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APPUNTI, 4Decrescita

Emiliano Bazzanella

Oltre la decrescita

abiblioforum per utopie e skepsis

Il tapis roulant, e la società dei consumi

Prima edizione: marzo 2011

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ISBN: 978-88-903394-4-8

Indice

Introduzione, 91. Il SUV, 12

2. Che bello sciare!, 233. Un bimbo piange, 294. Reality e soap, 36

5. Il centro commerciale, 456. Il telefonino, 537. Il telecomando, 608. Moda e Aperol, 70

9. L’iPad, 7710. Consumismo, relativismo e fiera delle fedi, 82

11. Prove di autoimmunizzazione, 8812. La fine delle ideologie, 95

13. Il ciclo “insensato” del gamberetto, 9914. Tapis roulant e Slow Food, 102Bibliografia di riferimento, 113

Introduzione

Un uomo corre da ore su un tapis roulant, strano mar-chingegno della modernità che consente di fare jogging orunning standosene tranquillamente a casa, protetti damura calde ed accoglienti, sicuri come nel grembo mater-no. I suoi muscoli si flettono con un ritmo paradossale,composto da dissonanze motorie, da tante micro-aritmie eda disequilibri che alla fine, per una sorta di miracolo cine-tico, danno luogo ad un movimento fluido ed armonico.Rivoli di sudore grondano copiosi dalle tempie; il respiro sifa sempre più affannoso e il frequenzimetro indica con unbip la soglia del metabolismo anareobico: 160 battiti alminuto! Di fronte, uno schermo LCD fa vedere l’ultimapuntata del “Grande Fratello”, i nuovi garbugli relazionalie gli amori appena sbocciati. Il runner incarna in questocontesto una valida rappresentazione della monade leibni-ziana: chiuso in un salotto senza finestre, “finge” di muo-versi e di attraversare di corsa il mondo, ma è il mondo chemediante la finzione televisiva entra ossessivamente nellasua stanza. Egli è immobile e mobile nello stesso tempo; èchiuso e simultaneamente aperto alla realtà esterna. Verae propria contraddizione incarnata, non-senso eccessiva-mente sensato.Il tapis roulant per certi aspetti condensa, e non solo

simbolicamente, la follia della nostra condizione postmo-derna o postcapitalistica: è uno strumento che implica unmovimento statico ed inutile e che finge un mondo circo-stante protettivo ed aperto nello stesso tempo; è un mezzoper consumare energia e per compensare nel suo eccessoaltre modalità di consumo eccessivo; è, infine, una forma

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di wellness, ossia serve per stare bene, per fare attività car-diocircolatoria, per controbilanciare insomma gli effetti diuna vita troppo sedentaria ed opulenta. D’altronde il tapisroulant s’aggiunge ad altre macchine similari come lostepper, la classica cyclette o il video-fitness in cui ilmomento fittizio ed illusorio diviene sempre più centrale.Agli occhi di un ipotetico uomo del millecinquecento stru-menti siffatti non solo apparirebbero bizzarri, ma assolu-tamente dissennati. In un’epoca in cui la fatica del lavorosi faceva sentire e l’alimentazione era scarsa, ipotizzare lanecessità di consumare calorie con una serie di movimen-ti senza alcuna finalità se non il fatto d’essere appuntopuro “movimento“ e dispendio energetico sarebbe apparsaquantomeno una cosa assurda e senza alcun senso.L’intento che sorregge il mio tentativo di attraversare

alcune stranezze della nostra vita quotidiana non è peròquello di stigmatizzare ulteriormente l’insensatezza degliatteggiamenti e comportamenti dell’uomo contempora-neo, quanto, proprio al contrario, quello di rilevarne l’in-trinseca razionalità, il fatto di corrispondere a certenecessità e d’essere dotati d’una dialettica di sensointrinseca. Ecco dunque che la paradossale inutilità deltapis roulant s’inserisce in un dispositivo di senso in cuida un lato vengono ricercati una maggiore sicurezza esempre ulteriori filtri che fungano da cuscinetto protetti-vo rispetto alla realtà, dall’altro esso compensa uno stiledi vita troppo sedentario e troppo consumistico, cioè –nella sua eccessiva inutilità – cerca di depotenziare edalleviare gli effetti di un eccesso. È in quest’ottica che iltapis roulant è divenuto un “bisogno” ed è entrato nellelogiche del mercato: non dobbiamo pensare ad un consu-mo acefalo ed insensato, ma semmai ad un modo d’esse-re dell’uomo che si rapporta essenzialmente al mondocon-sumando, cioè ritualizzando e sistemizzando unatteggiamento che ciascuno di noi ha tenuto sin nei primimesi di vita, quando da piccoli si manipolava, mordevaed inghiottiva qualsiasi oggetto ci stesse attorno.

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Se dunque il “tappeto rotolante” corrisponde al biso-gno di ridurre il proprio strato adiposo standosene benrinchiusi entro le mura domestiche, ciò significa che essoconsiste nella risposta di tipo “immunitario” ad una con-dizione sociale esorbitante. Per evitare gli effetti nefastidi un consumo eccessivo, bisogna a propria volta consu-mare “eccessivamente” calorie, è necessario insommacontrapporre all’eccesso un altro eccesso. È forse in que-sto meccanismo che si cela l’essenza del tardocapitali-smo: siamo costretti a consumare sempre di più per com-pensare gli effetti collaterali del consumo; consumo del econtro il consumo, eccesso per smorzare un altro ecces-so. Che poi questa dialettica apparentemente sensataconduca alfine al non-senso – l’immobilità del tapis rou-lant a fronte della spesa energetica necessaria al suo fun-zionamento – costituisce la posta in gioco e il rischio delnostro tempo.Nel presente saggio cercherò allora di tratteggiare i

contorni ancora nebulosi di alcune forme di consumooggi molto diffuse – il SUV, il telefonino, lo sport, la TV,l’iPad, l’alcol, i centri commerciali – per evidenziarne ilmeccanismo sottostante di difesa, rassicurazione, com-pensazione ed eccesso, nonché i rischi nel contrapporreun eccesso ad un altro eccesso. Lo sfondo di tale analisi ècostituito da una nuova declinazione del concetto di“decrescita”, declinazione peraltro già presente nelleriflessioni di S. Latouche che della decrescita è notoria-mente il massimo teorico, e che si ricentra soprattuttosulla necessità di un “rallentamento”, cioè sulla riduzio-ne della velocità con cui consumiamo e creiamo semprenuovi bisogni e nuovi valori. Questo rallentamento hacome coordinata una generica esposizione al non-senso,la quale implica indubbiamente un certo coraggio (purnon essendo probabilmente nelle corde dei nostri tempi)e che si può esplicare da un lato nel recupero ponderatodi pratiche “ascetiche” come il silenzio, la passività e l’o-zio, dall’altro nell’accentuazione del “come” a scapito del

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“che cosa”, ossia nel reintegro di nozioni come lo stile, lasobrietà e la temperanza, riqualificandole nella lorodimensione sia etica che estetica.

1. Il SUV

Sport Utility Vehicle: così si chiama quel nuovo mezzo ditrasporto, un po’ automobile, un po’ tank e carroarmatoo cingolato, che si muove sempre più frequentementelungo le anguste vie delle nostre città. Romba sordo, ali-mentato da un carburante diesel che espande nell’aria ilsuo inconfondibile miasma. Ed è grande, mastodontico,direi quasi “fuori luogo”.Ma che cosa ci fa questo monstrum metà automobile,

metà carroarmato, tutto bello levigato e metallizzato, gri-gio funereo o nero, con un’espressività del muso tutt’al-tro che rassicurante? Che cosa ci fa così aggressivo e pocoaccomodante in mezzo alle nostre più modeste utilitarieche al suo cospetto paiono delle timide ranocchie graci-danti? Ma – soprattutto – che senso ha, a che cosa serve?Sono domande che, nonostane la loro legittimità e

apparente semplicità, pongono invece, quasi subito, unaserie di ulteriori interrogativi. E la prima risposta cheattraversa la nostra mente è che il SUV costituisce un evi-dente “status symbol”. In tutte le società umane, glioggetti sociali che vi svolgano una qualsiasi funzione,non si esauriscono nella loro semplice utilità o “utilizza-bilità”, come diceva Heidegger in Essere e tempo. C’è undi più, che talvolta diviene il cuore e il “significato” piùprofondo dell’oggetto stesso. Un vestito, ad esempio, nonesaurisce soltanto la propria utilità nel coprire e riscalda-re il corpo, ma diviene il vettore di ulteriori significati:esso così marca e denuncia il ruolo sociale di chi l’indos-sa o il ruolo che questi vorrebbe effettivamente svolgere;indica una certa gerarchia e, quindi, trasmette parados-salmente una qualche forma di ordine e di regolarità;oggi, esprime anche qualcosa del sé, cioè allude – come

