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€ 15,00 www.zero91.com

Perché un aeroporto internazionale è uno dei luoghi più misteriosi in cui potreste mettere piede? Immaginate un mondo diviso in due: ci sono quelli che indossano l’uniforme e quelli che non la indossano ma tutti si muo-vono nel turbinio di Air Babylon.La protagonista è una Duty Manager che inizia la sua giornata alle cinque di matti-na. Insieme a lei, il nostro viaggio parte dai preparativi necessari per quel volo che de-colla da Londra e attera a Dubai. Per motivi di sicurezza, nei bagagli a mano sono vietati i liquidi e gli oggetti appuntiti ma nessuno ha considerato che i vibratori - all’interno di una valigia – possono fare scattare un al-larme bomba. E perché quegli steward sal-gono sull’aereo completamente ubriachi?Naturalmente in volo scattano sempre le fantasie più tradizionali e sfrenate: è quello che succede alla coppia che fa sesso nell’an-gusta toilette dell’aeromobile…Ma voi…Sapete qual è il posto migliore per “farlo” su un aereo? Oppure: avete mai sospettato che qualcu-no abbia messo dei lassativi nelle vostre bevande? A chi avete affi dato la vostra vita prima del decollo? Forse allo stesso pilota che corre fuori pista?Questo libro non concede alla verità un posto di seconda classe.Imogen Edward Jones ed il suo anonimo informatore ci lasciano con il fi ato sospeso come durante un vuoto d’aria.Air Babylon è la scatola nera delle nascite, delle morti, delle risse tra ubriachi, dei rap-tus sessuali, della depravazione a migliaia di metri d’altezza. Allacciate le cinture di sicurezza. Si parte!

Imogen Edwards-Jones è nata a Bir-mingham e vive a Londra con suo marito e sua fi glia. È una giornalista e ha pubbli-cato diversi romanzi. Air Babylon è ormai un bestseller internazionale ed è il secondo libro della serie “Babylon”, con cui l’autri-ce sonda territori “proibiti”: Hotel Babylon, Fashion Babylon e Beach Babylon sono le rispettive incursioni nel mondo degli hotel, della moda e degli stabilimenti balneari.

Anonimo è un personaggio che lavora nello staff di una compagnia aerea. Una persona che opera sia a contatto con il pub-blico sia dietro le quinte, e la cui identità deve rimanere sconosciuta in modo da ga-rantirne l’anonimato.

Copertina foto © Costantino MargiottaRetro foto © Giuseppe Castrovinci

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IMOGEN EDWARDS-JONES& A N O N I M O

gusta toilette dellMa voi…Sapete qual è il psu un aereo? Oppure: avete mno abbia messo bevande? A chi avete affi dadecollo? Forse alfuori pista?Questo libro noposto di seconda Imogen Edward informatore ci lascome durante unAir Babylon è la delle morti, delle tus sessuali, delladi metri d’altezzasicurezza. Si part

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“Scioccante ma fantastico, un libro da leggere prima di partire per le vacanze”

Star Magazine

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“Un intrigante libro-denuncia sulla vita ad alta quota”

Marie Claire

“Per alcuni lettori sarà opportuno tenere a portata di mano un sacchetto antivomito”

Sunday Telegraph

“Roba che scotta”Sun

“Un libro sconcertante e straordinario”OK!

Imogen Edwards-Jones & Anonimo

Air BabylonTraduzione di Romina Valenza

Titolo originale dell’opera:Air Babylon

Traduzione:Romina Valenza

Copyright © 2004 Anonymous & Imogen Edwards-JonesCopyright © 2004 Bantam Press

Copyright © 2005 Corgi

Copyright © 2008 zero91 s.r.l., MilanoPrinted in Italy

I Edizione Luglio 2008

ISBN 978-88-95381-07-7

www.zero91.com

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NOTA DELL’AUTORE

Quanto sto per raccontarvi è tutto vero. Soltanto i nomi sono stati modifi cati per tutelare le persone coinvolte.

Ma tutti gli aneddoti, le storie, le situazioni, gli alti e i bassi, le truffe, le droghe, gli amori, le morti e le follie sono state lasciate così come Anonimo le ha raccontate a me – un’ampia e variegata collezione di persone che lavorano nel cuore dell’industria del trasporto aereo. L’aeroporto è romanzato; ma gli incidenti sono reali, le celebrità interpretano loro stesse, anche se le storie nel libro si svolgono all’interno di una compagnia aerea del tutto fi ttizia che chiameremo Air Babylon. Raccontate da Anonimo, tutte le storie sono state condensate in un arco di tempo di 24 ore. Ma tutto il resto è proprio come dovrebbe essere. I ricchi imbrogliano per viaggiare in classi migliori, i poveri si intrufolano di contrabbando nel Paese, e gli avidi cercano di trarre profi tto ogni qualvolta possono farlo. Si tratta semplicemente di un’altra giornata della vita nel mondo degli aeroporti.

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Ho passato gli ultimi dieci anni della mia vita a lavorare per questa compagnia aerea e potreste pensare che ormai mi

sia fi nalmente guadagnato un posto auto migliore. O quantomeno penserete che da qualche parte all’interno dell’aeroporto, ci sia un posto dove io possa parcheggiare nell’edifi cio multipiano per le soste brevi e giungere al lavoro a piedi, senza dovermi comple-tamente bagnare ogni volta che piove. E invece no. Come Duty Manager sono uno degli impiegati senior che la mia compagnia aerea ha più volte violentato psicologicamente qui nel Regno Unito; sono responsabile di tutto quello che succede all’interno di questo aeroporto, eppure continuo a parcheggiare la mia macchina vicino a quella maledetta palizzata perimetrale del lato nord, insieme a tutta la gentaglia.

E la mia macchina è un vero catorcio. Beh, a dire il vero tutte le nostre auto sono un catorcio, paragonate alle macchine che gli handler dei servizi bagagli guidano per venire al lavoro. Là fuori sembra di essere sul piazzale di Jack Barclay. Tutti la chiamano la fi la delle Jag, anche se ovviamente non sono tutte Jaguar. Mi pare di vedere anche un paio di Audi scintillanti, una BMW, una Lexus

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e una Mercedes nuova di zecca, luccicante sotto la pioggia. In che modo gli handler riescano a permettersi tali seducenti macchine con i loro stipendi, beh, questo nessuno lo sa. Ma una cosa è certa: di sicuro non sarò io a porre il quesito.

Un paio di anni fa ebbi un battibecco proprio con loro. Li trovai che stavano guardando la soap opera Neighbours invece di mettere sul nastro di riconsegna i miei bagagli attesi per l’ora di pranzo. E di conseguenza si era creato il caos. Tutti i miei passeggeri erano inviperiti perché da oltre un’ora aspettavano il loro bagaglio. Un vero incubo. Così feci levare loro la TV e, come ringraziamento, mi trovai le ruote della macchina squarciate. Una cosa simile accadde anche a una mia collega.

