la cedola in pagamento risulterà superiore al suo valore “reale”; qualora il coefficiente di indicizzazione risulti inferiore all’unità (accade quando si sia verificata una riduzione dei prezzi su base semestrale), si assume che l’indice dei prezzi non sia variato, di conseguenza il coefficiente di indicizzazione diviene pari a 1 e quindi viene messo in pagamento la sola parte “reale” della cedola (in altri termini, in tal caso opera un tasso minimo garantito). Con la stessa cadenza di erogazione della cedola viene calcolata e messa in pagamento la quota di rivalutazione del capitale nominale maturata nel semestre, pari all’incremento del coefficiente di indicizzazione, purché positivo. Qualora il coefficiente di indicizzazione risulti inferiore all’unità (nel caso si sia verificata una riduzione dei prezzi su base semestrale) non viene corrisposta alcuna rivalutazione (né d’altra parte viene intaccato il valore del capitale, operando così un meccanismo di salvaguardia del valore nominale). Data la caratteristica di consentire al detentore il recupero della perdita del potere di acquisto, realizzatasi ogni semestre attraverso la messa in pagamento, oltre che della cedola rivalutata, anche della rivalutazione semestrale del capitale sottoscritto, i btp Italia sono considerati dal Tesoro titoli idonei a fornire protezione contro l’aumento del livello dei prezzi italiani e per questo particolarmente adatti agli investitori retail.

Traccia per l’attività in classeQuale attività da svolgere in classe si potrebbe chiedere agli studenti, con l’aiuto dei docenti, di ricostruire il livello del tasso di inflazione negli ultimi 20 anni in Italia e nei principali Paesi industrializzati e porli a confronto tra di loro. In tal caso si possono utilizzare le serie statistiche disponibili nelle Relazioni annuali e nei Bollettini statistici della Banca d’Italia, operando una loro ricostruzione, ovvero utilizzare altre fonti di dati facilmente reperibili in Internet.Analogamente si potrebbe chiedere di verificare quali erano negli stessi periodi i livelli dei tassi di interesse dei titoli di stato nei vari Paesi e verificare lo scostamento tra livello del tasso di infla-zione e livello dei tassi di interesse sui titoli di stato.

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FAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. Perché si può avere inflazione?Si ha inflazione in quanto i prezzi dei beni e dei servizi non sono stabili nel tempo, ma tendono ad aumentare. Tale aumento dei prezzi può essere determinato da almeno due cause principali: in primo luogo, da un aumento della domanda dei beni e dei servizi, che è tipica di una economia in crescita (inflazione da domanda), in secondo luogo, dall’aumento dei costi per produrre un bene o un servizio offerto (inflazione da costo).

2. Cosa si può fare per salvaguardare il potere d’acquisto del denaro?L’indicizzazione di per sé non è sinonimo di salvaguardia del potere d’acquisto e quindi di tutela delle somme investite in un strumento finanziario indicizzato: infatti, occorre verificare quale sia il parametro di riferimento adottato. Se il parametro è di tipo “reale” (ed è riferito, ad esempio, ad un indice di prezzi che approssima l’evoluzione attesa del tasso di inflazione), il rischio è molto contenuto in quanto la cedola e/o il prezzo di rimborso dello strumento finanziario si rivalutano o si svalutano in relazione all’andamento del costo della vita. Se, invece, il parametro è di altra natura (ad esempio, finanziario o valutario) gli impatti sul valore delle cedole e del prezzo di rimborso sono difficilmente valutabili a priori e sicuramente determinano rivalutazioni o svalutazioni che possono svantaggiare, così come avvantaggiare, l’investitore: tale incertezza sicuramente costituisce un rilevante fattore di rischio dell’investimento.

3. Uno strumento finanziario indicizzato presenta un livello di rischio contenuto?Si può investire il denaro in attività o strumenti finanziari che assicurano un rendimento quanto meno uguale (o superiore) alla perdita di potere d’acquisto causata dall’inflazione. Ovviamente la scelta dell’attività o dello strumento finanziario in cui effettuare l’investimento deve essere tale da garantire il rimborso all’investitore delle somme prestate: i titoli di stato sono strumenti finanziari per i quali è pressoché certo il rimborso alla scadenza pattuita delle somme prestate.

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Test FINALE1. Se il parametro di riferimento in una obbligazione indicizzata è rappresentato dal rappor-to tra l’euro e il dollaro, si dice che l’indicizzazione èa. realeb. mista c. finanziariad. valutaria

2. Per tutelare il potere d’acquisto di una somma di denaro di cui si dispone convienea. investire la somma di denaro in titoli azionarib. investire la somma di denaro in obbligazioni indicizzate al tasso di inflazionec. investire la somma di denaro in strumenti derivatid. non fare nulla

3. L’inflazione è un fenomeno economico che determinaa. un aumento dei prezzi di beni e servizib. una riduzione dei prezzi di beni e servizic. una riduzione del costo della vitad. un aumento del potere d’acquisto

4. Quale dei seguenti strumenti finanziari è dotato di indicizzazione “reale”?a. botb. azione ordinariac. btp Itliad. btp

5. Il livello dell’inflazione tende ad essere più elevato nelle economiea. in crescitab. in stagnazionec. in recessioned. in forte recessione

Soluzioni : 1d. - 2b. - 3a. - 4c. -5a.Infla

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Strumenti di pagamento tradizionali e moneta elettronicadi Elide Sorrenti

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ROMA - «No, biglietti da 500 non gliene possiamo dare più. Ne prendiamo 20-30 al giorno e finiscono subito. Poi ci sono tagli più piccoli». Conversazione (autentica) tra un direttore di banca e un grosso cliente. I tagli da 500 euro? «Introvabili». Nessuno lo dice ufficialmente ma è forte il sospetto che cambiare i soldi in pezzi grossi serva a facilitare l’uscita di capitali dall’Italia. Quella da 500 è una banconota che non esiste per i comuni mortali. Quanti sono i normali pagatori che vanno dal tabaccaio con un biglietto rosa e viola? Giusto Totò ne «La banda degli onesti» che comprò un toscano con il suo ultimo 10 mila lire. E lo sanno anche i falsari, tanto che non si azzardano a perderci tempo, solo lo 0,04% dei pezzi è risultato falso ai controlli, contro il 6,3% di quelli da 200. Questo perché un milione di euro in carte da 500 pesa 1,6 chili, in biglietti da 100 pesa 10 chili; 12 mila pezzi, 6 milioni di euro, entrano facilmente in una borsa per computer e 10 mila euro entrano facilmente in una borraccia da ciclisti, come dimostrano le cronache delle «scalate» al Titano degli spalloni cicloturisti della Romagna. Sono introvabili anche perché i quattro quinti delle banconote da 500 nel nostro Paese circolano in aree ben circoscritte: secondo un rapporto della Fondazione Icsa e della Guardia di Finanza, i Paesi a ridosso del confine italo-svizzero, la provincia di Forlì (che confina con San Marino) e il Triveneto, ovvero le piste di decollo, e di atterraggio, dei capitali dal nostro territorio. Nel rapporto annuale dell’Unità finanziaria della Banca D’Italia, pubblicato a maggio, si fa espli-cito riferimento «all’utilizzo delle banconote da 500 euro come potenziale strumento di riciclag-gio». Nell’area della moneta unica il numero delle banconote da massimo taglio è cresciuto dai 167 milioni (per un totale di 83 miliardi) del 2002 a 600 milioni (300 miliardi), e rappresentano (dati al dicembre 2011) il 34,57% del valore in circolazione. In Italia c’è stata, prosegue la Uif, «un’inversione di tendenza rispetto all’andamento dell’eurozona» negli ultimi mesi del 2009 e nel corso del 2010 e del 2011: «La diminuzione della fornitura di banconote di grosso taglio nel sistema italiano costituisce un dato positivo che s’inserisce nel quadro delle iniziative e degli

12 Agosto 2012

Il numero delle banconote di massimo taglio è cresciuto, in Italia invece è in calo

I BIGLIETTI DA 500 EURO DIVENTANO QUASI INTROVABILI: SOSPETTI E CONTROLLII falsari non ci perdono tempo: solo lo 0,04% dei pezzi è risultato falso alle verifiche, contro il 6,3 dei tagli da 200di Melania Di Giacomo

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strumenti volti alla prevenzione delle attività di riciclaggio». Tuttavia, nel nostro Paese «non può cessare l’allarme in merito all’eventuale utilizzo di banconote da 500 euro nelle transazioni illegali, né sul loro peso nell’ammontare di liquidità detenuta a scopo di riserva di valore di capitali illecitamente costituiti». È anche per questo che da più parti arriva la richiesta di limitare la diffusione dei grossi calibri. Seguendo l’esempio di Paesi che l’hanno fatto da tempo. Negli Stati Uniti, per esempio le banconote sopra i 100 dollari sono state ritirate dal mercato nel 1969. In Giappo-ne il taglio più grosso si ferma 10 mila yen (104 euro). In Gran Bretagna, addirittura, non si va oltre le 50 sterline (63 euro) ed è stato proibito a banche e cambiavalute di rivendere al pubblico le banconote da 500 euro, proprio perché un rapporto di un’agenzia di sicurezza aveva segnalato il rischio che si trattasse di denaro da ripulire. C’è solo una moneta, tra le grandi valute occidentali, a superare il taglio da 500 euro: quella svizzera, pure lei di color violetto, da mille franchi (832 euro).

La truffa con carte di credito e prepagate corre sempre più sul web: soprattutto se si compra sui siti all’estero. Mentre le frodi più classiche - dalle contraffazioni della carta al furto del codice – sono sempre più in calo nel nostro Paese, tanto che l’Italia si può considerare ormai trai Paesi in Europa dove è più sicuro comprare con la moneta elettroni-ca. Il campanello d’allarme sugli imbrogli online arriva dagli ultimissimi dati del Dipartimento del Tesoro diffuso nei giorni scorsi nella sua consueta e voluminosa indagine («Rapporto statistico sulle frodi con le carte di pagamento»). Indagine che nel 2011 ha registrato 284.339 «transazioni non riconosciute» per un valore di quasi 52 milioni di euro contro le 319.818 registrate nel 2010 per circa 6o milioni di euro di valore. Cifre importanti ma che risultano essere molto al di sotto dei valori riscontrati in altri Paesi europei. Tanto che il nostro tasso di frode risulta molto più basso: 0,0196% rispetto, a esempio, allo 0,061% dell’Inghilterra e lo 0,061% della Francia. Anche rispetto al numero delle transazioni il fenomeno risulta in calo: la frequenza di operazioni non riconosciute nel 2011 sul totale delle transazioni effettuate infatti è pari allo 0,0121%, circa il 14% in meno sul 2010.Per quanto riguarda i canali utilizzati per le frodi con carte è il web quello a crescere più di tutti.

7 Agosto 2012

CARTE DI CREDITO, ITALIA VIRTUOSAdi Marzio Bartoloni e Marco Mobili

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In un anno le transazioni non riconosciute con l’utilizzo «fraudolento della carta in internet» sono praticamente raddoppiate in valore e cresciute del 52% per numero.Diventando così la seconda causa di frodi (con il 25% per valore frodato) dopo la contraffazione delle tesserine che resta ancora il pericolo numero uno (50%), anche se in netto calo rispetto al 2010 (-24 per cento). Negli altri Paesi invece, dove i pagamenti online su Internet sono più dif-fusi, la modalità di frode più comune è invece collegata al web. L’allarme suona soprattutto per le transazioni con l’estero dove il fenomeno cresce di più: a finire più facilmente nella rete delle truffe sono soprattutto i cyber utenti che frequentano siti esteri di gioco (dal poker alla roulette) e scommesse online. Qui il rischio di imbattersi in una frode è alto tanto che si registra in un anno un vero e proprio boom che per le scommesse si è fatto sentire soprattutto sui siti inglesi anche se il fenomeno sembra - avvertono nel rapporto del Tesoro - «parzialmente rientrato nella fase finale dell’anno». Il rapporto permette anche di fare il punto sull’utilizzo dei sistemi di pagamento diversi dal contante in Italia e nei Paesi dell’area euro. Dal confronto, trova conferma che l’amore degli italiani per il contante è ancora forte: nel 2011 hanno effettuato mediamente 20 bonifici contro i 49 dei paesi area euro 2010, e 28,3 operazioni con carte di pagamento, contro le 65,6 (addirittura 70,2 se si considera l’Europa a 27). Anche sul fronte assegni, l’italiano arriva ad emetterne 4,85 l’anno contro gli 11, 7 degli altri cittadini europei.Da registrare anche il ricorso degli italiani ai prelievi bancomat. Dalle analisi della Banca d’Ita-lia, si legge nel rapporto del Tesoro, emerge che nel 2011 è aumentato il numero dei prelievi da Atm bancari e postali (0,9 %) e il relativo importo medio è salito a 181 euro per operazione, una somma ben superiore alla media europea (125 euro nell’area euro e 109 euro nella Ue). Il numero di operazioni su Pos è aumentato del 2,5% e il relativo importo medio è salito a 77 euro. Su fronte delle frodi e delle manomissioni degli sportelli Atm, l’Italia fa registrare una di-minuzione. A livello annuale, sottolinea il Tesoro, il fenomeno, letto in termini assoluti, ha subito una contrazione significativa (-34%). Una contrazione legata a doppio filo al netto calo che ha subito la tipologia di manomissione maggiormente utilizzata sui Bancomat, ovvero l’inserimento di skimmer. In termini assoluti gli skimmer sono passati dal 61,3 a 17,6 del secondo semestre 2011. Per la cattura del codice Pin dei bancomat la telecamera resta lo strumento principale con il 55% delle frodi, seguita dalla sovrapposizione delle tastiere con il 40% delle violazioni riscon-trate. C’è anche chi tenta di capire i codici con foto a distanza, ma sono solo l’1% delle frodi.

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284.339Transazioni non riconosciute

Numero totale delle operazioni fraudolente con carte di credito effettuate nel 2011

52 milioniValore delle frodi

Il controvalore delle operazioni fraudolente nel 2011 è in calo: nel 2010 era stato di circa 60 milioni di euro

0,0196%Tasso di frode

In Italia questo valore è comunque molto inferiore rispetto a quello riscontrato in Inghilterra o in Francia

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Marche

LA SPESA DEGLI ITALIANI CON CARTA DI CREDITODinamica dei comportamenti di spesa per regione

Primo semestre 2012

Il trend settoriale

Sicilia

TelecomunicazioniServizi ConsumerViaggi e trasportiInformatica, benie servizi profess.Cash AdvanceAlimentariAlberghi e RistorantiBeni per la casaDettaglio non alimentareAbbigliamento e calzature

Andamento della spesa per settore.Variazione%

Fonte: Osservatorio acquisti Cartasì - primo semestre 2012

Sardegna

Calabria

Campania

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Toscana

Liguria

PiemonteEmilia Romagna

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Abruzzo

Lombardia

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+10,5%+9,5%

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+5,6%+4,2%+1,1%-2,9%-3,3%

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Tot. settori

NORD EST

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+1,9%CENTRO

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+2,6%

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+7,5%

MoliseUmbria

+3,0%

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Appunti

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Chiavi di lettura dell’articolo

Gli strumenti di pagamento presenti sul mercatoI diversi strumenti di pagamento presenti sul mercato possono essere distinti in due grandi aggregati:

a. gli strumenti di pagamento tradizionali costituiti dal contante e dai mezzi sostitutivi del contante;

b. la moneta elettronica.

Il contanteIl contante è composto da banconote e da monete euro, che costituiscono la moneta legale con potere liberatorio illimitato; in altri termini, la moneta a corso legale ha il potere di estingue-re qualsiasi tipo di obbligazione e il creditore non può, salvo patto contrario, pretendere il pagamento dovuto con moneta diversa da quella legale. Il potere liberatorio illimitato delle monete ha un unico limite: nessuno è obbligato ad accettare più di 50 monete metalliche in un singolo pagamento.L’euro ha corso legale in Italia e in quei Paesi dell’Unione Europea che hanno deciso di assumer-la come moneta comune e che insieme costituiscono l’Eurozona. La Banca D’Italia ha il compito di emettere le banconote e le monete in euro in base ai princìpi e alle regole fissate nell’Eurosistema. Produce le quantità ad essa assegnate e contribuisce alla determinazione dei quantitativi da produrre, alla definizione di indirizzi comuni in merito alla qualità della circolazione, al ritiro e alla sostituzione delle banconote logore e all’azione di con-trasto alla contraffazione.

Le banconote euroLe banconote euro a corso legale nell’intera Eurozona sono di sette tagli: € 5, € 10, € 20, € 50, € 100, € 200, € 500. Le banconote sono state disegnate da Robert Kalina della Oesterrei-chische Nationalbank che vinse il concorso europeo nel 1996. Hanno colori diversi a seconda del valore che esprimono. Il disegno di ogni banconota per ciascun taglio si ispira a uno stile architettonico europeo, che va dal classico, romanico, gotico fino al moderno del XX secolo; le finestre ed i portali ivi disegnati rappresentano lo spirito di apertura e di cooperazione tra i Paesi europei e quelli del resto del mondo. È possibile controllarne l’autenticità con diversi accorgimenti:1. percepire al tatto le parti in rilievo, prodotte da una particolare tecnica di stampa;2. guardare la banconota in controluce in modo da vedere la filigrana che riproduce la figura stampata sul fronte della banconota, come pure il suo valore ed il filo di sicurezza; 3. muovere la banconota per vedere l’immagine cangiante dell’ologramma.

Le monete euroSi tratta di una serie di monete di otto tagli con i valori facciali di centesimi di euro pari a 1, 2, 5, 10, 20 e 50, e di 1 e 2 euro. Le otto monete sono differenti per dimensioni, peso, materiali,

di Elide Sorrenti

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spessore e colore in modo da facilitarne il riconoscimento da parte di persone ipo- o non vedenti. Un’altra loro caratte-ristica è quella di avere una faccia comune europea ed una nazionale, scelta liberamente da ogni singolo Stato con l’unico obbligo di rappresentare le 12 stelle dell’Unione Europea. Le monete sono coniate in Italia dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato per conto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che le distribuisce sul territorio nazionale, avvalendosi delle Filiali della Banca D’Italia.

La moneta bancariaSi parla di moneta bancaria quando i pagamenti vengono effettuati attraverso l’organizzazione del sistema banca-rio, che consente al pubblico di effettuare pagamenti senza utilizzare il contante. Il conto corrente e la tecnologia informatica sono gli strumenti che rendono possibile questa sostituzione. Il conto corrente svolge la funzione di gestire la liquidità del cliente; il suo ammontare varia nel corso del tempo col susseguirsi dei movimenti di accredito e di addebito. Vengono annotati sul conto corrente il dare, ossia i pagamenti dovuti, e l’avere, ossia le somme ricevute. In questo modo non è necessario lo scambio materiale del denaro e, con l’introduzione delle tecnologie informatiche, i file elettronici registrano migliaia di queste annotazioni con grande velocità e sicurezza.Gli assegni, i bonifici, gli addebiti pre-autorizzati, le carte di pagamento sono esempi di moneta bancaria, il cui uso è normalmente legato ad un conto corrente. Un’altra funzione delle banche è quella di raccogliere i risparmi delle famiglie e delle imprese tramite l’operazione di deposito. Una parte dei depositi viene normalmente impiegata per concedere crediti per un ammontare che viene deciso in base a stime prudenziali, in modo che la banca sia sempre in condizione di soddisfare le richieste di rimborso da parte dei clienti. Anche questa operazione mette in circolazione moneta bancaria.

L’assegno bancarioÈ un ordine di pagamento scritto su un particolare documento formale, l’assegno, con il quale il cliente ordina alla sua banca di versare una somma determinata ad un dato soggetto (beneficiario), che potrà riscuotere direttamente la somma oppure girare l’assegno alla sua banca, per accreditarne la somma sul conto corrente oppure girarlo ad un’altra persona per estinguere un debito. Quest’ultima, a sua volta, può girarlo ad altri e così via. Quindi, attraverso successive girate, l’assegno può estinguere i debiti dei diversi beneficiari, senza l’uso del contante, a condizione però che, al momento dell’emissione, sia coperto dalla somma presente sul conto corrente di chi lo emette.L’assegno deve avere certe caratteristiche formali in quanto incorpora il diritto a ricevere una somma di denaro, che deve essere indicata sia in cifre, sia in lettere, e sottoscritta dalla firma autentica dell’emittente, che viene verificata dalla banca al momento della presentazione per la riscossione. Sia la firma falsificata, sia lo scoperto sul conto danno luogo a pesanti penalità amministrative e penali.

Il bonificoIl bonifico è un ordine rivolto alla banca di trasferire una data somma di denaro dal proprio conto corrente a quello di un altro soggetto (beneficiario), cui è destinata la somma a titolo di pagamento o di donazione. Questo ordine può essere impartito allo sportello della banca, compilando un apposito documento, o utilizzando il Bancomat, oppure tramite computer, se il proprio conto corrente è accessibile da Internet. Per effettuare il bonifico è necessario indicare la somma, il beneficiario e le sue coordinate bancarie (IBAN) che ne identificano il conto corrente.

L’addebito pre-autorizzato o RID (Rapporto Interbancario Diretto)Si tratta di un servizio con cui la banca effettua pagamenti periodici in maniera automatica per conto del titolare di

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un conto corrente. Riguarda il pagamento di bollette a fronte di servizi, quali il telefono, l’energia elettrica, il gas oppure altri impegni a scadenze prefissate. Il cliente autorizza la sua banca a ricevere le bollette inviate dalle società emittenti e a saldarle prelevandone l’importo dal proprio conto corrente.

La moneta elettronicaCon il termine moneta elettronica si intende: «Valori monetari a spendibilità generalizzata caricati su un dispositivo elettronico che vengono automaticamente diminuiti nel momento dell’esecuzione dei pagamenti e che non richiedono necessariamente l’utilizzo di un conto corrente. Si distin-guono due forme di moneta elettronica: la prima consiste nel caricamento di valori su una carta a microcircuito (borsellino elettronico – card money); la seconda prevede il caricamento di valori sull’hard disk di un computer che possono essere trasferiti attraverso reti telematiche come Internet (network o software money)». Questa definizione si trova sul glossario di alcuni termini usati nella Relazione Annuale sul 1999 del 31 maggio 2000 del Governatore della Banca D’Italia.Le carte di pagamento sono tessere elettroniche plastificate che consentono di effettuare paga-menti senza utilizzare il contante. Si adoperano sia per acquistare beni o servizi nei negozi o in altre sedi, sia per fare acquisti su Internet. Ve ne sono di diversi tipi: la carta di debito, la carta di credito e la carta prepagata. La carta di debito è una tessera plastificata con la quale il suo titolare può effettuare pagamenti, senza utilizzare il contante, nei negozi convenzionati tramite il terminale POS, e prelevare dena-ro presso gli sportelli ATM, sia in Italia sia in Paesi esteri. L’accordo contrattuale con l’emittente collega ogni carta al conto corrente del suo titolare. L’addebito avviene contestualmente ad ogni transazione e l’importo della vendita viene accreditato automaticamente sul conto corrente del venditore e addebitato su quello del compratore.La carta di credito è anch’essa una tessera plastificata, che però non sostituisce il denaro come la carta di debito, ma attribuisce ad un cliente crediti in varie forme, quali finanziamenti, dilazioni di pagamento o altre facilitazioni, concessi da una banca o da un altro intermediario finanziario. Il titolare può acquistare beni e servizi entro un importo massimo prestabilito. L’addebito comples-sivo viene effettuato nel suo conto corrente senza alcun carico di interessi il mese successivo a quello in cui si sono fatti gli acquisti. Una variante della carta di credito è la carta revolving, che prevede, come la precedente, l’apertura di una linea di credito a disposizione del titolare. La differenza sta nel fatto che il titolare della carta ha l’obbligo di rimborsare a rate, con scadenza mensile, gli importi utilizzati, ripristinando gradual-mente la sua linea di credito e pagando gli interessi.La carta prepagata si può ottenere da un conto corrente oppure acquistare versando l’importo in banca, alle Poste o presso diversi esercizi commerciali; in questi ultimi casi vi è un costo ag-giuntivo. La somma pagata costituisce la carica della carta. La carta prepagata a spendibilità generalizzata consente di spendere la somma nei negozi, on line o per fare altri pagamenti, oppure di prelevare banconote. Vi sono oggi anche le carte-conto che funzionano come un conto: dispongono di un codice IBAN e consentono anche di fare e ricevere pagamenti verso e da altri (es. pagamenti utenze, bonifici).St

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Conti di pagamentoSono stati introdotti da una Direttiva della Commissione europea (Payment Services Directive) allo scopo di facilitare la creazione di un mercato unico europeo dei servizi di pagamento per favorire l’eliminazione dell’uso del contante.I soggetti abilitati a queste operazioni sono gli “istituti di pagamento” detti anche “quasi banche”, che sono, in ge-nere, aziende con grandi bacini di utenza, quali catene di grandi supermercati, grandi utilities, operatori telefonici o società di distribuzione di carburanti, ecc. Questi soggetti potranno svolgere, accanto alla loro normale attività commerciale, ma con una contabilità separata, tutti i servizi di pagamento e concedere crediti nei limiti fissati dalla Banca D’Italia per operazioni riguardanti gli acquisti nel proprio settore di competenza. È però loro vietata la rac-colta del risparmio. Devono essere iscritti in un apposito elenco e sono sottoposti al controllo della Vigilanza della Banca D’Italia. Il loro capitale può variare da € 20.000 a € 125.000 a seconda dei diversi servizi di pagamento che intendono praticare.Il conto di pagamento si costituisce con un conto “prepagato” che in seguito potrà essere alimentato da contante, ac-credito di stipendi, rimesse di denaro da altri Paesi o da spostamento di fondi da altri conti correnti o carte. Consente la completa automazione dei pagamenti, gli sconti immediatamente monetizzabili, i finanziamenti a breve termine e l’eliminazione del contante. I vantaggi per il consumatore sono minori costi e maggiore rapidità di esecuzione. È possibile effettuare pagamenti senza inserire la carta o digitare il Pin (contactless), oppure usando il cellulare.

