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Crisi finanziaria e crisi morale

1. Il mondo sta vivendo una delle peggiori crisi da quando è iniziata la rivoluzione industriale. La crisi ha

origine finanziaria, consiste cioè nell’incapacità di far fronte ai propri debiti e riguarda individui, banche e

Stati. La crisi ha rischiato (e forse rischia ancora) di sfociare in una insolvenza generale del sistema.

Per scongiurare questo rischio, le Banche Centrali e i Governi stanno addossandosi buona parte dell’onere di

risanamento finanziario, attraverso una serie di interventi di varia natura la cui sostanza consiste nella

socializzazione delle perdite, poste direttamente o indirettamente a carico dei bilanci pubblici. Nel 2009,

dopo il superamento della fase più acuta, l’ammontare complessivo di questi interventi superava nel mondo

i 10.000 miliardi di dollari (una cifra pari al 24% del Pil mondiale) con una forte concentrazione negli Stati

Uniti e nei paesi anglosassoni. Un decimo di tale cifra é relativa a perdite accertate, il resto é servita a

prevenire perdite attraverso capitalizzazioni, accollo dei debiti, garanzie emesse a favore di banche

pericolanti. Da allora gli interventi di salvataggio sono ancora aumentati. L’onere del risanamento sottrae

risorse allo sviluppo, portando l’economia, già stagnante, in recessione. La recessione provoca ulteriori

insolvenze e quindi fornisce nuovo alimento alla crisi finanziaria.

Data la vastità e profondità della crisi, occorre chiedersi come tutto questo sia cominciato, come si sia

sviluppato sino ad assumere dimensioni deflagranti cogliendo di sorpresa le autorità preposte, dove risiedano

le responsabilità individuali e/o collettive, quali siano le lezioni da trarre per uscire dalla situazione attuale e

per non ripetere in futuro gli stessi errori. Occorre in particolare capire se la crisi sia frutto di comportamenti

scorretti di singoli o di istituzioni, o se derivi da errori endemici e sistemici. Se quindi la crisi finanziaria sia

anche frutto di una crisi morale generalizzata o più semplicemente da comportamenti non etici o troppo

disinvolti, divenuti prassi nel mondo finanziario ed in quello del governo dell’economia.

2. Per comprendere la crisi odierna occorre ricordare che dalla caduta del muro di Berlino al 2007, quindi per

quasi 20 anni, l'economia mondiale aveva attraversato un periodo di eccezionale

stabilità ed espansione, con due rilevanti eccezioni: i paesi ex-comunisti ed il Giappone. I primi erano caduti

in una recessione profonda dopo la dissoluzione del sistema sovietico; la riconversione

delle economie é ancora in corso ma negli ultimi 10 anni si sono verificati progressi notevolissimi. Il

Giappone aveva interrotto un periodo di crescita straordinaria che durava dal dopoguerra per

sprofondare prima in recessione, poi in stagnazione per lo scoppio di una bolla immobiliare e borsistica a

meta' degli anni 90.

Se guardiamo i dati di sviluppo del Pil delle principali aree economiche mondiali, osserviamo che nel

decennio precedente la crisi (1997-2007):

- un gruppo di Paesi, i cosiddetti BRICs, avevano triplicato il proprio reddito (l’apertura del commercio

mondiale in seguito dell'istituzione del WTO ha giocato a questo proposito un ruolo

fondamentale)

- gli Usa, Canada e Gran Bretagna aveva raddoppiato il proprio reddito (apparentemente grazie a politiche

liberiste e di deregulation, ma vedremo più avanti anche grazie ad abbondantissime immissioni di

liquidità nel sistema per espandere il ciclo economico)

- i Paesi europei dell'eurozona sperimentavano un tasso di crescita molto più basso (26% nel decennio):

per la Germania si trattava di riassorbire l’onere della riunificazione, per Francia e soprattutto Italia (con

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una crescita solo del 16%, la più bassa d'Europa) si trattava di adattare l'economia ai parametri di

Maastricht, riducendo l’indebitamento attraverso una serie di avanzi di bilancio

- infine il Giappone aveva ridotto il proprio Pil dell' 8% per i motivi già ricordati.

Il clima economico era comunque positivo. Si riteneva che la crescita a 2 cifre dei paesi emergenti

sarebbe continuata per molto tempo, sospinta dalla competitività dei prodotti locali e dalla crescente

domanda internazionale, fattori che avevano innescato il circolo virtuoso dell'espansione della domanda

interna. I paesi anglosassoni andavano fieri di uno sviluppo che sembrava senza fine, e quasi al riparo

dalle intemperie del ciclo economico, risultato questo che veniva attribuito alle politiche liberiste

adottate nel decennio precedente, alla deregulation, ed alla saggia politica economica delle autorità

monetarie (Fed e istituzioni internazionali). Ben Bernanke (governatore del Fed) nel febbraio 2004

affermava che la caratteristica saliente della situazione economica degli ultimi 20 anni era il sostanziale

declino della volatilità macroeconomica. Il quadro era rosa: bassa inflazione, alta occupazione e

produzione stabile. Questa "great moderation" era dovuta principalmente alla buona politica monetaria

della Fed. Le cose, secondo questa teoria di autocompiacimento, erano destinate ad andar di bene in

meglio a lungo termine: l’instabilità economica non era più considerata una minaccia.