Stava cercando di trovare un accordo con la loro categoria, per ridurre ad esempio gli straordinari quadrupli che si dovevano pagare, cambiare insomma un poco le loro condizioni lavorative.

Si trovò con i freni sabotati, ricevette minacce per telefono fi n-ché, alla fi ne, per la sua incolumità, dovette farsi accompagnare e venire a prendere al lavoro. Diciamo che sono individui con cui è meglio non avere a che fare.

Così adesso so che devo tenere la testa bassa e non fare troppe domande.

È ancora buio quando mi incammino verso la fermata dell’au-tobus e aspetto il mezzo di cortesia fornito dalla BAA che mi porterà al terminal. Pioviggina leggermente. Non abbastanza da entrarmi nei vestiti, ma l’acqua si deposita sulle mie spalle creando una sorta di manto umido e ho freddo alla schiena. Così, mentre batto i piedi, scruto l’orizzonte nella speranza di intravedere un anticipo di alba. Nel mio lavoro posso andare avanti per dei giorni consecutivi senza vedere assolutamente la luce del sole. Non c’è da stupirsi dunque che la mia pelle abbia il colore tipico dell’avocado e i miei occhi siano bordati di rosso come quelli di un eroinomane. In teoria dovrei fare il turno dalle 5 del mattino alle 3 del pomeriggio,

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ma i voli sono sempre in ritardo, i passeggeri impazziscono e io non riesco a uscire da questo posto prima delle 6 del pomeriggio – quando, per una buona metà dell’anno, il sole ormai se n’è già bello che andato.

Ci sono giorni poi in cui nemmeno vado a casa. Mi prenoto una stanza in un qualche albergo qui vicino per un paio d’ore, insieme a tutto il resto dello staff, per trascinarmi poi di nuovo, attraverso la strada, fi no all’aeroporto. E quindi potete ben capire quale sia il mio desiderio di individuare il benché minimo raggio di sole che possa aiutarmi a superare la giornata.

Dopo tutto, è proprio per questo che la maggior parte di noi decide di far parte del complesso aeroportuale: sole, sabbia, mare e, ovviamente, anche il fascino di questo mondo. E tutto questo, adesso che sono qui sotto la pioggerella in attesa dell’autobus, sembra in effetti piuttosto ironico.

La coda è lunga. Siamo almeno una cinquantina ad aspettare, una fi la silenziosa e ordinata. Nessuno parla a nessuno. Tutti evitano il contatto visivo. Scruto nel gruppo per vedere se c’è qualcuno che conosco, ma la maggior parte delle volte non trovo nessuno. Beh, siamo circa in settantamila a lavorare qui, tutto l’aeroporto deve prendere un mezzo per andare al lavoro. I trasporti pubblici verso l’aeroporto a quest’ora del giorno/notte sono praticamente inesistenti, così nessuno di noi ha molta scelta. Alcuni dei residenti riescono ad arrivare al lavoro prendendo l’autobus notturno che passa occasionalmente, ma, a parte quello, si viaggia in auto per tutto il tempo.

Proprio di fronte a me c’è un’accompagnatrice di volo, o più cor-rettamente, un’assistente di volo. È nella sua uniforme uffi ciale, ha il cappellino in mano. A vederla si direbbe sia sulla quarantina, ma è ancora snella, il portamento è eretto ed esibisce quella combinazione capelli a chignon e orecchini di perle previsto dal regolamento alcuni anni fa. Puoi sempre distinguere le hostess della vecchia scuola da

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quelle della nuova dal modo in cui sono abbigliate.Quelle della vecchia scuola indossano ancora perle, raccolgono

i capelli e ostentano un trucco esagerato. Tempo fa infatti vigeva la regola che occhi e labbra dovessero essere ben visibili almeno da una distanza di sei fi le e pare che a tale regola ci si attenga ancora. Questa indossa un paio di scarpe a tacco alto, di quelle che fanno ondeggiare le anche quando si cammina. Ma io sospetto che le sue scarpe di bordo, quelle più basse, siano nel suo trolley.

Finalmente l’autobus appare e saliamo tutti in modo ordinato. Può sembrare strano, ma su questo tragitto, che peraltro faccio tutti i giorni, non c’è mai nessuno che cerca di passare davanti a qualcun altro. L’autobus si riempie sempre a partire dal fondo e ciascuno si accomoda al suo solito posto. È come avere a che fare con una gita della scolaresca più ordinata che abbiate mai visto.

Ci dirigiamo verso il terminal in silenzio. I nostri cappotti umidi contrapposti ai nostri respiri caldi fanno appannare l’interno dell’autobus. Premo il mio naso contro il vetro e cerco di guardare fuori ma non c’è poi molto da vedere – depositi giganti, l’uffi cio smistamento della Royal Mail, fi le e fi le di auto parcheggiate, l’edifi cio del catering, che ogni giorno produce qualcosa come diecimila piatti di pollo non meglio identifi cati. L’autobus segue il tragitto dei terminal e la mia fermata è l’ultima. Alla fi ne restiamo io e la hostess della vecchia scuola. Vagabondiamo attraverso le porte girevoli fi no all’interno dell’edifi cio, ora immersi nel bagliore delle illuminazioni a tubi fl uorescenti al neon. La hostess si sistema il cappellino sulla testa ben spazzolata e laccata e si incammina nella direzione di una qualche linea aerea dell’Estremo Oriente. Io invece giro a sinistra, verso i cinque banchi check-in che sono stati mio territorio sin da quando riesco a ricordare.

Dopo essere stato chiuso per tutta la notte, dal momento che non ci sono voli in partenza dopo le undici di sera né voli in arrivo prima delle sei del mattino, il terminal sta tornando soltanto ora

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alla vita. Privo della solita moltitudine di passeggeri che circolano disordinatamente, adesso questo posto sembra stranamente vuoto. Sono ancora pochi i segni di vita visibili. Due addetti alle pulizie lucidano il pavimento, facendo girare le loro macchine ronzanti e indugianti in cerchi più sfi niti che mai, e alcuni corpi iniziano a rianimarsi sui sedili e sulle panche mentre passo loro davanti. Vaga-bondi, ubriachi, passeggeri della metro che si sono addormentati e che hanno perso il loro ultimo treno verso casa, passeggeri che hanno perso il loro volo e non possono permettersi di dormire in uno degli hotel vicini, tutti quanti hanno dormito insieme. Alcuni di essi sono più che altro residenti semipermanenti: drogati che sopravvivono vendendo scarti dei biglietti della metro, studenti che hanno fi nito i soldi e hanno bisogno di un posto dove sistemarsi per la notte per qualche settimana, e ladruncoli insignifi canti che eludono la polizia e si danno al borseggio per guadagnarsi da vivere. Dicono che l’aeroporto sia come un centro commerciale dotato di piste di atterraggio, ma la mia idea è che in realtà sia più simile a una città. Ha le stesse strutture – la sua polizia, le sue ambulanze, la sua chiesa – e ha esattamente gli stessi problemi sociali.