Nuovi sviluppi della tecnologia informaticaL’evoluzione veloce della tecnologia informatica ha immesso sui mercati nuovi prodotti elettronici. In Itala c’è stata una forte espansione, nella seconda metà del 2011, specie nel settore degli apparati mobili, dando un grande impulso al segmento della telefonia. Infatti questo comparto si è posto in testa alle classi di spesa più dinamiche con un incremento del 15,4% nei primi sei mesi di quest’anno.I nuovi sistemi operativi mobili, come i tablet, gli iPhone, gli iPad ed altri, sono dotati di applicazioni che consentono di effettuare molti tipi di operazioni ed instaurare collegamenti senza bisogno del computer fisso. Ne consegue la possibi-lità, in qualunque luogo uno si trovi, di ottenere o dare informazioni relative ad una molteplicità di ambiti, per esempio: conoscere la disponibilità o meno di posti auto nei garage, fare prenotazione nei ristoranti, consultare gli orari ferroviari o i listini di borsa, stipulare contratti, effettuare pagamenti, fare fotografie, guardare dei video ed altro ancora. Tutto questo spiega il successo presso il pubblico di questi strumenti più facili e comodi nell’uso e che consentono di prendere decisioni in modo informato senza perdite di tempo.È chiaro che si tratta di un’altra rivoluzione nell’ambito della tecnologia informatica. La configurazione del mercato di questi nuovi dispositivi è in movimento. Infatti la domanda è elevata perché questi prodotti sono di facile uso e consentono la stessa libertà che ha determinato, a suo tempo, il successo dei telefonini. Anche sul lato dell’offerta sono in atto grandi modifiche: i produttori stanno differenziando questi mobile device, con-tribuendo ad ampliarne la gamma e a mettere in attivo un vivace processo concorrenziale. Nel contempo, però, stanno sorgendo anche importanti conflitti tra i colossi che dominano il mercato. Il problema è quello di tutelare l’innovazione dalle copie e dalla concorrenza sleale. Un esempio in proposito è la recente vittoria legale di Apple nei confronti di Samsung, che un tribunale USA ha condannato, in prima istanza, al pagamento di 1,05 miliardi di dollari. Questa società è stata ritenuta colpevole di aver immesso sul mercato otto prodotti che sfruttavano tecnologie complesse ed avanzate, che prima non esistevano, e forme registrate di design, create da Apple. Ne è conseguito un grosso contraccolpo in Borsa; Samsung in una sola giornata ha perso 12 miliardi di dollari di

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capitalizzazione. Da ultima, ma non meno importante, è presente la tendenza in atto a sostituire il denaro con uno strumento più famigliare e più amato: il telefonino. Un microchip integrato nello smartphone crea una connettività wireless bidirezionale a corto raggio. SI accostano il telefonino ed il computer che si scambiano informazioni: il computer comunica la somma ed il telefonino paga.Sembra sia provato che i consumatori preferiscano spendere più facilmente on line usando lo smartphone che stando seduti davanti al computer; gli psicologi sostengono che il telefonino è percepito come un oggetto più personale. Secondo un sondaggio di “Time” solo il 13% delle persone lo lascia in una stanza diversa da quella in cui dorme.La maggioranza dei negozi non ha ancora adottato la tecnologia necessaria, ma lo hanno già fatto i giganti della distribuzione come Wall Mart e Target in America. In Francia, Pay Pal, pioniere dei pagamenti in rete, sta sperimentando la spesa via smartphone con il sistema Mobil Payment nei ristoranti Mac Donald.Una ricerca della Gartner stima che le transazioni via cellulare nel mondo saranno pari a 172 miliardi di dollari nel 2012 e prevede che la cifra arrivi a 600 miliardi nel 2016. Si passa il telefonino su un lettore simile a quello usato per le carte, senza più la necessità di compilare il pin. Così lo scambio diventa un affare tra smartphone, tra due oggetti, e non occorre che il cliente ed il negoziante scambino una parola. Anche gli eventuali sconti per l’acquisto vengono comunicati direttamente per telefono. Secondo il “Time” in prospettiva potrebbero sparire anche i commessi.

ConclusioniCon questa ulteriore innovazione, si smaterializzano non solo il denaro, ma anche gli atti di scambio. La velocità si paga con la virtualità pura.Come si evolveranno i consumi? È difficile prevedere. La maggiore comodità, velocità e sicurez-za dei pagamenti non è detto che sempre faciliti gli acquisti. È necessario anche tener presente l’economia reale e che l’ammontare del reddito a disposizione delle famiglie rimane il vincolo più significativo. Se questo si riduce a causa di crisi economiche, di processi inflazionistici o di altri eventi, i pagamenti tramite moneta elettronica possono anche aumentare nel numero, ma con un calo degli importi dei singoli atti di acquisto come risulta dai dati dell’Osservatorio Acquisti Cartasi per i primi sei mesi del 2012.Questi nuovi strumenti di pagamento hanno interfacce semplici per l’uso, ma sono sofisticati nell’ide-azione dei componenti, e sono rivolti a rendere più veloci e facili gli scambi e le comunicazioni. Sono inoltre concepiti per avere cicli di vita breve e questo crea aspettative di continue innovazioni. In merito alle conseguenza di queste innovazioni sugli atteggiamenti e sulle risposte da parte dei consumatori, in primo luogo è da considerare, come già indicato in precedenza, la riluttanza del pubblico italiano ad abbandonare l’uso del contante. Si tratta evidentemente di un fatto culturale che riguarda in prevalenza persone meno giovani, i cosiddetti immigrati digitali, che hanno diffi-coltà ad accedere ai servizi informatici in generale e non solo per effettuare pagamenti. Un’altra considerazione potrebbe essere il fatto che, adottando la moneta elettronica, si perde il contatto fisico con il denaro, che si smaterializza, ed il suo controllo richiede altri tipi di operazioni. Inol-tre vi è molta diffidenza per via delle frodi e delle contraffazioni di cui abbiamo parlato sopra.

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Traccia per l’attività in classeLe tematiche relative alla moneta tradizionale e a quella elettronica offrono numerosi spunti di collegamento con altre discipline, quali la storia, la linguistica, la tecnica, la matematica, il diritto, la statistica.

Compiti per il docenteStabilire come obiettivi:a. far acquisire agli alunni la conoscenza delle diverse tipologie dei mezzi di pagamento a disposizione del pub-blico;b. farne individuare i vantaggi ed i pericoli riguardo a possibili forme di contraffazione e di frodi;c. far conoscere gli istituti cui ricorrere in caso di falsificazioni o altre forme di illegalità;d. far effettuare ricerche per verificare se e in quale misura i differenti mezzi di pagamento influiscono sull’ andamento dei consumi.

Risultati attesia. Essere in grado di valutare e prospettare i mutamenti che la concorrenza produce nel mercato dell’informatica. b. Acquisire una visione d’insieme della complessità del sistema monetario e finanziario nel contesto europeo ed internazionale.c. Valutare, sulla base dei dati forniti dalle agenzie, gli atteggiamenti e le probabili scelte in materia dei consumi da parte del pubblico a seconda dell’età e delle competenze nell’uso dei diversi strumenti di pagamento.d. Comunicare in modo pertinente ed esaustivo gli esiti delle ricerche.e. Dimostrare di saper lavorare in gruppo sia in presenza sia a distanza tramite computer e/o tablet.f. Valutare il proprio lavoro e la conseguente eventuale acquisizione di conoscenze, abilità e competenze, come pure le lacune e gli ostacoli incontrati.g. Fare progetti e prospettare soluzioni alternative riguardo costi e benefici attraverso simulazioni.

Possibili strategiePossono riguardare la scelta dell’articolo, che non necessariamente deve essere proposto dal docente, ma anche dagli stessi studenti. L’articolo o gli articoli vengono letti individualmente con l’aiuto di una griglia di domande, cui ognuno risponde. Le risposte poi sono condivise e si apre una discussione in modo da far emergere problemi di comprensione o valuta-zione dei contenuti. Una volta identificato il problema si passa alla fase della progettazione della ricerca.A questo punto l’insegnante mette a punto il materiale necessario e organizza i gruppi di lavoro, le fasi ed i tempi della ricerca insieme agli studenti. Da questo momento il suo compito è quello di monitorare il progress delle attività e di alimentarne lo sviluppo con comunicazioni e/o documenti pertinenti. Una volta terminato il lavoro, gli studenti comunicano gli esiti in forma orale sulla base dei documenti elaborati sul computer e/o su materiali cartacei. La comunicazione è il test di verifica in merito alle conoscenze ed abilità acqui-site e alla competenza a risolvere problemi e trovare le soluzioni.

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LA CATENA DELLE PAROLE CHIAVE

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FAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. Che cosa sono gli istituti di pagamento?Sono persone giuridiche, diverse dalle banche e dagli istituti di moneta elettronica, autorizzate a prestare servizi di pagamento. Sono inserite in uno speciale albo e sottoposte alla Vigilanza della Banca D’Italia.

2. In che modo la Banca D’Italia contrasta le contraffazioni delle banconote? La Banca D’Italia coopera con le altre Banche Centrali dell’Eurosistema e con la Banca Centrale Europea nell’azione di contrasto della falsificazione delle banconote. Prende parte attiva nella formazione in materia di riconoscimento delle banconote falsificate rivolta alle Forze di polizia nazionali e di altri Paesi, agli operatori della Pubblica Amministrazione e ai gestori professionali del contante. Per rendere più incisiva l’azione di contraffazione sono stati realizzati in sede europea un sistema informatico di raccolta e monitoraggio dei dati sulle falsificazioni e uno schema organizzativo che vede operare differenti istituzioni in ogni Paese membro.

3. Quali sono le funzioni di ATM o Bancomat? Si tratta di un’apparecchiatura automatica per l’effettuazione da parte della clientela di operazioni bancarie, quali prelievo di contante, versamento di contante o assegni, richiesta di informazioni sul conto, bonifici e pagamento di utenze. Il cliente attiva il terminale introducendo la carta e digitando il codice di identificazione.

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Cultura finanziaria a scuola: per prepararsi a scegliere

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CREDIT CARD

Test FINALE

Soluzioni : 1c. - 2d. - 3c. - 4c. -5c.

1. Una carta di credito prepagata è:a. la sim del telefono cellulareb. la compro in banca e poi gli importi spesi mi vengono richiesti successivamentec. una carta di credito con un importo massimo da spendere versato in precedenzad. una carta per gli acquisti nei centri commerciali

2. Il sistema dei pagamenti è costituito daa. moneta legale e moneta bancariab. sistemi di information tecnologyc. banche, intermediari finanziari e nond. banche, intermediari finanziari e non, e soggetti non finanziari specializzati in prodotti di natura squisi-tamente tecnologica

3. La data di emissione dell’assegno serve pera. indicare il momento della riscossioneb. verificare se l’emittente in quel momento era capace di intendere e di volere c. stabilire se l’assegno è coperto quando è stato emessod. individuare il conto corrente

4. L’Eurosistema è costituito da a. l’insieme delle banche dei Paesi aderenti all’Unione Europeab. le reti telematiche che collegano tutte le Banche Centrali d’Europac. l’insieme dei Paesi che hanno adottato l’euro come moneta comuned. gli organi dell’Unione Europea

5. la carta di debito:a. attribuisce un plafond al titolare entro il quale può spendere liberamenteb. il limite di spesa è illimitatoc. funziona come quella di credito ma le spese vengono addebitate immediatamente sul conto corrente d. le spese effettuate creano un debito verso la banca da pagarsi a rate

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Pillole di finanza pubblica: spesa, tasse, deficit, debito e modalità di finanziamentodi Enrico Castrovilli

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Era il luglio di cinque anni fa quando si avvertirono i primi scricchiolii in alcune banche ameri-cane, francesi e tedesche. Da allora abbiamo vissuto la più forte recessione dagli anni Trenta, la crescita è rallentata, e trovare un lavoro è diventato difficile dovunque. Questa crisi ci ha insegnato alcune verità.

Primo: le crisi finanziarie, soprattutto quelle scatenate da aumenti ingiustificati nei prezzi delle abitazioni producono, quando la bolla poi scoppia, recessioni molto lunghe. Le banche, dopo aver concesso mutui con grande leggerezza, senza chiedersi se il cliente debitore sarebbe stato in grado di sostenere le rate, subiscono perdite ingenti e devono ricapitalizzarsi. Ma a quel pun-to trovare capitali privati non è facile, e se interviene lo Stato, il debito pubblico esplode, come è accaduto in Stati Uniti, Irlanda e Spagna. Così il credito non riprende e l’economia ristagna a lungo. Lo abbiamo imparato dal libro di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria (Il Saggiatore, 2010) lettura consigliata per l’estate. Il titolo è volutamente ironico: questa volta «non» è diverso, la storia è piena di crisi finanziarie seguite da lunghe recessioni. Il Giappone è solo l’esempio più recente: non si è mai davvero ripreso dagli effetti della bolla immobiliare scoppiata nel 1989, e il debito pubblico ha raggiunto il 200 per cento del reddito nazionale. I due grafici illustrano in modo chiaro la durata di queste crisi e il ciclo del credito prima e dopo la crisi.

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L’articolo

27 Luglio 2012

A CHE PUNTO È LA NOTTECinque anni di follie finanziariedi Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

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I valori sulla scalaorizzontale sonogli anni di crisi, lo zero segna l’inizio

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Secondo: occorre abbandonare l’illusione che per riprendere a crescere basti un po’ di spesa pubblica. Per vent’an-ni il Giappone le ha provate tutte: porti, metropolitane, alta velocità: il debito pubblico si è triplicato, ma la crescita non è mai arrivata. E anche il programma fiscale di Obama, se forse ha attenuato la recessione americana, certo non è riuscito a ridurre la disoccupazione e a far ripartire velocemente l’economia. E nel frattempo anche gli Stati Uniti hanno accumulato livelli di debito molto onerosi. Sono ancora Reinhart e Rogoff a mostrare che quando il de-bito pubblico sale oltre certi livelli diventa un macigno che rallenta a lungo la crescita.

Terzo: per risanare il sistema finanziario bisogna separare le banche dalla politica. In entrambe le direzioni: ri-ducendo il potere dei politici sul sistema finanziario e l’influenza dei banchieri sui governi. Non è un caso che la prima banca che cinque anni fa entrò in difficoltà, fosse una cassa di risparmio pubblica tedesca: la IKB Deutsche Industriebank di Düsseldorf. Fallì perché concedeva prestiti a condizioni non di mercato alle imprese amiche dei politici suoi azionisti e per far tornare i conti acquistava mutui immobiliari, apparentemente molto redditizi, in Florida e Nevada, i due Stati in cui la bolla immobiliare americana fu più acuta. Una vicenda analoga a quella delle Cai-xas spagnole: se il governo di Madrid non le avesse protette fino all’ultimo, negando che fossero tutte fallite, forse oggi la Spagna sarebbe in una situazione meno drammatica. Oggi le banche pubbliche tedesche si oppongono con forza al trasferimento dei poteri di vigilanza alla Banca centrale europea: temono occhi indipendenti con cui sarebbe difficile venire a patti. Se l’avessero vinta, l’unione bancaria non vedrebbe la luce e l’euro avrebbe i giorni contati. Ma l’indipendenza deve essere anche nel senso contrario. Nella vicenda del Libor, il tasso interbancario londinese, i rapporti fra la Banca d’Inghilterra e i dirigenti di Barclays sono parsi a volte eccessivamente confiden-ziali. Esercitare moral suasion è il mestiere più difficile di un banchiere centrale, un’arte che richiede discrezione, ma che non deve mai lasciar dubbi sull’indipendenza dell’autorità preposta a vigilare sulle banche. Negli Stati Uniti le riforme proposte dall’ex presidente della Federal Reserve, Paul Volcker, che vietano alle banche commerciali di intraprendere attività speculative, rimangono in gran parte inapplicate, per l’influenza che Wall Street continua a esercitare su Washington. La riforma Dodd-Frank è un complicatissimo pasticcio entro i cui meandri certe pratiche oscure potrebbero continuare.

Quarto: la crisi ha dimostrato la fragilità del progetto europeo. Finché tutto andava bene le fondamenta tenevano. Da quando è scoppiata la crisi, la costruzione traballa pericolosamente. Ma invece di trovare una soluzione, i politici europei non fanno che accusarsi tra loro ritardando gli interventi necessari. È ormai chiaro che l’euro non si salverà con scorciatoie e tappabuchi come gli eurobonds o i fondi salva-Stato. Affidare il salvataggio dell’euro alla speranza che le «formiche del Nord» salvino «le cicale del Sud» socializzando i loro debiti è ingiusto, politicamente impossibile, ma soprattutto non servirebbe a nulla. Un salvataggio senza una maggiore integrazione politico- eco-nomica dell’eurozona avrebbe solo l’effetto di dare alle cicale la possibilità di rimandare riforme già troppo a lungo procrastinate. Dopo di che le tensioni tra Sud e Nord riesploderebbero con più forza. L’euro si salva (se si vuol farlo) con un piano coerente di medio termine di integrazione bancaria, fiscale e politica dell’eurozona. Ciò non significa gli Stati Uniti d’Europa, ma un’architettura coerente che permetta all’unione monetaria di funzionare. Una prima de-cisione, dopo aver affidato la vigilanza bancaria alla Bce, potrebbe essere un primo passo nel trasferimento della sovranità sui propri conti pubblici. Ad esempio si potrebbe decidere (seguendo una proposta che è stata avanzata in Germania) che se un Paese non rispetta gli obiettivi sui conti pubblici, la nuova legge finanziaria che si renderà necessaria (incluse le riforme indispensabili per renderla credibile) non sarà scritta dal governo di quel Paese, ma dalla Commissione di Bruxelles, e non sarà votata dal suo Parlamento, ma dal Parlamento europeo (una proposta che dovrebbe però essere accompagnata da un rafforzamento della credibilità dell’istituzione di Strasburgo). A fronte di una simile decisione la Germania e gli altri Paesi del Nord potrebbero decidere che si è fatto un passo

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sufficientemente irreversibile verso l’unione politica da giustificare interventi atti a garantire che il sistema non esploda prima di raggiungere il traguardo finale. Per esempio concedere una li-cenza bancaria allo European stability mechanism (Esm), cioè consentire che la nuova istituzione europea abbia accesso alla liquidità della Bce, condizione necessaria affinché la quantità di eventuali acquisti di titoli pubblici sia sufficiente a renderli credibili. Oppure creare, sempre attra-verso l’Esm, una garanzia europea sui depositi bancari (analogamente a quanto avvenne negli Stati Uniti durante la Grande depressione) cioè l’impegno, qualunque cosa accada, a rimborsarli in euro. È ciò che Angela Merkel ripete da tempo: siamo pronti a correre dei rischi, ma solo a fronte di progressi concreti nel trasferimento di sovranità.

Quinto: i compiti a casa dobbiamo continuare a farli, non solo quando lo spread sale. Accusare i tedeschi per le mancanze della nostra storia recente è puerile. Gli italiani non si sono ancora ben resi conto di quanto complessi debbano essere questi compiti. Ci si illude se si pensa che basti «ridurre gli sprechi». Serve ben altro: occorre ripensare a quello che il nostro Stato può e non può fare. Bisogna evitare che di servizi pubblici di fatto gratuiti beneficino anche i ricchi, e non solo le famiglie indigenti. Occorre ridurre le tasse che gravano su chi lavora e produce. È molto difficile crescere con un debito pubblico che supera il 100% del Pil e un peso fiscale che per i contribuenti onesti è tra i più alti al mondo. Serve una «rivoluzione » del nostro Stato sociale, non solo ritocchi. La Germania ha iniziato a farlo dieci anni fa, e ora ne trae i benefici.

Sesto: la giustizia sociale va garantita creando il più possibile pari opportunità per tutti. Una delle ragioni dell’incremento della disuguaglianza che ha preceduto la crisi è stata la crescita del pre-mio retributivo per chi ha accumulato capitale umano, cioè ha studiato. L’investimento in formazio-ne ha reso di più e favorito chi poteva permetterselo. Non demonizzare la ricchezza quindi, ma offrire a tutti la possibilità di acquisire gli strumenti necessari. Premiare il merito, punire le rendite di posizione, scardinare i privilegi, rendere il mercato più equo, colpire l’evasione. Seconda lettura per l’estate: Luigi Zingales, A capitalism for the people, New York, Basic Books 2012.

Il tempo sta per scadere. Come scrisse Rudi Dornbusch, uno degli economisti più lucidi del Nove-cento: «Le crisi spesso durano molto più a lungo di quanto si pensi. Ma poi svoltano e si avvitano in un baleno. Ci vogliono dei mesi, ma poi basta una notte».

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Appunti

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Chiavi di lettura dell’articolo

Nell’articolo A che punto è la notte – Cinque anni di follie finanziarie, apparso nella scorsa estate sul “Corriere della Sera”, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi fanno il punto sulla crisi finanziaria mondiale degli ultimi cinque anni, analizzando se la finanza pubblica, vale a dire debito pubblico, spese pubbliche e tasse, possano essere una causa oppure una soluzione della crisi. Gli autori dell’articolo concludono il loro articolo con un messaggio di speranza, riprendendo un’affermazione di Rudi Dornbusch, economista tra i più lucidi del Novecento: «Le crisi spesso durano molto più a lungo di quanto si pensi. Ma poi svoltano e si avvitano in un baleno. Ci vogliono dei mesi, ma poi basta una notte». Vediamo ora punto per punto che cosa affermano gli autori.

Primo: le crisi finanziarie, soprattutto quelle scatenate da aumenti ingiustificati nei prezzi delle abitazioni producono, quando la bolla poi scoppia, recessioni molto lunghe.Alesina e Giavazzi sostengono che la recente crisi finanziaria è iniziata con il gonfiarsi e il successivo esplodere della bolla nei prezzi delle abitazioni, in particolare negli USA. In questo Paese le banche hanno concesso con leggerezza prestiti (mutui) per l’acquisto di case a debitori poco solvibili (cosiddetti mutui subprime). Sulle case ven-gono messe di regola ipoteche a garanzia dei prestiti. Nel caso in cui un debitore non restituiva il prestito, la casa, i cui prezzi nel frattempo erano lievitati, veniva messa all’asta e il ricavato della vendita era più che sufficiente per restituire alla banca i soldi prestati. Tutto bene per le banche se i prezzi degli immobili aumentavano, ma poiché nessun prezzo può salire fino al cielo, a un certo punto nel 2007 la bolla dei prezzi delle case è esplosa, i valori delle case si sono sgonfiati e molti debitori non sono stati più in grado di restituire i prestiti. È allora iniziata la crisi bancaria, tutti ricordiamo il fallimento della Lehman Brothers nel settembre del 2008: a catena sono crollati i prezzi di molti titoli che erano stati sottoscritti da risparmiatori, titoli che spesso incorporavano (cosiddetta cartolarizzazione) i crediti delle banche verso gli acquirenti degli immobili. E la crisi si è trasmessa all’intero settore finanziario. Che cosa fare in una situazione così drammatica? La banca in crisi potrebbe essere lasciata al proprio destino, quello del fallimento, che però interrompe i finanziamenti al sistema economico e distrugge risparmi depositati presso di essa. Così gli Stati preferiscono evitare i fallimenti finanziando le banche in crisi (ricapitalizzazione). Per disporre dei capitali neces-sari gli Stati raccolgono denaro dai risparmiatori emettendo titoli del debito pubblico. Questo processo è illustrato dalla seguente relazione: quando le uscite (G = spese pubbliche) sono maggiori delle entrate (T = tasse, imposte e contributi) si genera un deficit pubblico, finanziato dai risparmiatori che sottoscrivono i titoli del debito pubblico, quali bot, btp e cct:

Vale la seguente relazione:Se G T > deficit pubblico > debito pubblicoQuando uno Stato spende più di quanto incassa con le entrate,si genera un deficit pubblico, che viene finanziato con il ricorso a prestiti, che costituiscono il debito pubblico o sovrano di uno Stato.