In questo quadro i Paesi europei non al passo con le riforme di modernizzazione dell’economia

introdotte dai paesi anglosassoni parevano condannati ad una sviluppo inferiore. Il Giappone, lungi

dall’essere considerato un monito dei rischi che le economia occidentali avrebbero sperimentato, veniva

indicato come un caso di bad practice in quanto il sistema finanziario, per evitare il collasso, era stato

nazionalizzato, bloccando così la "pulizia" del sistema stesso, e quindi la successiva ripresa.

3. Ma era proprio tutto oro quello che luccicava nei paesi anglosassoni?

Negli ultimi 30 anni, le politiche Reaganiane di deregulation e riduzione della pressione fiscale sulle fasce

più abbienti della popolazione, avevano aumentato le ineguaglianze nella distribuzione del reddito. Nel 1976

l'1% più ricco della popolazione Usa deteneva l' 8.9% del reddito. Nel 2007 l'1% più ricco deteneva ben il

23.5% del reddito. Questo significa che il 58% di tutto l' aumento del reddito americano generato in 30 anni

era finito nelle tasche dell'1% soltanto della popolazione americana.

Per contro i redditi della classe media erano rimasti stagnanti e i giovani delle classi disagiate trovavano

difficoltà crescente a trovare lavoro, vuoi per un sistema educativo che non qualificava abbastanza gli

studenti, vuoi per una progressiva riduzione di posti di lavoro nell'industria.

In questo clima di delusione di vasti strati sociali, la risposta politica fu quella di facilitare l'accesso al

credito, specie per l'acquisto della casa (un elemento chiave del sogno americano) anche per le categorie con

scarsa o nulla capacita di rimborso: nacquero così i mutui sub-prime, che, come vedremo, sono stati all'

origine della crisi.

Ma a cavallo del secolo qualche altra cosa era andata storta: era scoppiata la bolla high tech. In seguito

all’euforia di un’economia in continua espansione, di una Borsa che continuava a battere records e delle

meraviglie dell’era internet e della telefonia mobile, che sembravano aprire prospettive non immaginate, ci

fu un'ondata di acquisizione a prezzi crescenti di aziende operanti nel settore high tech e di quotazione in

borsa di start up, spesso puramente cartacee.

Il gonfiamento dei valori di borsa si fece palesemente abnorme ed in coincidenza dell’11 settembre 2001 vi

fu una brusca correzione dei listini a Wall Street ed in tutto il mondo. Si scoprirono in quegli anni anche casi

fraudolenti, primo fra tutti il caso Enron. Alcune banche americane palesarono problemi di liquidità.

Prontamente la Fed emise a favore di tali banche liquidità sufficiente ad evitare rischi di default. La crisi fu

superata con una certa rapidità, le perdite in borsa furono recuperate ad eccezione ovviamente della

maggioranza delle start up tecnologiche che non decollarono mai. Regole più restrittive furono introdotte sui

bilanci delle società quotate (la legge Sobrane-Oxley) e la vita riprese presto come prima, cementando ancor

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più la convinzione che il sistema fosse in grado di rigenerarsi spontaneamente anche dopo tragedie epocali

come l'11 settembre.

La politica di immissione massiccia di liquidità da parte della Fed continuo' anche negli anni successivi,

creando le premesse della crisi del 2007-2008. La Fed teorizzava che, sino a quando l'inflazione rimaneva

bassa, era possibile e salutare per l' economia immettere liquidità nel sistema attraverso prestiti dalla Fed alle

banche a tassi molto bassi, per stimolare le banche a prestare a loro volta denaro ai privati per acquistare

case e incrementare i consumi e alle imprese per finanziare il loro sviluppo e gli investimenti. L'azione della

FED era funzionale all' obiettivo politico di venir incontro in qualche modo alle aspettative delle classi

sociali medio - basse.

Sia l'amministrazione Bush che quella Clinton favorirono così una politica di prestiti facili per l'acquisto di

una casa anche da parte delle categorie economiche più sfavorite. L'obiettivo era quello di aumentare dal

60% all'80% la percentuale di americani proprietari di case.

Le banche americane offrivano condizioni straordinariamente favorevoli per i mutui per l’acquisto di case:

tassi bassi, valutazione generosa della capacità di rimborso del contraente, tempi lunghi di rimborso,

possibilità di rinegoziare i termini del prestito in caso di difficoltà, trattamento fiscale favorevole. In più: se il

valore dell' immobile cresceva, era possibile rinegoziare il mutuo aumentando l'importo del prestito,

destinando il nuovo ammontare di debito così ottenuto al finanziamento della spesa per i propri consumi.

Tanta generosità era possibile sia per l'abbondante liquidità a bassi tassi presente sul mercato sia per la

convinzione che alla base del sistema dei mutui ci fosse di fatto una garanzia governativa per l'esplicito

supporto del governo Usa al sistema di erogazione dei mutui tramite le agenzie Freddie Mac e Fannie Mae.

Le banche, inoltre, avevano la convinzione di essere protette dal valore degli immobili che negli anni aveva

mostrato una tendenza costante alla crescita. Tra il 1997 ed il 2007 in effetti il prezzo delle case americane

era praticamente raddoppiato e i debiti immobiliari avevano raggiunto la cifra di 14.000 miliardi di $, pari al

96% del Gdp americano, contro una media storica del 55%. Di conseguenza l'indebitamento delle famiglie

americane era passato dall'81% del reddito disponibile al 113%. La bolla immobiliare era quindi ben visibile,

e c'erano tutte le premesse per l’inizio della crisi.