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una marca o un segnale – all’appartenenza ad un deter-minato gruppo e al correlato identificativo che ciò impli-ca, a ciò che vorremmo essere – anche in termini dicarattere, attitudini, capacità – ma ancora non siamo.Balugina insomma innanzi ai nostri occhi qualcosa cheancora non comprendiamo ma che inizia ad imporre ilproprio peso sociale e la propria importanza: il bisogno. Torniamo al SUV. A ben guardare si tratta di un mezzo

di locomozione insensato, o, quantomeno, improvvido. Inuno sviluppo urbano che sta moltiplicando i quartieri,incrementando la popolazione, disseminando ogni via estrada con sempre più macchine, non possiamo certoaffermare che il SUV rappresenti la soluzione ottimale epiù razionale. Occupa innanzitutto il triplo del posto diuna macchina media degli anni Settanta: se le automobiliquindi da quell’epoca sono almeno quadruplicate, eccoche in termini di spazio abbiamo ingorgato le nostre stra-de di ben dodici volte! Il che ci pone innanzi – come sefosse un film di fantascienza o l’ennesimo episodio di StarWars – allo spettacolo assurdo di città intasate all’invero-simile da siffatti mezzi fumiganti ed assordanti, tuttifermi, incassati l’uno a fianco all’altro in attesa di iniziarelentamente, dopo un’ora o più d’attesa, la lenta marcia eper poi imbattersi, magari, in un altro ingorgo e in unaltro ancora. Fermi, inebetiti, fumiganti. Da un ingorgo adun altro: mezzi ciclopici che anziché fungere da mezzi dilocomozione, divengono paradossalmente degli strumen-ti statici, vere e proprie zavorre urbane, macigni inaggira-bili d’una società ormai stanca.Ma non basta! Il SUV è un mirabile “consumatore” di

carburante, un vero e proprio generatore a diesel.L’urbanizzazione non implica in effetti soltanto il sovraf-follamento delle strade, ma anche l’inquinamento atmo-sferico, l’aleggiare di quella cappa plumbea e incomben-te che ormai avvolge come una tenera madre tutte lenostre grandi città. Benzene, anidride carbonica, ozono,PM10, nanoparticelle d’ogni sorta. Ebbene, ecco l’altra

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assurdità: non soltanto questi mirabolanti mezzi sembra-no costruiti paradossalmente per rimanere fermi – etutto di loro pare indicare inequivocabilmente tale eve-nienza: le dimensioni, la pesantezza, la forma – ma,come ciò non bastasse, si trasformano anche in eccezio-nali produttori di gas velenosi e cancerogeni, alla facciadelle nuove sensibilità ecologiche e della nuova attenzio-ne per la sallute.E ancora: da quando è stata inventata, l’automobile ha

prodotto sempre un certo numero di incidenti e un certonumero di feriti e di morti. Dal tempo in cui ad esempioItalo Svevo morì uscendo di strada, una persona assen-nata potrebbe legittimamente pensare che in quasi ottan-t’anni di progresso tecnologico, si sia arrivati a macchinesicure, incapaci di uccidere. E invece no! La diffusionedei SUV nelle nostre strade ha visto l’incremento signifi-cativo dei morti da investimento: pensate alla differenzatra esser buttati sotto da una Fiat Cinquecento, da unaPunto o da un Hammer. Nei primi due casi, se la veloci-tà è moderata, forse ve la potete cavare con quarantagiorni di gesso, qualche escoriazione, qualche punto disutura; ma se è il SUV in cui sfortunatamente incappate,la speranza è vana e il vostro destino bell’e segnato.Iniziano a profilarsi una serie di interrogativi e una

serie di generalizzazioni conseguenti: di fronte al SUV, alsuo bisogno, siamo proprio così convinti che i processi disviluppo e di evoluzione della civiltà umana implichinouna progressiva razionalizzazione? Il SUV, in quanto stu-pefacente esempio della tecnica moderna, è in sé intelli-gente o esprime un’intelligenza progettuale, oppure –ancora – inizia ad inculcarci la sensazione d’essere in séqualcosa di insensato, una vera e propria follia? E da qui,generalizzando: siamo proprio sicuri che sia ancora vali-da un’idea illuministica di sviluppo, se è l’uomo stessoche nell’aumento vertiginoso delle sue conoscenze e com-petenze finisce per creare nuovo asservimento e nuovemanifestazioni di irrazionalità?

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Forse il modo in cui ho posto simili questioni potrebbeapparire un po’ semplicistico. O meglio, probabilmentepotrebbe trattarsi di un tipo di argomentazione che mettel’accento soltanto su taluni aspetti, certamente eclatanti,che fanno del SUV un oggetto sociale un po’ insensato,inutile e dannoso, a scapito d’altri che invece potrebberoenfatizzarne le qualità positive e socialmene rilevanti,come la potenza dei motori, la tenuta di strada, la solidi-tà della carrozzeria, una maggiore sicurezza per chiguida. La questione quindi dev’essere approfondita nelsenso che dovremmo innanzitutto chiederci se ciò che ilSUV manifesta di primo acchito – sia in positivo che innegativo – non nasconda invero un meccanismo più pro-fondo ed ambiguo nella sua essenza. È una follia ipsofacto o costituisce una razionalità così estremizzata dadivenire insensata? Oppure rappresenta un’estrema dife-sa nei confronti del “fuori” inteso in tutta la sua ambiva-lenza, ossia come la nostra parte più recondita e selvag-gia, e l’Altro, lo straniero che sempre più insistentemen-te sta bussando alle porte delle nostre case?Potrà apparire strano, ma forse la via per un chiari-

mento passa proprio attraverso Marx e, in particolare,attraverso la sua teoria dei valori. È un tema abbastanzanoto: una delle principali distorsioni del capitalismo con-sisterebbe nel rinforzare il cosiddetto valore di scambio afronte del valore d’uso. In una circolazione acceleratadelle merci si verifica un fenomeno abbastanza bizzarro,nel quale la funzione originaria delle stesse – ciò cui essedovrebbero servire nella mente di chi le ha pensate e for-giate – diviene relativa e quasi ininfluente rispetto a fun-zioni effettivamente accessorie e secondarie. Detto altri-menti, il fine, il significato di un determinato oggetto èdestinato a migrare verso altre funzioni e significati:quando compro un’automobile, non compro semplice-mente un mezzo di locomozione, che forse non mi servenemmeno, ma acquisto un coagulo di segni e di segnalisociali, per esprimere il mio censo, la mia ricchezza, il

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mio carattere o, più semplicemente quello che vorreiessere (la berlina, anziché il coupè, la station wagon inve-ce della cabriolet sportiva, etc.). Ma poi si acquistano sor-prendentemente anche entità astratte, valori come laforza, la velocità, la bellezza, i quali divengono così deglioggetti di consumo alla stessa stregua di un vestito o diun paio di scarpe. Si passa così da un valore d’uso cherappresenterebbe l’utilità “pura” del mezzo, al valore discambio in cui esso “vale” nella misura in cui può essereconvertito in denaro, per arrivare infine ad un valoresimbolico in cui si agganciano entità e significati astratti.Il SUV, insomma, diviene un intreccio abbastanza fitto diistanze che distano un miglio dalla sua funzione origina-ria, ossia quella di costituire un mezzo di locomozione etrasporto urbano.Nella sua distinzione, Marx introduceva quella che si

definisce un’ “assiologia”: il valore d’uso incarna qualco-sa di puro ed autentico; il valore di scambio e il valoresimbolico qualcosa di secondario, inautentico e infinita-mene deviante. A causa di quest’ultimo si verifica unfenomeno perverso, patologico, una forma di feticismo incui al centro della vita umana non è più situato il bisognoeffettivo o esistenziale come lo definiva Ágnes Heller, mal’oggetto, la merce in quanto caricata e schermata da uncomplesso di sovrastrutture che nulla hanno a che farecon il suo utilizzo. Noi viviamo in una sorta di finzioneall’interno della quale non siamo più “soggetti”, maveniamo continuamente sottomessi dalle “cose” e dallapluralità di significati fittizi che vi sono inscatolati. Il filo-sofo sloveno Slavoj Zizek fa l’esempio delle scarpetteNike: quando le compriamo, non entriamo in possesso diun oggetto specifico, di marca americana e magari pro-dotto in Cina; non le usiamo necessariamente per corre-re o per camminare, finalità per le quali esse sono stateprogettate e fabbricate. Ciò che noi compriamo è soprat-tutto la marca “Nike” e, associata ad essa, tutta una seriedi sensazioni ed emozioni: il fatto di appartenere ad un