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di Enrico Castrovilli

La scheda

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Nei Paesi dove la bolla immobiliare è stata maggiore, ad esempio negli USA, Irlanda e Spagna, il debito pubblico è esploso. Se affrontare la crisi con spese dello Stato e debito pubblico ap-pare momentaneamente utile, si crea però un macigno che farà ristagnare a lungo l’economia. Alesina e Giavazzi ricordano che in Giappone vent’anni fa esplose una bolla immobiliare. Oggi il debito pubblico nipponico è il 200 per cento del reddito nazionale e la brillante crescita eco-nomica nel secondo dopoguerra è diventata in quel Paese un ricordo del passato. Per capire queste questioni è utile il bestseller sulle crisi finanziarie di Carmen Reinhart e Ken-neth Rogoff, Questa volta è diverso1. I due autori americani prendono in considerazione le crisi finanziarie in ben 66 Paesi nel corso di otto secoli, dai quali emerge che le crisi finanziarie sono spesso seguite da lunghi periodi negativi di recessione, in cui il reddito (o prodotto) di un Paese cessa di crescere. Attenzione al titolo Questa volta è diverso, che è volutamente ironico. Le banche e le istituzioni finanziarie cambiano nel tempo, ma la natura dell’uomo nel corso dei secoli resta immutata, ricadendo in crisi uguali, come se l’uomo non riuscisse a far tesoro degli errori del passato. Si pensi alla speculazione del 1600 in Olanda sui bulbi di tulipano, quando un bulbo valeva più di un quadro di Rembrandt. Ed anche quella bolla scoppiò!

Secondo: occorre abbandonare l’illusione che per riprendere a crescere basti un po’ di spesa pubblica.Per Alesina e Giavazzi le ingenti spese dello Stato giapponese in infrastrutture tecnologicamente avanzate, alta velocità nei trasporti, metropolitane e moderni porti, non hanno portato il Giap-pone fuori dalla crisi iniziata nel 1989. Neppure le maggiori spese realizzate negli USA dal presidente Obama presentano risultati positivi, la situazione economica si è stabilizzata, ma il debito pubblico americano è raddoppiato e la disoccupazione resta elevata. Reinhart e Rogoff valutano che, quando il debito pubblico supera la percentuale del 90% nel suo rapporto con il PIL (il Prodotto Interno Lordo), la crescita economica risulta diminuire di almeno l’1% all’anno. L’Unione Europea previde nel 1992 nel Trattato di Maastricht che per essere ammessi all’uso dell’euro i Paesi europei dovevano avere i conti pubblici in ordine, rispettando i seguenti valori del deficit e debito pubblico, messi in rapporto con il PIL:

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I 17 Paesi che costituiscono Eurolandia hanno sostanzialmente rispettato questi parametri. Ma la crisi finanziaria rende difficile continuare a tenere sotto controllo i conti pubblici.1 Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff, Questa volta è diverso, Il Saggiatore, Milano, 2010. Il libro porta il sottotitolo Otto secoli di follia finanziaria. Reinhart e Rogoff analizzano nel loro libro vari tipi di crisi finanziarie: il default sul debito sovrano, che si verifica quando uno Stato non rispetta le scadenze dei paga-menti per i propri debiti; le crisi bancarie, come quella tratteggiata all’inizio di questo intervento, quando una parte importante del settore bancario di un Paese viene a trovarsi in uno stato di insolvenza; le crisi valutarie, che accadono quando il valore della moneta di un Paese scende precipitosamente nei confronti della valute di altri Paesi; e infine l’inflazione, quando l’elevata crescita dei prezzi dei prodotti riduce il potere d’acquisto della moneta e il valore dei crediti.

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Terzo: per risanare il sistema finanziario bisogna separare le banche dalla politica.Alesina e Giavazzi ritengono che il confine tra le istituzioni politiche e quelle bancarie-finanziarie debba essere netto. Non è bene che il sistema bancario e finanziario detti comportamenti al potere pubblico, ne potrebbero trarre vantaggio le banche e non i cittadini. Neppure è utile che il potere pubblico insegni alla banche cosa debbono fare, c’è il rischio che il potere politico tragga benefici immeritati dai suoi rapporti con la finanza. Montesquieu auspicò fin dal XVIII secolo la divisione tra i poteri costituzionali (esecutivo, legislativo e giudiziario), gli americani hanno un sistema di pesi e contrappesi (checks and balances) tra i pubblici poteri.

Quarto: la crisi ha dimostrato la fragilità del progetto europeo.Gli autori dell’articolo ritengono che non servono salvataggi (con i cosiddetti eurobonds o con un fondo salva-Stato) per i Paesi con conti pubblici in deficit. Gli spread (cioè la differenza tra i rendimenti dei titoli pubblici dei Paesi con i conti in ordine e quelli dei Paesi in forte deficit) esprimono il giudizio dei mercati su quanto compensare con un maggiore rendimento dei titoli il maggiore rischio dell’investimento, nei Paesi dove è minore la certezza sulla restituzione del prestito. Anche l’Italia è coinvolta in questo problema. Diviene indispensabile invece disegnare un progetto di medio periodo che rafforzi l’integrazione bancaria, fiscale e politica dei 17 Paesi dell’area euro (euro-zona), trasferendo crescenti dosi di sovranità alle istituzioni comunitarie in materia di sorveglianza bancaria, ma il punto decisivo è un sano equilibrio nei conti pubblici. Il progetto europeo non potrà essere fondato sul fatto che le “formiche del Nord” salvino le “cicale del Sud”, socializzando i debiti di queste ultime. Il risanamento dei conti potrà essere contenuto in leggi finanziarie scritte dalla Commissione di Bruxelles e approvate dal Parlamento europeo e non più dai Governi e dai Parlamenti nazionali. In questo contesto di maggiore responsabilità potranno aumentare la liquidità della BCE e le garanzie europee sui depositi bancari. È auspicabile che le difficoltà che emergono siano superate nei prossimi mesi, salvando l’Euro e al tempo stesso rendendo più forte l’Unione Europea. Nel momento in cui scriviamo si stanno compiendo passi nella giusta direzione dai vari attori, istituzioni e Stati europei. Il momento auspicato da Dornbusch potrebbe avvicinarsi.

Quinto: i compiti a casa dobbiamo continuare a farli, non solo quando lo spread sale.Una gran parte dei Paesi dell’UE (25 su 27) nello scorso marzo ha sottoscritto il “Patto di bilancio” (o Fiscal com-pact), con il quale viene approvata l’idea di inserire il principio del pareggio del bilancio statale (le spese sono uguali alle entrate) nella Costituzione. Compiti a casa da svolgere per molti Paesi europei che, come l’Italia, hanno avuto negli scorsi decenni deficit e debiti pubblici assai negativi. Per Alesina e Giavazzi questo compito sarà realiz-zabile con una rivoluzione dello stato sociale, partendo da due criteri: il primo è che le tasse vanno ridotte, perché è eccessivo che le famiglie e le imprese oneste versino allo Stato spesso oltre il 50% del proprio reddito; il secondo è che i servizi pubblici vanno resi gratuiti solo per coloro che ne hanno davvero bisogno e non per i ricchi. In ogni caso i servizi pubblici offerti dagli enti pubblici devono essere di qualità ben superiore a quella attuale.

Sesto: la giustizia sociale va garantita creando il più possibile pari opportunità per tutti.Le crescenti disuguaglianze nei redditi dipendono soprattutto dalla dotazione di capitale umano. Gli autori credono che la giustizia sociale possa avanzare se sussistono pari opportunità per realizzare investimenti nella propria formazione, perché l’investimento nel capitale umano, con lo studio e la formazione, offre le maggiori opportunità di benessere2.

2 Vedi l’interessante libro del premio Nobel dell’economia Gary S. Becker, Il capitale umano, Laterza, Roma-Bari, 2008.

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Come creare allora pari opportunità nella formazione del capitale umano? Alesina e Giavazzi enunciano i seguenti princìpi: valorizzare la ricchezza, premiare chi se lo merita, colpire l’evasio-ne fiscale, scardinare i privilegi immeritati.

Traccia per l’attività in classeProponiamo un approfondimento dei punti fondamentali contenuti nell’articolo di Alesina e Giavazzi.

1. Spese e tasse, ecco come funziona lo StatoLo stato moderno è una macchina che realizza compiti di ordine, di sicurezza e di benessere dei propri cittadini. Le attività dello Stato negli ultimi secoli si sono notevolmente sviluppate. Fino ad un secolo fa lo Stato manteneva l’ordine, la sicurezza esterna e svolgeva un numero ristretto di interven-ti pubblici, secondo i princìpi di Adam Smith del cosiddetto laissez faire. A partire dai primi decen-ni del Novecento, l’offerta di beni e servizi pubblici si è ampliata per soddisfare nuovi bisogni e per affrontare i casi in cui fallisce il fondamentale meccanismo economico del mercato. In molti Paesi la spesa pubblica e le tasse raggiungono la dimensione di metà del reddito (o prodotto) del Paese.Quali sono le principali spese pubbliche? Esse possono essere distinte in:a. spese statali o locali, a seconda che siano realizzate dallo Stato centrale (per difesa, pensioni o giustizia) oppure da un ente locale (la regione per la sanità, o un comune per una strada);b. spese correnti o di investimento, a seconda che producano la loro efficacia nel corso di un esercizio annuale (ad esempio lo stipendio dei dipendenti pubblici) oppure generino effetti per più anni (come la costruzione di una scuola o di un porto);c. spese di produzione o spese di trasferimento, a seconda che siano destinate a realizzare beni e servizi per la collettività oppure a trasferire beni e servizi alla parte bisognosa della società (con pensioni sociali, sussidi di disoccupazione e così via).Lo Stato e gli altri enti territoriali finanziano le attività tramite le entrate pubbliche, costituite soprattutto da tasse, imposte e contributi. Per gli studiosi della finanza pubblica tassa e imposta hanno un signi-ficato differente. La tassa è la controprestazione pagata da un cittadino o da un’impresa quando chiedono un bene o servizio pubblico di carattere individuale, come quando uno studente paga le tasse scolastiche o universitarie per frequentare una scuola o un’università. Le imposte garantiscono alle casse dello Stato il gettito principale, con il quale finanziare la produzione di beni e servizi pubblici, nei casi frequentissimi in cui non sia possibile valutare il vantaggio che trae il cittadino dal bene o servizio pubblico. Come si potrebbe calcolare il beneficio che trae ciascuno di noi da un buon sistema giudiziario e carcerario? Le imposte più importanti sono l’IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche), l’IRES (Imposta sul Reddito delle Società), l’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto), l’IMU (Imposta Municipale Unica sugli immobili). I contributi sono somme versate dai soggetti che si avvantaggiano di un’opera pubblica (contributi fiscali) o dai datori di lavoro e lavoratori (contributi sociali) per finanziare l’attività di enti come l’INPS e l’INAIL che erogano pensioni e assicurazioni sociali. Le imposte, dice la nostra Costituzione, nel loro insieme debbono essere progressive: al

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crescere della ricchezza tassata, ne va versata una percentuale sempre maggior nelle casse dello Stato, che a que-sto punto può trasferire ricchezza alla parte più bisognosa della popolazione. Tasse, imposte e contributi nel loro insieme sono definiti tributi.Sull’argomento si può proporre agli alunni una riflessione, che può essere effettuata rispondendo alle seguenti do-mande.• Quali sono le tasse/imposte/contributi che versa la tua famiglia e le spese pubbliche di cui usufruite?

Trovi la relazione tra tasse e spese vantaggiosa, equilibrata o svantaggiosa?....................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

2. I conti dello Stato, deficit e debito pubblicoPerché i conti pubblici non sono in pareggio ma più spesso si trovano in deficit? Gli economisti ne discutono accani-tamente e nel XX secolo hanno avuto ascolto le teorie del grande economista inglese John Maynard Keynes. Analiz-zando la Grande crisi del 1929, egli valutò indispensabile che nei periodi di crisi economica vi fosse un disavanzo nei conti pubblici. Le maggiori spese rispetto alle entrate (il deficit pubblico) avrebbero stimolato la produzione e favorito la fuoriuscita da un’economia stagnante o in recessione. Il deficit pubblico è collegato al debito. Se il deficit perdura nel tempo ed esso è finanziato dall’emissione di nuovi titoli di stato, il debito pubblico esistente nell’anno n corrisponde esattamente alla somma dei deficit di tutti gli anni precedenti all’anno n in cui sia esistito debito, a meno che in qualche anno un avanzo abbia ridotto la montagna del debito pubblico.

Sorgono a questo punto due questioni. Innanzitutto vi è il rischio che il deficit da temporaneo divenga permanente, formando il macigno di cui parlano Alesina e Giavazzi. In secondo luogo il deficit e il debito si autoalimentano in un circolo vizioso che peggiora i conti pubblici: il deficit genera il debito, che va remunerato pagando ai finanziatori adeguati tassi di interesse, i quali a loro volta fanno aumentare il deficit, e così via in una spirale negativa senza fine che condiziona pesantemente l’economia. Vi è da notare che se lo Stato italiano non avesse alti interessi da pagare sui titoli di stato, esso sarebbe addirittura in attivo! Il pareggio di bilancio e un ridimensionamento sia delle tasse che delle spese è con tutta evidenza l’alternativa alle politiche keynesiane. Quale è stato l’andamento del debito pubblico in Italia, misurato nel suo rapporto con il PIL? Il grafico 1 mette in relazione il rapporto debito/PIL con i governi degli ultimi decenni3.

3 Da: http://www.linkiesta.it/debito-pubblico-italiano. I governi di centro sono indicati dal colore arancione, quelli di centro-sinistra in rosso e quelli di centro-destra in azzurro. Al momento della compilazione del grafico era ancora in carica il governo Berlusconi.

Debito pubblico = Σ Deficit

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Graf. 1 - Il debito pubblico italiano nella storia

Anche su questo argomento si può proporre agli alunni una riflessione da fare svolgendo la seguente attività.

•  Analizza i dati del rapporto debito pubblico/PIL. Che cosa ne pensi? Vedi delle relazioni tra la crescita dei rapporti e i diversi schieramenti politici?............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

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Forlani18 ottobre 198028 giugno 1981

Andreotti

29 luglio 19764 agosto 1979

III-IV-V governo

Cossiga

4 agosto 197918 ottobre 1980

I-II governo

Goria28 luglio 198713 aprile 1988

Fanfani

1 dicembre 19824 agosto 1983

V governo

Fanfani

17 aprile 198728 luglio 1987

VI governo

SpadoliniI-II governo

28 ottobre 19811 dicembre 1982

De Mita13 aprile 198822 luglio 1989

Ciampi28 aprile 199310 maggio1994

Andreotti

22 luglio 198928 giugno 1992

VI-VII governo

Amato

28 giugno 199228 aprile 1993

I governo

Berlusconi10 maggio 199417 gennaio 1995

Dini17 gennaio 199517 maggio 1996

Prodi17 maggio 199621 ottobre 1998

D’Alema

21 ottobre 199825 aprile 2000

I-II governo

Amato

25 aprile 200011 giugno 2001

II governo

Berlusconi

11 giugno 200117 maggio 2006

II-III governo

Prodi

17 maggio 20068 maggio 2008

II governo

Berlusconi

8 maggio 2008 -IV governo

IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO NELLA STORIARapporto percentuale debito/Pil

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4 agosto 198317 aprile 1987

CraxiI-II governo

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3. Debito pubblico e crescitaVediamo ora che ruolo ha giocato il debito pubblico sulla crescita dell’economia italiana dall’Unità d’Italia fino ad oggi, esaminando il grafico 2.

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GDP per capita growth Debt/GDP

Graf. 2 - Il rapporto debito pubblico/PIL e il PIL pro-capite in Italia 4. Sull’ascissa sono collocati gli anni dall’Unità di Italia ad oggi. Sull’asse di sinistra: GDP (Gross Domestic Product) per capita growth è la crescita del PIL pro capite. Sull’asse di destra: Debt/GDP è il rapporto tra il debito pubblico/PIL.

Che cosa emerge da questo grafico? Negli anni della maggiore crescita del PIL nel nostro Paese (misurata sull’asse di sinistra del grafico dalla crescita del PIL pro-capite), avvenuta nei decenni a cavallo del 1900 e nei decenni del miracolo economico italiano tra il 1945 e il 1970, il rapporto debito pubblico/PIL (misurato sull’asse di destra del grafico) diminuisce o resta su valori particolarmente bassi. Il rapporto debito pubblico/PIL inizia a crescere solo a partire dagli anni ’70, per raggiungere nel 1994 il tetto del 122% sul PIL, e cesserà di crescere quando il Trattato di Maastricht porrà il vincolo del suo ridimensionamento. Sembra quindi confermata l’analisi di Reinhart e Rogoff: la bassa dimensione del debito pubblico favorisce la crescita economica. Ma attenzione: questa conclusione potrebbe essere rovesciata con un ragionamento economico opposto di taglio keynesiano. Negli anni di crescita debole o negativa del PIL sorge la necessità di un intervento statale in deficit, ed è per questo che negli anni di bassa crescita il rapporto debito pubblico/PIL sale. Val la pena notare che sui conti dell’Italia fu chiuso un occhio quando fummo ammessi all’euro, il rapporto debito pubblico/PIL era ben superiore al 60% previsto dal trattato di Maastricht, ma

4 Il grafico è tratto dalla relazione Una ricostruzione delle dinamiche del debito pubblico in Italia e del loro impatto sulla crescita, presentata da Enrico Castrovilli e Roberto Fini alla XIX Conferenza dell’AEEE – Association of European Economic Education – svoltasi dal 27 al 30 agosto 2012 a Bad Honnef in Germania.

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FAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. Quali follie finanziarie sono avvenute negli ultimi cinque anni?La finanza nel giudizio di Alesina e Giavazzi ha compiuto negli anni recenti una catena di follie. I mutui subprime sono stati concessi a clienti non inaffidabili con troppa larghezza, la corsa all’acquisto delle case ha gonfiato la bolla immobiliare che come ogni bolla è poi esplosa, la finanza è cresciuta su se stessa con meccanismi autoreferenziali non collegati all’economia produttiva di beni e servizi. Gli Stati sono intervenuti in modo inopportuno, innalzando spesa pubblica e tasse e ricorrendo sempre più al debito pubblico. L’economia in definitiva si è intossicata di finanza privata e pubblica, mentre le priorità del lavoro, del merito, della creazione della ricchezza e della sua distribuzione sono passate in secondo piano.

quel dato non fu considerato allora allarmante. Oggi i Paesi europei si stanno muovendo per rimuovere il macigno del debito, per ridurre il rapporto possono ridurre il numeratore (diminuendo con dismissioni lo stock del debito pubblico), ma soprattutto aumentare il denominatore (favoren-do i flussi di crescita del PIL). Giostrando su entrambi i tasti si potranno ottenere effetti benefici e avviare una fase di benessere nel nostro Paese. Sull’argomento è possibile sottoporre le seguenti domande. •  Pensi che sia opportuno ridurre il rapporto debito pubblico/PIL? E se sì, in che modo?............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................•  Che ruolo potrebbero giocare le tasse e la spesa pubblica per raggiungere l’obiet-tivo della crescita economica?.............................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

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Cultura finanziaria a scuola: per prepararsi a scegliere

2. Il deficit e il debito pubblico sono un aiuto o una minaccia per la crescita economica? La risposta dipende dalla dimensione degli interventi pubblici. Il deficit potrebbe avere una funzione positiva se venisse impiegato in attività di particolare rilevanza sociale laddove i privati non hanno mezzi sufficienti per intervenire. Ma un deficit e un debito pubblico superiori a una certa soglia divengono pericolosi perché si instaura tra di essi un circolo vizioso. Anche le spese pubbliche eccessive e una pressione fiscale troppo forte sono pericolose perché disincentivano le persone dal lavoro, dall’assunzione di responsabilità e rischiano di aggravare la recessione, anziché risolverla. Reinhart e Rogoff stimano nei loro studi che il debito pubblico messo in rapporto con il PIL superiore al 90% indebolisce la crescita economica. Infine se uno Stato è troppo indebitato rischia di non riuscire a restituire i prestiti, non trovando risparmiatori disposti a concedere prestiti o li troverà pagando altissimi tassi di interesse. E il debito sovrano potrebbe trovarsi in default.

3. Quale ruolo svolgono nei sistemi sociali moderni le tasse e le spese pubbliche?Le tasse e le spese sono le due braccia che usa lo Stato moderno per realizzare i propri compiti di benessere e di ordine. Con il braccio delle tasse lo Stato preleva somme di denaro in modo progressivo. Il criterio della progressività appare equo, perché non tutti hanno acquisito la ricchezza con i propri meriti e la propria fatica. Con il braccio delle spese pubbliche, lo Stato deve offrire beni e servizi gratuiti e semigratuiti alle famiglie che sono socialmente svantaggiate non per propri demeriti, ma per i casi della vita. Ma se sono i più ricchi a usare beni e servizi gratuiti si genera una redistribuzione rovesciata, da chi paga le tasse (e gli evasori non le pagano) a chi usa i beni pubblici. Occorrerebbe quindi limitarsi a offrire i beni pubblici gratuiti a chi ne ha davvero bisogno. E naturalmente tutti devono pagare le tasse. Le tasse e le spese non devono avere una dimensione invasiva nella vita dei cittadini e delle imprese.