Il giovane commesso di WHSmith sta lottando sotto il peso dei quotidiani. Il suo volto è rosso, affannato, coperto di sudore, e si guarda intorno perché qualcuno lo aiuti. È da solo. Nessuno degli altri negozi ha ancora aperto, anche se sembra che ci sia qualcuno da Boots che si aggira all’interno del negozio e si prepara a sollevare la saracinesca di metallo per mettersi così all’opera.

Proprio mentre sto per andare ad aiutare il poveretto, sento qualcuno che mi tocca sulla spalla.

«Ohi, dove te ne stai andando?» chiede una voce familiare.«Andy!» mi volto per sorridergli.«Buongiorno!» mi dice.«Buongiorno a te» rispondo.«Come va?»

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«Bene. Beh, come al solito.»«Non mi sembra vada troppo bene» mi stuzzica. «Siamo un po’

sullo scontroso» dice abbassando gli angoli della bocca.«No? Cosa? Sono ok. Solo, è ancora presto.»«Presto per qualcuno» continua con un sogghigno. «Oppure

tardi per qualcun altro. Dipende da come la guardi.»«Giusto» dico fermandomi nell’atrio e guardandolo dall’alto

verso il basso. «Sei stato di nuovo fuori tutta la notte?»«Non tutta la notte» mi corregge.«Oh, bene» ribatto con un’evidente nota di sarcasmo nella

voce.«Solo gran parte della notte.»«E cioè?»«Beh, ho schiacciato un pisolino fi no a mezzanotte e ora arrivo

direttamente da Trade. Lo avresti mai detto?»No, francamente devo ammettere che non lo avrei mai detto.

Per essere un uomo che abusa del suo corpo e lo pompa di sostanze chimiche su base regolare, Andy ha un aspetto eccezionalmente sano. La sua abbronzatura perenne, ottenuta sulle spiagge elettriche di Sunbury, in effetti aiuta molto a coprire le tracce lasciate dalle sue colpe e dalle sue notti selvagge. I suoi capelli biondissimi sono ingellati in modo immacolato. I suoi denti sbiancati non mostrano alcun segno di nicotina. L’unico punto che potrebbe veramente tradire i segni della decadenza della scorsa notte è probabilmente la zona attorno agli occhi. Ma Andy sta sempre ad applicarsi uno strato più che generoso del gel contorno occhi di Clinique che compra con un bel 10% di sconto da Boots. Come impiegati aero-portuali, abbiamo tutti uno sconto del 10% nei negozi, ma credo che Andy sia il solo che tragga vantaggio da tale benefi t. Una volta che ti sei comprato un paio di hamburger economici, una sciarpa per tua madre da Accessorize e anche un paio di gemelli da Gucci, l’eccitazione tende a svanire. A meno che, ovvio, tu non sia Andy.

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Andy adora fare shopping almeno tanto quanto adora ballare e assumere droghe. E Andy in effetti balla un sacco e assume un sacco di droghe. A questo punto potreste pensare che questa sua abitudine di assumere stupefacenti possa rappresentare un pro-blema per la direzione, ma la direzione sono io, e la sua abitudine non mi crea proprio alcun problema. Beh, in realtà è solo perché non mi posso permettere di far sì che lo sia, un problema. Se le droghe per me lo fossero, temo che perderei almeno la metà del mio personale addetto al check-in, in particolar modo durante il weekend. Il sabato e la domenica mattina, infatti, molti di essi si presentano al lavoro ridotti piuttosto male, dopo aver passato la notte tracannando vodka, Red Bull, e pasticche di Ecstasy su una pista di un qualche club, da qualche parte. Ma fi nché sono gentili con i clienti e svolgono il loro lavoro in maniera corretta, non mi interessa quello che fanno nel loro tempo libero. Poiché percepiscono uno stipendio di 11.000 sterline l’anno, credo non siano pagati a suffi cienza per sentirsi dire cosa debbano fare dopo l’orario lavorativo. E comunque, almeno buttano giù pillole e si sniffano le loro piste durante il loro tempo libero, che è decisamente molto di più di quello che posso dire di tante assistenti di volo che potrei nominare.

«Non penso affatto tu abbia un brutto aspetto» dico ispezio-nando la faccia che Andy mi sta volgendo, mentre con le dita si tira la pelle sotto gli occhi nel tentativo di apparire più giovane.

«Niente male per un pensionato, vero?»«Un pensionato?»«Non ti stai dimenticando nulla?»«Oh, buon compleanno!» gli dico.«Oh, buon compleanno», mi imita. «Non potresti dirlo con un

po’ più di enfasi? Non capita tutti i giorni che un uomo dica addio alla sua gioventù ed abbracci la mezza età.»

«Mezza età?» scoppio a ridere. «Ma se hai solo trent’anni!»

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«Oh, no!» dice coprendosi le orecchie e chiudendo gli occhi. «Non dirlo a nessuno. Sai cosa vuol dire avere trent’anni per un gay?»

«No.»«Signifi ca che praticamente sono morto! I gay invecchiano molto

più rapidamente dei cani.»«Oh» rispondo. «Che sfortuna!»«Che sfortuna!» ripete. «Sarò fortunato se qualcuno mi porterà

ancora a letto!»«Magari potessi!»«E questo cosa vorrebbe dire?»«Niente», sorrido. «Assolutamente niente.»«È tutto quello che ti porti via?» mi chiede, indicandomi lo

zainetto in pelle che ho in spalla.«Di cosa altro dovrei aver bisogno?»«Beh, cosa c’è lì dentro?» «Spazzolino da denti, pantaloncini, biancheria pulita. Non

devo stare via per molto.»«Uomini etero» dice Andy, facendo roteare gli occhi «voi pro-

prio non avete idea.»A quel punto lancio un’occhiata alla grande valigia dall’aspetto

pesante che lui, invece, si sta trascinando dietro. «Ma cos’hai lì dentro?»

«Completi» mi dice. «Solo qualche completo.»«Ma se non ci fermiamo nemmeno per la notte!»«Chi è il festeggiato?»«Tu.»«Bene, cosa c’è di male se voglio essere al meglio?»«Niente» rispondo. «Assolutamente niente.»Entriamo nell’uffi cietto a lato dei banchi check-in. Riservato al

personale addetto, qui dentro c’è odore di caffè a buon mercato, profumi dolciastri e puzza di scarpe da tennis umide. Illuminato

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dalle solite familiari lampade al neon, due delle pareti bianche sono rivestite da attaccapanni e fungono da discarica per cappotti, borse e scarpe. Scenario di pianti e lamentele, questo posto è dove inizia e fi nisce il giorno di tutti i membri dello staff. Andy ed io appen-diamo i cappotti sui nostri rispettivi appendiabiti e indossiamo i nostri gilet BAA gialli luminescenti.