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determinato gruppo, una specifica “immagine dell’io”(uomo di mezz’età, mediamente sportivo, trendy, etc.),l’essere alla moda e, quindi, un differenziarsi che para-dossalmente implica un certo conformismo. C’è insom-ma nella merce e nei valori di scambio che veicola unacerta tensione alla communitas, cioè una volontà incon-scia di appartenere ad un certo gruppo sociale, consoli-dando i rapporti che lo fondano anche a partire dagli ele-meni più superficiali e in apparenza inutili. Ci torneremo. Però se Marx evidenziava la distorsione

di questo processo, poiché il valore e l’equivalente indenaro degli oggetti li sottraevano sempre di più alla loronatura, Zizek focalizza la sua attenzione sull’immateriali-tà – oggi quanto mai palese e tangibile – delle merci e,soprattutto, sul fatto che la contemporaneità sia connota-ta dalla prevalenza dell’immaginario rispetto al simbolico,dell’immateriale rispetto al materiale.Torniamo al SUV, allora: esso non veicola solanto valo-

ri di scambio di tipo simbolico, cioè non è solo una formadi comunicazione sociale che trascende l’utilità dell’og-getto; si tratta altresì di un intreccio di elementi simboli-ci ed immaginari che appagano un desiderio (peraltroinesauribile) e implicano un certo godimento. Se Marxradicava le distorsioni del capitalismo sul plus-valoreconnesso al valore di scambio e, quindi, sopra un mecca-nismo deviato della produzione del reddito, per Zizekdobbiamo guardare invece ai meccanismi psichici edindividuali del desiderio se vogliamo comprendere, adesempio, la follia del SUV.Vorrei tuttavia introdurre ancora qualche elemento

alla questione, ed articolare meglio proprio quella fun-zione del bisogno che non sembra trovare molto spazionella filosofia marxiana. Detto in breve, anche il SUVnella sua follia, il SUV in quanto concentrato inutile divalori di scambio e valori simbolici, di godimento e didesiderio immaginario, il SUV – insomma – in quantooggetto quasi non-esistente, costituisce un bisogno. Oggi

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c’è bisogno di SUV e c’è bisogno delle scarpette Nike, ilche equivale a dire che oggi c’è bisogno del sur-plusimmaginario del desiderio, del godimento e del valore discambio.Ma che cosa intendiamo per “bisogno”? Che senso ha

introdurre questo termine un po’ usurato e privo dellacarica emotiva d’un tempo, in cui i bisogni erano per cosìdire quelli primari, essenziali? Il primo passo che propongo di fare è quello di analiz-

zare l’etimologia di questa parola, per scoprire la suanatura non così facilmente identificabile. “Bisogno” deri-va infatti dal francese be-soin e se da un lato indica unanecessità, un’impellenza, dall’altro si aggancia a terminiaffatto eterogenei come il latino somnium (sogno) o iltedesco sehen (vedere). Siamo di fronte a due movimen-ti incastonati tra di loro, come nelle complicazioni degliorologi meccanici: la necessità ineludibile implica unasorta di copertura immaginaria, una sorta di illusioneesteriore che pare assolvere un compito principalmenteillusorio. Noi tutti siamo costretti da pulsioni ed istanzecui non possiamo rinunciare: il senso della fame e dellasete, la pulsione sessuale, l’orgoglio, la presunzione, larabbia, etc.: a mo’ di semplificazione proporrei di chia-mare l’intero fascio di queste istanze con il termine soloin apparenza generico di “reale”: non si tratta semplice-mente della realtà che ci circonda, poiché quest’ultimaderiva dal “reale” più l’intero complesso di categorie,schemi concettuali, significazioni, coperture immagina-rie attraverso le quali percepiamo questo stesso reale. Intermini lacaniani la realtà è composta dal “reale+simbo-lico”. E allora? Di che cosa parliamo? È possibile argo-mentare o soltanto appena immaginare un mondo privodi quei filtri attraverso i quali l’uomo per sua costituzio-ne psichica lo recepisce? Possiamo rinunciare all’esse estpercipi di Berkeley?Orbene, effettivamente il reale ci pone innanzi al

dilemma di un qualcosa che indubbiamente esiste, ma

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che in quanto tale è “impossibile”: la fame, la sete, i desi-deri, le pulsioni, l’orgasmo, il godimento sono istanze delreale, ma esse sono sempre costitutivamente ricoperte,occultate. E se possiamo averne una qualche idea, ciòavviene soltanto nei momenti di crisi assoluta, nel runa-way sociale o nell’acting out, nelle crisi d’ansia piuttostoche nella depressione, ossia in quelle occasioni in cui sicambia completamente registro. Il reale, insomma, puòessere appena subodorato, annusato e, in quei rari casi incui ci illudiamo di percepirlo, ci rendiamo conto che essosi articola in un fallimento e in un certo “venir meno”.Il bisogno nasconde dentro di sé qualcosa di questa real-

tà impossibile: esso vi si forma e innalza sopra, in un giocoparadossale in cui la necessità viene occultata ed addolcitanello stesso momento in cui si profila. Il reale in sé è insop-portabile e tendenzialmente traumatico, cosicché il biso-gno che ne rappresenta la modalità di manifestazionesociale, si caratterizza nella sua essenza per una fitta stra-tificazione coprente di significati, immagini, allusioni: ilvalore di scambio e il valore simbolico. In questa prospet-tiva, anche un oggetto sociale come il SUV corrisponde adun bisogno ed è proprio questo bisogno con la conseguen-te copertura simbolica ed immaginaria a determinarne laforma esteriore. Per quanto folle ed irrazionale possaapparire, questa sorta di fortilizio semovente corrisponde,al contrario, al tentativo di razionalizzare e dare senso aqualcosa che invece è reale (ed insensato). La follia cheesso incarna è apparente e si caratterizza anfibolicamentenel dare senso a ciò che senso non ha; il bisogno “folle” delSUV dà senso ad un’altra follia sottostante. Dovremo riflet-tere a lungo su questa strana “dialettica della follia”, poichéessa sembra infarcire il senso in tutta la sua estensione,come se esso, cercando di razionalizzare l’insensatezza delreale, divenisse alfine insensato esso stesso. Rimane, allora, un ultimo quesito. Qual è il bisogno che

il SUV ad un tempo manifesta ed occulta? Che necessitàimpronunciabile vi si cela? Per accostare questo argo-

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mento dobbiamo introdurre un ulteriore ragionamentoche ci seguirà anche nelle prossime pagine. In uno deisuoi ultimi corsi Michel Foucault cerca di caratterizzarel’età contemporanea attraverso la nozione di “sicurezza”.Ciò che assilla l’uomo di oggi non è tanto la brama illogi-ca di consumare e di accumulare denaro, come ritienequalche critico del capitalismo; non abbiamo a che farecon un bambino viziato e disinibito che a furia di appa-gare il proprio desiderio si ritrova quasi svuotato e svo-gliato, celebrando così la tipica espressione d’un imperoin decadenza. Il bisogno delle società contemporanee è lasicurezza e il modo in cui essa viene ricercata segue percosì dire il paradigma immunitario, cioè si articolasecondo meccanismi paragonabili a quelli dei nostri anti-corpi nei confronti degli agenti patogeni. Questo bisognonasce curiosamente proprio quando l’uomo occidentale,a partire dalle grandi esplorazioni geografiche del XV°secolo, ha esteso il proprio ambiente vitale sino a ricopri-re l’intero globo. In altre parole, se la globalizzazionepotrebbe invero rappresentare il culmine di un processodi espansione territoriale e di controllo delle risorse dellaterra, ecco che proprio in quel momento l’uomo si ritro-va ad essere assillato da indiscrivibili paure e da fobied’ogni sorta. Lo possiamo riscontrare in quasi ogni istante: la paura

delle malattie e delle epidemie che comporta un’iperme-dicalizzazione della società e un interesse sempre piùpervasivo per la diagnostica e la cura, interesse chiara-mente palpabile anche nelle programmazioni TV (dalDoctor House a Grey’s Anatomy e ER); la paura nei con-fronti degli immigrati che porta le società occidentali alegislazioni restrittive e nemmeno tanto velatamente raz-ziste; la paura nei confronti della delinquenza percepitacome sempre più dilagante nelle grandi città, a fronte direferti statistici che invece ne testimonierebbero il decre-mento; il terrore delle catastrofi naturali che si traducenell’illusione di un loro controllo e contenimento attra-