4. La crisi comincia ad inizio 2007. Le insolvenze dei mutui sub prime iniziarono a diventare consistenti. Tra

febbraio e marzo 2007, 4 tra la più importanti società statunitensi di erogazione di mutui sub-prime

dichiararono fallimento. Ad aprile la CNN annuncia che i mutui sub-prime hanno un tasso di insolvenza 5

volte superiori a quelli normali, e che il valore dei mutui sub-prime ammonta al 20% circa dell' intero

mercato immobiliare americano: 1300 miliardi di

crediti dubbi!

Il castello di carte iniziava a scricchiolare ed il valore degli immobili iniziava a flettere. I peggiori

debitori a questo punto trovarono conveniente cessare di pagare le rate dei mutui stipulati, perché il

valore residuo del debito risultava superiore al valore di mercato dell'immobile. Le banche iniziarono a

vendere gli immobili ricevuti a garanzia, generando nuovi crolli di prezzo e quindi nuove vendite. Il

punto di rottura era stato raggiunto e superato.

A luglio 2007 2 hedge funds di Bearn and Stearns specializzati in mutui sub prime dichiararono

fallimento.

5. Dal settore immobiliare il contagio si propago' velocemente al settore finanziario. L'abbondante

liquidità ed i bassi tassi conseguenti avevano infatti aumentato l' appetito degli investitori per

investimenti a più alto rendimento. Entrarono così in scena i confezionatori di prodotti finanziari basati

su crediti immobiliari con rating diversi: ad esempio AAA per un terzo, BBB per un altro terzo e sub

investment grade per l' ultimo terzo. In teoria, raggruppando in un pacchetto finanziario crediti di

importo unitario modesto con diverse probabilità di insolvenza si dovrebbe ottenere un prodotto con

probabilità di default complessiva molto limitata. Il "pacchetto" otteneva così un rating rassicurante e

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offriva un tasso di interesse relativamente elevato. L' alta richiesta di questi prodotti, (anche se nessuno

sapeva esattamente quale fosse il rischio reale ad essi connesso, perché calcolato da complicati modelli

finanziari di cui gli operatori, ed anche le rating agencies si fidavano ciecamente) generava ulteriore

richiesta di mutui sub investment grade ad elevato interesse da poter mixare con altri mutui

migliori a più basso interesse da impacchettare e vendere in prodotti finanziari sintetici. I promotori

immobiliari erano incentivati a generare mutui proprio della categoria tossica nell'illusione che il rischio

di quei mutui ,miscelato ad altri di migliore qualità, avrebbe diluito il rischio di insolvenza del

pacchetto. La fabbrica di prodotti tossici era quindi in piena attività sotto gli occhi di tutti. Questi

pacchetti finivano prevalentemente negli attivi delle banche (anche se erano concepiti per la clientela

privata) perché erano considerati una forma di impiego remunerativa ed a basso rischio.

6. Lo scoppio della bolla immobiliare ha quindi provocato conseguenze devastanti anche nel settore

bancario.

Ma, oltre a questa, altre cause sono da prendere in conto per comprendere la situazione del settore

bancario. Innanzi tutto il sistema finanziario era troppo levereggiato, aveva cioè troppo debito in

rapporto al capitale proprio. Il ricorso sistematico al finanziamento interbancario, meno costoso del

capitale proprio, aveva finanziato la crescita degli attivi bancari, con un mismatch tra impieghi ( a lungo

termine) e raccolta (a più breve termine o addirittura a vista)

Il sistema funziono' sino a quando alcune banche, specie quelle esposte nel settore immobiliare, ebbero

l' esigenza di rientrare, mettendo in difficolta' tutto il sistema. Si stava profilando una

crisi di liquidità bancaria globale.

Ad agosto 2007 le principali Banche Centrali del mondo decisero di iniettare nel sistema bancario 300

miliardi di dollari per tamponare la crisi di fiducia sulla solvibilità delle banche esposte al rischio sub

prime.

La misura ebbe effetti molto limitati : la modestia della cifra stanziata rispetto a quella poi

effettivamente utilizzata fornisce l'idea di quanto lontana fosse nelle autorità la percezione della realtà.

Tra ottobre e dicembre alcune delle principali banche di investimento (tra cui Merrill Lynch, Bank of

America, City Group, Barklays e UBS) annunciarono perdite per mutui sub prime superiori a 25

miliardi di dollari complessivi. Le azioni di Freddie Mac e Fannie Mae, le due principali agenzie

americane di erogazione dei mutui sub prime, persero in un giorno il 25% del loro valore: era evidente

la loro difficoltà a far fronte ai loro impegni.

All'inizio del 2008 la crisi si inasprisce. Ben Bernake, presidente della FED, segnala un crescente

pericolo di fallimento delle istituzioni finanziarie. La Gran Bretagna annuncia la nazionalizzazione di

Nordern Rock, una delle principali banche specializzate nell'emissione di mutui sub prime. JP.Morgan

annuncia l'acquisizione -salvataggio di Bearn Stern, con il supporto del Federal Reserve che garantisce i

debiti della banca assorbita per 30 miliardi di dollari.

A settembre 2008 la crisi raggiunge il suo apice: il 15 settembre Lehman Brothers dichiara bancarotta. Il

panico si impadronisce dei mercati, ed il giorno successivo il governo degli Stati Uniti nazionalizza di

fatto AIG, acquisendo l'80% del capitale, a fronte di un esborso di 85 miliardi di dollari.

Il 22 settembre il governo USA impone a Morgan Stanley e JP Morgan la trasformazione in banche

commerciali. Questo segna di fatto la fine delle grandi investment banks statunitensi.