Mi metto attorno al collo il pass per l’area airside con la sua cate-nella d’argento e accendo la mia ricetrasmittente. Andy fa la stessa cosa. Lui è il mio vice e come tale deve potersi mettere in contatto con me tutto il tempo. Dal momento che lavoriamo entrambi sia nell’area airside che in quella landside, è fondamentale che ciascuno di noi sappia dove sia l’altro nelle varie fasi della giornata. Sto quasi pensando di farmi una tazza di caffè con il bollitore di plastica che sta lì in un angolo, ma vedo che non c’è latte e quindi abbandono l’idea. Comunque, sono talmente dipendente dalla caffeina e dalla nicotina che per la maggior parte del tempo le mie mani tremano. Dovrei ridurre, lo so, ma è diffi cile. È uno dei problemi di lavorare qui: gli orari sono così lunghi e antisociali e tutti quanti abbiamo bisogno di qualche cosa che ci aiuti a superare la giornata.

Andy si soffi a il naso. Sembra che abbia un pesante raffred-dore.

«Accidenti» dice, asciugandosi le narici. «Ho un brutto caso di raffreddore da cocktail.»

«Esco un attimo a controllare il ruolino dei turni» gli dico. «Hai bisogno di qualcosa?»

«Oh» risponde, guardando il suo fazzoletto. «Puoi soltanto assicurarti che mi abbiano segnato fi no alle sette di stasera? Non voglio fare tutte queste ore extra e correre il rischio di non essere pagato.»

«Soprattutto per il tuo compleanno» aggiungo.«Soprattutto per il mio compleanno» fa eco Andy con un ghi-

gno.

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È proprio a causa del compleanno di Andy che stiamo lavorando entrambi così duramente e ci spariamo un turno quasi doppio oggi. Invece che smontare alla solita ora, lavoriamo fi no a quando non saliamo sul volo 2015 diretto a Dubai. Nove di noi partono dal Regno Unito. Andy ed io siamo gli unici membri del personale di terra che hanno fatto lo sforzo; il resto sono tutti assistenti di volo, di cui cinque hanno chiesto di lavorare su quel volo. Per essere uno che non vola, Andy sembra avere un numero innaturale di amici tra il personale di bordo. Ma il motivo va ricercato probabilmente nel fatto che condivide un appartamento con Craig, un assistente di volo eterosessuale, l’unica altra persona che io conosca che si comporta ancora peggio di Andy. Una volta giunti a Dubai poi, dovremo unirci ad altri assistenti di volo in arrivo dalla Tailandia, Singapore o dall’Australia. Arriveremo di mattina presto, gozzo-viglieremo per tutto il giorno e la sera, per tornare poi con il volo 0140, che atterra alle 04:45, nostra ora locale, appena in tempo per iniziare un secondo turno.

Ad essere sincero, tutta la cosa mi fa un po’ paura. Sono nella metà sbagliata dei 35 ormai, e mi sento un pochino troppo vecchio per gozzovigliare intorno al mondo in un casino gigante. Non fraintendetemi, non ho alcun problema a sbronzarmi e volare con i migliori di loro. È solo che l’ho già fatto un sacco di volte – New York, Rio, Miami – e pensavo ormai che i miei strippamenti giornalieri o del fi ne settimana fossero parte del passato. Ma ero troppo compiaciuto del fatto che me lo avessero chiesto ed è questo in realtà il solo motivo per cui ho accettato. Andy è un ragazzo carino e divertente e non volevo oltretutto passare per il capo zuc-cone, troppo noioso per aggregarsi. Così adesso mi sto facendo un doppio turno, mi farò otto ore di volo, abbandonandomi in una gozzoviglia da alcolista lunga un giorno, il tutto seguito da altre otto ore di volo e tutto in nome del divertimento e del festeggiamento del trentesimo compleanno di Andy. Come diavolo avrà fatto a

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convincermi che fosse una buona idea?Mentre attraverso l’aeroporto per recarmi all’uffi cio dei ruolini,

mi rendo conto che l’edifi cio sta tornando alla vita. Il commesso di WHSmith deve aver trovato qualcun altro accorso in suo aiuto perché tutti i giornali ora sono ben ordinati sui loro espositori e si sta occupando della piccola coda che si è già formata alla cassa. Anche Boots ora è aperto e un forte profumo di caffeina mi dice che anche i ragazzi di Costa hanno già messo in funzione la macchina del cappuccino. Butto un occhio alla ricerca dei monaci Benedettini che a volte si aggirano per il terminal in cerca dei senza tetto e dei disperati. La maggior parte delle volte fanno il turno serale dalle sette fi no all’una del mattino, ma a volte puoi vedere i loro abiti neri svolazzare già nelle prime ore del mattino.

Passo attraverso i gate degli arrivi e non posso fare a meno di sorridere. C’è sempre qualche babbeo travestito per divertire e deli-ziare. Mi sembra così assurdo che la gente pensi che sia necessario mettersi in maschera per incontrare i loro cari di rientro da un volo a lungo raggio. È proprio quello che vuoi, quando scendi da un aereo dopo un volo di 20 ore, incontrare tutta la tua famiglia vestita come un mucchio di canguri. Solitamente c’è sempre qualche nonnina accolta con uno striscione infi lato in un paio di manici di scopa. Oppure un gruppo di ubriachi con dei tappi appesi e svolazzanti dai loro cappelli a tesa larga. Oggi ci sono due giovani individui con cappelli di sughero, alcuni più vecchi invece vestiti come la Statua della Libertà, con tanto di corona e torcia, e una giovane donna ancora in pigiama. Va bene, lo so che è presto, ma non si può fare a meno di pensare che almeno avrebbe potuto fare lo sforzo di vestirsi, soprattutto se pensi che il suo pigiama ha sicuramente visto giorni migliori. D’altro canto chi, con un’età maggiore dei dieci anni, dorme ancora nel suo pigiama di Snoopy?

Finalmente arrivo all’uffi cio ruolini, un’ampia stanza non troppo lontana dal concourse principale, vicino a un uffi cio cambi, che

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condividiamo con altre tre compagnie aeree.Entrando, si viene sicuramente perdonati se dovesse per caso

balenare l’idea di aver varcato la soglia di un reparto maternità: ogni singola donna che lavora in questo uffi cio è incinta. Ci sono almeno venti donne, tutte a diversi stadi della gravidanza, da quella ai primissimi mesi alla più rotondetta e ansimante. Alcune di loro sono così grosse che ci si chiede come o perché mai siano venute al lavoro.