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verso la statistica, oppure – après coup – con l’attribu-zione delle cause degli eventi naturali all’errore umano(come nel caso dello Tsunami in Indonesia e della man-cata allerta delle popolazioni, oppure delle alluvioni e deldissesto idrogeologico causato da un’eccessiva antropiz-zazione, o ancora il riscaldamento globale e l’effetto-serra causato dalle emissioni di anidride carbonica).Pure i mass-media testimoniano di questo climax, quan-

do allarmano in maniera eccessiva sul maltempo, sul traf-fico delle vacanze, sui nuovi virus che hanno iniziato amigrare verso di noi dall’Est asiatico. D’altronde oggi pul-lulano le assicurazioni che ci illudono di imbrigliare epadroneggiare anche l’evento più improbabile e letifero,così come il mercato del lavoro viene dominato dalla figu-ra del tecnico attuariale che, almeno in teoria, dovrebbeprevedere le percentuali di rischio di ogni fenomeno.Desideriamo insomma la sicurezza poiché ci sentiamo

irrazionalmente insicuri; vogliamo in qualche modoaddomesticare l’Altro, l’ignoto, l’estraneo poiché lo sen-tiamo tremendamente vicino e pericoloso. Ma questacondizione deriva paradossalmente dalle stesse strategiemesse in atto per evitarla. L’immunizzazione – così lachiameremo sempre più frequentemente – infatti non sibasa sull’esclusione sistematica dell’Altro, ma esatta-mente al contrario, cerca di integrarlo per renderlo piùfamigliare e omogeneo. Le grandi epidemie non vengonosconfitte circoscrivendo ed isolando i focolai patogenicome nelle grandi pestilenze del Seicento, ma viceversavengono debellate facendo circolare il più possibile l’in-fezione attraverso procedure sistematiche di vaccinazio-ne. L’Altro non è più una realtà così lontana da esserequasi esclusivamente fantastica o “fantasmatizzata”, maè-qui, tra di noi, adesso ed ovunque. È indubbiamente una situazione ansiogena: l’uomo

contemporaneo vive continuamente sotto stress, in unacostante angoscia causata da un’eccessiva prossimitàdell’Altro, incarnata non soltanto simbolicamente dalla

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figura dell’immigrato extra-comunitario che lavora nellenostre fabbriche. L’immunizzazione che lo ha liberatodalle grandi paure dei secoli scorsi, lo ha per contrappas-so immesso in un circolo vizioso denso di nuove angosce,molto più insinuanti e diffuse. Mai stato così sicuro nellasua storia millenaria, oggi egli teme continuamente didover morire per un cancro o di essere ucciso da un lesto-fante straniero, di perdere gli affetti famigliari o tutto ilproprio patrimonio, accumulato in generazioni e genera-zioni di lavoro. Vediamo a poco a poco allora come il SUV,bizzarro usbergo urbano, non sia poi così folle, ma corri-sponda ad una specifica esigenza. C’è un bisogno di SUVpoiché l’uomo è assillato dall’angoscia dell’Altro e delreale, si sente assediato e cerca rassicurazione in ognicosa. Tutti i significati accessori – status symbol, forza,velocità, costo – e il corredo immaginario – levigatezzadella carrozzeria, rombo del motore, sinuosità delleforme, etc. – non sono che il mantello esteriore dal qualeviene occultato questo nucleo profondo che ha a che farecon il reale. È una porzione di non-senso che viene rico-perta da una cortina di sensatezza e di razionalità: in que-sto modo l’uomo si distrae, non guarda più se stesso e siperde negli infiniti rimandi del mercato e del consumo.Questa condizione “mista” e duplice che caratterizza il

“bisogno” richiama il concetto lacaniano di “oggetto a”,anche se Lacan stesso certamente non sarebbe d’accordosu questo tipo di associazione. Eppure nella sua intimaconformazione il bisogno sembra mettere in gioco unastruttura quasi identica: l’ “oggetto a”, infatti, è anche“oggetto causa del desiderio”, ossia quella specie di bucoo di falla che mette in moto il meccanismo del rimandodel significante. Detto in breve, noi siamo portati a desi-derare sempre nuove cose, senza peraltro esserne maiappagati, proprio perché all’origine di questo nostromoto non c’è una realtà vera e propria, bensì una “man-canza”, un’assenza. L’ “oggetto a” è sempre un oggettoperduto, poiché esso richiama gli oggetti pulsionali della

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prima infanzia: il seno materno in prima istanza. Nelnucleo più nascosto dell’ “oggetto a” insomma, così comeall’interno del bisogno, c’è qualcosa del reale, un non-senso che però non può essere sostenuto dal soggetto.L’apparente sensatezza esteriore del desiderio è soltantofittizia e illusioria, e tende ad occultare, nei suoi giochispesso interminabili e perversi, l’abisso di un vuoto cheparadossalmente lo sosterrebbe.La nozione di “oggetto a”, inoltre, ci dice qualcosa di

più. La “a piccola” indica per Lacan la dimensione imma-ginaria ed evidenzia come la copertura del vuoto nonavvenga soltanto al livello del simbolico (il mercato, ilprezzo, il valore di scambio), ma convochi anche unaserie di emozioni e di immagini che rinsaldano la nostraappartenenza ad un gruppo e a un’identità. Ecco perchénel SUV si concentrano una miriade di significati, di sen-sazioni e di emozioni, ed ecco perché essenzialmente cisfugge l’essenza del bisogno che lo sostiene. Il mercato el’economia, forse inconsapevolmente, conoscono megliod’ogni altro questo meccanismo: l’invenzione di semprenuovi gadgets da vendere e da consumare, come osservaZizek, risponde alla doppia necessità di rassicurare ilsoggetto dalle sue paure e dai suoi vuoti e, nello stessotempo, di differire l’appagamento del desiderio e il godi-mento che ne conseguirebbe. L’uomo è eccessivo, deside-ra sempre di più...e il mercato lo sa: è su questa perver-sione che dovremo riflettere nelle prossime pagine.

2. Che bello sciare!

La pista Di Prampero a Tarvisio, in provincia di Udine ea pochi chilometri dall’Austria e dalla Slovenia, neglianni Settanta era poco più d’un budello. Larga talvoltanon più di tre o quattro metri si gettava a capofitto giùper il monte Lussari, con una serie di strette circonvolu-zioni all’interno d’una foresta fitta fitta. Più che sciaremodulando curve sinuose in un ampio slargo, pareva di

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zigzagare spregiudicatamente tra un abete all’altro, conla sensazione di sfiorarne in ogni istante il tronco. Lasuperficie della pista, come se non bastasse, si dipanavaincerta attraverso gobbe ghiacciate e buche improvvisenascoste da cumuli di neve fresca a fatica dispersa dasparuti battitori: sbalzate da una sponda all’altra, le lami-ne degli sci grattavano ora a destra, ora a sinistra in unesercizio che non mirava affatto al bello stile, ma parevaindubbiamente il più efficace e adatto per evitare unamalaugurata caduta.Gli indumenti, a quel tempo, non proteggevano molto

dal freddo: calzamaglie di lana tanto pesanti, quantoincapaci di trattenere l’aria glaciale, fredda e taglienteche come un coltello s’infilava attraverso le sue fibre;giacche a vento sottili, strette strette, quasi primaverili;calzoni elastici. Nulla a che vedere con gli abiti tecnici dioggi, tute anti-wind, in gorotex, piumini, guanti in tessu-to sintetico che non lasciano passare l’acqua.Per non parlare della funivia risalente ancora agli anni

Trenta, la quale, con una portata massima di diciotto per-sone, era più simile ad una di quelle teleferiche che pro-prio lì, durante la Grande Guerra, servivano al trasportodelle armi e delle derrate sulla linea del fronte. Tuttischiacciati come sardine ci s’abbandonava quasi allastretta materna della cabina che, barcollando e sussul-tando nel vuoto, pian piano s’approssimava alla stazioned’arrivo. Eppure per gli sciatori che la domenica s’avven-turavano in quella strana pratica, le difficoltà si tramuta-vano in una sfida da affrontare, nell’impresa pionieristi-ca di uomini eletti e coraggiosi.Oggi tutto ciò è cambiato radicalmente. In occasione

delle Universiadi quella sorta di diverticolo che con faticaattraversava il bosco ha lasciato il posto ad una sorta diradura larga almeno venticinque metri che scende giù apicco dalla sommità del monte sino al paese diCamporosso. Uno scempio di alberi, tagliati a migliaia emigliaia; uno schiaffo al bosco sventrato da quella nuova