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SITI E INFO PER APPROFONDIRE

www.bancaditalia.it www.linkiesta.it/debito-pubblico-italiano www.istat.it/it/informazioni/per-studenti-e-docenti www.inps.it/newportal/default.aspx

http://it.wikipedia.org/wiki/john_maynard_keynes

www.tesoro.it/doc-finanza-pubblica/ www.oecd.org/

http://press.princeton.edu/titles/8973.htmlhttp://europa.eu/index_it.htm

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Test FINALE1. Le follie finanziarie sono iniziate a. con lo scoppio della bolla immobiliare negli USAb. con la crisi dell’euroc. con il fallimento della Lehman Brothersd. con la crisi del debito pubblico in Grecia

2. Il debito pubblicoa. è collegato al deficit pubblicob. dipende dal fatto che si importi più di quanto si esporti c. equivale alla somma dei deficit pubblici degli anni precedentid. equivale ai prestiti concessi dalle banche ai cittadini

3. Il progetto europeo per Alesina e Giavazzi è fragile perchéa. non esiste un bilancio europeob. manca ancora un progetto di maggiore integrazione bancaria, fiscale e politica c. il Regno Unito non ha adottato l’Eurod. troppi Paesi fanno parte dell’Unione Europa

4. Il libro Questa volta è diversoa. vuole affermare che la crisi finanziaria attuale è diversa dalle precedenti b. è un titolo ironico c. è un titolo ironico che vuole sottolineare che l’uomo ripete sovente gli stessi errorid. è un titolo che sottolinea gli aspetti della globalizzazione nella crisi

5. Il debito pubblico è ritenuto dannoso dagli autori dell’articolo per la crescita economicaa. quando finanzia opere pubblicheb. quando diviene troppo alto rispetto al Prodotto Interno Lordoc. quando finanzia le esportazioni d. quando la popolazione invecchia

Soluzioni : 1a. - 2c. - 3b. - 4c. -5b.Pi

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1. Le follie finanziarie sono iniziate a. con lo scoppio della bolla immobiliare negli USAb. con la crisi dell’euroc. con il fallimento della Lehman Brothersd. con la crisi del debito pubblico in Grecia

2. Il debito pubblicoa. è collegato al deficit pubblicob. dipende dal fatto che si importi più di quanto si esporti c. equivale alla somma dei deficit pubblici degli anni precedentid. equivale ai prestiti concessi dalle banche ai cittadini

3. Il progetto europeo per Alesina e Giavazzi è fragile perchéa. non esiste un bilancio europeob. manca ancora un progetto di maggiore integrazione bancaria, fiscale e politica c. il Regno Unito non ha adottato l’Eurod. troppi Paesi fanno parte dell’Unione Europa

4. Il libro Questa volta è diversoa. vuole affermare che la crisi finanziaria attuale è diversa dalle precedenti b. è un titolo ironico c. è un titolo ironico che vuole sottolineare che l’uomo ripete sovente gli stessi errorid. è un titolo che sottolinea gli aspetti della globalizzazione nella crisi

5. Il debito pubblico è ritenuto dannoso dagli autori dell’articolo per la crescita economicaa. quando finanzia opere pubblicheb. quando diviene troppo alto rispetto al Prodotto Interno Lordoc. quando finanzia le esportazioni d. quando la popolazione invecchia

Appunti

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Rischio-Paese: tassi, spread e riflessi sull’economiadi Federico Cartei

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Effetto domino, valanga o contagio. Qualsiasi metafora calza. Confrontando la curva dei rendi-menti dei titoli di Stato italiani e tedeschi, il costo dei credit default swap per banche italiane e tedesche, lo spread sugli swap (Euribor) dei corporate bond italiani e tedeschi, è indubbio che in questo momento il sistema-Italia paghi molto più della Germania: lo Stato offre in asta tra 500 e 700 punti (5%-7%) in più, le banche devono sborsare come minimo 250 punti in più, le imprese sono oberate da costi di raccolta aggiuntivi fino a 450 punti.Questi spread, se dovessero essere confermati l’anno prossimo quando l’Italia dovrà collocare 440 miliardi di titoli di Stato e le principali banche italiane rimborseranno 111 miliardi di bond, manterrebbero l’enorme vantaggio competitivo della Germania. A tassi di raccolta invariati ri-spetto a quelli riflessi ora sul secondario, il sistema-Italia nel 2012 pagherebbe – a grandissime linee – almeno 30 miliardi di interessi sul nuovo debito in più rispetto alla Germania: drenando maggiormente risorse dalle casse dello Stato per rilanciare l’economia, restringendo più credito bancario e frenando i piani di sviluppo degli imprenditori. L’insostenibilità del costo del denaro non è solo rischio default: la spesa per interessi, in maniera meno clamorosa ma corrosiva, risuc-chia risorse alla crescita.L’Italia, per esempio, collocherà l’anno prossimo attorno ai 200 miliardi in BoT: ipotizzando un tasso medio annuale invariato al 6,5%, la spesa per interessi sarà di 13 miliardi. La Germania nel 2012 potrebbe collocare 70 miliardi di Bu-bill a 3, 6 e 12 mesi, a un tasso invariato dello 0,50% con una spesa per interessi di circa 350 milioni. Se la Germania dovesse collocare 200 miliardi di Bu-bill, al momento pagherebbe 12 miliardi in meno dell’Italia. L’anno prossimo an-dranno in asta almeno 200 miliardi di titoli di Stato italiani a medio-lungo termine contro i 160 della Germania: le due curve dei rendimenti dai 2 ai 30 anni ieri riflettevano un costo medio alla raccolta del 7,3% per l’Italia e dell’1,3% per la Germania, quindi il 6% di differenza di tasso su 200 miliardi.Per le banche, il differenziale della spesa per interessi viene fatto risalire dagli esperti allo spread di 250-300 punti della copertura sui credit default swap. Sul secondario, illiquido di questi tem-pi, un bond a due anni senior di Unicredit o Intesa SanPaolo viene quotato dal 9% al 7% contro l’1,45% di Deutsche bank; un covered bond di Unicredit e Intesa a cinque anni sul secondario rende attorno al 5%, un senior bond quinquennale di Deutsche bank il 3,35 per cento. Se le ban-che italiane dovessero emettere l’anno prossimo obbligazioni a tre anni per circa 100 miliardi

24 Novembre 2011

IL CONTO DELLA CRISI SULL’ITALIA: LO SPREAD VALE 30 MILIARDIdi Isabella Bufacchi

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L’articolo8

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per rimborsare i bond in scadenza (un quinto dei titoli n circolazione che per le prime cinque banche italiane sono pari a 580 miliardi), il loro costo di raccolta sarebbe almeno di 2 miliardi (2%) superiore a quello delle rivali tede-sche. In quanto alle imprese italiane, Barclays capital ha calcolato che per ogni 100 punti base di aumento dello spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, il costo della raccolta per i corporate bond sale di 60 punti: il gap tra i btp e i Bund è lievitato di 300-400 punti quest’anno, con un aggravio sulla spesa per interessi per le aziende di 180-240 punti. «Il differenziale del costo della raccolta tra le imprese italiane e tedesche è molto alto in questo momento - ha commentato Paolo Mancini, managing director di Credit Suisse securities Europe ed esperto di corpo-rate bonds -. Ma non è scattato alcun allarme: in termini assoluti le cedole non sono elevatissime rispetto al passato e il repricing non avviene sul debito totale ma solo sul nuovo debito. Le grandi imprese sono abituate a collocare i bond in giorni di sole come in giorni di tempesta e l’impatto sul costo medio del debito rimane al momento limitato. La correlazione tra il peggioramento del rischio-sovrano e quello corporate comunque c’è e rappresenta un grande svantaggio per il sistema-Italia con una crisi che sta favorendo la Germania: gli investitori riducono il rischio-Italia in portafoglio iniziando a vendere i btp, poi passano alle banche e infine ai corporate bond. L’aumento del costo di finanziamento delle banche viene trasferito, anche se non con un rapporto di 1 a 1, alle aziende, soprattutto le medio-piccole che non hanno potere contrattuale».Il costo della raccolta per le casse dello Stato, delle banche e delle aziende italiane espresso in termini di spread rispetto alle controparti tedesche, dai picchi odierni dovrebbe calare se il Governo Monti garantirà il pareggio di bilancio e l’attuazione delle riforme strutturali per la crescita e sempreché l’Europa tracci la via di uscita sul breve, medio e lungo termine dalla crisi del debito sovrano. A differenza del Tesoro italiano, che dovrà raccogliere 440 miliardi nel 2012, le banche italiane eviteranno di emettere bond ricorrendo ai finanziamenti della Bce (allo stesso tasso delle tedesche). Molte imprese inoltre hanno fieno in cascina, liquidità sufficiente per rinviare nuovi prestiti ob-bligazionari. Ma Alberto Gallo, analista di Rbs, ammonisce: il deleveraging, il rischio di ulteriori declassamenti dei rating, il peso crescente dei titoli di Stato in portafoglio, la recessione, tutto contribuirà a spingere le banche italiane a ridurre la disponibilità del credito per le aziende, aumentando anche per queste ultime infine il costo del denaro.

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ANDAMENTO SPREAD BTP BUND DA MARZO 2011 (PRE-CRISI) A SETTEMBRE 2012

LE EMISSIONI DI TITOLI DI STATO DI ITALIA E GERMANIA DEL 2012

I DIFFERENZIALE TRA I RENDIMENTI SUI BOND DA 3 MESI A 30 ANNI TRA ITALIA E GERMANIA

SPREAD BT -BUND a 10 anni

In mld di euro (stime)

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Fonte: Uf�cio Studi Il Sole 24 Ore

Rendimento BTP a 10 annial 1/3/2011

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Gli extra-costi dell’Italia

Rendimento BTP a 10 annial 18/3/2011

5,01 %

SPREAD163,2

SPREAD343

1/3/2011 20/07/2011 08/12/2011 27/04/2012

L’anno prossimo Roma e Berlino dovranno presentarsi sui mercati delle aste per chiedere nuovi fondi per fronteggiare le scadenze dei titoli del debito pubblico, rispettivamente, per 440 e 230 miliardi. Metà delle emeissioni italiane sono in Bot. A tassi di interesse invarianti l’Italia pagherà tra il 5% e il 7% in più rispetto alla Germania.

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ANDAMENTO SPREAD BTp BUND DA MARZO 2011 (PRE-CRISI) A SETTEMBRE 2012

LE EMISSIONI DI TITOLI DI STATO DI ITALIA E GERMANIA DEL 2012

I DIFFERENZIALE TRA I RENDIMENTI SUI BOND DA 3 MESI A 30 ANNI TRA ITALIA E GERMANIA

SPREAD BTp-BUND a 10 anni

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Fonte: Uf�cio Studi Il Sole 24 Ore

Rendimento BTp a 10 annial 1/3/2011

4,82 %

Gli extra-costi dell’Italia

Rendimento BTp a 10 annial 18/3/2011

5,01 %

SPREAD163,2

SPREAD343

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L’anno prossimo Roma e Berlino dovranno presentarsi sui mercati delle aste per chiedere nuovi fondi per fronteggiare le scadenze dei titoli del debito pubblico, rispettivamente, per 440 e 230 miliardi. Metà delle emeissioni italiane sono in Bot. A tassi di interesse invarianti l’Italia pagherà tra il 5% e il 7% in più rispetto alla Germania.

Appunti

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Chiavi di lettura dell’articolo

Il rischio di creditoImmaginiamo di voler chiedere dei soldi in prestito per acquistare un nuovo motorino dal momento che soldi di-sponibili per pagare interamente al momento non ce li abbiamo e quindi sfruttiamo l’opportunità di poter effettuare ugualmente l’acquisto impegnandoci a restituire il denaro nei prossimi tre anni, dietro il pagamento di interessi che vanno a remunerare chi ci ha concesso il prestito. A questo punto la banca o l’istituzione finanziaria ci chiederà una serie di documenti e ci farà una serie di domande per capire quale sia il nostro “rischio di credito”, ossia per valutare la nostra affidabilità nel rimborsare interamente il prestito, comprensivo degli interessi, rispettando le scadenze previste.La banca o la finanziaria, appena ricevuta la nostra domanda, farà un esame dei nostri redditi, analizzerà tramite le centrali la nostra regolarità con il sistema finanziario nel passato e vorrà anche proiettare tale analisi nel futuro per capire se la nostra capacità di produrre reddito, e con esso di rimborsare il prestito, rimarrà intatta anche per i tre anni entro i quali ci siamo impegnati a rientrare dal finanziamento.Naturalmente sarà meno rischioso un lavoratore dipendente con contratto a tempo indeterminato che uno con con-tratto a termine o flessibile o con partita iva e la banca sarà più garantita da chi ha delle proprietà rispetto a chi non possiede nulla, da chi ha prospettive di carriera sul lavoro rispetto a chi manterrà la propria posizione stabile per tutta la vita, da un dipendente pubblico che da un dipendente privato, data la maggiore stabilità del posto di lavoro.Sulla base di tale analisi la banca deciderà se accordare o meno il prestito e, qualora decida di accordarlo, a quale tasso concedere il denaro richiesto: alle persone con maggior rischio di credito, e quindi con maggiori probabilità di insolvenza, farà pagare di più i soldi dati in prestito per remunerare i maggiori rischi che corre nell’erogare il finanziamento, mentre potrà permettersi di far pagare meno interessi alle persone giudicate più solvibili.

Lo Stato e lo spreadLo Stato, come le persone, ha bisogno di finanziarsi per far fronte ai propri impegni e pagare i servizi offerti ai propri cittadini (si veda la scheda n. 7) ed anch’esso viene valutato dai finanziatori per la sua affidabilità o meno nel poter far fronte ai propri impegni finanziari: solo in seguito a tale valutazione infatti questi decideranno se sono disposti o meno a prestare i propri soldi e quale tasso di remunerazione desiderano per operare il finanziamento.Dall’introduzione dell’euro in poi il rischio che uno degli Stati aderenti non facesse fronte ai propri impegni è sempre stato remoto, nessuno pensava che una volta comprato un titolo di stato italiano o spagnolo ci fosse il pericolo di incorrere in perdite, e addirittura si definiva il bot “l’investimento a rischio zero” per eccellenza e si confrontavano i suoi rendimenti, cosiddetti “tassi risk-free”, con quelli degli altri titoli di debito per capire quanto sarebbe stato il premio, in termini di rendimento, che si poteva percepire con investimenti più rischiosi, ad esempio le obbligazioni societarie o i titoli di stato di altri Paesi.Con la crisi finanziaria e con l’esplodere dei rischi sui debiti sovrani dell’estate del 2011, soprattutto legati alla perdita di parte dei soldi prestati dai finanziatori alla Grecia, che ha subìto un default parziale dei propri titoli, sono affiorati sul mercato forti dubbi che altri Paesi potessero seguire tale esempio e per i Paesi con maggiori stock

di Federico Cartei

La scheda

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di debito accumulati negli anni e con deficit tra entrate ed uscite consistenti, si è scatenata una vera corsa al rialzo della percezione di rischio e dei rendimenti richiesti per comprare tali titoli e finanziare così lo Stato.Le agenzie di rating sono società private che operano a livello internazionale e compiono analisi per assegnare un voto, detto rating, alle società private, soprattutto quotate, e agli Stati, riguardante la loro solidità e solvibilità, in poche parole giudicano il loro grado di rischio nel rimborsare i prestiti acquisiti alle scadenze previste.Con delle sigle che variano da AAA fino alla lettera D, tali agenzie compiono studi approfonditi sulla realtà economico-finanziaria e politica per capire se poter assegnare il massimo dei voti in solvibilità ed affidabilità – la tripla AAA come quella di Usa e Germania per esempio –oppure se ci sono problemi di qualsiasi natura che fanno sì che la probabilità di insolvenza di quel determinato Stato sia maggiore e quindi il rating assegnato scenda verso le lettere successive.Attualmente l’Italia viene valutata Baa2 da Moody’s, sotto quindi la valutazione assegnata agli Stati più solidi, ma ancora nella fascia di affidabilità che attribuisce un rischio di insolvenza medio e quindi la possibilità di avere ancora accesso al mercato dei finanziamenti da parte degli investitori istituzionali che al contrario non prendono in considerazione investimenti in titoli cosiddetti “spazzatura”, contrassegnati da rating dalla lettera C in poi.Tali agenzie sono molto ascoltate sul mercato finanziario e i loro ripetuti declassamenti di rating di vari Stati nel corso della crisi finanziaria sono quelli che hanno contribuito a innescare il clima di sospetto verso l’affidabilità di Stati più in difficoltà di altri con la gestione dei conti pubblici, come Spagna ed Italia.La recessione economica ha infatti diminuito negli ultimi anni le entrate degli Stati e nel contempo ha reso necessarie maggiori uscite per far fronte a situazioni di emergenza create proprio dalla crisi, quali il pagamento della cassa integrazione e della disoccupazione ai lavoratori che ave-vano perso il proprio posto di lavoro e in taluni casi, fatta salva l’Italia, la ricapitalizzazione del proprio sistema bancario in grave difficoltà.Il bilancio di tali Stati ne ha risentito molto negativamente e il deficit annuo, ovvero la differenza tra le uscite e le entrate, è andato peggiorando, incrementando lo stock di debito esistente, che per alcuni, in particolare l’Italia, era già molto alto se rapportato alla produzione di ricchezza annua, ovvero al Pil: il debito è infatti al 120% del Pil, quindi del 20% più alto della ricchezza prodotta in un anno dall’intero Paese, quando le regole comunitarie impongono un rapporto non superiore al 60%.Entrate maggiori delle uscite e debito pubblico già molto alto ed in continua crescita hanno cre-ato condizioni di panico negli investitori ed il peggioramento della percezione di rischio delle economie più esposte: tali rischi sono stati percepiti sia in relazione all’enorme massa di debito pubblico accumulato negli anni precedenti, come nel caso dell’Italia, sia per l’alto deficit annuo come nel caso della Spagna, e ancor peggio nel caso di economie disastrate come quelle di Grecia, Irlanda e Portogallo, che hanno avuto bisogno di aiuti dalla Comunità Europea per po-tersi finanziare, visto che gli investitori avevano chiuso i loro rubinetti proprio per il rischio troppo alto a finanziare tali Stati.

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Il termine “spread”, fino ad allora sconosciuto nel linguaggio comune, a questo punto ha preso il sopravvento su ogni quotidiano finanziario ed è stato eletto quale principale indicatore dell’affidabilità dei Paesi più a rischio rispetto a quelli considerati a rischio zero quali, nell’area euro, in primis la Germania, ma anche l’Olanda e altri Stati del Nord Europa caratterizzati da rating con la tripla A.Il rating rappresenta la differenza tra il rendimento del titolo di stato tedesco con scadenza residua 10 anni, chia-mato “bund”, e il titolo di stato italiano (o anche spagnolo per quanto riguarda i bonos), chiamato btp, sempre con scadenza a 10 anni.Essendo il titolo tedesco considerato “risk free”, si valuta con tale indicatore il premio che l’investitore richiede in termini di maggior rendimento per il rischio che corre a causa della possibile perdita nella quale può incorrere finan-ziando con i propri soldi lo Stato italiano rispetto a quanto si accontenta di chiedere allo Stato tedesco, considerato privo di rischio solvibilità. Maggiore sarà la percezione di rischiosità di un determinato Paese, maggiore saranno i tassi che questo dovrà pagare per emettere titoli di stato e finanziarsi sul mercato e quindi crescerà di conseguenza la differenza di tasso pagata rispetto ai titoli tedeschi, e cioè lo spread.È quindi un indicatore del “rischio-default” (rischio insolvenza) dello Stato preso in considerazione: un differenziale dei tassi alto è conseguenza di una crescente percezione di rischio solvibilità di tale Stato e dei maggiori interessi da pagare ai finanziatori per convincerli a continuare a prestare i propri soldi. Quando lo spread ha toccato il livello massimo nel novembre 2011 di 575 punti, questo voleva dire che il btp con scadenza 10 anni pagava un tasso di interesse di 5,75% di punti in più rispetto al bund tedesco di pari scadenza.Quindi maggiori interessi da pagare e maggiori uscite per il bilancio statale che ne risente negativamente peggio-rando ancor più la già precaria situazione in un circolo vizioso che porta ad avvantaggiare gli Stati in salute finan-ziaria e a penalizzare sempre di più gli Stati in difficoltà, obbligandoli a manovre fiscali aggiuntive per aumentare le entrate e far fronte al pagamento di tali interessi con un innalzamento della pressione fiscale su cittadini ed imprese, già in difficoltà a causa della crisi economica.Ma non sono solo queste le conseguenze degli alti interessi pagati dallo Stato, rispetto agli altri Paesi, per le fami-glie, le imprese e l’economia in generale.

Le conseguenze dello spread per banche, imprese e famiglieL’articolo preso a riferimento è tratto da “Il Sole 24 ORE” del 24 novembre 2011, momento in cui lo spread era a livelli massimi e per collocare i titoli pubblici italiani si doveva pagare in media tra il 5% e il 7% in più rispetto ai titoli di pari scadenza tedeschi.Viene calcolato nell’articolo che se lo spread si fosse assestato su tali livelli la spesa da interessi per l’anno 2012 sarebbe stata di 30 miliardi in più rispetto alla Germania, con una grande perdita di competitività per tutta l’econo-mia in generale rispetto al Paese tedesco e minori risorse da destinare alla crescita.Gli alti livelli dello spread comportano allo Stato non solo una maggiore spesa per gli interessi, ma anche un mag-gior costo di approvvigionamento dei capitali presi a prestito da banche, imprese e famiglie.Le banche vengono infatti percepite dagli investitori più rischiose delle altre perché legate al rischio Paese cui appar-tengono, in quanto si pensa che se andasse in default lo Stato anche il sistema bancario ne uscirebbe disintegrato, in relazione anche all’alto quantitativo di titoli di stato che ogni banca detiene nell’attivo di bilancio in qualità di

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investimento che negli ultimi tempi ha perso sempre più di valore a causa dell’innalzamento dei tassi sul mercato e quindi della caduta delle quotazioni dei titoli in portafoglio.Come riportato nell’articolo lo spread massimo toccato tra i rendimenti delle obbligazioni delle banche italiane e quelle tedesche ha toccato punte addirittura di 700-800 punti per alcune ob-bligazioni a due anni, con una media di 250 punti, il che comporta un costo per la raccolta di due miliardi in più all’anno rispetto alle banche tedesche.Barclays Capital ha stimato che in media ogni 100 punti di aumento dello spread tra i tassi dei titoli di stato comporta un aumento di 60 punti dello spread tra i tassi relativi alla raccolta delle banche italiane e di quelle tedesche.Il maggior costo per la raccolta si riflette sul bilancio delle nostre banche, aumentando i costi, e rende più difficile reperire liquidità sul mercato e quindi trovare fondi che le banche avrebbero poi potuto utilizzare per fare finanziamenti ad imprese e famiglie.Le imprese vengono anch’esse penalizzate fortemente da questa tensione sui tassi, in quanto sia rivolgendosi alle banche, che direttamente al mercato emettendo obbligazioni, devono pagare i loro finanziamenti molto di più delle loro concorrenti tedesche.È appurato che le banche non aumentino proporzionalmente il costo dei finanziamenti erogati con un rapporto 1 ad 1 nei confronti delle imprese, ma certo devono prestare a tassi più alti proprio per il maggior costo che devono subire per la raccolta, con un tasso medio per i finanzia-menti a breve pari al 7%, che equivale ad uno spread sui costi di raccolta rispetto alle imprese tedesche pari a 450 punti. Per non parlare del razionamento del credito operato nei confronti delle imprese italiane, nei confronti delle quali il credito è diminuito di circa 31 miliardi nei primi sei mesi dell’anno 2012.L’extra costo per la raccolta delle imprese, dovuto all’aumento dei tassi praticati dalle banche, solo per l’anno 2012, è valutato in 1,6 miliardi di euro.Nel mercato delle obbligazioni le aziende italiane, anche le più grandi e blasonate a livello internazionale, scontano tassi molto rilevanti rispetto alle pari grado tedesche: se Volkswagen si finanzia con emissione di obbligazioni decennali al 2,375, Fiat deve pagare il 7,75% per una emissione a quattro anni e la differenza di rating (A- per la prima e BB- per la seconda) non giustifica certo questa netta differenza, così come Enel paga un differenziale di tasso pari a 180 punti base, rispetto alla concorrente tedesca Rwe, su titoli con uguale scadenza 2015 e rating identico delle due società BBB+.Così anche le famiglie si sono trovare a dover pagare per i mutui ventennali uno spread di 3 punti percentuali contro 1,5 punti dell’anno scorso ed inoltre hanno subito un inasprimento delle condizioni di accesso al credito che ha reso anche per loro il denaro merce sempre più rara.Un occasional paper della Banca D’Italia evidenzia che l’aumento di 100 punti dello spread comporta un aumento di 30 punti sui tassi praticati sui mutui-casa delle famiglie e un razionamen-to nell’erogazione dei prestiti pari allo 0,7%: in pratica se non ci fosse stata la fiammata dello spread, culminata con i 575 punti del novembre 2011, le imprese avrebbero oggi scontato tassi più bassi di almeno 170 punti, le famiglie di 130 punti e la crescita dei prestiti ad imprese e famiglie sarebbe stata del 2% maggiore di quanto si sia effettivamente verificato.Le conseguenze del differenziale di tasso tra titoli di stato di Italia e Germania si riflette sull’eco-nomia italiana in modi diversi, ma sostanzialmente drena risorse utili alla crescita e mette fuori Ri

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mercato le banche, le aziende e le famiglie italiane che si trovano a dover sopportare costi di raccolta non legati alle loro situazioni economico-finanziarie, ma al rischio Paese in cui si trovano ad operare.Il fatto che la recessione in Italia sia a livelli più alti di tutto il G20, con un Pil previsto in diminuzione del 2,6% nel 2012, è dovuto in larga parte alle manovre fiscali varate in questi ultimi mesi dal Governo italiano per migliorare l’andamento dei conti pubblici con lo scopo di contribuire a migliorare l’affidabilità e la credibilità del Paese nei confronti degli investitori e di abbassare quello spread con il rendimento dei titoli tedeschi, che crea così tanti danni al sistema Paese.Ma aumentare le tasse e ridurre le spese pubbliche, se nel lungo periodo migliora l’affidabilità dell’Italia e la sua capacità di far fronte ai propri impegni con effetti positivi sulla riduzione dello spread, nel breve drena liquidità alle imprese e alle famiglie in un momento di grande difficoltà, aggravando la crisi economica.Senza crescita non si creano risorse per poter creare ricchezza, pagare le tasse e migliorare i conti pubblici, con un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.