In Europa, il 30 settembre l' Irlanda dichiara che garantirà i depositi delle sei principali banche del

Paese. Il 27 ottobre i 27 capi di stato dell' Unione Europea firmano un piano di salvataggio del sistema

bancario di 2700 miliardi di euro.

A fine ottobre Alan Greenspan dichiara di essere shoccato e incredulo per la dimensione della crisi

finanziaria che ha investito il mondo intero.

A inizio 2009, dopo 24 mesi dai primi fallimenti delle istituzioni finanziarie americane, la perdita

cumulata dichiarata dalle banche a causa della svalutazione dei mutui sub prime supera i 1000 miliardi

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di dollari, e l'ammontare delle risorse stanziate dagli Stati a supporto dei propri sistemi finanziari sotto

varie forme (garanzie sui crediti, iniezione di capitali e acquisto di assets più o meno tossici) ammonta a

10.600 miliardi di dollari.

La bolla finanziaria si è rivelata quindi più cospicua e pericolosa di quella immobiliare perché le banche

si prestano soldi tra loro e l' insolvenza di una banca trascina fatalmente quella di molte altre e infine di

tutto il sistema. Dopo il fallimento Lehman fu chiaro che un secondo fallimento avrebbe provocato

conseguenze catastrofiche.

7. I mercati finanziari (cioè i risparmiatori e gli intermediari che agiscono per loro conto) iniziarono a

capire che il mondo delle certezze degli ultimi decenni era finito. Non c'era più l'illusione di una crescita

stabile e duratura (vedi la teoria di Bernanke sulla grande moderazione) grazie alle sapienti politiche

economiche di governi illuminati, non c’era più la sicurezza dei giudizi di rating delle rating agencies,

non più la fiducia nella solidità delle banche.

Il passo successivo è stato quello di non aver più fiducia dei governi più indebitati specie di quelli che

palesavano maggiori difficoltà a rimborsare le imminenti scadenze dei debiti. Dubbi

crescenti iniziarono a formarsi circa la capacità di stati come la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l'Italia

di trovare investitori, e soprattutto banche (già in grave difficoltà per la crisi di liquidità prima descritta)

pronte a sottoscrivere nuove tranches di debito a copertura di quelle in scadenza. Gli spread dei Paesi

più esposti iniziarono a salire, ma nonostante la maggiore attrattività dei rendimenti i dubbi di

insolvenza persistevano. Il caso Grecia é emblematico di questa situazione: il paese e' palesemente

troppo indebitato e per anni ha presentato conti non veritieri. Le banche francesi e tedesche sono

detentrici di una parte consistente di questo

debito, ma non hanno intenzione di rinnovarlo alle scadenze. L'insolvenza dello stato greco

comporterebbe seri problemi alle banche detentrici del debito e provocherebbe la necessità di intervento

dei rispettivi governi per il loro salvataggio. Quindi il male minore è quello di trovare un meccanismo

per rifinanziare la Grecia evitando nuove crisi di insolvenza generalizzate.

Anche in questo caso lo schema é analogo a quello dei mutui immobiliari : le banche, attratte da

rendimenti elevati ed apparentemente senza rischi (crediti espressi in Euro e garantiti da

una Stato della UE) prestano danaro ad un creditore che non merita il credito. Per evitare l'insolvenza le

perdite vengono in parte assorbite dai finanziatori ed in parte rifinanziate dagli Stati .

8. Siamo così arrivati ai giorni nostri. La crisi, iniziata nel 2007 con lo scoppio della bolla immobiliare

nei paesi anglosassoni e la conseguente crisi dei mutui sub prime, e' presto transitata al settore bancario

per i riflessi della insolvenze sui mutui ma soprattutto per

un crisi di liquidità, generata dalla sfiducia delle banche nelle loro consorelle, crisi che ha fatto

evaporare il credito interbancario, costringendo gli Stati e le banche centrali ad intervenire per

scongiurare una crisi di insolvenza generale. Da ultimo, gli Stati più indebitati sono entrati in affanno

nel rinnovare le scadenze dei propri debiti, a partire dalla Grecia, che si trovava in situazione

patologica. Gli Stati meno indebitati, dovendo intervenire a sostegno dei propri sistemi bancari, hanno

tutti peggiorato sostanzialmente la propria situazione debitoria, arrivando a rapporti tra debito e Pil

lontani dai parametri di sana gestione dei conti pubblici. Quindi la maggioranza dei Paesi ha iniziato ad

applicare politiche di bilancio restrittive.

La crisi finanziaria si é così trasferita sull'economia reale: minor domanda pubblica e maggior pressione

fiscale per risanare i conti pubblici gravati dai costi del risanamento finanziario e per

ridurre l'eccessivo indebitamento pregresso. Inoltre, restrizioni del credito e alti tassi di interesse per

coprire un rischio industriale crescente e quindi minor domanda privata. Quindi calo della domanda

complessiva in tutte le economie occidentali. I mercati borsistici mondiali hanno anticipato questi

problemi, con una caduta verticale nel terzo e quarto trimestre 2008.

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La ripresa è lenta e incerta, c'è chi profetizza un altro decennio di stagnazione come già successo in

Giappone dopo lo scoppio della bolla immobiliare.