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mastodontica autostrada bianca che sembra testimoniare,come un tragico vessillo, la superiorità dell’uomo sullanatura. E poi tutta una serie di condutture e tubi dell’acquaa contornare la pista nel suo srotolarsi, onde produrrequella neve artificiale che già a novembre dipinge la scenabizzarra d’una fascia bianca serpeggiante attraverso l’uni-formità d’un bosco ancora multicolore e verdescuro.È ancora in gioco una finzione, dunque. Lo sciatore non

affronta più a viso aperto una pista molto vicina allanatura, una sorta di declinazione del bosco che segue legibbosità del pendio e si insinua pericolosamente tra glialberi: ora egli precipita a velocità vertiginose in unmondo “altro”, modificato e addomesticato. Grandispazi, pendenze smussate, neve artificiale: si tratta d’unapresa di distanza, e d’una paradossale difesa dove lo scia-tore sfida dapprima il “fuori”, con solo apparente corag-gio, per farne subito un modello depotenziato e immu-nizzato, una sorta di quasi-pista in un quasi-bosco.Inoltre anche gli sci sono cambiati: a quelli alti più di

due metri, si sono sostituiti degli attrezzi elasticissimi,leggeri, corti e “sciancrati”, cioè dal profilo curvato e,quindi, più semplici da far girare. Ad un lento appredi-stato durante il quale lo sciatore con somme difficoltàimparava ad equilibrare i pesi, ad “angolare”, ossia adinclinare gli sci per far presa con le lamine, a “distender-si” per poter curvare, fa da strano contralto uno stru-mento oltremodo amichevole e maneggevole, sicchéanche alla prima esperienza è sufficiente una pressionedegli scarponi per poter curvare e per fermarsi. Se il vec-chio sciatore doveva far un lungo esercizio per “soggetti-vare”, cioè per relazionarsi con il “fuori”, ora tutto è piùsemplice e l’uomo si ritrova ad avere dei modelli di “sog-getto” già predisposti dal mercato. Le piste-autostradecorrispondono così all’innovazione tecnica, in una speciedi avvitamento in cui il “reale”, ciò che fa paura e non èfamigliare, l’Unhemlich freudiano, viene ricreato e addo-mesticato allo stesso modo del corpo umano che deve

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adattatarsi alla nuova sfera climatica. Piste sempre piùlarghe e addolcite; sci sempre più semplici e veloci: eccoin qualsiasi domenica di gennaio l’effetto “folle” di genteche si getta a capofitto a più di cinquanta all’ora, che siscontra sfracellandosi legamenti crociati, clavicole emandibole, che va su e giù incessantemente come in atte-sa d’un evento che non avverrà giammai. S’insinuainsomma nelle nostre menti, nel nostro desiderio unnuovo bisogno, un bisogno irrefrenabile di sciare!Siamo innanzi ad un’altra follia? La tecnica, che simbo-

lizza l’apice della cultura occidentale, farebbe alfine dasupporto al non-senso, ad una macchina celibe che iteraall’infinito sempre le medesime movenze? L’uomo addo-mesticherebbe la natura disboscando a dismisura le mon-tagne per poi gettarvisi a capofitto, incurante di qualsiasirischio e di qualsiasi sofferenza? Come nel caso del SUV,ecco nuovamente una duplicità, un chiasma, un apparec-chio con un doppio movimento: nella misura in cui l’indi-viduo prende le distanze dal reale della natura e del bosco,egli ne va simultaneamente alla spasmodica ricerca: tantopiù le piste sono lisce, larghe e “facili”, tanto più si corre ilrischio insito nell’eccesso della velocità e della spregiudica-tezza. Ancora il bisogno – il bisogno di sciare – cela al suointerno questo doppio-gioco, la difesa nei confrontidell’Altro e del “fuori” e l’attrazione esorbitante nei suoiconfronti.Se abbiamo occasione di guardare su YouTube qualche

immagine di repertorio del campione svedese di sciIngemar Stenmark, scopriamo un’eleganza e una bellez-za dei movimenti veramente sorprendente. La forza fisi-ca sfuma quasi in un gesto atletico in apparenza sempli-ce, sinuoso e delicato, una sorta di danza in cui il pendioinnevato sembra accarezzato con dolcezza e levità.Prevalgono il ritmo, l’equilibrio, la gradualità dei movi-menti; la tecnica e la potenza, invece, anziché dimostrareuna padronanza quasi impertinente nei confronti dellanatura, si ritraggono quasi timidamente, in un delicato

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compromesso che fa tutt’uno con la neve. Il campione dioggi è invece Hermann Maier, austriaco potente, musco-lare, debordante nella foga aggressiva dei gesti che lofanno scattare come una molla da una porta all’altra. SeStenmark pareva interpretare e dialogare con la discesa,in vista di un equilibrio che ancor prima d’essere atleticoaveva soprattutto una valenza estetica e coreografica,Maier vuole imporre la propria signoria, sfidando attriti,forze centrifughe e forze di gravità. Egli ricerca un domi-nio inconcusso, una sovranità che non intende scenderea patti né a compromessi di sorta. Da un lato la tecnicasopraffina sublimata in un gesto elegante e delicato; dal-l’altro la manifestazione debordante di un impeto e unavigorìa senza limiti ed eccessiva: sono questi gli estremiche possono indicare la traettoria di un movimento chetutti noi abbiamo compiuto in questi ultimi trent’anni. Sein Stenmark erano la tecnica e la bellezza a caratterizza-re il modo di rapportarsi alla realtà, ora sono la forza e labrutalità immediata a tentare un controllo e una padro-nanza financo esagerate.Ma questo ritorno al reale, questo riemergere di un

comportamento che ricorda molto quello del bambinopiccolo, è stato a sua volta mediato dal sistema industria-le che gravita attorno allo sci. Stenmark a suo modo harappresentato il culmine tecnico e sportivo raggiungibilecon quelle condizioni di pista, tipologia di tracciato eattrezzi. Era pertanto necessario modificare radicalmentei parametri in gioco, allargare e semplificare le piste, ren-dere gli sci più facili e i tracciati meno stretti, ondeaumentare le velocità e le dinamiche, far prevalere la forzabruta sulla pura tecnica. Si tratta dunque ancora di unafinzione, in cui la semplificazione e l’addomesticamentodella natura vengono corrisposti da un ritorno al reale, dauna diminuizione di senso. Se in Stenmark predominavaquest’ultimo, in Maier è la potenza insensata e smisurataa connotare il modo di relazionarsi alla realtà: ma entram-be queste modalità sono a loro volta dipendenti da deter-

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minati dispositivi, ossia derivano direttamente dal siste-ma produttivo che regola e scandisce le mode.Potremmo allargare questo discorso anche ad altri

sport, come il tennis, ad esempio, dove sia le nuove rac-chette in carbonio, sia le palle dal diametro più ampio,sia le superfici dei campi sembrano mirare ad una sem-plificazione del gioco, velocizzandolo ed enfatizzando lacentralità della potenza a scapito della pura tecnica. Informa più manifesta, poi, questo doppio movimento –semplificazione-addomesticamento/ritorno al reale – loritroviamo nei cosiddetti sport estremi che dilagano neinostri giorni: gli apparati tecnici addomesticano e rendo-no famigliare il reale, ma nella misura in cui lo distanzia-no, ne evocano la presenza e innescano il desiderio delrischio e del limite. Il mettersi continuamente alla prova,dunque, da una parte si applica attraverso tecniche emodalità di padronanza e di controllo della realtà, come– ad esempio – gli sci sciancrati, il parapendio, la fuori-serie, le imbragature dell’alpinista o le scarpette del free-climber, dall’altra implica una perversa necessità diapprossimarsi al “reale” con un’ansia nichilistica delcupio dissolvi. Nel film Into the Wild di S. Penn assistia-mo così esemplarmente al paradosso del protagonistache ricerca la felicità nel mondo selvaggio dell’Alaska,ossia tenta un impossibile approccio diretto con il reale;ma lo fa con fucile e munizioni, ovvero con un apparatotecnico che lo illude di poter sopravvivere in una naturamatrigna e selvaggia. La sua “brama di reale”, che rap-presenta una sorta di contrappeso della società dellospettacolo dell’America degli anni Settanta, fa sì che eglidimentichi gli affetti e le occasioni più contingenti nel-l’instaurare una relazione positiva con le altre persone,per incamminarsi invece verso una via in apparenzaestrema e difficile che nella sua logica sarebbe culminatamolti anni dopo in qualcosa che non ha nulla di romanti-co, né di selvaggio: la pista spianata della Di Prampero,appunto. Il protagonista muore a causa di una serie di