Le istituzioni comunitarieDiversi studi di Bankitalia e Confindustria mettono in evidenza che larga parte dello spread tra titoli di stato italiani e tedeschi sia dovuto alla mancanza di certezze nel progetto euro e che il giusto valore si aggiri intorno a 160-200 punti rispetto ai 536 toccati recentemente nel luglio 2011: a causa delle ultime crisi di alcuni Stati, gestite in maniera disordinata e spesso intempestiva dalle istituzioni comunitarie proprio per la mancanza di una realtà politico-economica comune, si è diffuso il dubbio tra gli investitori che se uno o due Stati importanti, tra cui Spagna e Italia, dovessero aver bisogno di cospicui aiuti per salvarsi, il progetto moneta unica potrebbe frantumarsi a causa della riluttanza dei Paesi maggiormente virtuosi a dover sborsare denaro per aiutare Stati che nel passato non hanno rispettato i parametri di bilancio imposti dalla Comunità Europea, ovvero i cosiddetti “Stati cicala”, dalla famosa favola sulla cicala e la formica che in questo caso calza a pennello.Gli squilibri attualmente presenti negli ultimi mesi all’interno dell’area euro si sono rivelati dannosi per l’economia di ogni Paese, Germania compresa: se da un lato i titoli di stato tedeschi a breve durata scontano infatti addirittura tassi negativi, per il fatto che sono considerati un porto sicuro e gli investitori sono disposti a pagare lo Stato tedesco pur di mantenere i propri soldi al riparo (come si paga per affittare una cassaforte nel caveau di una banca), dall’altro gli alti tassi che devono pagare i Paesi più in difficoltà, come Italia e Spagna, con i danni conseguenti alle loro economie, causano una recessione economica che piano piano si sta allargando anche agli Stati più virtuosi, visto che la loro economia è molto legata alle esportazioni e la domanda di loro beni inizia a calare proprio a causa delle difficoltà economiche degli altri Stati vicini.Ecco che i vantaggi fino ad oggi goduti dagli Stati virtuosi e pagati in termini di maggiore spesa per interessi e di sforzi economici dagli Stati in difficoltà iniziano ad accendere un campanello d’allarme a livello di istituzioni co-munitarie per trovare una soluzione ad un rallentamento economico generale che impensierisce tutti, virtuosi e non.Negli ultimi tempi sono stati fatti passi avanti in tal senso, con l’inizio di un percorso che porterà ad una maggiore integrazione economica e politica degli Stati dell’Unione che in futuro avranno una politica economica ed una vigi-lanza bancaria unitaria, mentre dal punto di vista economico sono stati messi insieme dei fondi di salvataggio per aiutare gli Stati in difficoltà ad uscire dal quel circolo vizioso di cui abbiamo parlato.Tali fondi, dai nomi più strani, in passato EFSF ed ora ESM, con una dotazione di 550 miliardi di euro, servono per creare un cuscinetto di denaro da parte di tutti gli Stati aderenti all’Unione al fine di fronteggiare eventuali richieste

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di aiuti economici provenienti da Stati in difficoltà, come già avvenuto con Grecia, Irlanda, Por-togallo e il sistema bancario spagnolo, sia per acquistare sul mercato bond di quegli Stati che chiederanno aiuto alla Comunità Europea per i tassi troppo alti pagati sui propri titoli di stato.In tal modo il problema di finanziarsi sul mercato verrà meno e con l’aumento della domanda di titoli di stato da parte della BCE e del fondo salva stati ESM il rendimento dovrebbe abbassarsi notevolmente e con esso lo spread, contribuendo a ridurre il costo per interessi dei finanziamenti di Stato, imprese e famiglie e far ripartire la crescita economica del Paese.A fronte di tali aiuti gli Stati che faranno domanda dovranno sottoporsi ad un protocollo d’intesa con la Commissione Europea per impegnarsi al risanamento dei conti pubblici e alla riduzione del debito pubblico nei prossimi anni, pena la revoca degli aiuti.Si sta andando insomma verso una maggiore integrazione a livello europeo che contribuirà certamente al miglioramento delle condizioni economiche generali, contribuendo al ritorno di un clima di fiducia che ormai manca da molto tempo nei confronti dell’economia europea e italiana in particolare.La politica monetaria non basterà da sola a risolvere tutti i problemi ma occorrerà anche a livello politico continuare con il risanamento dei conti pubblici tramite risparmi di spesa ed un’attenta po-litica di lotta all’evasione.Solo così potremo ridare fiducia nel futuro ai tanti giovani senza lavoro.

Traccia per l’attività in classeDopo aver letto l’articolo di quotidiano e la scheda inviterei gli studenti a scrivere le proprie riflessio-ni riguardo al problema economico-finanziario e politico che sta ormai da più di un anno toccando da vicino il nostro debito pubblico, e alle soluzioni prospettate, riflettendo in particolare sulla gran-de responsabilità e sulla necessaria lungimiranza che chi guida un Paese deve avere, in relazione al fatto che il debito – o la ricchezza – che oggi creiamo saranno poi ereditati dalle generazioni future che ne dovranno sopportare il peso – o i frutti – senza averne beneficiato in alcun modo.Ma la lungimiranza e la responsabilità verso le generazioni future sono mai state un parametro di scelta quando andiamo a votare chi guida il Paese? Da oggi è necessario che lo diventino se vogliamo che i nostri figli abbiano un futuro in questo Paese.

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LA CATENA DELLE PAROLE CHIAVE

QR-CODESpreadRatingRischio defaultTitoli di statoBtpBundEsmTassi risk freeDeficit di bilancioDebito pubblico

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FAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. Qual è il significato del termine “spread”?Lo spread è il differenziale di tasso che viene pagato per remunerare gli acquirenti di titoli di stato italiani, i btp, e di titoli di stato tedeschi, i bund, con pari scadenza a 10 anni, ed è un indicatore del rischio percepito dagli investitori nel finanziare lo Stato italiano.Se la Germania paga l’1% di interesse su tali titoli, nel momento in cui lo spread è pari a 500 punti, l’Italia deve pagare, per poter collocare i propri titoli sul mercato, il 5% in più, ovvero il 6%, e questo in relazione al rapporto rischio-rendimento che lega tutti gli investimenti finanziari.Più alta sarà la sfiducia nello Stato italiano di poter far fronte ai propri debiti e maggiori saranno i tassi che questo dovrà pagare per invogliare i finanziatori a comprare i propri titoli di Stato e quindi maggiore sarà lo spread con i titoli tedeschi, considerati privi di rischio a causa dell’affidabilità della Germania.

2. Che cos’è il rating? Il rating è un voto che viene dato sia alle società private che agli Stati che ne fanno richiesta nei confronti di Agenzie specializzate a livello internazionale.Sulla base di parametri di affidabilità politici, economici e finanziari tali Agenzie compiono una valutazione sull’affidabilità e sulle probabilità di default di un determinato soggetto, in base alla sua capacità di poter far fronte ai pagamenti concordati, alle scadenze preventivate. I voti vanno dalla AAA, indice di massima affidabilità – voto attribuito agli Usa e alla Germania – fino alle lettere C e D, che indicano affidabilità molto ridotta e alto rischio di default di quel determinato soggetto.L’Italia che ha un rating pari a Baa2 gode ancora di una media affidabilità che le consente di avere accesso al mercato con i propri titoli di stato, pur con tassi di interesse medio-alti. Rating sotto la lettera C identificano infatti i titoli cosiddetti “spazzatura” che non vengono comprati per statuto dagli investitori istituzionali.

3. Come si estende alle imprese e alle famiglie il costo di un livello alto dello spread? Il peso di uno spread alto si riversa su imprese e famiglie con gli alti costi da interessi che sono costrette a pagare indipendentemente dalle loro condizioni economiche e finanziarie ma per il solo fatto di essere parte del “rischio-Paese” cui appartengono.Le banche devono pagare maggiormente la raccolta in quanto sono percepite come più rischiose delle loro colleghe tedesche, proprio perché legate al rischio default dello Stato a cui appartengono, al quale sono strettamente connesse anche per l’ingente quantitativo di titoli di stato che hanno dovuto comprare negli ultimi anni perché chiamate ad aiutare il Paese in difficoltà.Il maggior costo della raccolta delle banche e la difficoltà a reperire risorse nella quantità voluta creano un aumento dei tassi da queste praticati ad imprese e famiglie, che si trovano a dover pagare finanziamenti e mutui 4-5 punti in più rispetto alla realtà tedesca, con un costo per il sistema Paese spropositato rispetto alla solidità e alla prudenza che questo ha sempre dimostrato nel ridotto indebitamento privato rispetto alla ricchezza posseduta.

4. Quali sono gli spiragli di uscita per la riduzione dello spread?Un maggiore rigore nella gestione dei conti pubblici, riforme strutturali per rendere più facile fare impresa, attrarre investimenti stranieri e creare nuova occupazione tra i giovani per quanto riguarda i compiti interni al nostro Paese.Maggiore integrazione e tempestività nelle decisioni, minori egoismi e una più ampia visione dei benefici che l’Unione Europea comporta per tutti gli Stati coinvolti, senza eccezione alcuna, per quanto riguarda i compiti a livello di istituzioni comunitarie.Una politica economica espansiva e creazione di fondi di aiuto con potenza di fuoco illimitata per gli Stati in difficoltà che ne facciano richiesta, per combattere la speculazione che tanto incide sui livelli dello spread, questo a livello di compiti della Banca Centrale Europea.Su questi tre grandi “compiti a casa”, che tutti i soggetti sono chiamati a svolgere, si gioca il futuro del nostro Paese e della intera Unione Europea.

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Test FINALE1. Lo spreada. è un differenziale tra la disoccupazione italiana e quella spagnolab. è il tasso a cui vengono remunerati i btp a 10 annic. è il differenziale di tasso comunemente riferito al differenziale tra i tassi dei btp italiani e dei bund tedeschi con scadenza 10 annid. indica l’indebitamento di uno Stato rispetto al numero di abitanti

2. Il ratinga. è un voto attribuito ai membri del Governo sulla base della loro bravurab. è un premio attribuito dalla Comunità Europea ai Paesi più virtuosic. è un voto attribuito all’affidabilità di un Paese (o di soggetti privati, imprese o individui, o di enti sovranazionali) nel far fronte al proprio indebitamentod. è un parametro da rispettare per rientrare nella Comunità Europea

3. Il deficit di uno Statoa. riguarda lo squilibrio tra entrate ed uscite che va ad incrementare il debito pubblicob. è una eccezione che riguarda solo gli Stati in difficoltàc. indica la carenza di posti di lavoro in un settore produttivod. è una situazione per cui lo Stato è sottoposto ad un commissariamento dalla Comunità Europea

4. Il Pil a. è un partito italianob. è il valore totale dei beni e servizi prodotti dal Paese in un annoc. è sempre in crescita nelle moderne economied. cresce se lo Stato è sano ed affidabile e non ha debiti

5. L’ESMa. è una unione di piccole imprese a livello europeo per far fronte alla crisib. è un fondo europeo che viene finanziato dalla Germania per aiutare gli Stati più in difficoltàc. è un fondo istituito per pagare contributi alle imprese che investonod. è un fondo finanziario europeo destinato al salvataggio dei Paesi in difficoltà finanziarie che ne fanno richiesta e si impegnano al risanamento dei conti pubblici

Soluzioni : 1c. - 2c. - 3a. - 4b. -5d.

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Caratteristiche ed opportunità dei finanziamentidi Maria Cristina Quirici

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Forte calo dei prestiti finalizzati (-6,12%, quasi trecento euro in meno rispetto al 2010, con un importo medio di 4.267 euro per pratica, contrazione dei mutui (-1,91%, tremila euro in meno in un anno con l’importo medio per pratica a quota 151.735) stabili i prestiti personali (13.576 euro). Sono i dati sull’importo medio erogato alle famiglie italiane nel 2011 rilevato da Crif Decision Solutions. «Nel 2011 le dinamiche a livello nazionale degli importi medi erogati seguono lo stesso trend di contrazione con intensità diverse (spiega Daniela Bastianelli, Research & Innovation di Crif Decision Solutions, società del gruppo Crif specializzata nei sistemi di supporto decisionale, software e consulenza per banche, finanziarie, assicurazioni). La congiuntura negativa ha avuto un riflesso importante anche sul mercato del credito: nel secondo semestre 2011 la crisi dei debiti sovrani, il declassamento dell’Italia e la contrazione del Pil hanno messo in crisi sia l’offerta che la domanda di credito. La scarsa liquidità interbancaria e il forte aumento del costo della provvista per l’elevato rischio Paese si sono trasferiti sui tassi di mercato, influenzando la dinamica degli impieghi e dei prestiti. Solo in questi primi mesi del 2012 le tensioni si sono allentate con il calo degli spread, ma permane l’incertezza e la fragilità dell’economia reale». A risentirne di più sono stati i mutui, diminuiti sia per numero di contratti che per importi erogati. Dal lato della domanda la mancata ripresa del mercato del lavoro ha indotto maggiore prudenza nelle scelte delle famiglie, anche in attesa di tassi di interesse più favorevoli. «L’incertezza sulle condizioni dell’economia e un mercato del lavoro ancora in forte crisi, con la disoccupazione giovanile al 30% - continua Bastianelli - ha portato il clima di fiducia ai livelli minimi degli ultimi anni. In autunno l’aumento dell’inflazione ha causato il calo del potere d’acquisto e della propensione al risparmio delle famiglie».Per i mutui il 2011 ha visto calare non solo gli importi di quelli per l’acquisto ma anche per surroga e sostituzione, giunti a una fase di maggiore maturità per la mancanza, specie nel secondo semestre, di condizioni più favorevoli. Fattori associati poi alla perdurante crisi immobiliare, con compravendite in deciso calo a fronte di prezzi solo in lieve contrazione. Il calo dell’importo medio è, quindi, dovuto alla diminuzione consistente del numero di pratiche e degli importi finanziati. Si è registrata anche una contrazione del rischio di credito per una maggiore prudenza di operatori e famiglie e per la moratoria che ha sospeso le rate alle famiglie in difficoltà.

31 Marzo 2012

LA CRISI COLPISCE I NUOVI PRESTITIdi Nicola Borzi

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Per i prestiti finalizzati, la contrazione dell’importo medio pari al -5,8% segue il calo più rilevante registrato nel 2010 (quando era stata del -13,7%) ed è ancora una volta influenzata dall’andamento dei consumi durevoli, che nel quarto trimestre del 2011 sono calati del -7,1% sullo stesso periodo del 2010. Resta in forte crisi il mercato dell’auto, che nel 2011 ha registrato un calo delle immatricolazioni del -10,3%, dopo il -8% del 2010.Tengono invece i prestiti personali con un importo medio stabile (-0,8% su base annua). Anche per il credito al consumo la contrazione degli importi medi deriva sia dal calo delle pratiche erogate che degli importi finanziati. Crisi di liquidità, incertezza sulle prospettive e problemi occupazionali restano i principali driver della domanda e dell’offerta. Nel 2011, però la qualità del credito è migliorata, grazie a portafogli più ridotti e meno rischiosi dovuti a politiche di erogazione più controllate, in atto dal 2008, e alla contrazione del mercato.

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Aspetti introduttivi in tema di finanziamentiL’articolo, preso a riferimento per approfondire il vasto tema dei finanziamenti, pone in rilievo i caratteri evolutivi del credito alla clientela retail, alla luce della profonda crisi finanziaria ed economica che sta interessando le diverse piazze internazionali. La scelta di un siffatto articolo si fonda sulla considerazione che la presente scheda pone al centro della propria attenzione il singolo individuo, alle prese, nelle diverse fasi della sua vita, con tutta una serie di problematiche finanziarie, tra le quali appunto la necessità di reperire mezzi finanziari per sostenere i propri consumi, non avendo a disposizione nel momento un reddito a tal fine sufficiente.Questo nella consapevolezza che l’attività di finanziamento da parte degli intermediari finan-ziari autorizzati può essere rivolta sia a imprese (clientela corporate) che a famiglie (clientela retail), utilizzando forme tecniche che si differenziano in relazione a quelle che sono le caratte-ristiche proprie del fabbisogno di finanziamento che l’intermediario va a soddisfare: in caso di finanziamenti concessi alle imprese si parlerà di affidamenti – con forme tecniche rappresentate dall’apertura di credito in conto corrente, dalle diverse forme di smobilizzo del credito (come ad esempio lo sconto o l’anticipo sul portafoglio salvo buon fine), dall’anticipazione, dal riporto, dai mutui (volti a sostenere investimenti produttivi a medio/lungo termine), nonché dai crediti di firma che, seppur non concessi in forma monetaria, coinvolgono la responsabilità della banca, che si impegna a garantire o ad assumere un’obbligazione della propria clientela; la tipica modalità di soddisfacimento del fabbisogno finanziario mostrato dalla clientela retail, quindi dai consuma-tori, è invece rappresentata dal credito al consumo, nelle sue diverse forme, cui si affiancano i mutui, tipicamente quelli immobiliari, destinati a fronteggiare esigenze di finanziamento durevole connesse a investimenti o ristrutturazioni in ambito immobiliare.Al credito al consumo e ai mutui si possono affiancare forme di finanziamento peculiari, quali il prestito d’onore o il microcredito, che sono state oggetto di una recente regolamentazione nell’ambito del nostro ordinamento.Per microcredito - disciplinato con D.Lgs. 141/2010, attuativo della direttiva comunitaria 2008/48 in materia di credito al consumo – si intende la concessione di piccoli prestiti, fi-nalizzati prevalentemente all’investimento piuttosto che al consumo, a individui o microimprese considerati “non bancabili” in quanto privi di quelle garanzie patrimoniali che sono normalmente richieste per poter ottenere finanziamenti da istituti bancari. Da sottolineare come l’art. 111 del TUB, intitolato Microcredito, distingua tra microcredito di impresa e microcredito sociale.L’attività di microcredito di impresa si sostanzia nella concessione di finanziamenti a persone fisiche, società di persone o società cooperative per l’avvio o l’esercizio di attività di lavoro au-tonomo o di microimpresa; tali finanziamenti, che non dovranno avere un ammontare superiore a 25.000 euro e non saranno garantiti da garanzie reali (pegno e ipoteca), si configurano come

di Maria Cristina Quirici

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mutui di scopo, dovendo essere finalizzati all’avvio o allo sviluppo di iniziative imprenditoriali o all’inserimento nel mercato del lavoro e dovranno essere accompagnati dalla prestazione di servizi ausiliari di assistenza e monitorag-gio dei soggetti finanziati.L’attività di microcredito sociale, invece, si sostanzia nella concessione di finanziamenti a favore di persone fisiche in condizioni di vulnerabilità economica e sociale; tali finanziamenti, prestati a condizioni più favorevoli di quelle prevalenti sul mercato, non dovranno avere un ammontare superiore a 10.000 euro e, anch’essi, non saranno ga-rantiti da garanzie reali e dovranno avere lo scopo di consentire l’inclusione sociale e finanziaria del beneficiario.Nel disciplinare il microcredito si è “attinto” alla normativa riguardante il prestito d’onore (D.Lgs. n. 185/2000, che ha integrato la legge originaria, cioè la L. 608/1996), che rappresenta uno strumento creato per offrire age-volazioni per l’investimento in attività imprenditoriali. In estrema sintesi, si può rilevare che il prestito d’onore è rivolto soprattutto ai giovani e prevede un finanziamento comprendente un 60% di capitale concesso a fondo perduto, più un rimanente 40% erogato sotto forma di prestito da restituire con un tasso agevolato. Caratteristica del prestito è che non necessita di garanzie personali, dal momento che è richiesta la sola presentazione di un’idea imprenditoriale valida, oltre al possesso, al momento della domanda, di alcuni requisiti, quali maggiore età, stato di disoccupazio-ne da almeno 6 mesi, residenza nei territori di applicazione della normativa (inizialmente erano le sole regioni del Sud, con estensione a quelle del Nord nel 1998). Di fatto, i contributi sono volti a sostenere la creazione di piccole aziende, sia in forma di società che di impresa individuale, nei territori “svantaggiati” dell’Italia, nell’ottica di ali-mentare la lotta alla disoccupazione e di favorire l’autoimpiego. Nel decreto è prevista anche una forma di prestito d’onore destinata a sostenere i giovani nei propri percorsi di formazione universitaria, post-laurea e/o professionale.Delineati questi tratti introduttivi, per poter meglio capire la chiave di lettura dell’articolo in esame è ora opportuno chiarire profili definitori e caratteri peculiari delle principali e tradizionali forme di finanziamento retail, vale a dire il credito al consumo ed i mutui.

La tipica forma di finanziamento al settore famiglie: il credito al consumoAspetti definitori e relative tipologie tecnicheIl credito al consumo riguarda ogni contratto con il quale si conceda un credito ad una persona fisica (consumatore) che agisce per scopi estranei alla propria attività imprenditoriale o professionale; pertanto, il credito al consumo si caratterizza per il fatto che non va a sostenere investimenti produttivi, ma finanzia la spesa corrente delle famiglie, sostenendone appunto i consumi.La concessione di tale credito può assumere diverse forme, quali quelle del prestito, della dilazione di pagamento o di altra analoga facilitazione finanziaria. In relazione ai soggetti autorizzati alla concessione del credito al consumo, occorre sottolineare che, mentre la dilazione di pagamento è concessa dai soggetti autorizzati alla vendita di beni o servizi, il prestito è concesso unicamente da banche e da intermediari finanziari autorizzati - iscritti negli elenchi di cui agli artt. 106 e 107 del Testo Unico Bancario1.Considerando la forma tecnica del prestito, è necessario effettuare una distinzione tra prestiti finalizzati e prestiti personali:

1 Questo significa che chi concede la dilazione di pagamento non può chiedere al consumatore la corresponsione di interessi, poiché, qualora questa fosse richiesta unitamente ad una dilazione di pagamento, si verrebbe a configurare, di fatto, la concessione di un prestito che però, come visto in precedenza, è riservata alle banche e agli intermediari finanziari autorizzati, iscritti negli appositi elenchi tenuti dalla Banca d’Italia.

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il prestito finalizzato (detto anche “credito collegato”) è una forma di finanziamento rivolto esclu-sivamente all’acquisto di determinati beni o servizi (non va quindi a soddisfare un generico biso-gno di liquidità del consumatore). I prestiti finalizzati sono quelli che tipicamente si sottoscrivono comprando autoveicoli, elettrodomestici, mobili, arredi o altri apparecchi tecnologici. Nella prassi, il contratto viene concluso presso gli stessi esercizi commerciali dei venditori, con moduli-stica da questi fornita, sulla base di una previa convenzione tra la finanziaria/banca che eroga il finanziamento ed il venditore/fornitore del bene o servizio, le cui caratteristiche dovranno es-sere ben identificate nel contratto di finanziamento. Al consumatore è richiesta la presentazione di documenti, tra i quali rileva l’ultima busta paga; il bene/servizio oggetto di acquisto viene in genere messo subito a disposizione del consumatore2. In sostanza, il prestito finalizzato è un finanziamento alla vendita rateale, che non comporta l’erogazione di una somma di denaro al consumatore, ma che gli consente di non pagare subito e in contanti l’intero importo del bene/servizio acquistato, bensì di rateizzarlo; il prestito personale, invece, è un finanziamento senza obbligo di destinazione erogato diret-tamente a favore del cliente per soddisfarne esigenze di natura personale e rimborsabile a rate prestabilite. Solitamente è concluso presso le filiali bancarie o gli uffici della finanziaria erogatri-ce il credito e i fondi ottenuti possono essere utilizzati dal cliente affidatario per svariati fini (ad esempio per realizzare un progetto o un viaggio), che non devono essere esplicitati al momento della conclusione del contratto. Il prestito personale rientra nella categoria dei prodotti di credito al consumo solo se il finanziamento è compreso tra i 200 e i 75.000 euro.Rientrano nella disciplina del credito al consumo anche le operazioni di prestito effettuate contro cessione del quinto dello stipendio. In questo caso il credito - volto a soddisfare esigenze perso-nali del richiedente, così come visto per i prestiti personali - può essere ottenuto da lavoratori di-pendenti, pubblici e privati, nonché da pensionati, con un rimborso attraverso rate mensili a tasso fisso trattenute direttamente dal datore di lavoro/ente previdenziale dalla busta paga/cedolino della pensione, nella misura massima di un quinto dello stipendio/pensione, fino a completa copertura del finanziamento ricevuto (capitale, interessi e spese). L’operazione è assistita da una copertura assicurativa contro il rischio di morte e di licenziamento del lavoratore, sul quale grava il corrispondente premio assicurativo.Una ulteriore forma di concessione di credito al consumo è costituita dai finanziamenti utilizzabili in maniera rotativa (credito revolving), spesso appoggiati ad una carta di credito (detta appunto “carta revolving”). Come le normali carte di credito, anche le carte revolving consentono di effet-tuare pagamenti senza ricorrere ai contanti, attingendo direttamente al conto corrente. Il termine “revolving”, tuttavia, si riferisce a una caratteristica propria di questo specifico tipo di carta: il cliente può scegliere di saldare il conto non già alla fine del mese, ma dilazionando il paga-mento su più rate nel tempo. Il fido concesso è piuttosto contenuto e supera di rado i 2000 euro; man mano che il cliente paga l’importo dovuto e i relativi interessi, il capitale cui può attingere

2 I soggetti erogatori possono riservarsi di accordare il finanziamento entro un breve lasso di tempo, di solito necessario per valutare la solvibilità del cliente.Ca

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va ricostituendosi e torna a essere disponibile per nuovi finanziamenti - un principio “rotativo” cui le carte revolving devono il loro nome. Si può così accedere quasi automaticamente a un finanziamento a rate, senza per questo dover richiedere un finanziamento ad hoc, con tutti i vantaggi in termini di risparmio di tempo e di modulistica da compilare. Ovviamente, gli interessi, piuttosto elevati, si pagano solo qualora si scelga di rateizzare il pagamento e non se si utilizza la carta revolving come una qualsiasi carta di credito a saldo.Non rientrano, invece, nella disciplina del credito al consumo:•  i finanziamenti, di qualsiasi natura, di importo inferiore ai 200 euro o superiore ai 75.000 euro;•  i finanziamenti destinati all’acquisto o alla conservazione di un diritto di proprietà di un terreno o di un immobile (edificato o da edificare). In questo caso il finanziamento deve essere richiesto nella forma del mutuo (tipico è il mutuo immobiliare), rimborsabile a rate in un arco di tempo pluriennale, con rate costanti, in caso di mutuo a tasso fisso, o variabili (nell’importo e nel numero) in caso di mutuo a tasso variabile;•  i finanziamenti garantiti da ipoteca su beni immobili con durata superiore a 5 anni (mutui ipotecari), o quelli garantiti da pegno su un bene mobile, se il loro importo non eccede il valore del bene;•  i finanziamenti aventi per oggetto l’investimento in strumenti finanziari;•  i finanziamenti concessi in base ad accordi raggiunti davanti all’autorità giudiziaria o altra autorità.