È politica della nostra compagnia che non appena un’assistente di volo resti incinta, venga immediatamente ricollocata tra il personale di terra e le venga trovato un lavoro amministrativo qualsiasi. Non che ci sia alcuna prova medica che il volo sia dannoso, o affatto pericoloso per un bimbo che deve nascere, o almeno cosi dicono. Ma ci sono stati casi di aborti spontanei al quinto e sesto mese di gravidanza. In realtà, seguendo il buonsenso, basterebbe conside-rare come l’aria pressurizzata della cabina riesca a comprimere una bottiglia d’acqua vuota per rendersi conto dell’effetto che potrebbe avere sul ventre materno. Inoltre, i sindacati delle assistenti di volo sono dei negoziatori molto potenti. E in ogni caso le uniformi non hanno lycra a suffi cienza per poter far entrare un pancione. E quindi, quale posto migliore dell’uffi cio turni per ricollocarle?

Janet è una delle ragazze incaricate dei nostri turni. È bionda, piuttosto carina, e incinta al sesto mese. Faceva le rotte a lungo raggio fuori Londra, ma quando la sua relazione con un pilota sposato è fi nita appunto con la sua gravidanza e tante lacrime, è stata ricollocata a terra e lui non la vede da venti settimane. Ad ogni modo, Janet sembra avere un atteggiamento piuttosto stoico riguardo a tutta la faccenda. Molte ragazze al posto suo piangereb-bero per la maggior parte del tempo, ma apparentemente lei gode del supporto di una madre che è solo troppo eccitata dal fatto che avrà presto un nipotino.

«Ehi!» dice vedendomi entrare. Sembra sempre essere sor-

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presa.«Di sicuro ti fai notare in questi giorni» le dico in mancanza

di altro da dire.«Sì, lo so» mugola, accarezzandosi lo stomaco. «E ne ho ancora

di strada da fare.»«Oh, sì» annuisco.«Non dire così!» risponde.«Oh, no» mi correggo subito, scuotendo la testa.«Comunque.»«Sì, giusto, dunque, sono qui per controllare che Andy ed io

siamo segnati come doppio turno oggi.»«Ok» dice, prendendo una penna e giocherellando con il suo

pulsante. «Tutti e due?»«Sì, tutti e due.»«Doppio turno?»«Sì, esatto.»«No.»«No cosa?»«No, non siete segnati» risponde.«Ah.»«Ho soltanto te» aggiunge, scorrendo rapidamente sui suoi fogli,

mentre si mangiucchia la punta delle dita.«Ma dovrebbe esserci anche Andy.»«Ok» dice. «Lo ha messo per iscritto?»«Non penso nemmeno sapesse bisognava farlo.»«Eh sì, è la nuova regola. Dall’11 settembre.»«Ma l’11 settembre è successo anni fa!»Ecco, stanno sempre a fare così, a introdurre nuove regole

quando ne hanno voglia, e danno come motivazione sempre l’at-tentato dell’11 settembre. È una cosa che fa imbestialire tutto il complesso. I piloti odiano essere rinchiusi nelle loro cabine,

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senza poter parlare per ore intere con nessun altro che non sia il loro secondo. Le hostess odiano doversi ricordare ridicole parole d’ordine tipo ‘mojo’, per riuscire a parlare ai piloti. Il personale di terra trova ridicole le regole niente forbicine e limette da unghie, soprattutto dal momento che ci sono bottiglie di vetro a bordo e coltelli di plastica ben più affi lati di molti coltellini che si trovano a terra. E tutto l’equipaggio trova inutile servire su vassoi d’argento panini con salmone in crosta soltanto per vedere poi i passeggeri in prima classe mangiare servendosi di posate di plastica. E tutti quanti troviamo più fastidioso di tutto il controllo di sicurezza retroattivo sugli ultimi cinque anni, a cui veniamo sottoposti in questi giorni, soltanto per avere un pass per l’area airside. Quando questa nuova regola fu introdotta, non solo abbiamo avuto un cumulo di arretrati di sette mesi, nonostante il governo avesse promesso che ci sarebbero volute soltanto sei settimane, ma ora tutti quanti, indipendentemente da quanto umile sia il lavoro, devono essere controllati. Così, se Accessorize vuole assumere un diplomando, bisogna scrivere alla sua scuola per sapere se in effetti l’ha frequentata. Proprio la scorsa settimana mi è toccato cercare di ottenere delle referenze da una scuola di lingue in Cina, dove uno dei miei potenziali dipendenti avrebbe lavorato nel suo anno sabbatico. Ad ogni modo, chiunque sia stato un po’ incostante, o abbia cambiato più di due lavori in un anno, oppure si sia mosso un pochino, in questi giorni non ha la minima opportunità. Sem-plicemente per il fatto che nessuno ha voglia di controllare i suoi trascorsi lavorativi. Chi ha voglia di fare tredici telefonate, quando due possono bastare? Parlate con chiunque lavori alla sicurezza aeroportuale e vi diranno che tutta la faccenda è semplicemente senza senso. Chiunque voglia mettere una bomba su un aereo può mettere una bomba su un aereo. L’unica ragione per cui non abbiamo ancora avuto un altro 11 settembre è solo perché fi nora i terroristi hanno deciso di non farlo.

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«Così hanno detto» mi dice Janet.«Quando?»«Alla riunione della scorsa settimana.»«Veramente hanno fatto riferimento all’11 settembre?»«Sì» annuisce. «Questa è la ragione.»«Oh, Dio» sospiro rumorosamente. «Quindi ora dobbiamo

mettere tutto per iscritto?»«Oppure dovete farlo approvare dal vostro supervisore.»«Ok, io sono il supervisore di Andy, e sono anche il tuo super-

visore e approvo tutto quanto.»«Approvi?» mi dice alzando il tono della sua voce di un’ottava.

«Allora va bene» e scrive il nome di Andy in corrispondenza del turno.

«Quindi adesso è tutto a posto?»«Sì» risponde. «Se lo dici tu.»«Ecco, lo dico io.»«E allora va bene.» Mi sorride e si china verso un pacco di

biscotti. «Vuoi un HobNob?»«No, grazie, mangialo tu» le sorrido. «Devi mangiare per due.»«No, in realtà in questi giorni no. In teoria non dovrei nemmeno

mettere su peso.»Fortunatamente, prima che io possa essere trascinato ulterior-

mente in questa affascinante conversazione, la mia radio emette un crepitio e torna alla vita. È Andy.

«Ehi amico, ci sei?» mi dice. Non riesce mai ad usare la forma corretta per comunicare via radio.

«Yup, uhm… roger» rispondo nel ricevitore, e in effetti nem-meno io ci riesco.