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errori tecnici, cioè paradossalmente per un fallimentodelle strutture immunitarie con le quali s’era preventiva-mente attrezzato: in altri termini, il reale – la “verità”tanto agognata – non è situato nell’assoluta distanzadelle montagne dell’Alaska, bensì è immanente nellastessa sfera di senso e di sapere che ci dovrebbe proteg-gere, e si manifesta drammaticamente attraverso unozoppicamento ed un inceppamento.Traslando questa curiosa evenienza nuovamente nel-

l’ambito dello sci, ecco l’assurdità di un “gioco” azzarda-to con il reale che si invera quando il mezzo tecnico, lo scisciancrato, eccede nella propria funzione e diviene ingo-vernabile per “troppa” stabilità: caricando il peso su unagamba, lo sci si curva e mantiene la sua posizione anchese l’intero baricentro del corpo si sposta dalla parte oppo-sta. I legamenti del ginocchio si tendono, sfilacciano,strappano: l’uomo scopre nel dolore lancinante l’Altroche egli stesso è, la corporeità pulsante e palpitante di cuiin qualche maniera sono innervati il suo spirito e il suopensiero. L’individuo tenta di proteggersi dal “fuori” conuna serie sedimentata di sfere protettive, ma allo stessotempo cerca con tutte le sue forze di sfidarlo: l’anfiboliadi questa condizione non si presenta soltanto nell’assur-da duplicità di questo processo, ma perché questa sfidaalla fine si conclude con un eccesso e con il suo trasfor-marsi in qualcosa d’altro, nell’Altro tout court. La veritàdello sci, insomma, è la caduta e la frattura; è, in assolu-to, l’incidente (o il reale nella sua in-cidenza).

3. Un bimbo piange

Nei suoi primi nove mesi di vita, dentro la pancia dellamamma, il bambino si trova in una condizione parados-sale; condizione che perderà inesorabilmente alla nascitae che cercherà testardamente di ricostruire per tutto ilresto della sua esistenza. Egli è rinchiuso in un involucroprotettivo, che attutisce i rumori e gli eventuali urti pro-

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venienti dal mondo esterno; inoltre il piccolo non è maisolo, ma è accompagnato da bizzarri amici, come il cor-done ombelicale e la placenta. Potremmo dire così che lasua condizione originaria sia quella dell’essere-in e del-l’essere-con, cioè del non essere mai solo e sempre all’in-terno di un guscio protettivo che fa parte integrante delsé. In altre parole, egli è paradossalmente interno a sestesso e “con” se stesso, essendo l’utero, la placenta, ilcordone ombelicale parti di quella mamma che non èancora percepita come qualcosa di separato ed esterno.Possiamo allora ben comprendere come la nascita

costituisca un trauma: all’improvviso quell’unità inscin-dibile si dissolve e se prima il bambino si sentiva internoa se stesso, ora percepisce il dramma di essere esterno ase stesso, ossia Altro-da-sé. L’universo materno che l’a-veva incubato e custodito, ora “è-là”, è qualcosa che dif-ferisce e che viene percepito come un’esteriorità. È comese l’uomo, dopo aver osservato per secoli le stelle che losovrastano, ad un certo punto vedesse all’improvviso laterra stessa e la galassia che lo circonda come una “cosa”esterna, che “è-là”, quasi a portata di mano e mescolataad infiniti altri universi, ed egli fosse così in balìa di unmondo infinito incerto, di un “fuori” o di un “interno”divenuto “esterno” in cui tutte le certezze che l’avevanosorretto e protetto sino a quel momento si sono irrime-diabilmente dissolte. I primi astronauti hanno ben cono-sciuto emotivamente questa condizione alienante e diso-rientante che cinque secoli prima Giordano Bruno avevaimmaginato solo con l’intelletto.Il bambino, dunque, nasce “Altro-da-sé”: egli si diffe-

renzia dalla mamma di cui prima era una parte, ma si dif-ferenzia anche dal proprio corpo, ovvero si percepiscecome “qualcosa” che occupa uno spazio ed ha un’esten-sione. Se durante la gestazione era lui l’ “interno” assolu-to e tutto si risolveva in questa interiorità, ora si scoprecome qualcosa di “esterno”, che a sua volta con-tiene un“interno” vissuto in modo traumatico ed esteriore. Il

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bambino insomma è fuori-di-sé e vive per alcuni lunghis-simi istanti come se si trovasse sull’orlo di un abisso.Eppure quel primo pianto tanto invocato dai genitoriquale segnale di buona salute, se pur’esso appare inprima istanza terrifico ed alieno, si trasforma a poco apoco in un nuovo compagno. Inizialmente viene vissutocome un’esteriorità che tuttavia, attraverso la sua itera-zione e modulazione, assume via via un aspetto più fami-gliare. E sembra lentamente ricostruire l’universo mater-no perduto: il suo rimbombare ossessivo inizia a creareuna sfera sonora sempre più amica, un compagno diviaggio che è parte di sé pur essendo “altro”. Il bambinosi sente piangere e questo sentir-si lo acquieta e lo tran-quillizza: ogni borborigmo del pancino, ogni movimentointestinale, ogni stimolo e financo le prime forme diimmagine mentale e di pensiero vengono vissute comealcunché di ostile e di pericoloso. E il pianto che ne con-segue, anziché una prima forma di segnale per i genitoriapprensivi, funge da fattore lenitivo, da rassicurazione econsolazione. Con esso il bambino si distrae e sa che nonè solo, che non è completamente alienato, ma si costitui-sce come un originario pneuma. Potremmo così dire, conun po’ d’azzardo, che il pianto è la prima forma in cui sipresentifica l’“anima” umana, è il primo sé e la primaforma di interiorità che si consolida paradossalmenteproprio a partire dal suo esteriorizzarsi, cioè dal fuoriu-scire del suono dalle piccole labbra.Allargando un po’ la nostra prospettiva, osserviamo

come sin da piccolo, l’uomo anziché consolidare un’iden-tità solida e protettiva, un “io” o una soggettività benstrutturate, cerchi invece in continuazione dei compagnidi viaggio, dei gemelli o degli Alter-ego. Il pianto è laprima forma in cui una parte di sé si coagula in qualcosadi trascendente, assumendo sempre maggiore autono-mia. Piangendo il piccolo uomo non è più solo, ma rico-struisce quell’ambiente uterino che la nascita avevaimprovvisamente dissolto. Emerge tuttavia in questo

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processo un fattore fondamentale nella natura umana.Come già osservava Nietzsche, in ogni sua azione, in ognidesiderio, volizione, pensiero od emozione l’uomo èeccessivo. E ugualmente anche nel pianto il bambinoeccede ed esorbita, come ben sanno tanti genitori chepassano le loro notti insonni.Succede qualcosa di strano: se il pianto funge dapprima

da mezzo post-uterino di difesa o compagno di viaggio, nelsuo eccedere esso si trasforma nuovamente in qualcosa dialieno che fa paura e che innesca un pianto ulteriore, in unasorta di circolo vizioso ante litteram. Il bambino, insomma,non deve solo aver a che fare con un “reale” o un “fuori”esteso ovunque, ma è costretto anche a difendersi dai pro-pri eccessi difensivi, cercando così di addomesticare se stes-so. Si tratta della dialettica dell’immunizzazione che, comevedremo, rappresenta il motore dello sviluppo soggettivo edell’evoluzione sociale. Se l’infante si immunizza nei con-fronti del “fuori” utilizzandone dei pezzi e addomesticando-li, deve successivamente immunizzarsi anche da questaimmunizzazione. Deve dunque “autoimmunizzarsi”.In Millepiani G. Deleuze e F. Guattari introducono un

esempio in apparenza curioso: il ritornello canticchiatoossessivamente da un bimbo spaurito in un mondo estra-neo e minaccioso. La nenia riecheggia e si ripete più e piùvolte, sinché, quasi straordinariamente, il volto del piccolosi rilassa e ad un’espressione atterrita si sostituisce un lievesorriso, accompagnato dal giubilo delle braccia. Il ritornel-lo costituisce, per certi aspetti, un’evoluzione del pianto: lafilastrocca, ancora incomprensibile nei suoi significati, ini-zialmente viene ripetuta dalla mamma quando cerca diaddormentare la sua piccola peste. La ri-petizione, il ri-torno della strofa, l’iterazione rassicurano e acquietano,costruendo una sfera immaginaria che accoglie e protegge.Sin dai primi mesi di vita, il bambino riconosce le sue fila-strocche che, nei momenti di maggiore angoscia e paura eanche se canticchiate maldestramente da un genitore sto-nato, costituiscono l’unico sostituto del seno materno. La