9. Crisi dei mutui, delle banche e dei debiti pubblici: riguardano individui, istituzioni finanziarie e Stati.

In questa grande diversità di soggetti, esistono connotati comuni? Proviamo ad individuarli:

- si è vissuti per troppo tempo al di sopra delle proprie possibilità. Gli individui contraggono debiti al

consumo perché non vogliono attendere di conseguire un livello di reddito adeguato per permettersi

determinate categorie di beni. Contraggono mutui sulla casa senza contare su di un reddito stabile e

adeguato, che consenta con ragionevole certezza di ripagare il debito. Le aziende usano in modo

eccessivo la leva del debito, perché il capitale di rischio è raro e costoso, e gli analisti considerano le

aziende poco indebitate strategicamente inadeguate in quanto non sfruttano appieno il potenziale di

crescita. Gli Stati accumulano un indebitamento

eccessivo spesso a fronte di spesa corrente e di sistemi pensionistici e sociali non compatibili. Ed il

governo Usa ha stimolato la concessione di credito sub prime per raggiungere obiettivi di consenso

politico. Insomma, si vive al di sopra delle proprie possibilità a tutti i livelli, e si fa questo in nome dello

sviluppo economico: più debito privato per sostenere i consumi e gli acquisti di case, più debito delle

imprese per sostenente gli investimenti, più debito pubblico per sostenere la domanda pubblica e quella

dei ceti sociali più deboli. Ma i debiti prima o poi devono essere ripagati, ed aumento della spesa a

breve non è garanzia di aumento del reddito a

medio termine;

- si pretende un alto ritorno dai propri risparmi, senza saper (o voler) valutare il livello di rischio. Tutti

sanno che il livello di ritorno atteso é tanto maggiore quanto maggiore é il rischio

connesso all' investimento. Ma dato che la valutazione del livello di rischio di un investimento è

un'operazione difficile e costosa, il risparmiatore tende a passare questo problema a operatori

specializzati, gestori di patrimoni o gestori di fondi di investimento. L' individuo così facendo rinuncia a

usare il proprio giudizio di buon padre di famiglia per affidarsi ad esperti in cambio

di una promessa di rendimenti più elevati rispetto a quelli che avrebbe ottenuto usando unicamente il

suo giudizio e discernimento. A loro volta i gestori , per formulare il proprio giudizio su aziende che

conoscono solo dai report e da fugaci incontri con il management, si basano sul giudizio di rating

agencies, specializzate a valutare il rischio connesso al debito, e su rapporti di analisti che esaminano

sistematicamente i bilanci di tutte le aziende di un determinato settore. Ma le rating agencies al mondo

sono solo 3 e gli analisti sono una dozzina per ogni azienda quotata di livello. Quindi, anche se i

risparmiatori sono milioni, gli opinion leaders sono relativamente pochi. Per questo meccanismo di

deleghe successive, i mercati tendono a muoversi in modo sincrono al rialzo o al ribasso. La

responsabilità delle rating agencies e degli analisti nel determinare la view del mercato e' enorme, ma

non esiste un sistema sanzionatorio. Nessuna rating agency ha messo in guardia gli investitori dai rischi

di

default prima della crisi. I gestori di fondi hanno contribuito prima a creare la bolla, poi a farla

esplodere, sotto la pressione di crescenti domande di rimborso.

Insomma il sistema della delega nella valutazione del rischio non ha funzionato. Forse sarebbe bastato

sospettare che la ricerca di un ritorno troppo elevato cela un livello di rischio inaccettabile;

- si pretende dalle imprese una crescita costante e risultati stellari ogni trimestre. La crescita delle

aziende si basa sul successo dei prodotti e servizi offerti al consumatore, che richiedono

lunghi anni di ricerca, sperimentazione e sforzi di marketing per far conoscere il prodotto al pubblico.

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Tutto ciò mal si concilia con risultati miracolosi sul breve termine. Ma la crescita può essere fatta anche

per linee esterne, ad esempio acquisendo un concorrente.

Spesso in questi casi il prezzo è elevato, e non si giustificherebbe se non ipotizzando sinergie derivanti

dalla fusione. Le acquisizioni vengano fatte spesso a debito, contando di ripagare il debito attraverso

l'aumento dei risultati portati dalle sinergie. Ma capita che le sinergie rimangono sulla carta, o si

raggiungono in ritardo e solo parzialmente. La montagna di debiti contratta per finanziare l'acquisizione

pesa sulla gestione, e si finisce di tagliare le spese

di ricerca, che sono le uniche che servirebbero per garantire lo sviluppo futuro. Il risultato è che anziché

avere un' azienda forte di dimensioni più grandi, ci si ritrova con un'impresa indebitata e senza

sviluppo. Considerazioni analoghe valgono per le aziende acquisite da venture capital o con leverage

buy out che per anni devono rinunciare allo sviluppo per ripagare il debito contratto dagli azionisti al

momento dell' acquisizione;

- si pretende dai Governi servizi pubblici, sicurezza sociale, pensioni adeguate anche per chi non ha

pagato contributi a sufficienza, protezioni in caso di perdita dei posti di lavoro,

incentivi per creare posti di lavoro, investimenti diretti in infrastrutture e in settori strategici di sviluppo,

posti di lavoro per supplire la carenza di occupazione privata, salari adeguati e

pressione fiscale moderata. E' semplicemente troppo: se chi governa non ha il coraggio di dire di no,

anche gli Stati si abituano a vivere al di sopra delle proprie possibilità , accumulano debiti che non

avranno la possibilità di onorare;

- la socializzazione dei rischi ha creato moral hazard. Il fatto che molte istituzioni finanziarie (ed anche

Stati come la Grecia) fossero considerate "too big to fail" e quindi da salvare anche se il loro

comportamento era stato quanto meno imprudente se non moralmente censurabile, ha generato un clima

di moral hazard: se ho la certezza che il mio credito sarà bene o male pagato perché in caso di default

qualcuno interverrà, perché devo preoccuparmi di valutare correttamente il rischio? Ma oltre al moral

hazard si é verificato anche una buona dose di intellectual hazard: troppi responsabili, anziché esercitare

il proprio giudizio, si sono fidati dell'opinione di un numero limitato di cosiddetti esperti rivelatisi poi

inaffidabili. In entrambi i casi il sistema ha abdicato al suo dovere di vigilanza e controllo.