«Lo 005 sta per atterrare» dice.«Sì, stavo andando al gate.»«Bene, abbiamo un cadavere» dice.

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«Oh, no. Roger1 anche quello.»«No, grazie» risponde Andy.«Non sei divertente.»«Sì, beh. Te ne occupi tu?»«Roger.»«Fai attenzione» mi dice con una risatina maliziosa «ho infor-

mato le autorità competenti».«Grazie.»«Ma ti pare» risponde. «Ci vediamo lì.»Sospiro mentre ripongo la radio nella tasca. Un cadavere. Era

proprio quello di cui avevo bisogno a quest’ora del mattino.

1 Nella terminologia dell’International Civil Aviation Organization (ICAO), Roger equivale a ricevuto. Mentre nello slang moderno to roger signifi ca copulare.

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Mentre mi avvicino al gate 56C, il volo 005 si sta già aggan-ciando. Siccome la nostra è una delle più merdose linee

aeree in funzione in questo aeroporto, ci vengono assegnati anche i più merdosi gate. Normalmente, i gate aeroportuali vengono assegnati in base ai soldi e al potere. Più la linea aerea paga la BAA per i diritti di atterraggio, più aerei possiede e più è da tempo ope-rativa su quell’aeroporto, migliore è il gate che le viene assegnato. Così, una piccola povera ultima arrivata come la nostra compagnia tende invece ad avere i gate più estremi del terminal, lontani dalle sale d’attesa, dove i nostri passeggeri il più delle volte si perdono, scompaiono nel nulla e non riescono ad arrivare ai loro voli. È un incubo anche per coloro che presentano problemi di mobilità e necessitano di una sedia a rotelle. Non solo è già diffi cile trovare una dannata sedia a rotelle in tutto l’aeroporto in questi giorni, ma spingerla fi no a un gate sperduto in capo al mondo è già un lavoraccio in sé. Fortunatamente, per quanto ne sappia io, per quel che concerne questo volo, non ne abbiamo avuto richiesta.

Vedo Andy già sul posto mentre gli addetti alla rampa stanno già attaccando l’aereo al fi nger – o per dirla in parole povere, quei

6AM:7AM

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tizi a terra stanno agganciando l’aereo all’estremità a fi sarmonica del gate. Questa operazione può costare secondi preziosi e quindi alcune delle linee aeree lowcost, vedi ad esempio la Ryanair, che amano svolgere l’operazione di rotazione e inversione in quaranta minuti esatti, scelgono di astenersi da certi lussi per i clienti come ad esempio recapitare i passeggeri fi no al terminal. Ecco perché normalmente la maggior parte dei voli Ryanair ti scarica sulla piaz-zola e ti costringe a fare il resto del tragitto a piedi, accorciando così di parecchi minuti il loro tempo di rotazione.

«Mi dispiace, sono un po’ in ritardo» dico quando alla fi ne riesco a raggiungere Andy. Sono completamente sudato e senza fi ato, ho corso per gli ultimi tre gate.

«No, non lo sei.» Sorride e mi guarda. «E vedo che ti sei portato anche tutto il tuo entourage.»

Mi volto e mi accorgo che un’intera truppa di agenti sta arri-vando dietro di me. Oh, merda. Ma cosa diavolo sta succedendo? Normalmente non abbiamo così tanti agenti per un solo morto. In teoria dovrei essere il responsabile qui, chiaramente non sono informato di niente.

«Perché sono qui?» sussurro all’orecchio di Andy.«Chi cazzo lo sa» risponde facendo spallucce.«Sei dannatamente inutile» borbotto. «Salve» dico, procedendo

a lunghi passi e con fare deciso verso il gruppo di dodici agenti che rapidamente avanza. «Sembrate essere molto di fretta.»

«Siamo qui per l’incidente» risponde quello che sembra il più alto in grado della combriccola.

«Bene» rispondo facendo un cenno con la testa, usando il mio tono di voce più sicuro e di chi è al corrente della situazione. «Molto bene. Uhm, siete in tanti…»

«Sì, beh» risponde l’agente con un certo sussiego «si dice che l’uomo sia violento».

«Sia?»

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«Sì» interviene Andy con un entusiasmo esagerato. È un pessimo attore. «Molto violento in realtà. Soprattutto quando si è scagliato su… uhm… il pilota…» ma la sua voce si affi evolisce.

«Su sua moglie, in realtà» lo corregge l’agente. «Un attacco molto violento, o così almeno mi hanno riportato. Lo hanno ammanet-tato a Singapore e così è rimasto. Queste sono le informazioni che abbiamo avuto dal comandante via radio questa mattina.»

«Oh… quell’uomo!» rispondo in maniera piuttosto fl ebile, probabilmente senza riuscire a convincere nessuno. «Questa radio purtroppo ha avuto dei problemi per tutta la mattina.» Sorrido e picchietto sulla tasca della mia tuta blu. «E quindi non ho mai saputo tutta la storia.» In realtà non avevo mai saputo alcuna sto-ria. In questo momento mi sento un perfetto idiota e ne parlerò al comandante non appena lo vedrò.

«Esatto» continua l’agente, guardando verso il portellone dell’ae-reo.

Andy trova chiaramente tutta la situazione molto divertente.Guarda fi sso davanti a sé, si risucchia le guance e preme l’unghia

del suo pollice destro nella carne della sua mano sinistra. Lo fa sempre quando sta cercando di trattenersi dal ridere.

«Tutto bene ragazzi? Dov’è il morto?»Mi volto e scruto tra la mischia dei poliziotti, vedo Terry e

Derek, i ragazzi dell’ambulanza, camminare nella nostra direzione. Vestiti con giacche gialle e la loro tuta da lavoro verde, sembrano due membri anziani di una band anni Ottanta. Entrambi sulla cinquantina, lavorano all’aeroporto da quando mi ricordo. Capelli grigi, pelle fl orida, pance da fastfood. Questi ragazzi hanno il più gentile dei comportamenti, ma il più cinico senso dell’umorismo che io conosca. Hanno visto di tutto, hanno avuto a che fare con tutto e hanno rispedito tutto a casa ben fasciato.

«Ehi, siete sempre voialtri dei voli a lungo raggio a rovinarci la giornata con un morto» dice Terry, il più anziano e più paonazzo

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in volto dei due. «Non c’è aria a suffi cienza, questa è la mia teoria. Mettete la temperatura a 26 gradi per fare addormentare tutti quei bastardi. Poi riducete la quantità di ossigeno per risparmiare sul carburante e vi chiedete come mai qualcuno ci rimanga e gli altri fi niscano per menarsi di santa ragione.»