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psicanalisi, da Freud a Melanie Klein, per arrivare a Lacan,si è da sempre soffermata sulla funzione dei cosiddettioggetti perduti od oggetti parziali. Il seno, ad esempio,costituisce il primo canale di comunicazione del piccolocon l’esterno o, meglio, fornisce il primo strumento perincorporare e controllare l’Altro, l’esteriorità assoluta etraumatica derivante dalla nascita. La sua morbida roton-dità accogliente diviene l’unica realtà soggettiva, l’unicomezzo per lenire i propri dolori fisici o le proprie paure: èrassicurante e tranquillizzante; è il trascendens del bambi-no e, nello stesso tempo, il suo gemello inseparabile, parteintegrante di sé e di quella bi-unità che egli forma con lasua mamma.Ora, la nostra idea è che l’intera attività infantile si

caratterizzi nel radicamento all’oggetto perduto e, con-temporaneamente, nella ricerca di sostituti con il conse-guente effetto alienante e assoggettante. L’ansia manipo-latrice che s’innesca non appena il piccolo inizia ad avereuna certa padronanza dell’attitudine prensile della pro-pria mano, non rappresenta che quest’incessante sforzo:l’oggetto – l’orsetto, la pallina, il rocchetto freudiano –non sono semplici “cose”, ma mondi ed universi acco-glienti che, alla stregua del pianto e del seno, fornisconouna sfera protettiva post-uterina, il guscio che il bambi-no non cesserà di ricostruire per tutto il resto della suavita. Il ritornello assolve così la medesima funzione, conla differenza che non si tratta in tal caso di un sempliceoggetto. Certamente, il bambino tratta le porzioni corre-late e strutturate della canzoncina come se fossero deglioggetti sonori qualunque da manipolare e da controllare;ma il ritornello nella sua essenza è anche un tassello disenso, se non addirittura – osservano con un azzardosolo apparente Deleuze e Guattari – il prototipo dellaconcettualità e del pensiero.Ritroviamo infatti nell’articolazione di queste melodie

semplici e ricorsive quegli elementi che caratterizzanoogni struttura simbolica: la doppia inclusione, il concate-

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namento, la differenza, la ripetizione. Ogni forma di sim-bolizzazione o senso-poiesi si fonda su una relazionalitàoriginaria che è la medesima dei primi mesi di gestazio-ne e di vita perinatale: l’essere-in un ambiente protettivoe chiuso, l’essere-con dei compagni o “angeli custodi” (laplacenta, il cordone ombelicale, il senso, l’orsetto, leparole, etc.), il differenziare un oggetto da un altro e ildifferire il proprio rapporto con la realtà, la ripetizioneossessiva degli stessi gesti e degli stessi suoni che offreserenità e, soprattutto, la garanzia di una certa costanzae stabilità a fronte dell’incessante divenire del tempo. Immerso nel “fuori”, il ritornello serve al bambino per

costruire un ambiente sonoro circoscritto, una sorta dicasa protettiva in cui ogni cosa diventa famigliare: il picco-lo in-è nel suono che egli stesso produce, ma nello stessotempo ingloba in sé il motivetto che comunque fuoriescedalla sua bocca. Come il pianto, esso è un pro-dotto cherisale dal proprio diaframma e, nello stesso tempo, divieneun trascendens in cui in-essere. Ma non solo: il ritornelloè sempre un essere-con. È il mondo fittizio, l’utero protesi-co che il bambino costruisce e “con” il quale con-è, allastregua dei suoi antichi compagni di viaggio nel grembodella madre. Inoltre il ritornello è anche un essere-con poi-ché nella sua natura si articola nel rimando da una notaall’altra, da una parola ad un’altra. Il bambino non costi-tuisce un’unità assoluta, una monade senza porte e senzafinestre che soltanto nella crescita e nell’educazione pren-de coscienza dell’Altro: egli nasce originariamente con-l’Altro, esiste nella molteplicità di se stesso e del mondoche lo circonda. Ciò cui si dovrà giocoforza abituare è lacostante alienazione alla quale sarà continuamente sotto-posto e, simultaneamente, la patologia socioculturale dinozioni come l’ “Uno”, l’ “identità” o l’ “as-soluto”.Nella misura in cui ogni nota rimanda all’altra, emerge

poi l’idea originaria di “differenza”: parole e suoni si con-catenano ed hanno un senso (anche nel significato di“direzione”, “senso di marcia”) poiché essi sono diversi

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l’uno dall’altro. Inoltre, nella costruzione del suo grembosonoro, il bambino scopre il suo dif-ferire: egli è diffe-rente dal suono che produce ed è proprio in virtù di taledifferenza che esso assolve il proprio ruolo rassicurante.Il ritornello protegge poiché diverge dal bambino inquanto universo trascendente e perché – e siamo alsecondo significato del termine “dif-ferire” – differiscel’incontro traumatico con il reale, ossia lo sposta e loallontana nel tempo. L’intero futuro del piccolo uomosarà caratterizzato da questo dif-ferimento o de-lega: ilSUV, nel soddisfacimento del bisogno di sicurezza, nonincarna che questo processo di differimento o di trasla-zione in virtù del quale l’individuo si corazza nei con-fronti del mondo esterno.La caratteristica specifica del ritornello, tuttavia, consi-

ste nella sua iterazione: al di là della melodia o della fila-strocca, l’effetto tranquillizzante viene fornito soprattut-to dalla ripetizione. Ri-petere significa anche reificare,creare cose: attraverso di essa, qualche pezzo estratto dal“fuori”, i pezzi di musica e di suono, concatenati e diffe-renziati, divengono qualcosa di reale, il fortilizio di sensoche protegge l’infante spaurito ed indifeso. In altre paro-le, il ri-tornello assume una insospettata consistenza edapre un mondo tutto nuovo: se il pianto rischia conti-nuamente di essere troppo vigoroso e di spaventare diconseguenza il piccolo, il ritornello ne immunizza glieccessi ed incanala i segmenti sonori in una gradualecostruzione di senso. Il bambino non teme tanto il “fuori”verso cui, anzi, si muove sempre con curiosità, quanto èin balìa di se stesso, “soggetto-a-se-stesso”, e tutta la suacrescita sbalorditiva e sorprendente non si caratterizzache nell’elusione degli eccessi cui va via via incontro enell’emanciparsi dai continui assoggettamenti che devesubìre dai suoi stessi meccanismi di difesa.

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4. Reality e soap

Zizek ha introdotto un concetto molto utile per caratteriz-zare l’epoca contemporanea: l’interpassività. L’individuoche vive nel cosiddetto mondo evoluto e civile, non è piùl’uomo che si fa carico delle responsabilità e dei rischi delleproprie azioni, come, almeno in parte, avveniva nell’epocadella Grecia antica. Come un bambino con i suoi giocattolie con i suoi ritornelli, egli scarica e delega queste respon-sabilità: non è soltanto “passivo” dal momento che rimaneinerte rispetto agli eventi, ma è semmai “attivo nella passi-vità” poiché crea continuamente delle sfere e degli spazipsicotici che differiscono ogni contatto con la realtà. Percerti aspetti il SUV non costituisce affatto il livello estremodi questo processo: il guscio metallico con le ruote ha anco-ra una propria consistenza fisica e dev’essere in qualchemodo guidato nelle strade urbane, disincagliato dagliingorghi, parcheggiato con somma difficoltà in spaziristrettissimi. Per caratterizzare l’interpassività Ziz ekinvece porta ad esempio il videoregistratore domestico:noi abbiamo un’innata tendenza a registrare tutto, dai filmalla TV, dalla musica dell’iPod alle immagini delle nostrevacanze, con la paura quasi atavica di “perdere” qualcosadi essenziale, di essere espropriati delle cose più importan-ti, irripetibili e preziose. L’effetto è forse quello che siprova al ritorno da un bel viaggio esotico in cui si son fattepiù di trenta ore di ripresa, si sono perdute molteplici sen-sazioni, odori, colori, suoni per fissare tutto in una mini-cassetta DVI attraverso il minuscolo mirino della teleca-mera. Tutto viene ridotto, compresso, mediato, filtrato ealla fine non ci si ritrova a possedere che una copia illan-guidita della realtà, un sostituto mnemonico che però nonriesce a richiamare più alcun ricordo ed alcuna emozione.È come se l’uomo temesse i segni e le tracce che gli eventipossono lasciare su di lui, delegando questa attività di regi-strazione ad apparati protesici che certamente evitanol’impatto talvolta traumatico con la realtà, ma nello stesso