Caratteri peculiari dei contratti di credito al consumoI contratti di credito al consumo devono essere conclusi per iscritto e il consumatore deve ricevere un esemplare del contratto, pena la nullità del contratto stesso. La scadenza del contratto è rimessa alla libera determinazione delle parti e va definita nel contratto: nelle forme del finanziamento, il credito al consumo ha di norma una durata variabile dai 12 ai 72 mesi e non è assistito da garanzia reale (come il pegno sul bene acquistato) o personale (come la fideiussione).Il consumatore che riceve il credito si obbliga: a) nel caso di dilazione di pagamento, a corrispondere il prezzo al venditore di beni o servizi alle date convenute; b) nel caso di concessione di un prestito, a restituire l’importo concesso (capitale erogato) e a pagare gli interessi calcolati sulla base di un determinato tasso di interesse. L’adempimento dell’obbligo di restituire il capitale e di corrispondere gli interessi avviene in modo graduale nel tempo attraverso versamenti periodici, le rate. Queste rappresentano le somme che il consumatore versa alla banca o alla società finanziaria per la restituzione del prestito ricevuto. Il rimborso avviene secondo cadenze temporali determinate dalle parti, anche se, di regola, le rate sono mensili. Il consumatore si impegna a pagarle con puntualità, visto che il rispetto del piano di rimborso rappresenta un evento importante per il buon andamento del rapporto di credito al con-sumo. Il consumatore è altresì tenuto a pagare le spese necessarie per la conclusione del contratto.Il consumatore ha comunque la facoltà di adempiere in via anticipata agli obblighi che derivano dal contratto di credito al consumo. In particolare, il consumatore ha sempre la facoltà di restituire il prestito in via anticipata o di recedere dal contratto senza penalità3. È esclusa la validità di qualsiasi patto fra banca (o intermediario finanziario) e consumatore che comporti la rinuncia a tale diritto. La facoltà di rimborso anticipato è riconosciuta dalla legge solo al consumatore. Pertanto, la banca o la società finan-ziaria erogatrici del prestito non possono esigerne il rimborso anticipato, a meno che non si verifichino le ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento del consumatore, ipotesi rappresentate dal mancato o ritardato pagamento delle rate previste dal piano di rimborso. 3 Qualora il consumatore eserciti la facoltà di adempimento anticipato, ha diritto a un’equa riduzione del costo complessivo del credito; in particolare, è tenuto al pagamento del capitale residuo, degli interessi e altri oneri maturati fino a quel momento e, se previsto dal contratto, anche al pagamento di un compenso non superiore all’uno per cento del capitale residuo.

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Infatti, qualora il consumatore non rispetti le scadenze previste per il pagamento delle rate del credito al consumo concessogli, in base alle regole generali in materia di contratti, la banca e gli intermediari finanziari erogatori del prestito possono chiedere la risoluzione del contratto, evento che comporta la richiesta immediata di pagamento del capitale residuo. Il consumatore potrebbe in alternativa esser tenuto al pagamento di maggiori oneri per l’applicazione di interessi di mora, la cui misura deve essere indicata nella documentazione precontrattuale e nel contratto. Un’ulteriore conseguenza del mancato rispetto delle scadenze delle rate attiene alla possibilità da parte delle banche e degli intermediari finanziari di segnalare al sistema creditizio e finanziario il consumatore come cliente non affidabile, circostanza penalizzante in quanto può ostacolare la possibilità di ricorrere al credito al consumo in futuro o quantomeno renderlo più oneroso4. Con riguardo all’entità degli interessi addebitati, è opportuno sottolineare come il primo dato su cui il consumatore deve soffermarsi nel valutare la sottoscrizione di un contratto di credito al consumo è il TAEG, ovvero il Tasso Annuo Effettivo Globale, che esprime il costo complessivo del finanzia-mento in esame espresso in percentuale annua rispetto al capitale erogato e che, per questo tipo di contratti, costituisce il cosiddetto “indicatore sintetico di costo” (ISC).Il TAEG, il cui calcolo presuppone che siano conosciuti in anticipo elementi quali entità del finan-ziamento e relativi tempi di restituzione, si distingue dal TAN (Tasso Annuo Nominale), che rappre-senta il tasso di interesse annuale legato al finanziamento, perché, oltre agli interessi, comprende tutti i costi, a conoscenza del finanziatore, che il consumatore deve pagare in relazione al contratto di credito al consumo, quali, ad esempio, le spese di istruttoria e apertura pratica di affidamento, le spese di riscossione dei rimborsi e di incasso delle rate, le spese per le assicurazioni o garanzie imposte dal creditore, il costo dell’attività di mediazione eventualmente svolta da un terzo e comun-que ogni altra spesa contemplata nel contratto. Sono invece escluse dal calcolo del TAEG le som-me che il consumatore deve pagare a titolo di penale per l’inadempimento di obblighi contrattuali, compresi gli interessi di mora per ritardato pagamento delle rate alla scadenza, le eventuali spese di gestione del conto corrente aperto ad hoc per pagare le rate, le spese per le assicurazioni o garanzie scelte volontariamente dal consumatore.Nella disciplina del credito il consumo il TAEG assolve una funzione essenziale: infatti, l’indica-zione del costo complessivo del credito nella pubblicità, negli uffici commerciali dell’intermediario e nella documentazione messa a disposizione del consumatore, prima della conclusione del con-tratto, consentono a quest’ultimo da un lato di disporre di informazioni omogenee e attendibili sul costo effettivo del credito delle diverse offerte presenti sul mercato, dall’altro di poterne raffrontare la convenienza. Il consumatore dovrà quindi attentamente verificare il contenuto del contratto di credito al consu-mo, che dovrà ricomprendere: a) ammontare e modalità del finanziamento; b) numero, importo e

4 Al riguardo, occorre sottolineare come preliminarmente alla concessione del credito venga effettuata una valutazione della rischiosità del cliente utilizzando modelli di analisi statistica detti di credit scoring. Tali sistemi, al fine di valutare la solvibilità del consumatore richiedente il finanziamento, combinano tra loro una serie di infor-mazioni al fine di pervenire ad un punteggio di accettazione (da parte del soggetto finanziatore) circa il rischio di credito del richiedente in un determinato arco di tempo. In funzione del punteggio, l’intermediario trae elementi utili per accettare o rifiutare il finanziamento e per determinarne l’entità e il tasso di interesse da applicare.Ca

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scadenza delle rate; c) TAEG ed eventuali modalità della sua modifica; d) oneri non compresi nel TAEG; e) garanzie richieste5; f) assicurazioni richieste e non incluse nel TAEG. Inoltre, i contratti di credito al consumo concesso nella for-ma del prestito finalizzato devono contenere anche la descrizione analitica dei beni e dei servizi oggetto di acquisto, l’indicazione del prezzo in contanti, di quello stabilito dal contratto e l’ammontare dell’eventuale acconto, nonché le condizioni per il trasferimento del diritto di proprietà, qualora questo non sia immediato.Infine, è opportuno sottolineare che la disciplina contrattuale sul credito al consumo prevede che nessuna somma possa essere pretesa se non sulla base di espresse previsioni contrattuali e che le clausole di rinvio agli usi sono in ogni caso nulle6. È infine opportuno rilevare come sia da salutare con estremo piacere l’entrata in vigore il 19 settembre 2010 del D. Lgs. 141/2010, che ha recepito la direttiva sul credito al consumo (Dir. 2008/48/CE), allineando così l’Italia alla normativa europea. Numerose le nuove regole che hanno riformato il settore e, tra le altre, da rilevare: 1) l’estensione delle tutele connesse ai contratti del credito al consumo per finanziamenti da 31.000 a 75.000 euro; 2) l’ampliamento del periodo che prevede il diritto di ripensamento del cliente che, senza spiegazione, può entro 14 giorni dalla firma contrattuale tornare sui suoi passi; 3) l’abolizione per i debiti residui sotto i 10.000 euro della penale di estinzione anticipata dell’1%; 4)l’introduzione di un foglio pre-contrattuale standard per permettere un confronto ponderato delle offerte dei diversi operatori europei. L’auspicio è che la riforma del settore avviata con il recepimento della direttiva comunitaria e la conseguente imposizio-ne di nuovi vincoli di trasparenza possano indurre maggiore fiducia nei consumatori, dando più spazio al loro diritto sia di scegliere in base ad una informazione comprensibile, evidente e comparabile, sia di poter esercitare il diritto di ripensamento e quindi di poter recedere con una procedura rapida e non penalizzante. Tutto questo è tanto più impor-tante se si considera che il periodo di grave crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo negli ultimi anni ha ridotto sia la propensione al consumo che quella all’indebitamento dei consumatori, imprimendo un severo trend negativo al credito al consumo nelle sue diverse forme.

Una forma di finanziamento a lungo termine: il mutuoCaratteri peculiariQualora un soggetto retail intenda comprare un terreno o un immobile (edificato o da edificare), oppure ristrutturare un immobile di proprietà, il finanziamento non deve essere richiesto in una delle forme del credito al consumo, bensì nella forma del mutuo, che rappresenta un’operazione a medio-lungo termine, attraverso la quale la banca eroga a favore del beneficiario una somma rimborsabile sulla base di un piano di ammortamento pluriennale che, stabilito all’atto della concessione del prestito, indica la periodicità e l’importo delle rate di rimborso7. Le rate saranno costan-ti, in caso di mutuo a tasso fisso, o variabili (nell’importo e nel numero) in caso di mutuo a tasso variabile. Qualora il mutuo vada a finanziare l’acquisto di un immobile (tipico è il caso del mutuo per l’acquisto della prima

5 Le garanzie chieste al consumatore per accedere al credito al consumo sono piuttosto limitate. Solitamente è sufficiente che il richiedente abbia un reddito, meglio se da lavoro a tempo indeterminato o nella pubblica amministrazione, un conto corrente e che non sia iscritto nella lista dei “cattivi pagatori”.6 In caso di assenza o nullità delle clausole concernenti il TAEG o la scadenza del credito, si applicano, rispettivamente, il tasso minimo dei buoni del tesoro annuali nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto e la durata di trenta mesi. 7 Il mutuo può essere erogato dalla banca anche a favore di imprese (clientela corporate) e in questo caso andrà a soddisfare un fabbisogno di finanziamento a medio-lungo termine, volto all’acquisizione/rinnovo di macchinari ed impianti o di fabbricati industriali. In questi casi il credito erogato sarà assistito da ipoteca di primo grado sui fabbricati o da privilegio sugli impianti. Cfr. P. Ferretti, Forme tecniche dei prestiti, in R. Caparvi, L’impresa bancaria. Economia e tecniche di gestione, Franco Angeli, Milano, 2006, pagg. 386-387.

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Fattori di convenienza nella scelta del mutuo tra tasso fisso, tasso variabile e tasso mistoPrima di accendere un mutuo c’è sempre la difficoltà di scegliere tra mutuo a tasso fisso, a tasso variabile o a tasso misto, nella consapevolezza che la scelta è strettamente connessa al rischio maggiore o minore che il mutuatario si accolla nei diversi casi ed al fatto di poterlo sostenere.

Mutui a tasso fissoI mutui a tasso fisso si caratterizzano per il fatto che il tasso d’interesse rimane invariato per tutta la durata del mutuo, anche nel caso in cui insorgano cambiamenti nei mercati finanziari e monetari.

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Il tasso fisso permette al mutuatario di sapere, sin dall’inizio, il valore di ciascuna delle rate che dovrà pagare e la durata complessiva del prestito, con evidenti benefici sul piano della gestione della propria disponibilità economica. I mutui a tasso fisso hanno dunque una rata costante nel tempo ed il maggior costo rispetto ad altri prodotti è dovuto al fatto che le banche si assumono il rischio dell’aumento dei tassi nell’arco di tempo pluriennale di durata del mutuo. Pertanto, nel caso di mercati instabili in cui l’inflazione non è sotto controllo, ma soggetta a variabilità, con conse-guente possibile aumento dei tassi di riferimento, la scelta di un mutuo a tasso fisso è consigliabile. Ad esempio, a causa dell’instabilità dei mercati rilevata in questo periodo, le richieste di mutuo a tasso fisso tra coloro che sono in procinto di acquistare la prima casa sono in aumento. Sono due i parametri da cui dipende l’ammontare del tasso fisso: l’Eurirs, noto anche come Irs (Euro interest rate swap) e lo spread. Il tasso Eurirs, comunicato quotidianamente dalla Federazione Bancaria Europea, corrisponde alla media delle quotazioni alle quali gli istituti finanziari europei praticano l’Interest Rate Swap; lo spread imposto dalla banca equivale, invece, al guadagno che la banca trarrà dal prestito, risultando in genere compreso tra l’1% ed il 3%. Il valore del tasso fisso varia in funzione della durata del mutuo: maggiore è la durata del mutuo, maggiore sarà sia il tasso Eurirs che lo spread applicato dalla banca, visto che aumentano in maniera corrispondente i rischi connessi al finanziamento che la banca dovrà sopportare.

Mutui a tasso variabileNei mutui a tasso variabile, invece, l’ammontare della rata non è predeterminato e varia in funzione della variabilità del tasso di interesse preso a riferimento, dato dall’Euribor. L’Euribor è un tasso interbancario diffuso giornalmen-te dalla Federazione Bancaria Europea come media ponderata dei tassi di interesse ai quali le banche operanti nell’Unione Europea cedono i depositi in prestito. Quale ulteriore parametro di indicizzazione dei mutui ipotecari a tasso variabile può essere utilizzato anche il tasso BCE, che rappresenta il tasso al quale la Banca Centrale Europea (BCE) concede prestiti alle banche operanti nell’UE. La convenienza a scegliere un mutuo a tasso variabile si collegherà ad un panorama finanziario tale da non far prevedere tassi in ascesa; ovviamente un mutuo a tassi variabili comporta l’assunzione del rischio della variabilità dei tassi da parte del mutuatario, che si connette però ad un suo minor costo, visto che più ridotto sarà lo spread applicato dalla banca, che non si dovrà accollare detto rischio, come invece avviene in caso di mutuo a tasso fisso.

Mutui a tasso mistoLa formula del mutuo a tasso misto prevede invece la possibilità, nel corso della vita del mutuo, di passare da un piano di ammortamento a tasso variabile ad uno a tasso fisso o viceversa, dati certi spread definiti. Tale passaggio può essere o regolamentato dal contratto all’accensione del mutuo, oppure può essere data facoltà al mutuatario di effettuare l’opzione dopo un numero predeterminato di anni (ad es. dopo 2/3 anni dall’inizio del piano), oppure a date e termini solo indicati, con sua libertà di scelta al riguardo. Posto che l’opzione di passaggio su diverse tipologie di tasso ha sempre un costo aggiuntivo da riconoscere alla banca, costo implicito negli spread applicati, è possibile rilevare come questa formula del tasso misto sia consigliata a quei mutuatari che al momento dell’accensione del mutuo sia per condizioni di mercato o macroeconomiche instabili, sia a causa di proprie situazioni reddituali non definite, si trovano in una condizione di incertezza, non riuscendo a comprendere quale tipologia di tasso si adatti meglio alle proprie necessità. In questo caso il mutuo a tasso misto dà modo di rinviare la scelta definitiva (anche se con la possibilità – riconosciuta dalla Legge Bersani – di surrogare il mutuo tale condizione perde importanza),

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tiin quanto può essere più facile sostituire a costo zero il mutuo di cui non si è più soddisfatti che non accollarsi il maggior costo di un mutuo a tasso misto al fine di avere la possibilità di fare una scelta di tasso successivamente. Recentemente il “Sole 24Ore”, nell’articolo Mutui sempre più difficili, ma tu quale sceglieresti?, del 14 settembre 2012, ha sottolineato come in Italia siano oggi erogati sempre meno mutui, in termini sia di numero di contratti che di importi erogati: nei primi 8 mesi del 2012 la domanda di mutui ha segnato un –44% rispetto allo stesso periodo del 2011; le cause di tale netta riduzione sono individuabili nella restrizione dell’offerta (minore concessione di mutui, o credit crunch, da parte delle banche, con contestuale rialzo degli spread applicati e riduzione della quota del va-lore della casa da finanziare), cui si connette anche un netto calo della domanda da parte delle famiglie, ascrivibile alla maggiore onerosità dei mutui, e ad una diffusa sfiducia dei consumatori riguardo alla propria situazione economica, alla luce della riduzione del proprio potere d’ac-quisto e di un mercato del lavoro in forte crisi, con la disoccupazione giovanile al 30%, che ha indotto alla massima prudenza negli investimenti, fino a forme di vera e propria autocensura al riguardo8. Nell’ambito dello stesso articolo, il “Sole 24 Ore” ha condotto un sondaggio intitolato Meglio il fisso o il variabile? dove alla domanda: «Se dovessi stipulare un mutuo per comprare la prima casa cosa sceglieresti?» è stato risposto nel seguente modo:• tasso variabile: la crisi lascerà bassi i tassi (30,96%)• tasso fisso: oggi più conveniente che in passato (27,05%)• variabile con opzione di passaggio al fisso (19,33%)• variabile con cap, per non avere sorprese in futuro (17,44%)• per le banche non ho sufficienti garanzie per l’accesso (4,63%). Queste risposte testimoniano una preferenza per il mutuo a tasso variabile, nonostante i tassi sia-no oggi a livelli molto bassi, con possibilità di incrementi futuri e quindi rata più pesante, seguito da quello a tasso fisso e dal tasso misto.

Le recenti misure per la sospensione, a date condizioni, del paga-mento delle rate in un mutuo prima casaIl Fondo di solidarietàIl Fondo di solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa è stato regolamentato nel 20109 e permette di ottenere la sospensione del pagamento delle rate fino ad un massimo complessivo di 18 mesi nel corso dell’esecuzione del contratto. È stato così reso possibile presentare le istanze di accesso al beneficio alla banca erogatrice del mutuo (a partire dal 15 novembre 2010) purché in possesso, allora come oggi, dei seguenti requisiti:a. l’immobile oggetto del mutuo deve essere adibito ad abitazione principale (essere cioè “prima casa”);

8 Cfr. anche V. Benigno, Crollo dei mutui, è solo colpa delle banche?, in “Corriere della Sera”, 22 giugno 2012.9 Cfr. Decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze n. 132 del 21 giugno 2010, attuativo della Legge 24 dicembre 2007, n. 244. Con successivo Decreto del Direttore Generale del Tesoro, in data 14 settembre 2010, è stato individuato quale soggetto gestore del Fondo in esame la Consap (Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici S.p.A.).

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b. l’importo del mutuo non deve superare i 250.000 euro e deve essere in ammortamento da almeno un anno;c. l’intestatario non deve avere una dichiarazione ISEE (che attesta il reddito del nucleo familiare) superiore ai 30.000 euro.Tali requisiti devono sussistere tutti al momento della presentazione della domanda e, in caso di mutuo cointestato, possono sussistere in capo anche a soltanto uno dei mutuatari. La sospensione non può essere richiesta se vi è già stata la notifica dell’atto di pignoramento del bene oggetto del mutuo.In seguito alla recente riforma del ministro Fornero, entrata in vigore a partire dal 18 luglio 2012, sono confermati i suddetti requisiti di accesso al Fondo, ma sono state inserite anche alcune novità. Se da un lato potrà richiedere la sospensione delle rate dei mutui anche chi ha già fruito di altre misure analoghe, purché non superiori ai 18 mesi (possibilità prima esclusa), dall’altro sono state introdotte nuove restrizioni, visto che l’ammissione al Fondo in esame risulta ora subordinata ai casi nei quali il mutuatario, nei 3 anni precedenti la richiesta, sia stato licenziato dal rapporto di lavoro subordinato anche per controversie individuali, ad eccezione di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, oppure in caso di morte o riconoscimento di handicap grave o di  invalidità civile, purché non inferiore all’80%.A fronte della sospensione del pagamento delle rate, Il Fondo di solidarietà provvederà a pagare alla banca inte-ressata esclusivamente gli oneri finanziari corrispondenti alla quota interessi delle rate sospese che, con riguardo ai mutui regolati con tasso variabile, corrisponderà all’Euribor di durata pari a quella del mutuo, mentre per i mutui a tasso fisso, al tasso IRS in euro di durata pari alla durata residua del contratto di mutuo vigente al momento della sospensione dell’ammortamento.Da sottolineare che detta sospensione non comporta commissioni aggiuntive, spese di istruttoria o richiesta di ulteriori garanzie da parte della banca erogatrice.

Il “Piano Famiglie” Un’ulteriore forma di aiuto alle famiglie in difficoltà con il pagamento del mutuo per la prima casa, oltre al Fondo di

solidarietà testé tratteggiato - misura che si è resa non solo opportuna ma necessaria alla luce della profonda crisi

economico-finanziaria a tutt’oggi ancora in atto -, è rappresentata dalla moratoria dei mutui prevista nell’ambito del

“Piano Famiglie”, frutto dell’accordo tra l’ABI (Associazione Bancaria Italiana) e ben 13 associazioni dei consumato-

ri. Tale Piano dà la possibilità agli intestatari di mutui prima casa di sospendere, per un periodo massimo di 12 mesi,

il pagamento delle rate del mutuo stesso (tale possibilità è stata resa operativa a partire dal 1° febbraio 2011 e, in

virtù dell’ulteriore accordo raggiunto il 31 gennaio scorso tra ABI e associazione dei consumatori, è stata prorogata

al 31 luglio 2012).

Ovviamente, per poter beneficiare della sospensione prevista dal “Piano Famiglie”, è necessario rispettare deter-

minati requisiti. In primo luogo, l’intestatario del finanziamento deve essere andato incontro, dal 2009 in poi, ad

eventi sfavorevoli quali:

a. perdita del posto di lavoro, ad eccezione delle ipotesi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, di risoluzione

per limiti di età con diritto a pensione di vecchiaia/anzianità, di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo sog-

gettivo, di dimissione non per giusta causa;

b. sospensione dal lavoro o riduzione dell’orario di lavoro per un periodo di almeno 30 giorni, anche in attesa dell’emana-

zione dei provvedimenti di autorizzazione dei trattamenti di sostegno del reddito (CIG, CIGS, contratti di Solidarietà, ecc.);

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tic. morte, grave invalidità o comunque insorgenza di condizioni di non autosufficienza.

La richiesta deve essere presentata alla banca che ha concesso il finanziamento (sempre che

questa abbia aderito all’iniziativa ABI) a condizione che il mutuo (a tasso fisso, variabile o misto)

sia destinato all’acquisto, costruzione e ristrutturazione dell’abitazione principale10, sia di importo

pari o inferiore a 150.000 euro e abbia durata superiore a 5 anni.

Il mutuatario deve avere un reddito imponibile non superiore a 40.000 euro (anche se alcune

banche hanno alzato spontaneamente il tetto). È inoltre possibile richiedere la sospensione del

pagamento delle rate anche da parte di mutuatari in ritardo con i pagamenti, purché questi non

siano superiori ai 180 giorni consecutivi al momento della presentazione della domanda. Non può

essere invece accolta la richiesta di moratoria da parte di chi abbia già usufruito in precedenza

della sospensione del pagamento per meccanismi offerti dalla banca o per una misura pubblica.

Le quote capitale sospese dovranno essere recuperate al termine del piano di ammortamento,

che subirà quindi un allungamento pari al periodo di sospensione. Per gli interessi, la situazione

è più composita: alcune banche hanno previsto la sospensione delle sole quote capitale, per cui

gli interessi dovranno essere comunque pagati durante la moratoria, mentre altre banche hanno

concesso la sospensione totale dei pagamenti, per cui il recupero degli interessi verrà distribuito

sulle rate successive.

Tali modalità di recupero degli interessi connessi alle rate sospese fanno capire che è diverso

accedere ai benefici previsti dal Piano Famiglie rispetto a quelli previsti dal Fondo di solidarietà

per mutui prima casa. Infatti, anche se le finalità delle due misure di moratoria sono analoghe,

molteplici sono le differenze riscontrabili: in primo luogo, occorre sottolineare come il Fondo di

Solidarietà rappresenti una misura di natura pubblica, con un Regolamento ministeriale uguale

per tutti, mentre nel caso del Piano Famiglie si parla di un accordo volontario tra ABI e diverse

associazioni di consumatori, con requisiti di accesso al beneficio della sospensione che possono

variare da banca a banca (alcune banche possono anche non aver aderito all’accordo stesso),

e con una durata di ammissibilità di presentazione delle richieste definita nel tempo. Inoltre, nel

caso del Fondo di Solidarietà le banche sanno che riceveranno le quote interessi relative alle rate

sospese direttamente dal Fondo, nel caso invece del Piano Famiglie vi possono essere accordi

diversi tra banche e mutuatari circa il recupero delle quote interessi e capitale, connesse alle rate

oggetto di sospensione.