10. Se questa é la diagnosi, ci accorgiamo che l'origine del problema ha vaste radici. Certo, ci sono stati

in questa crisi casi di vera e propria delinquenza, le cui dimensioni hanno stupito tutti.

Ma non sono questi gli aspetti più preoccupanti: è il sistema nel suo complesso che ha mostrato i suoi

limiti e i suoi difetti.

Il sistema economico e finanziario si e' globalizzato e la dimensione finanziaria sovrasta quella reale. Le

dimensioni dei patrimoni amministrati da molti fondi eccedono quelli del Pil di grandi

nazioni. Come abbiamo visto, attraverso un sistema di deleghe successive, le scelte di investimento sono

passate dagli individui ai gestori di fondi agli analisti alle rating agencies e a volte a modelli matematici.

I veri decision makers sono pochi, i processi utilizzati nelle loro decisioni sono poco trasparenti, i

comportamenti si influenzano reciprocamente e non vi e' un sufficiente uso della dialettica critica.

Il sistema e' quindi diventato conformista. E' sempre difficile e scomodo andare contro il sentire

comune. Se Greenspan, ritenuto il più grande banchiere centrale di sempre, sostiene che immettere

liquidità senza freni nel sistema non è rischioso sino a quando l'inflazione è moderata, chi se la sente di

contraddirlo? Meglio utilizzare la liquidità che viene offerta a buone condizioni e cercare di tirarne

profitto. Se le rating agencies e gli analisti conferiscono una nota positiva a uno Stato o ad una azienda,

perché effettuare analisi ulteriori? Se due economisti vincono il premio Nobel per aver messo a punto un

algoritmo per valutare il rischio, perché mettere in discussione i risultati? Se il pensiero dominante nel

mondo accademico

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e' che la liberalizzazione dei mercati e la deregulation sono la chiave di volta dello sviluppo, perché

esprimere dubbi sulla capacità del sistema di autoregolarsi e di usare la dovuta moderazione?

Prendere posizioni eterodosse può significare bloccare la propria carriera in attesa di un riconoscimento

postumo ed ipotetico per aver previsto il disastro. Molti pensano che il rischio di breve termine non

valga questa ipotetica ricompensa.

Il conformismo ha fatto perdere di vista l'economia reale per dare troppo peso alle teorie monetariste. Il

motore dello sviluppo non sono le politiche monetarie ma le politiche industriali. Sono gli imprenditori,

le aziende, i centri di ricerca, i prodotti, le innovazioni, gli investimenti che creano occupazione,

sviluppo, ricchezza, crescita economica degli individui, delle aziende, dei Paesi. La politica monetaria

può facilitare questo sviluppo virtuoso, ma non può sostituirlo. Aumentare la capacita di spesa con il

credito non ha senso se il debito non sarà rimborsato. Le regole morali che i nostri genitori ci hanno

insegnato in merito al risparmio non sono ferri vecchi da dimenticare in nome di una New economy

basata sul debito.

Il sistema é pertanto diventato avido. Non si può pretendere a lungo termine da un investimento

finanziario un rendimento superiore al tasso d'espansione dell’economia reale. Eppure ci illudiamo di

essere capaci di concentrare i nostri investimenti in Paesi, settori e

aziende con performance migliori della media ed a basso rischio. Il sistema é diventato avido anche

perché chi gestisce la macchina degli investimenti finanziari é incentivato sui risultati di breve termine,

é poco interessato a generare valore nel lungo termine e non è troppo preoccupato dell'insorgere di bolle

speculative.

In questa luce le responsabilità della crisi paiono profonde ed endemiche, e distribuite tra tutti gli attori

della vicenda:

- responsabili sono gli individui, che hanno delegato il giudizio di buon padre di famiglia sul livello di

rischio dei propri investimenti, pretendendo nello stesso tempo da essi rendimenti irragionevoli

- responsabili sono i gestori di risparmio, che hanno illuso i risparmiatori sulla possibilità di ottenere

alti rendimenti con un basso livello di rischio, e cercando di realizzarli investendo in

prodotti che incorporavano un alto livello di rischio, senza esercitare il dovuto controllo dei giudizi delle

rating agencies, di analisti finanziari e di modelli matematici di calcolo del rischio