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tempo compromettono ogni capacità di ricordo e di elabo-razione. Al di là però di questa serie di controindicazioni che

tutti noi possiamo cogliere nella nostra smania nevroticadi filmare, registrare, fotografare ogni cosa con le nostrepiccole macchinette digitali per poi lasciare Gyga e Gygadi immagini e suoni mai aperti in hard disk sempre piùcapienti, ciò che Zizek vuole evidenziare è come questacircostanza derivi dalla tendenza dell’uomo a non volervivere la vita direttamente. Il cosiddetto nichilismo post-moderno non consiste quindi nel fatto che la realtà è“nulla”, relativa e relativizzata, ma esattamente al con-trario il nichilismo è quell’atteggiamento per cui l’uomonon sopporta una realtà possente ed ipertrofica e cerca dieluderla annullando se stesso e delegando la propria vitaad oggetti protesici e a sempre nuove invenzioni tecni-che.Questa sorta di fuga dal reale può d’altronde avere

un’altra lettura: Maurizio Ferraris (2009) ci direbbe adesempio che è in gioco non tanto una passività o un’in-terpassività, quanto un’ansia di iscrizione e di registra-zione, ossia una smania insaziabile di creare semprenuovi “oggetti sociali” per lasciare un segno o, semplice-mente, per esistere. Le nuove tecnologie – telefonini,iPad, notebook, iPod, etc. – non farebbero che amplifica-re una tendenza connaturata da sempre nell’uomo e nellasua stessa fisiologia. Egli non solo non sfuggirebbe unrapporto diretto con gli eventi, la loro iscrizione nellamemoria, il loro ricordo, ma anzi tenderebbe ad estende-re a dismisura questa capacità, aggiungendo semprenuovi sistemi di registrazione alle sue dotazioni naturali.Le tecnologie insomma non sono che un’estensione del-l’attitudine connaturata nell’uomo di registrare ed iscri-vere e, anziché una difesa o una via di fuga, corrispondo-no ad un’ansia di memorizzare e ricordare.Ora, dal mio punto di vista, il paradigma immunitario

così come profilato nei primi mesi di vita del bambino ci

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dispiega un orizzonte per vedere conciliate queste dueprospettive e, quindi, per correlare l’interpassività difen-siva con la costruzione di sempre diversi oggetti sociali eprotesi mnemoniche. Nel registrare ogni evento attraver-so una macchina protesica il soggetto delega certamenteil suo rapporto con la realtà ad una macchina ma, nellostesso tempo, costruisce un mondo iscritto, una sfera disenso. L’iscrizione, allo stesso modo del ritornello, non sirisolve nella “differanza” o differànce come volevaDerrida, ma implica anche un movimento di doppiainclusione e un processo di concatenamento sicché ogniregistrazione rimanda ad un’altra e ad un’altra ancora.L’iscrizione, in virtù della sua iterazione, crea insommaun mondo, uno spazio chiuso in cui noi in-siamo e con-siamo: da un lato aggrega e riunisce; dall’altro, differen-do ciascun elemento nella concatenazione, inaugura undiscorso e una costruzione di senso.Per caratterizzare meglio questa condizione – “inter-

passività” e “delega” associate alla costruzione di oggettisociali e di mondi ed universi correlati – credo che unodegli esempi più appropriati sia il dilagare di programmitelevisivi come le soap opera o i reality. La televisionenon costituisce semplicemente un nuovo media, unostrumento perverso e diabolico che si è impossessatodelle nostre menti e della nostra cultura, divenendo unasorta di mondo fittizio e duplicato che talvolta si sostitui-sce completamente alla nostra vita e alla nostra realtà.Essa tutt’al più incarna con meravigliosa efficacia tuttequelle specificità che connotano il rapporto dell’uomocon la realtà sin dalla sua nascita, è la massima estensio-ne ed articolazione della strategia attraverso la quale, sinda bambino, egli cerca di padroneggiare e controllare il“fuori” in cui si trova gettato. Già il bambino appena natoinfatti non cerca che “mediazioni” con il reale, dove in“mediazione” si può proprio leggere letteralmente uno“stare-in-mezzo”, un frapporre qualcosa tra sé e l’Altroper differirne così, quanto più possibile, il contatto. Tutta

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la vita dell’infante consiste in un continuo creare “media”e nello starvi dentro: ogni oggetto o frammento di sensopuò diventare “medium”, sicché il pianto, la lallazione, ilritornello, o addirittura il pelouche creano delle iscrizio-ni e degli spazi o universi protettivi in cui il piccolo uomopuò rifugiarsi. In breve, nella sua funzione mediatrice dello “stare-in-

mezzo”, la televisione non differirebbe dall’orsacchiottoche il piccolo cerca continamente di mordere e fagocita-re: essa è un oggetto che apre un mondo e che, nell’inter-passività che induce, garantisce una certa sicurezza etranquillità. Ma da che cosa protegge la televisione e inparticolare il reality? Sono forse il mondo esterno, lostraniero o l’hospes-hostis, l’ospite-nemico, ad esseretemuti, oppure è qualcosa d’altro, che ha a che fare maga-ri con noi stessi, con la parte del nostro sé più segreto erecondito? Ci ritroviamo ancora a maneggiare il concetto di immu-

nizzazione, ma ora questo pare divaricarsi in due funzio-ni distinte, solo all’apparenza contrapposte o antitetiche:una funzione difensiva nei confronti di un “fuori” per cosìdire “esterno” ed eterogeneo che evoca i miti della forestae dell’orco cattivo; e una funzione di auto-protezione neiconfronti di un “fuori” paradossalmente interno, endoge-no, che è ad esempio quello con cui ha a che fare il neo-nato quando viene terrorizzato dal proprio corpo e daipropri sogni. La mia idea allora è che la televisione costi-tuisca una doppia forma di immunizzazione o, meglio, diimmunizzazione ed autoimmunizzazione: da un lato essaricrea una sorta di filtro nei confronti del “fuori” cata-strofico come ad esempio nelle immagini infinitamenteripetute degli tsunami, delle siccità, degli uragani, pernon parlare delle immagini dell’11 settembre. L’uomonon può sostenere tali eventi nella loro crudezza edimmediatezza, ma deve schermarli con un’intercapedineimmaginaria che sembra attutirne gli effetti. Come ilbambino percuote gli oggetti che lo circondano per con-

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trollarli e per assumerne una certa padronanza, così l’a-dulto registra e ripete le immagini degli eventi per ren-derli più amichevoli e famigliari, qualcosa che non è ecce-zionale e cui ci si può far l’abitudine.Dall’altro lato, però, la televisione agisce in maniera più

indiretta e sofisticata, proteggendo da se stessi o, più pre-cisamente, da certe forme di soggettivazione che l’uomo hapraticato nel suo sviluppo e nel suo divenire-adulto. Perspiegare meglio questo secondo livello immunizzante,riprenderei il filo del discorso a partire dal ritornello. Comeabbiamo visto, quest’ultimo si situa lungo una sorta di cro-cevia, passando da un tipo di immunizzazione basata anco-ra sugli oggetti, ad una immunizzazione basata sul senso esul linguaggio. Ciò non significa che ci sia una qualcheforma di progressività, poiché il SUV rimane ad esempioun caso emblematico in cui forme di rassicurazione ogget-tuale si accompagnano con una molteplicità di costruzionidi senso. Ma è certo che da quando il bambino si accorgeche le parole e i suoni non sono soltanto oggetti da mani-polare, ma anche strumenti molto efficaci per controllarela realtà (il “performativo” di Austin) cambia qualcosa. Eglientra in un altro mondo e, nello stesso tempo, subisce unanuova forma di alienazione e di assoggettamento: si accor-ge lentamente che il linguaggio, da strumento di controllo“mediato” della realtà, diviene anche una realtà sover-chiante e cogente, qualcosa cui ci si deve sottomettere eche in qualche modo assume il nostro controllo. Da qui la necessità di un ulteriore livello di immunizza-

zione: se il pianto immunizzava il neonato nei confrontidell’esteriorità assoluta della nascita, il ritornello funge-va anche da immunizzazione degli eccessi del pianto.Ora, è necessaria l’immunizzazione del ritornello stessoin quanto strumento di ingresso nel campo del linguag-gio e della cultura, e, quindi, segno di un nuovo assogget-tamento. La modalità in cui si esplica questa nuovaimmunizzazione si basa sulla costruzione di una sequeladi Alter-ego di cui il cosiddetto “io” rappresenta il para-


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