«Buongiorno Terry» dico. «È bello averti tra noi.»«Buongiorno amico» risponde dandomi una pacca sulla spalla.«E quindi, cosa abbiamo stavolta? Un direttore del servizio

clienti morto nel bagno?»Lui e Derek scoppiano a ridere. Andy invece fi nge di essere

scioccato.«Voi due» dice loro «siete veramente tutto cuore».Possono anche riderci su adesso, ma quando successe il fatto non

fu per niente divertente. Un mese fa circa, uno dei nostri direttori del servizio clienti, appunto, morì durante un volo di rientro dalla Tailandia. Apparentemente a causa di un attacco di cuore. Il resto dell’equipaggio non sapeva cosa fare del corpo. Il volo era pieno e non c’erano posti a disposizione, così videro bene di cacciarlo nel bagno. Cos’altro potevano farne? Metterlo comodamente su uno strapuntino davanti a tutti i passeggeri? Tutto andò bene fi no a quando il volo non atterrò e dovemmo cercare di levare il corpo dal gabinetto. Il rigor mortis lo aveva bloccato ed era impossibile muoverlo. Terry, Derek, Andy ed io ci provammo per ore, spingendo e tirando, avanti e indietro. Era peggio che cercare di infi lare un divano gigante in un minuscolo soggiorno. Alla fi ne dovemmo smantellare tutto il bagno. Tutto quanto. Il che tenne bloccato a terra il volo per ben 48 ore e la compagnia aerea ne fu tutto meno che lieta, per dire poco.

Ma, alla fi ne, ogni caso di morte durante la traversata è un vero incubo. Tanto per cominciare, cosa ve ne fate del corpo? Lo lasciate lì? Lo spostate? Avete un posto migliore dove sistemarlo? E qualcuno deve viaggiare vicino al corpo? Il vicino deve essere

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il compagno di viaggio del morto? Oppure la moglie? La fi glia? Il marito? O preferite mettere un lenzuolo bianco sopra il corpo e una maschera di ossigeno sulla sua faccia, facendo fi nta davanti agli altri che si senta solo un po’ male ma non sia, in effetti, morto? E se si è cacato addosso? E se ha pisciato sul sedile? Quando sei morto, fuoriesce di tutto. Può essere veramente una cosa disgustosa. E noi dobbiamo assolutamente tenere a terra l’aereo e cambiare i rivestimenti dei sedili immediatamente dopo che qualcuno è morto. E non è poi così divertente. Comunque ci sono altri sistemi per affrontare la cosa. Mi ricordo di quella volta che Andy mi raccontò di una domestica fi lippina che morì in economy su una linea aerea continentale: fu sistemata in una sacca da sci impermeabile e ‘archi-viata’ su un sedile in prima classe. Il tutto rese le cose molto più semplici. «Fu l’unico modo che aveva a disposizione per passare di classe, povera vecchietta» commentò Andy .

E sareste sorpresi nel sapere quante volte succede. Non cadaveri che passano di classe, intendo, ma gente che muore in volo. Infatti è così frequente, che la Singapore Airlines, sulla sua nuova tratta extralunga di 17 ore Singapore-Los Angeles, ha appena introdotto una sorta di armadio destinato proprio ai cadaveri. Alcuni dicono che ci siano così tanti decessi durante la traversata perché è talmente stressante affrontare la trafi la aeroportuale, che quando fi nalmente ci si riesce, ormai si è pronti al collasso. Altri invece, come Terry, pensano che la colpa sia delle condizioni stesse del volo – la man-canza di spazio e aria fresca, insieme all’aria pressurizzata della cabina – che causano un numero così alto di infarti e di embolie di cui siamo testimoni.

O quello, oppure anche il fatto che ci sono tanti anziani che decidono di intraprendere il viaggio dei sogni verso mete come l’Australia, ad esempio, quando nella vita normale riescono a malapena ad arrivare alla fi ne della strada dove abitano, e alcuni di essi sono destinati a incontrare il Creatore prima di atterrare.

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Soltanto l’altro giorno, il volo BA208 proveniente da Miami por-tava con sé due cadaveri. Uno era quello di una donna, deceduta presumibilmente per attacco di cuore, e l’altro invece era quello di un uomo morto in circostanze più oscure e probabilmente di una meningite virale. Le persone sedute vicino a lui dovettero attendere di essere informati del virus per iscritto, prima di avere il permesso di sbarcare.

Un rumore proviene dall’interno dell’aeroplano. È il suono del portellone azionato manualmente. Improvvisamente si apre e appare una hostess mora, piuttosto attraente. È Shirley, al termine ormai della ventina, che negli ultimi tre anni ha lavorato sulla tratta di Sydney.

«Buongiorno signori» dice.Tutti facciamo un passo indietro colpiti dall’aria fetida e viziata

proveniente dal volo, aria creata da 378 persone che hanno man-giato, respirato, scoreggiato, sudato, e che si sono levate le scarpe. È spessa e pesante e l’aroma è nauseabondo e irrespirabile. È diffi cile credere che tutte queste persone siano sopravvissute a un tale tanfo e a così poco ossigeno. Alcuni voli poi sono ovviamente peggio di altri, a seconda di cosa hanno mangiato i passeggeri e per quanto tempo sono stati imprigionati là dentro tutti quanti insieme. A volte l’odore dei corpi è così travolgente che l’ultima cosa che vorresti fare sulla terra è proprio salire a bordo. Ma, fortunatamente per noi, prima di tutto entrano i poliziotti.

«È proprio all’inizio della classe economy» spiega Shirley. «Il comandante sta arrivando. L’uomo ha aggredito la moglie e un membro dell’equipaggio. L’ha schiaffeggiata.»

«Lasci fare a noi, signorina» dice l’agente di polizia. «Solo, ci indichi per favore la moglie perché dovrà rilasciarci una dichia-razione.»

L’uffi ciale più anziano e altri tre agenti salgono a bordo, gli altri otto invece restano a terra assumendo un atteggiamento molto uffi -

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ciale e importante. Andy e io aspettiamo il nostro turno. È sempre meglio levarsi di mezzo quando si tratta di arrestare qualcuno, perché non si sa mai quello che può succedere. E comunque il pas-seggero per cui noi siamo giunti qui diffi cilmente può scappare.

Non appena la polizia sale a bordo, una donna esce dall’aero-mobile. Porta i capelli molto corti e pesantemente tinti di biondo; indossa una minigonna jeans e una canotta rosa brillante che ben si accoppia alle strisce di abbronzatura in bella mostra sulle tibie. Potrebbe essere alla fi ne della trentina, ha tutte le rughe tipiche di una fumatrice accanita, i capillari rotti di un’alcolista e presenta una tumefazione sulla sua guancia destra. Shirley la insegue.

«Aspetti un momento signora, si fermi lì» le intima.«Potete andare tutti a farvi fottere!» strilla la bionda inveendo

contro di noi. «Ma proprio tutti quanti.»«Non c’è bisogno di fare così, signora!» replica Shirley.La bionda ora è proprio di fronte a me. Io mi preparo. La mia

esperienza mi dice che rimproverare qualcuno perché insulta non fa altro che peggiorare le cose.