- responsabili sono i promotori di mutui immobiliari, che, incentivati sul volume di affari generato,

hanno raccolto crediti di bassa qualità ed alto rendimento, pur consapevoli che il rischio di non

pagamento era elevatissimo

- responsabili sono gli " impacchettatori", creatori di prodotti finanziari da rivendere ad altre istituzioni

finanziarie, che hanno utilizzato modelli finanziari per dimostrare che il rischio, una volta parcellizzato,

può essere reso inoffensivo

- responsabili sono le Banche, che hanno mostrato appetito per questi prodotti puntando sul facile

guadagno di una provvista abbondante e a buon mercato (liquidità immessa dalla Fed) ed il rendimento

dei prodotti "impacchettati". Ma responsabili anche di mutui erogati con troppa liberalità, di carte di

credito concesse per l'incremento dei consumi privati eccedenti le capacità del reddito individuale, di

finanziamenti di operazioni di private equity o di leverage buy out

basate su presunte sinergie o illimitate capacità di crescita delle imprese acquisite. In generale,

responsabili di una crescita degli attivi troppo basata sul danaro preso in prestito a buon mercato ed

impiegato in investimenti remunerativi sulla carta, ma rivelatisi ad alto rischio ed a bassissima

liquidabilita'

- responsabili sono le rating agencies e gli analisti, che nelle loro valutazioni hanno fallito il loro scopo

principale: quello di prevedere il rischio per indirizzare correttamente i mercati

- responsabili sono i gestori di fondi, che con le loro enormi masse da investire hanno seguito la

corrente, prima creando le bolle speculative continuando ad investire su beni e titoli di valore già

inflazionato, e poi facendole scoppiare sotto la spinta di richieste di rimborso da parte dei sottoscrittori

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- responsabili sono le autorità di regolazione e controllo dei mercati (innanzi tutto la Fed, ma anche le

altre banche centrali, authorites di controllo delle Borse, organismi internazionali) che

lungi dall’esercitare un ruolo critico, hanno assecondato con le loro politiche la creazione della bolla

-responsabile è il governo americano, che per accattivarsi una parte dell’elettorato ha spinto su una

politica di credito facile rivelatasi disastrosa

- responsabili sono gli Stati europei più indebitati, che hanno ritenuto con l'ingresso nell' euro di essere

al riparo da rischi sistemici, ed hanno utilizzato l' enorme risparmio derivante dalla

riduzione dei tassi di interesse conseguente all'adesione all'eurozona per aumentare altre spese correnti

anziché per ridurre il debito, esponendosi così ad una crisi di fiducia internazionale

- responsabili sono gli Stati europei meno indebitati, che a fronte della crisi greca, hanno finto di

ignorare che il mancato salvataggio della Grecia avrebbe provocato una crisi insostenibile per alcune

banche nazionali detentrici di debito greco, che si sarebbero poi dovute salvare con un onere analogo

- responsabili sono le autorità monetarie di tutti i paesi, che per evitare una crisi dei pagamenti

generalizzata hanno iniettato, com’era inevitabile, grandi liquidità nel sistema, ma poco hanno fatto per

misurare la dimensione del debito tossico nel bilancio di ciascuna banca. Si alimenta così un clima di

impunità e di omertà sulle dimensioni del problema che non giova certo alla reale estirpazione delle

radici del male.

11. Le responsabilità sono, come abbiamo visto, assai vaste e generalizzate, e se non vogliamo definire

questa una crisi morale endemica, possiamo certamente dire che c’é stata una deriva che ha

progressivamente modificato valori, comportamenti e rapporti fiduciari. Ed é cambiato anche il modo

di concepire lo sviluppo economico: si é persa di vista l'economia reale, dando troppa rilevanza al

credito ed alla finanza come motori dello sviluppo.

Se siamo convinti che questo sia un errore fondamentale di prospettiva, per uscire dalla crisi la ricetta

non può essere nuovamente di natura squisitamente finanziaria, ma deve porre come priorità lo sviluppo

dell'economia reale.

Molti osservatori ritengono che sinora i Governi abbiano cercato di spegnere l'incendio e di guadagnare

tempo, ma che poco abbiano fatto per risolvere alla radice il problema, che resta quello di un eccessivo

indebitamento complessivo, parzialmente spostato, durante la crisi, dai bilanci dei privati e delle

banche a quelli degli Stati.

Come é noto, più che il livello assoluto del debito, quello che conta é il rapporto tra debito e reddito, che

misura la capacità degli Stati, degli operatori e degli individui di rimborsare i loro

debiti. Questo rapporto é praticamente in tutti i Paesi, e per quasi tutti gli attori, troppo elevato e deve

essere ridotto o riducendo il debito o aumentando il reddito. La riduzione del debito per via classica

(risparmio per gli individui, autofinanziamento al netto di investimenti per le imprese, avanzi di bilancio

per gli Stati) è considerato un processo troppo lungo ed incerto e foriero di una spirale recessiva che

provocherebbe un’ulteriore peggioramento del rapporto debito/reddito. Pertanto alcuni economisti

suggeriscono di agire attraverso una drastica ristrutturazione del debito: ogni creditore dovrebbe

rinunciare ad una parte del proprio credito oppure potrebbe essere introdotta una tassa patrimoniale una

tantum per permettere il rimborso di una parte consistente del debito pubblico.

Dopo questa dolorosa operazione di disindebitamento l’economia potrebbe ripartire. Ma quanto grande

dovrebbe essere questa "tosatura" dei creditori?

Non c’é un rapporto standard ideale tra debito e reddito universalmente accettato, ma nell'eurozona i

parametri di Maastricht prescrivono per il debito pubblico un tetto del 60% del PIL. Se ad esempio si

volesse avere come obiettivo un livello complessivo di debito dei 3 settori - debito pubblico, debito

delle istituzioni non finanziarie e debito delle famiglie - pari a 3 volte 60%, cioè 180% del PIL si

arriverebbe a calcolare il debito massimo sostenibile per ciascun Paese e quindi, per differenza rispetto

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alla situazione attuale, quello in eccesso. Il debito in eccesso risulterebbe pari a 6,100 miliardi di euro

per l’eurozona, 1.200 miliardi di euro per la Gran Bretagna e 8.200 miliardi di euro per gli USA.