10 Trattandosi di un accordo e non di una misura pubblica, alcuni Istituti hanno allargato le finalità alla surroga, sostituzione e consolidamento, mentre altri hanno ricompreso nell’agevolazione i mutui contratti per seconde case o immobili commerciali.

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Traccia per l’attività in classeIn primo luogo, potrebbe essere opportuno sviluppare in aula una discussione di tipo interattivo, tale cioè da sti-molare la partecipazione attiva dei ragazzi, volta a sondare la loro reale comprensione delle tematiche affrontate nell’articolo e nella scheda, e connesse alla richiesta di finanziamenti in qualità di consumatori, in particolare nelle diverse forme tecniche proprie del credito al consumo. Questo alla luce anche delle loro personali esperienze, in modo da far emergere se hanno avuto modo di affrontare, e in che modo poi hanno eventualmente risolto, il proble-ma di come acquistare i nuovi prodotti ad elevata tecnologia così di moda (magari uno smartphone, o altro cellulare avanzato, o un notebook o un iPad), non avendo a disposizione, al momento dell’acquisto, le somme necessarie. Potrebbe poi essere interessante realizzare una vera indagine sul campo, approntando da parte del docente, in col-laborazione con lo stesso gruppo-classe, un questionario che i ragazzi dovrebbero sottoporre alle proprie famiglie in modo da verificare la loro maggiore o minore conoscenza delle diverse forme di finanziamento rivolte ai consu-matori. A scopo esemplificativo, detto questionario potrebbe contenere domande circa le esperienze dirette riportate in famiglia al riguardo, come ad esempio: se è stato richiesto un mutuo per l’acquisto della prima casa; in questo caso, se è stato optato per un mutuo a tasso fisso o a tasso variabile, o se vi è stata una rinegoziazione del mutuo stipulato; se sono stati utilizzati nell’arco dell’ultimo anno uno o più prestiti finalizzati, specificando per ciascuno di essi il bene o servizio per il cui acquisto il finanziamento è stato richiesto, la durata, il numero e l’importo delle rate; se si conosce per i singoli finanziamenti eventualmente ottenuti il TAEG; se sono stati richiesti uno o più prestiti perso-nali e se sì in quale forma (cessione del quinto dello stipendio o altro) e con quale tempizzazione; se viene utilizzata nell’ambito della famiglia una carta di credito revolving; se sono state vissute esperienze di trasferimento di un mutuo da un istituto finanziario ad un altro, o se sono mai state effettuate estinzioni anticipate dei finanziamenti ricevuti.Il questionario dovrebbe preved ere anche la richiesta del maggiore o minore grado di apprezzamento riportato in relazione alle suddette diverse esperienze. I dati riportati dai questionari dovrebbero essere poi sintetizzati, anche con l’ausilio di grafici e tabelle, e i relativi risultati discussi in classe.

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Credito al consumo Pagamenti ratealiFabbisogno finanziario consumatoriPrestiti finalizzatiPrestiti personaliCarte di credito revolvingTAN e TAEGMutui a tasso fissoMutui a tasso variabile e mistoMoratoria mutui

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tiFAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. Nel credito al consumo qual è la differenza fra il TAN (Tasso Annuo Nominale) e il TAEG (Tasso Annuo Effettivo Globale)?Il TAN esprime, in termini percentuali rispetto al capitale erogato, il tasso annuo di interesse praticato per il contratto di credito al consumo pubblicizzato, offerto o concluso con il consumatore.Il TAEG rappresenta, in termini percentuali rispetto al capitale erogato, il costo totale effettivo del credito a carico del consumatore, includendo oneri diversi e ulteriori rispetto al tasso di interesse che il consumatore dovrebbe corrispondere alle banche e agli intermediari finanziari, ove decidesse di concludere il contratto. Il TAEG, che risulta quindi superiore al TAN, ha la funzione di agevolare il paragone fra le proposte di credito al consumo disponibili sul mercato.

2. Quali sono i possibili rischi connessi ad un eccessivo sviluppo nella richiesta di credito al consumo da parte dei consumatori? Il credito al consumo, nelle sue diverse forme tecniche, si collega alla scelta sempre più frequente da parte dei consumatori di pagare a rate i propri acquisti, per dilazionare nel tempo il pagamento e godere immediatamente del bene o servizio desiderato. Quello del pagamento a rate è un concetto tutt’altro che recente: pagare a rate significa trasferire un onere finanziario nel futuro, scaricandolo su una disponibilità finanziaria a venire. Tale possibilità ha un prezzo, dato dagli interessi sull’importo che si sceglie di pagare a rate, applicati sino all’estinzione completa del debito. La diffusione di questa forma di pagamento tra i consumatori italiani si collega e si intreccia con il moltiplicarsi delle offerte da parte dei finanziatori. Se comprare a rate un’auto o una cucina non è insolito, visto l’ammontare elevato di queste spese, occorre sottolineare come oggi sia ormai prassi frazionare anche il pagamento di grandi e piccoli elettrodomestici o apparecchiature ad elevato contenuto tecnologico (TV Lcd o al plasma, macchine fotografiche reflex, smartphone, iPhone o iPad e così via), ma anche di viaggi di piacere (come crociere, settimane bianche ecc.) e di qualsiasi genere di bene e servizio. Da qui la crescente richiesta di prestiti personali, oltre che finalizzati, per soddisfare crescenti e talvolta superflui bisogni. Da qui la necessità di sottolineare l’esigenza di fare molta attenzione, poiché sussiste il rischio di perdere di vista l’ammontare complessivo degli esborsi mensili, accumulando un numero elevato di pagamenti a rate senza che a monte vi sia una reale pianificazione finanziaria. Per questo, molte associazioni dei consumatori e le stesse banche consigliano di porre un tetto alle spese, in modo tale che le rate mensili a carico della famiglia o del singolo consumatore non superino complessivamente il 30% dello stipendio recepito, al fine di evitare rischi di ritardi nei pagamenti, se non di veri e propri default, con l’impossibilità di far fronte alla restituzione del finanziamento ricevuto.

3.Perché il mutuo a tasso fisso è da considerare un’operazione bancaria più onerosa per il mutuatario rispetto ad un mutuo a tasso variabile?Perché nel mutuo a tasso fisso il rischio della variabilità dei tassi nel periodo di riferimento se lo accolla la banca, che quindi richiederà una remunerazione (data dallo spread applicato, che sommandosi al tasso Irs definisce il costo totale dell’operazione) superiore rispetto a quella richiesta in caso di mutuo a tasso variabile, dove detto rischio è a carico del richiedente il mutuo.

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Cultura finanziaria a scuola: per prepararsi a scegliere

Test FINALE1. Ponendo a confronto il TAN e il TAEG di un certo prestito finalizzato si può rilevarea. che il TAN è superiore al TAEGb. che TAN e TAEG sono necessariamente ugualic. che il TAEG è superiore al TAN, ricomprendendo un maggior numero di fattori rispetto al TANd. che solo a certe condizioni, se specificate nel contratto, il TAEG è superiore al TAN

2. Se si decide di comprare un immobile per uso abitazione e, non avendoli, si vogliono reperire i mezzi finanziari a ciò necessari , si puòa. chiedere un prestito finalizzatob. chiedere un prestito personalec. chiedere un mutuo immobiliared. chiedere un mutuo mobiliare

3.La banca o la società finanziaria eroganti il credito al consumo possono esigere il rimborso anticipato del finanziamento?a. no, in nessun casob. no, a meno che non sussistano le ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento del consumatorec. sì, ma solo in alcuni casi se specificati nel contrattod. sì, in ogni caso

4. Se consideriamo lo spread applicato dalla banca erogatrice nei mutui immobiliari quale sua remunera-zione per l’operazione svolta, è possibile affermare chea. lo spread sarà superiore in un mutuo a tasso variabile rispetto a quello applicato in un mutuo a tasso fissob. lo spread sarà superiore in un mutuo a tasso variabile rispetto a quello applicato in un mutuo a tasso mistoc. lo spread sarà uguale sia che si tratti di un mutuo a tasso fisso, variabile o mistod. lo spread sarà superiore in un mutuo a tasso fisso o misto rispetto a quello applicato in un mutuo a tasso variabile

5. Il Fondo di solidarietà per mutui prima casaa. è frutto dell’accordo tra ABI e associazioni dei consumatorib. comporta il rimborso da parte del Fondo alla banca erogatrice degli interessi relativi alle rate sospesec. comporta il rimborso alla banca erogatrice degli interessi relativi alle rate sospese da parte del mutuatario nelle rate successive alla sospensioned. Prevede che il beneficio della sospensione non può andare a chi ha una dichiarazione ISEE superiore a 50.000 euro

Soluzioni : 1c. - 2c. - 3b. - 4d. -5b.

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Il sistema previdenzialedi Maria Cristina Quirici

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Cultura finanziaria a scuola: per prepararsi a scegliere

Abbiamo fatto i compiti a casa. Possiamo dirlo, dati dell’INPS alla mano. Non siamo più un Paese dove si va in pensione troppo presto: nel privato nei primi sei mesi dell’anno l’età media di chi ha lasciato il lavoro è stata 61,3 anni, con un balzo di quasi un anno rispetto ai 60,4 del 2011. Lavoriamo più a lungo che in Francia, dove si esce in media a 59,3 anni, e ci avviciniamo ai tedeschi (61,7). Si rimane più a lungo al lavoro e le nuove uscite crollano: gli assegni liquidati in sei mesi sono stati 84.537, poco più della metà rispetto ai 159.485 dello stesso periodo 2011. Sono dati positivi per il bilancio dell’INPS, che consentono al presidente Antonio Mastrapasqua di dire: il sistema previdenziale «è stato messo in sicurezza» e l’Italia «ha i numeri in regola per rassicurare chi vuole scommettere sul futuro positivo e stabile per i conti pubblici». È un primo «segnale per l’Europa e per i mercati», aggiunge Mastrapasqua. Altri ne arriveranno con la Riforma Monti-Fornero, che ha innalzato i requisiti per l’uscita degli uomini a 66 anni, aumentato gradualmente quella delle donne, ma soprattutto ha imposto la sostanziale cancellazione delle pensioni di anzianità. Per ora, l’aumento dell’età media effettiva della pensione è soprattutto la combinazione delle riforme varate dal governo Prodi nel 2007, che introdusse il sistema delle quote per le pensioni di anzianità, e dell’adeguamento alla speranza di vita, più la “finestra mobile” per l’uscita. Così che ora stanno andando ancora a riposo gli uomini che hanno compiuto nel 2011 i 65 anni e le donne di 60 e quelli che hanno raggiunto quota 96 tra età e anni di contribuzione. Per chi è uscito dal lavoro grazie alla pensione di anzianità l’età media è passata dai 58,8 del 2011 a 59,8 anni, mentre per la pensione di vecchiaia si è passati da 62,9 anni a 63,3. Per gli autonomi, commercianti, coltivatori diretti e artigiani si è impennata dai 63,3 ai 68,4 anni, con una caduta di quasi il 90% del numero degli assegni: dai 32.939 ai 3.621 fino a giugno. I due ex ministri del Lavoro si intestano il risultato. Maurizio Sacconi ora richiede aggiustamenti «degli interventi più recenti». E Cesare Damiano pone l’accento sulla questione “esodati”: i dati dell’INPS «confermano l’esigenza di apportare le necessarie correzioni all’ultima riforma, per mettere al sicuro tutti i lavoratori che hanno i requisiti per accedere al vecchio modello pensionistico».

29 Luglio 2012

PENSIONI, SALE L’ETÀ MEDIA E SI DIMEZZANO LE RICHIESTE INPS: SISTEMA IN SICUREZZANel primo semestre 84.537 domande (-47%)di Melania Di Giacomo

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Chiavi di lettura dell’articolo

1. Le motivazioni alla base della riforma del sistema previdenziale nazionale L’articolo proposto pone in rilievo come il sistema previdenziale nazionale, in virtù del profondo processo di riforma che lo ha interessato a partire dai primi anni novanta, abbia raggiunto una sostenibilità finanziaria dopo che un insieme di fattori avevano portato sull’orlo del default finanziario l’allora esclusivo sistema previdenziale di natura pubblica. E proprio tale intenso e arduo processo di riforma normativa ha consentito di passare da una situazione caratterizzata dalla presenza esclusiva della previdenza pubblica ad un sistema che prevede ben tre pilastri previ-denziali:• un primo pilastro, ovviamente pubblico, volto a garantire prestazioni previdenziali minime di base e a carattere

assistenziale, erogate da organismi pubblici: l’INPS, per i lavoratori privati, e l’INPDAP, per i dipendenti pubblici1, secondo regole di determinazione nuove rispetto al passato;

• un secondo pilastro costituito dai fondi pensione di natura contrattuale e aziendale, istituiti per garantire tratta-menti complementari, quindi aggiuntivi, rispetto alla previdenza pubblica;

• un terzo pilastro, quello della previdenza integrativa, che attraverso i Piani di Previdenza Individuali (PIP) o altri pro-dotti finanziari/assicurativi è volto a consentire al lavoratore una scelta di risparmio individuale a fini pensionistici.

Le motivazioni all’introduzione nello scenario finanziario italiano di forme previdenziali complementari ed integrative rispetto al trattamento pensionistico pubblico - direzione verso cui si sono orientati tutti i maggiori Paesi industrializzati e che ha visto il nostro Paese muoversi in tal senso con un netto ritardo – sono riconducibili alla crisi conclamata del sistema previdenziale pubblico. Si fa riferimento, infatti, ad un sistema che a partire dal secondo dopoguerra si era progressivamente fondato sul criterio della “ripartizione”, secondo il quale i contributi pagati dal singolo lavoratore non vengono “capitalizzati individualmente” (cioè via via accumulati per costituire il suo futuro reddito pensionistico), ma vengono immediatamente utilizzati (appunto “ripartiti”) per pagare le pensioni di coloro che in quel momento godono di un trattamento pensionistico. In altri termini, nel regime a ripartizione i contributi di oggi vengono subito utilizzati per finanziare le pensioni in essere, a differenza di quanto avviene nel regime a capitalizzazione, dove i contributi versati dai lavoratori di oggi sono investiti in attività fruttifere e serviranno a finanziare le loro pensioni di domani. Pertanto, il sistema previdenziale pubblico “a ripartizione” si è di fatto basato su un “patto intergenerazionale”, comportando una ridistribuzione del reddito tra generazioni diverse di beneficiari: la generazione “anziana” viene mantenuta dalla generazione “giovane” occupata, in cambio dell’implicita promessa da parte dello Stato che, quando sarà a sua volta anziana, godrà di un analogo trattamento, a carico della generazione futura. Se questo “patto tra generazioni” ha consentito fino ad un recente passato una copertura pensionistica pari circa all’80% della retribuzione media degli ultimi dieci anni di lavoro di un lavoratore dipendente privato, il manifestarsi di tre diversi fattori, tra loro collegati e che di seguito saranno analizzati, ha concorso a determinare la crisi del sistema, che si

1 È opportuno rilevare come l’INPDAP sia confluita nell’INPS a partire dal 1° gennaio 2012, con un accorpamento sinergico in un unico istituto delle gestioni previdenziali, volto a perseguire obiettivi di semplificazione ed economicità, fattori che caratterizzano la recente Riforma Fornero, che sarà tratteggiata più in dettaglio successivamente nell’ambito della presente scheda.

di Maria Cristina Quirici

La scheda

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è palesata nella progressiva e sensibile riduzione della suddetta percentuale e quindi del tasso di sostituzione, cioè del rapporto tra l’ultimo stipendio e la prima rata pensionistica fornita dal sistema previdenziale pubblico.I fattori cui si fa riferimento riguardano:1. l’evoluzione demografica; 2. l’andamento del mercato del lavoro; 3. il trend evolutivo del disavanzo pubblico.Per quanto concerne i fattori demografici, essi riguardano, da un lato, il calo del tasso di nata-lità, connesso sia al passaggio da una società agricola ad una industriale, sia alla progressiva emancipazione femminile, dall’altro, l’allungamento della vita media, fattore questo legato ai progressi della medicina e alle migliori condizioni economico-sanitarie della popolazione. Il con-giunto effetto di detti processi demografici ha determinato un vero rischio di default finanziario degli organismi previdenziali pubblici: con la distribuzione per età della popolazione italiana che nel tempo si è spostata verso fasce generazionali più anziane - tanto che è stato stimato che nel 2050 la percentuale degli abitanti con età maggiore ai 60 anni supererà il 40%, contro il 16% rilevabile negli anni settanta - si è reso e si rende a tutt’oggi necessario pagare le rendite pensionistiche non solo a un crescente numero di pensionati, ma anche per una durata sempre maggiore, laddove i contributi necessari per finanziare questa spesa (trattandosi di un sistema a ripartizione) si sono viceversa rivelati sempre più ridotti dato il numero decrescente degli occupati, effetto sia del calo del tasso di natalità, sia di fattori socio-economici quali l’aumento della scola-rizzazione, con il correlato ritardato ingresso nel mondo del lavoro, o lo sviluppo di nuove forme contrattuali, sempre più orientate verso il tempo determinato. A ciò si aggiunga che negli ultimi anni la dinamica del mondo del lavoro è stata tutt’altro che favorevole: la ristrutturazione produttiva e l’utilizzo di nuove tecnologie, da un lato, e la crisi economica, con i conseguenti licenziamenti, interventi di cassa integrazione e prepensionamenti, dall’altro, hanno ridotto il numero di lavoratori dipendenti e, quindi, la principale fonte di finanziamento della previdenza sociale, con una ineso-rabile crescita del rapporto tra numero di pensioni da pagare e numero di occupati sui cui redditi far gravare il prelievo dei contributi necessari per far fronte a tale pagamento.La differenza tra pensioni da erogare e contributi versati non poteva che essere coperta da un crescente intervento finanziario dello Stato, che nel 1990 era dell’ordine di 50 mila miliardi di lire annue (quasi la metà di tutta l’Irpef incassata), con una incidenza sul Pil del 12,8%, a fronte di una analoga incidenza del 5% nel 1960. Questo pesante onere andava a gravare un quadro di finanza pubblica già di per sé compromesso da forti squilibri in altre voci di spesa, da alti tassi di interesse sul debito pubblico e da impegni internazionali di stabilità. A quest’ultimo riguardo si pensi alla firma nel febbraio 1992 del Trattato di Maastricht per la partecipazione alla moneta unica, che rese necessario ridurre il rapporto tra disavanzo pubblico e PIL da oltre il 10% dei pri-mi anni novanta al 3% richiesto dal Trattato per il 1997. E l’intervento sulle pensioni non poteva che risultare uno degli aspetti decisivi per il richiesto riequilibrio dei conti pubblici. Il combinato effetto dei diversi fattori delineati ha condotto alla non sostenibilità della situazione previdenziale in essere, rendendo necessario il varo della riforma della previdenza pubblica (pe-

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Cultura finanziaria a scuola: per prepararsi a scegliere

raltro a tutt’oggi in divenire) che ha comportato il progressivo passaggio da un sistema a ripartizione con modalità di calcolo retributivo ad uno a capitalizzazione con modalità di calcolo contributivo2. In altri termini, si è manifestata la pressante esigenza di rivedere il sistema previdenziale pubblico nell’ottica di un riequilibrio finanziario, spingendo da un lato verso lo sviluppo di forme pensionistiche complementari rispetto a quelle pubbliche, dall’altro verso la continua variazione dei requisiti richiesti per accedere alla previdenza pubblica, con un innalzamento progressivo dell’età anagrafica e degli anni di contribuzione richiesti sia per la pensione di vecchiaia che per quella di anzianità. In tal senso si sono quindi mossi gli interventi legislativi che, a partire dall’inizio degli anni novanta, si sono succeduti nel tempo con l’intento di riformare questa complessa materia e che non solo continuano nel presente, ma sono destinati a proseguire anche in futuro, dal momento che i trend delineati continuano a modificare il quadro di riferimento.

2. Le tappe della riforma del sistema previdenziale e la costituzione del secondo e terzo pilastro Volendo ripercorrere le principali tappe dell’evoluzione normativa che ha riformato il nostro sistema previdenziale, si rilevano dapprima (siamo nel 1992) due interventi di riforma ancora nell’ambito del sistema previdenziale pubblico a carico rispettivamente delle pensioni di anzianità e di quelle di vecchiaia: con il primo, in particolare, veniva elevato a 35 anni per tutti i lavoratori il periodo minimo di contribuzione per poter ottenere la pensione di anzianità – al riguardo si ricorda che le pensioni di anzianità sono legate non all’età anagrafica del lavoratore (si parla in tal caso di pensione di vecchiaia) bensì alla sua anzianità di servizio o contributiva - eliminando la possibilità delle pensioni “baby” prevista nel 1973 per i soli dipendenti pubblici; con il secondo si innalzava l’età per la pensione di vecchiaia da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 per gli uomini, incrementando il requisito minimo di con-tribuzione per questo tipo di pensione da 15 a 20 anni.Ma il passo fondamentale che ha avviato la costruzione di un secondo “pilastro” previdenziale è stato compiuto con l’emanazione, sotto il governo Amato, del D. Lgs. n. 124/1993, provvedimento noto come “Riforma Amato”, che ha introdotto nel nostro ordinamento e regolamentato per la prima volta i fondi pensione. Il testo prevedeva due tipologie di fondi: i fondi pensione chiusi, di natura contrattuale e associativa, ed i fondi aperti, a carattere indivi-duale, nati per iniziativa di un soggetto abilitato alla gestione di una forma pensionistica complementare. Veniva altresì stabilito il principio dell’adesione volontaria ai fondi pensione ed erano dettate le regole fondamentali per il funzionamento degli stessi, regolandone modalità di costituzione, gestione delle risorse, modalità di contribuzione e di erogazione delle prestazioni finali. A quest’ultimo proposito, era prevista la possibilità di riscattare, sotto forma di capitale, fino ad un massimo del 50% del montante maturato, mentre il restante doveva essere obbligatoriamente erogato sotto forma di rendita3. La consapevolezza, però, che solo ulteriori limitazioni, ancorché graduali, dei trattamenti pensionistici pubblici po-tevano consentire di porre rimedio agli squilibri del settore previdenziale ha fatto sì che altri passi dopo il primo si rendessero necessari. E la legge n. 335 presentata nel 1995 dal governo Dini, nota come “Riforma Dini”, ben si inserisce in questo disegno riformatore, basandosi su alcuni princìpi fondamentali, quali: pensionamento flessibile in un’età compresa tra i 57 ed i 65 anni; pensioni calcolate sull’ammontare dei versamenti effettuati durante l’intera vita lavorativa; equiparazione tra dipendenti privati e pubblici. La normativa in esame, infatti, perseguendo il fine di ridurre la spesa previdenziale pubblica, oltre a quello di favorire la reale affermazione dei fondi pensione, ha

2 Sulla differenziazione tra metodo di calcolo retributivo e contributivo si veda successivamente quanto specificato al riguardo dalla Riforma Dini (L- 335/1995).3 Questo per sottolineare la precipua finalità previdenziale dell’adesione ai fondi in esame, anche se venivano fatte salve alcune ipotesi, aventi però carattere di eccezione.

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determinato il graduale passaggio dal metodo retributivo a quello contributivo per il calcolo della pensione pubblica, stabilendo che:• il sistema retributivo, che prevede che la pensione pubblica sia calcolata in funzione delle

ultime retribuzioni percepite dal salariato, poteva essere applicato a tutti i lavoratori che alla data del 31/12/1995 avevano maturato 18 anni di contributi;

• a coloro che a tale data avevano versato meno di 18 anni di contributi doveva essere ap-plicato il metodo misto, secondo il quale la pensione risulta quantificata pro-quota sia con il criterio retributivo (per la parte antecedente al 31/12/1995), sia con quello contributivo, per la parte successiva a tale data;

• il sistema contributivo, che determina la pensione in base ai contributi versati dal lavoratore durante tutta la sua vita lavorativa, doveva essere integralmente applicato ai neo assunti dopo il 31/12/1995.