Si tratta di cifre gigantesche: se si volessero raggiungere istantaneamente i livelli di debito prima

indicati, si dovrebbero introdurre misure di straordinaria gravità ed impopolarità, che

andrebbero ben oltre a quelle già dolorose messe in atto da molti Paesi. Ma la situazione debitoria pare

così lontana dalla normalità che altri casi di ristrutturazione del debito pubblico sul tipo di quanto

attuato della Grecia sono certamente possibili, e insolvenze di aziende o banche potranno ancora

verificarsi.

C’é quindi da domandarsi se non sia preferibile affrontare il problema per quello che é: accertare il

livello delle perdite latenti nel sistema e pianificare in modo trasparente e deciso la loro bonifica. Un

progetto di questo genere potrebbe diventare inevitabile se una nuova crisi di credibilità scuotesse il

sistema, provocando interventi in emergenza che per loro natura sono meno efficaci e più costosi.

Operazioni di questo genere richiederebbero leaders internazionali dotati di grande credibilità e grande

visione. Grande visione che sarebbe anche necessaria per progettare politiche atte a promuovere la

crescita del PIL, per ristabilire le condizioni di rimborsabilità del debito accumulato.

E’ stato proposto di lanciare nei paesi colpiti dalla crisi, e soprattutto in Europa, grandi programmi di

investimento infrastrutturale in grado di migliorare la produttività del sistema e

rilanciare l' economia.

Pensiamo ad investimenti nella banda larga, a reti ferroviarie ad alta velocità, a porti ed aeroporti

moderni, ad autostrade di grande comunicazione, a reti di gasdotti a livello continentale, ad investimenti

per limitare l'effetto serra e per il risparmio

energetico. Pensiamo ad investimenti sull’educazione delle future generazioni.

Certo, questi investimenti richiedono capitali. Ma una frazione dei capitali sinora impiegati per il

risanamento finanziario, se impiegati per lo sviluppo di investimenti infrastrutturali, avrebbero un

effetto moltiplicatore straordinario per il rilancio dell’economia reale.

Oggi i bilanci degli Stati sono oberati da debiti, ed in molti casi il vincolo di pareggio di bilancio é stato

introdotto nella Costituzione. Pertanto, per lanciare simili programmi di investimento dovrebbero essere

istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea e la BCE da un lato ed il Fondo Monetario

Internazionale e la Banca Mondiale dall’altro. La garanzia degli strumenti creditizi relativi a queste

iniziative potrebbe essere fornita dalle riserve auree dei paesi aderenti al programma (come

recentemente suggerito da Alberto Quadrio Curzio e Romano Prodi).

Al finanziamento potrebbero partecipare anche Paesi come la Cina, che hanno accumulato ingenti

riserve valutarie negli ultimi anni grazie agli attivi delle loro bilance commerciali, e che quindi

dovrebbero avere tutto l’interesse al rilancio di economie che tanta importanza rivestono per il loro

sviluppo. Recentemente il FMI e gli stati europei hanno istituito fondi per la salvaguardia della

solvibilità della zona Euro per 800 miliardi di euro. Se un ammontare

analogo fosse stanziato per il rilancio della crescita economica avremmo fatto un enorme passo avanti

per uscire definitivamente dalla crisi.

In conclusione auspichiamo un ritorno ai fondamentali dello sviluppo: risparmio, investimenti,

produzione di prodotti competitivi, moderazione dei governi nelle spese correnti, ricorso al credito in

funzione delle capacità di rimborso. Ed alle regole morali di un tempo: cautela nel valutare il rischio,

ragionevolezza nel ritorno atteso, guadagni commisurati al lavoro ed al merito.

Ricordiamo l'insegnamento della dottrina della Chiesa in materia economica: la crescita del reddito é

legata al fattore demografico ed al progresso tecnico, cioè alla produttività. Una crescita drogata da

politiche irragionevoli non è sostenibile ed offende la dignità della persona. Proprio quello che è

successo in questi anni.

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Ma anche auspichiamo una forte iniziativa politica a livello europeo e di cooperazione tra grandi aree

economiche, che sappia superare gli egoismi locali in una visione lungimirante di reciproco aiuto per lo

sviluppo. Anche a questo riguardo la dottrina della Chiesa è illuminante: “Come esiste la responsabilità

collettiva di evitare la guerra, così esiste la responsabilità collettiva di promuovere lo sviluppo. Come a

livello interno é possibile e doveroso costruire

un’economia sociale che orienti il funzionamento del mercato verso il bene comune, allo stesso modo é

necessario che ci siano interventi adeguati anche a livello internazionale. Perciò bisogna fare un grande

sforzo di reciproca comprensione, di conoscenza e di sensibilizzazione

delle coscienze. E' questa l’auspicata cultura che fa crescere la fiducia nelle potenzialità umane del

povero, e quindi, nella sua capacità di migliorare la propria condizione mediante il lavoro, o

di dare un contributo positivo al benessere economico” (Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, par.52).

Bibliografia

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Geoffrey Miller. Trust, risk and moral hazard in financial markets. Il Mulino. 2011

Raghuran G. Rajan. Fault lines. Princeton University Press. 2010

Autori vari. Collateral Damage. Articoli pubblicati dal Boston Consulting Group tra l'ottobre 2008 e

settembre 2011.


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