L’introduzione del metodo contributivo, essendo ormai divenuto insostenibile per le casse della previdenza pubblica il “vecchio” metodo retributivo, comporta una netta riduzione del tasso di sostituzione: sulla base del nuovo metodo, infatti, la rendita pensionistica si ottiene capitalizzan-do il montante di tutti i contributi versati da un lavoratore, rivalutati ogni anno ad un tasso pari alla crescita media del Pil degli ultimi cinque anni, trasformandolo in rendita mediante un coefficiente di trasformazione che tiene conto della speranza di vita residua al momento del pensionamento. Detto coefficiente è destinato a variare in funzione dell’allungamento della vita media, tanto che è stato recentemente previsto che dovrà essere rivisto ogni tre anni, dando luogo a rendite progressivamente più basse.Tra gli ulteriori interventi in tema di legislazione previdenziale susseguitisi alla Riforma Dini, parti-colare importanza riveste il D. Lgs. n. 47/2000, che ha introdotto le forme pensionistiche indivi-duali (FIP o PIP), delineandone pure il regime fiscale. È stato così regolamentato per la prima volta il cosiddetto “terzo pilastro” del sistema previdenziale che, andandosi ad affiancare sia al primo pilastro pubblico, sia al secondo pilastro, rappresentato dai fondi pensione a carattere collettivo ed aziendale, tratteggia una previdenza integrativa di tipo individuale, caratterizzata da scelte di risparmio appunto individuale a fini pensionistici, realizzata principalmente attraverso contratti assicurativi quali le polizze vita. Inoltre, la normativa 47/2000 ha permesso l’adesione alle forme pensionistiche individuali (FIP) anche a soggetti non titolari di reddito di lavoro o di impresa, nonché a persone fiscalmente a carico di altri soggetti, consentendo così l’accesso a forme di copertura previdenziale anche a soggetti che non godevano della previdenza di base o che svolgevano, senza vincoli di subor-dinazione, lavori non retribuiti in relazione a responsabilità familiari. Da sottolineare, poi, come la norma in esame abbia compiuto una riforma complessiva della disciplina fiscale cui sottoporre le diverse forme pensionistiche complementari ed integrative, con la previsione di agevolazioni fiscali (quali la deducibilità dei contributi volontariamente versati a dette forme di previdenza anche a favore di soggetti fiscalmente a carico, seppur entro un determinato ammontare, o l’adeguamento del regime fiscale dei fondi pensione a quello previsto per gli organismi di investimento collettivo del risparmio) al fine di dare impulso e rafforzare un sistema di previdenza complementare basato sulla completa volontarietà del versamento dei contributi, nella consapevolezza dell’importanza del ruolo svolto dai fondi pensione per la rivita-lizzazione dei mercati finanziari nel loro complesso.

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3. Dalla “Riforma del TFR” nell’ambito della “Riforma Maroni”...Nonostante il decennio di riforme testé delineato, lo sviluppo della previdenza complementare in Italia alla fine del 2004 si rivelava ancora insoddisfacente, visto che in termini di iscritti gli aderenti a tale data sfioravano appena il 12% degli occupati. Pertanto, si è avvertita la necessità di introdurre una nuova disciplina del sistema previdenziale con la Legge delega 243/2004, nota come “Riforma Maroni”, che ha tracciato delle vere e proprie linee guida riguardanti:a. il sostegno alle forme pensionistiche complementari attraverso il possibile conferimento del TFR maturando, con modalità e regole previste con l’entrata in vigore, il 1° gennaio 2007, del Decreto attuativo n. 252/2005;b. la previsione di incentivi alle imprese, con riguardo sia alla facilitazione all’accesso al credito, sia all’eliminazio-ne del contributo per il finanziamento del Fondo di garanzia gestito dall’INPS, al fine di compensare i costi connessi alla perdita del TFR conferito ai fondi pensione;c. la previsione di maggiori tutele per gli iscritti agendo sulla governance dei fondi. La riforma così posta in essere è nota anche come “Riforma del TFR” per il peso preponderante assunto, anche a livello mediatico, dalla modifica introdotta con la liberalizzazione della scelta, seppur da parte dei soli lavoratori dipendenti del settore privato, circa la destinazione del proprio TFR, scelta che comunque può riguardare il solo TFR maturando, maturato cioè a partire dal 1° gennaio 20074.La scelta in esame può essere manifestata o in modo esplicito o in modo tacito (cosiddetto silenzio-assenso). In caso di modalità esplicita, entro il 30 giugno 2007, per i lavoratori in servizio al 1° gennaio 2007, o entro 6 mesi dalla data di assunzione, se avvenuta dopo quest’ultima data, il lavoratore dipendente poteva e può scegliere di: a. destinare il TFR futuro ad una forma pensionistica complementare;b. mantenere il TFR futuro presso l’impresa.In quest’ultimo caso, il TFR maturando continuerà ad essere gestito dal datore di lavoro solo se l’impresa ha meno di 50 dipendenti, dal momento che, in caso di aziende con più di 49 dipendenti, il TFR maturando dovrà essere trasferito al Fondo Pensione gestito dall’INPS (FONDINPS).La scelta di destinazione del TFR futuro ad una forma pensionistica complementare doveva e deve essere espressa dal lavoratore attraverso una dichiarazione scritta indirizzata al proprio datore di lavoro con l’indicazione della forma di previdenza complementare prescelta. La dichiarazione scritta è necessaria anche nel caso in cui si scelga di mantenere il TFR futuro presso il proprio datore di lavoro.Con la modalità tacita del silenzio-assenso, qualora il lavoratore non abbia espresso alcuna indicazione relativa alla destinazione del TFR entro il 30 giugno 2007, per chi era in servizio al 1° gennaio 2007 - o non l’abbia espressa entro 6 mesi dall’assunzione, se avvenuta successivamente a tale data - il datore di lavoro trasferisce il TFR maturando alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, o ad altra forma collettiva individuata con un diverso accordo aziendale, se previsto, purché notificato dal datore di lavoro al lavoratore in modo diretto e personale.

4 TFR è l’acronimo con il quale si indica il Trattamento di Fine Rapporto, vale a dire una sorta di “liquidazione” spettante ai lavoratori dipendenti al termine del rapporto di lavoro, costituita con accantonamenti periodici che, almeno sino alla Riforma in esame, rappresentavano per il lavoratore un risparmio forzoso e per l’imprenditore una fonte di autofinanziamento a basso costo. Pertanto, per evitare che il finanziamento della previdenza complementare dei lavoratori potesse tradursi in una crisi finanziaria delle imprese, è stato lasciato fuori dalla Riforma il TFR maturato prima del 31 dicembre 2006, che continuerà a rimanere in azienda e sarà gestito con le regole antecedenti la nuova normativa.

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È importante sottolineare come la scelta di affidare il TFR maturando ad un fondo pensione non possa essere revocata, mentre quella di mantenerlo presso il datore di lavoro può in ogni momen-to essere modificata per aderire ad una forma pensionistica complementare. Di fatto, nel 2007 i lavoratori si sono trovati a dover compiere una scelta senza ben sapere cosa scegliere e perché, tanto da poter forse considerare il successivo aumento delle adesioni alla previdenza complementare più il frutto dell’indecisione che di reali scelte consapevoli da parte dei singoli lavoratori. Purtroppo, è necessario rilevare una scarsa cultura previdenziale, che porta a pensare alla questione “pensione” solo nelle fasce di età più avanzate e questo è un dato senza dubbio preoccupante, soprattutto se si considera che lo scopo principale della riforma del sistema previdenziale è proprio quello di indirizzare alla previdenza complementare i giovani che si stanno affacciando o si sono da poco affacciati al mondo del lavoro, perché saranno proprio loro che avranno più bisogno di integrare le prestazioni previdenziali pubbli-che, che risulteranno estremamente ridotte rispetto a quelle oggi percepite, scontando un tasso di sostituzione molto basso, tale da non garantire un tenore di vita adeguato a quello vissuto nel corso dell’età lavorativa. E la nuova disciplina fiscale prevista dalla riforma in esame indirizza proprio nel senso suddetto: infatti, dal momento che certe forme di risparmio fiscale aumentano al crescere del numero di anni di permanenza nelle forme pensionistiche complementari, saranno proprio i giovani (che hanno un orizzonte di permanenza in dette forme molto ampio) quelli che potranno godere maggiormente dei benefici fiscali previsti con il D.Lgs. 252/2005. Alla luce della presente disamina, quindi, appaiono del tutto condivisibili le considerazioni che sottolineano come «solo la combinazione tra previdenza obbligatoria e previdenza integrativa potrà ridurre l’enorme divario tra ultima retribuzione e prima rata di pensione. (...) Ennesima con-ferma di come quello dei fondi sia il vero snodo della previdenza che verrà»5.

4. ...alla recente Riforma Fornero (L.214/2011)La consapevolezza che solo ulteriori limitazioni dei trattamenti pensionistici pubblici potevano consentire di porre rimedio agli squilibri del settore previdenziale - elemento indispensabile nel perseguimento dell’obiettivo ultimo di un risanamento del debito pubblico, resosi necessario ed urgente alla luce della crisi del debito sovrano che nel 2011 ha investito l’Eurozona e, tra gli altri, pure il nostro Paese, oggetto di un declassamento da parte delle società di rating statuni-tensi - ha fatto sì che si rendesse necessaria un’ulteriore riforma pensionistica che è stata appor-tata dal Governo Monti, nella persona del Ministro del Lavoro Elsa Fornero, nell’ambito del più ampio pacchetto di manovre confluite nel cosiddetto “Decreto Salva Italia” (Legge n. 214 del 22/12/2011, che ha convertito in legge il Decreto Legge 201/2011).Tale riforma, entrata in vigore dal 1° gennaio 2012, rappresenta il primo tassello di una Riforma più complessa che riguarderà anche il mondo del lavoro e gli ammortizzatori sociali.In particolare, la riforma previdenziale in esame porta variazioni sostanziali al previgente sistema con specifico riferimento al primo pilastro, quello della previdenza pubblica, caratterizzandosi per alcuni punti cardine quali:

5 Cfr. S. Padula, Solo il fondo può salvare la pensione, in “Il Sole 24 ORE”, 29 marzo 2011.

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a. metodo di calcolo contributivo pro-rata per tutti; b. introduzione delle pensioni anticipate e sostanziale cancellazione delle pensioni di anzianità;c. pensioni di vecchiaia con requisiti più elevati e unificazione dell’età di uscita (che a regime, nel 2022, sarà per tutti di 67 anni). Ma andiamo ad analizzare, seppur sinteticamente, queste novità.A) Metodo di calcolo contributivo pro-rata: con l’entrata in vigore della Riforma Fornero il metodo contributivo – che, ricordiamo, prevede che l’importo della pensione sia calcolato con riferimento all’ammontare dei contributi versati – sarà applicato a tutti, anche se pro-rata, vale a dire solo ai periodi di lavoro successivi al 1° gennaio 2012 (per cui chi, ad esempio, con la Riforma Dini aveva conservato il diritto al metodo di calcolo retributivo, avendo maturato un’anzianità contributiva pari ad almeno 18 anni al 31/12/2005, lo manterrà fino al 31/12/2011 e si vedrà applicare il contributivo alla parte lavorativa che decorre dal 1° gennaio 2012).B) Dalle pensioni di anzianità a quelle “anticipate”: la riforma abolisce le pensioni di anzianità, cioè quelle che potevano essere conseguite attraverso il sistema delle “quote”, quando si raggiungeva la soglia minima prevista (appunto la quota) sommando età anagrafica ed anzianità contributiva6. Il valore della quota cre-sceva progressivamente negli anni (prevedendone la stabilizzazione nel 2013 a quota 97 per i dipendenti e 98 per gli autonomi), con la possibilità di scollegarsi dall’età anagrafica qualora il lavoratore avesse maturato 40 anni di contribuzione. Per l’effettiva uscita, oltre ad aver raggiunto i requisiti richiesti, si doveva attendere l’apertura della cosiddetta “finestra” (inizialmente ne erano state previste quattro, ridotte successivamente a due).La Riforma Fornero ha invece introdotto la nuova pensione “anticipata”: si potrà andare in pensione prima dell’età di vecchiaia solo se si superano i 41 anni ed un mese di contributi (per le donne) e i 42 anni ed un mese (per gli uomini). Il requisito è però destinato a crescere con il miglioramento della speranza di vita. Sono poi previste delle penalizzazioni per chi sia nelle condizioni di scegliere il pensionamento anticipato prima dei 62 anni di età: in tal caso, infatti, la quota dell’assegno calcolata sui contributi accumulati entro il 2011 viene tagliata dell’1% annuo, mentre se si scende al di sotto dei 60 anni la riduzione sarà del 2% annuo. La riforma ha comunque mantenuto un’importante deroga, riservata alle sole lavoratrici donne che in via sperimenta-le, fino al 31 dicembre 2015, potranno conseguire il diritto alla pensione di anzianità se in possesso di un’anzianità contributiva pari o superiore a 35 anni di attività e di un’età anagrafica pari o superiore a 57 anni per le dipendenti (58 anni per le lavoratrici autonome), purché optino per una liquidazione del trattamento pensionistico loro spettante secondo le regole del metodo contributivo. In sostanza, con la scelta del contributivo integrale (non pro-rata) le lavo-ratrici si dichiarano disposte ad accettare una rendita considerevolmente più bassa (rispetto a quella ottenibile con il metodo di calcolo misto, che prevedeva almeno una “fetta” del più conveniente metodo retributivo) in cambio di un pensionamento anticipato, visto l’allungamento dei tempi rispetto al passato. C) Pensione di vecchiaia con requisiti più elevati ed unificati: prima della riforma, l’età per accedervi era fissata a 65 anni per gli uomini, mentre per le donne si applicava un requisito differenziato in funzione del settore lavorativo. A partire dal 1° gennaio 2012, la riforma fissa l’età di pensionamento a 66 anni per tutti i lavoratori (uomini) dipendenti e autonomi, nonché per le dipendenti del settore pubblico. Per le donne del settore privato, dipendenti ed autonome, invece, si prevede una differenza di trattamento ed un certo periodo per superare questo “sfasamento”, che comunque condurrà al requisito dei 66 anni a partire dal 2018. In ogni caso,

6 Tale sistema delle quote era stato introdotto con la Legge 247/2007 con il governo Prodi.

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la riforma si pone l’obiettivo di unificare l’età del pensionamento che a regime, cioè nel 2022, sarà per tutti di 67 anni; sono fatte salve solo alcune situazioni, come ad esempio le persone che eventualmente matureranno prima i requisiti per la pensione anticipata o coloro che hanno svolto lavori usuranti (questi ultimi, infatti, potranno usufruire delle “vecchie” quote e delle finestre mobili di uscita). Inoltre, questi limiti di età sono destinati a crescere ulteriormente in virtù dell’aggancio automatico dei requisiti anagrafici alla speranza di vita, in modo da garantire l’equilibrio nel lungo periodo delle gestioni previdenziali. La logica alla base di tale aggancio risiede nel fatto che se la vita media aumenta, anche la permanenza al lavoro deve allungarsi, in modo da evitare il maggior onere al sistema previdenziale, che altrimenti dovrebbe erogare le prestazioni per un periodo più lungo, data la più elevata vita media del pensionato. L’applicazione di tale meccanismo, intro-dotto dalla Legge 122/2010, inizialmente prevista a partire dal 2015, era stata anticipata al 1° gennaio 2013. La Riforma Fornero, pur lasciando inalterata questa data, ha ridotto il periodo degli adeguamenti, che dopo il 2021 diventeranno biennali (fino a tale data saranno triennali), prevedendo altresì alla prima scadenza (1° gennaio 2013) una crescita forfetaria dei requisiti di un periodo pari a tre mesi. La Riforma Fornero, comunque, non si applicherà ai lavoratori che potranno dimostrare di aver maturato entro il 31/12/2011 tutti i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla disciplina pensionistica previgente, rispettandone pure le modalità di uscita (quindi i tempi per accedere alle finestre mobili).Volendo tracciare un giudizio di sintesi, si può dire che è stato fatto un notevole sforzo nella dire-zione di un risparmio finanziario in relazione alle diverse forme di previdenza pubblica cercando di coniugarlo con criteri di equità sociale7. Semplificazione, armonizzazione ed economicità sono gli obiettivi perseguiti, che devono caratterizzare anche le strutture gestionali del sistema, come si evince ad esempio dall’accorpamento sinergico in un solo istituto di INPS ed INPDAP realizzato a partire dal 1 gennaio 2012.Restano comunque in sospeso alcune problematiche e tra queste particolarmente spinosa è quella dei cosiddetti “esodati”, termine che sta ad indicare tutti coloro che hanno concordato di lasciare il lavoro e che sulla base della normativa previgente avrebbero dovuto maturare i requi-siti per godere di un trattamento pensionistico pubblico. Alla luce della riforma, però, i requisiti sono cambiati e queste persone non hanno né il lavoro, né la pensione, né la possibilità di acce-dere ai nuovi requisiti, visto che non lavorano e in quanto over 50 hanno una estrema difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro. Da qui l’impegno del Ministro Fornero di ricercare soluzioni adeguate a risolvere situazioni di fatto drammatiche che coinvolgono numerose famiglie.

7 Sono infatti rilevabili ulteriori novità nell’ambito della Riforma Fornero - che in questa sede non posso-no essere oggetto di una disamina approfondita - che vanno in tal senso, quali, tra le altre: la previsione di un contributo di solidarietà (tra lo 0,3 e l’1% a seconda degli anni di contribuzione) a carico delle fasce di reddito più alte e per coloro che godono di trattamenti privilegiati; l’indicizzazione all’inflazione nel 2012 e 2013 per le sole pensioni minime; l’incremento dal 1° gennaio 2012 delle aliquote dei contributi previdenziali versati dai lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti), fino al raggiungimento del 24%, attraverso un meccanismo graduale di crescita che si concluderà nel 2018; l’introduzione, entro il 30 giugno 2012, di misure volte ad assicurare l’equilibrio di lungo periodo delle Casse private di previdenza di talune categorie professio-nali, in modo da evitare situazioni di squilibrio che possano richiedere l’intervento pubblico.

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Traccia per l’attività in classeIn primo luogo, potrebbe essere opportuno sviluppare in aula una discussione di tipo interattivo, stimolando la partecipa-zione attiva dei ragazzi, volta a sondare la loro reale comprensione delle tematiche affrontate nell’articolo e nella scheda, e connesse alle motivazioni ed alle modalità con le quali negli ultimi lustri è stato riformato il nostro sistema previdenziale.Potrebbe poi essere interessante realizzare un’indagine sul campo approntando da parte del docente, in collaborazione con lo stesso gruppo-classe, un questionario che i ragazzi dovrebbero sottoporre alle proprie famiglie in modo da veri-ficare la loro maggiore o minore conoscenza delle diverse forme di previdenza complementare e delle novità introdotte dalla recente Riforma Fornero nell’ambito della previdenza pubblica. A scopo esemplificativo, detto questionario potrebbe contenere domande circa le esperienze dirette riportate in famiglia al riguardo, come ad esempio: in caso di presenza nell’ambito familiare di lavoratori dipendenti del settore privato, il tipo di scelta effettuata circa la destinazione del TFR maturando e le relative motivazioni; in presenza di familiari pensionati, la relativa tipologia (pensione di anzianità o di vecchiaia) e, in caso di godimento di una pensione di anzianità, le condizioni maturate per poterla ottenere (in termini di numero di anni di contribuzione ed età anagrafica richiesta); il tasso di sostituzione, vale a dire il rapporto tra l’ultima retribuzione percepita e l’ammontare della prima rata pensionistica percepita; l’eventuale adesione a forme di previdenza individuale come PIP o Fondi pensione appunto ad adesione individuale, l’entità dei contributi a tal fine versati e gli anni previsti di contribuzione; l’eventuale adesione a fondi contrattuali, quindi chiusi, e la relativa tipologia, nonché a fondi a contribuzione definita o a prestazione definita da parte di giovani lavoratori e l’eventuale età all’ingresso, e così via; le variazioni alla situazione previdenziale previgente apportate dalla Riforma Fornero, con riferimento, ad esempio, al mag-gior numero di anni richiesti per l’uscita dal mondo del lavoro rispetto a quelli preventivati in precedenza.Il questionario dovrebbe prevedere anche la richiesta del maggiore o minore grado di apprezzamento riportato in relazio-ne alle suddette diverse esperienze. I dati riportati dai questionari dovrebbero essere poi sintetizzati, anche con l’ausilio di grafici e tabelle, e i relativi risultati discussi in classe.

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Sistema previdenziale pubblicoPrevidenza complementareFondi pensione (aperti e chiusi)Piani Previdenziali Individuali (PIP)Tasso di sostituzioneSistema previdenziale a ripartizione Sistema previdenziale a capitalizzazioneMetodo di calcolo contributivo Metodo di calcolo retributivoPensione di anzianitàPensione di vecchiaiaPensione anticipata

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FAQ DOMANDE E RISPOSTE

1. Cosa si intende per “sistema delle quote”? Con tale sistema, introdotto con Legge 247/2007 mentre era in carica il governo Prodi, si conseguiva il diritto di accedere alla pensione di anzianità raggiungendo la soglia minima, la quota appunto, stabilita per quel determinato anno, e a tal fine si doveva sommare la propria età anagrafica con gli anni di anzianità contributiva. Il valore della quota cresceva progressivamente negli anni (ne era prevista la stabilizzazione nel 2013 a quota 97 per i dipendenti e 98 per gli autonomi), con la possibilità di scollegarsi dall’età anagrafica qualora il lavoratore avesse maturato 40 anni di contribuzione. In ogni caso, per l’uscita effettiva, si doveva attendere l’apertura della cosiddetta “finestra mobile” e questo poteva comportare un ulteriore periodo di attesa per l’effettivo pensionamento.

2. Chi sono gli “esodati”? Il termine “esodato” viene coniato nel 2012 dai mass-media e dalla classe politica per indicare quei lavoratori over 50 che hanno perduto il posto di lavoro a seguito di una ristrutturazione aziendale, di un accordo sindacale o di un accordo economico con il datore di lavoro, contando di poter accedere in breve tempo al trattamento pensionistico e che hanno invece visto allungarsi il periodo di tempo di attesa in seguito alla riforma del sistema previdenziale, nota come Riforma Fornero. Gli esodati rappresentano una fascia sociale particolarmente debole, poiché risentono di maggiori difficoltà a rientrare nel mercato del lavoro rispetto ai disoccupati giovani e al contempo hanno spesso degli obblighi ed oneri economici derivanti dalle spese familiari (mutui per la prima casa, spese scolastiche dei figli ecc.). Da qui la peculiare esigenza di trovare una soluzione alla loro incresciosa situazione da parte del governo Monti, magari con delle deroghe ad hoc che sono in corso di studio.

3. Cosa sono i PIP? PIP è un acronimo che sta ad indicare i Piani Previdenziali Individuali, introdotti per la prima volta nel nostro ordinamento con il D. Lgs. 47/2000. L’aderente al PIP stipula una polizza di assicurazione sulla vita che si caratterizza, rispetto ad altri contratti assicurativi, per la presenza di una serie di clausole “su misura” tipiche della previdenza complementare, clausole necessarie affinché il PIP possa qualificarsi tale ed essere sottoposto al più favorevole regime fiscale proprio delle forme pensionistiche complementari.

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Test FINALE1. Il tasso di sostituzione rappresentaa. il rapporto tra primo stipendio e prima rata pensionistica pubblica percepitab. la differenza tra prima rata pensionistica complementare e prima rata pensionistica pubblica percepitac. il rapporto tra l’ultima retribuzione e la prima rata pensionistica pubblica percepitad. il tasso di interesse da pagare per sostituire l’insufficiente previdenza pubblica con quella complementare

2. Nel calcolo della rendita pensionistica, ponendo a confronto il metodo di calcolo retributivo con quello con-tributivo, si può rilevare chea. la rendita pensionistica ottenibile con il secondo è sempre superiore a quella ottenibile usando il primob. le rendite pensionistiche ottenibili con il loro utilizzo sono necessariamente ugualic. le rendite calcolate utilizzando il primo sistema sono presumibilmente superiori a quelle ottenibili sulla base del secondod. alle attuali condizioni demografiche e tendenze del mondo del lavoro, l’utilizzo del secondo è più favorevole alle generazioni giovani rispetto al primo

3. Il metodo di calcolo contributivo pro-rata introdotto con la Riforma Fornero si applicherà a. necessariamente a tutti i lavoratori a partire dall’inizio della loro vita lavorativab. a tutti i lavoratori , ma solo ai periodi di lavoro successivi al 1° gennaio 2011c. a tutti i lavoratori , ma solo ai periodi di lavoro successivi al 1° gennaio 2012d. ai soli lavoratori dipendenti che non rientravano nel retributivo con la Riforma Dini

4. Nella riforma del sistema previdenziale, nota come “Riforma del TFR”, la scelta della destinazione del TFR maturando si rivolgea. a tutti lavoratori dipendenti, sia privati che pubblicib. ai soli lavoratori dipendenti privatic. ai soli lavoratori dipendenti pubblicid. ai soli lavoratori autonomi e professionisti

5. Nel sistema previdenziale a ripartizionea. i contributi versati dal singolo lavoratore sono capitalizzati individualmenteb. i contributi versati da tutti i lavoratori di oggi sono ripartiti tra le pensioni di domani (allorché i lavoratori di oggi andranno in pensione)c. i contributi versati da tutti i lavoratori di oggi sono immediatamente ripartiti per pagare le pensioni di oggi (cioè di quelli attualmente in pensione)d. i contributi versati da tutti i lavoratori oggi in pensione saranno ripartiti tra le pensioni di domani (allorché i lavoratori di oggi andranno in pensione) – Riforma Dini –.

Soluzioni : 1c. - 2c. - 3c. - 4b. -5c.

Page 153: Cultura Finanziaria a Scuola - Quaderno di Lavoro 2013

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