«Non provi a dirmi quel cazzo che devo o non devo fare» continua la bionda «sono sulla fottuta terra ferma ora. Non ho più niente a che fare con voi».

«È solo che avremmo bisogno da parte sua di una dichiarazione riguardo a suo marito» insiste Shirley.

«Una dichiarazione?» dice. «Ma vaffanculo! Tutto quello che voglio ora è una sigaretta.»

«Se lei però potesse fare una dichiarazione prima…» riprova Shirley, stavolta la sua voce si fa più fl ebile.

«Voglio una cazzo di sigaretta» dice la donna. «Sono stata settanta fottutissime ore senza fumarne una.» E inizia a frugare nella sua borsa.

«Forse posso aiutarla, signora?» le chiedo, cercando di venire in aiuto a Shirley.

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«No, a meno che non abbia un fottuto accendino» risponde.«Avremmo bisogno una dichiarazione da parte sua, signora,

altrimenti non siamo in grado di accusare suo marito di aggres-sione» le spiego il più gentilmente possibile.

«Cosa?» mi dice guardandomi, con una sigaretta tenuta in equilibrio sul labbro inferiore.

«Non possiamo accusarlo altrimenti» le dico con un sorriso.«Non me ne frega un cazzo» risponde, muovendo la sigaretta

a tempo con le sue parole. «Non me ne frega niente di quello che gli capita ora. Io ho la mia sigaretta e sono fuori da qui. Per quello che mi riguarda, adesso è un vostro fottuto problema». Accende la sua sigaretta con un accendino della Sydney Opera House.

«Mi scusi, signora» interviene uno dei poliziotti «non può fumare qui».

«Oh Gesù Cristo!» esclama gettando la sigaretta sul pavimento e spegnendola con il suo sandalo bianco a tacco alto. «Esco fuori di qui, cazzo.»

E detto questo, se ne va con passo svelto lungo il corridoio verso il terminal. Nessuno di noi prova a fermarla. Tutti ci voltiamo semplicemente a guardarla mentre se ne va.

«Penso che l’avrei presa a pugni» conclude Andy «se avessi dovuto restare seduto vicino a lei per tutta la tratta Sidney-Lon-dra. Non c’è da stupirsi che il marito abbia perso la pazienza a Singapore».

Proprio in quel momento il marito rissoso viene scortato fuori dall’aereo. Per ciascun avambraccio c’è un poliziotto che lo trat-tiene e le sue mani sono ammanettate con le stesse manette di plastica che lo hanno tenuto fermo durante la crociera. Con il volto paonazzo e la bocca asciutta, ha lo stesso odore di un tappeto di un pub e l’aria di chi ha dormito più del solito. Dietro di lui, una piccola e timida assistente di volo con l’impronta di uno schiaffo ben visibile sul viso.

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Quest’uomo ora è in guai seri. Gli incidenti per rissa in quota sono visti molto male dalla Giustizia. Ricordo un uomo dell’Essex che di recente si è preso 4 anni per aver colpito in viso un’assistente di volo con una bottiglia di vodka, lasciandole in ricordo 18 punti di sutura. Oppure quella famiglia irlandese allargata che aveva iniziato una rissa su un volo proveniente dalla Giamaica e a cui vennero dati 12 e 6 mesi rispettivamente per aver messo in pericolo il volo e per rissa in luogo pubblico. Quest’uomo quindi, una volta trovatosi di fronte alla Corte dei Magistrati di Uxbridge, come minimo si prenderà 6 mesi di prigione, con o senza la testimonianza della moglie. In realtà, quelle per cui ci sarebbe da dispiacersi sono le assistenti di volo, che hanno a che fare con tutto questo. La rissa in alta quota sembra essere in aumento: gli incidenti sono aumentati di sei volte tra il 1994 e il 2002, e cioè da 1.132 a 6.500, e oltre la metà sono dovuti all’eccesso di alcol. Nemmeno le celebrità ne sono immuni. Mi ricordo di aver sentito di quel chitarrista dei REM, Peter Buck, che venne accusato di aver attaccato un membro dell’equipaggio della British Airways con un vasetto di yogurt, ma venne poi prosciolto al processo. Peggiore invece è la storia del cantante degli Stone Roses, Ian Brown, che minacciò di tagliare le mani ad un’assistente di volo e, come risultato, venne condannato a quattro mesi di carcere. Tracy Shaw di Coronation Street, invece, fu ritenuta vittima apparente della stanchezza e della mancanza di nicotina quando iniziò a litigare con il marito durante un volo diretto alle Isole Cayman. E un mio amico, invece, dovette trattare con una banda rockettara del nord, dopo averne minacciato i com-ponenti di ammanettamento perché avevano iniziato a lanciare la frutta addosso a una hostess. Per fortuna il comandante e il primo uffi ciale riuscirono a calmare la situazione ed evitare che succedesse qualcosa di troppo spiacevole.

Ad ogni modo, qualsiasi situazione di rissa in volo è suffi ciente da fartela fare letteralmente sotto. Le risse nei posti così ristretti non

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sono da prendere alla leggera e questo è uno dei motivi principali per cui i tribunali dispensano pene così rigide.

Adesso le nostre assistenti di volo sono addestrate anche a tenere a bada i passeggeri più diffi cili e in teoria avremmo anche a disposizione una politica cosiddetta ‘sensibile ai problemi dell’al-col’. Anche se, in realtà, nessuno sa se tale politica debba essere applicata allo staff o ai passeggeri. Detto questo, a giudicare dal loro aspetto, scommetto che metà delle persone che stanno sbar-cando da questo volo hanno dei postumi di un qualche tipo. Tutti comunque sembrano piuttosto scompigliati.

«Buongiorno» dice Andy con una disinvoltura imbarazzante.«Buongiorno» borbottano a loro volta man mano che ci sfi lano

davanti.Se sei nel business almeno da quanto lo sono io, arrivi a indo-

vinare quali passeggeri stanno andando o tornando da quali voli. Ad esempio, le coppie benestanti con il borsone di Louis Vuitton vanno sicuramente a Parigi o Roma. Le famiglie con i bambini e salvagente rosa pallido stanno andando in Spagna. Giovani con zaini oppure coppie di anziani che inseguono il viaggio della loro vita vanno in Australia. E questo volo, fi nora, sembra avallare la mia teoria.

«Buongiorno.»Una nonna dai capelli azzurrognoli in pantaloni sportivi color

pistacchio e maglioncino giallo ci cammina davanti a passo di lumaca.

«Salve.»Una coppia arrossata di mezza età appena tornata da un matri-

monio o dal battesimo del loro primo nipote.«Buongiorno.»Un giovane individuo color mogano, con capelli schiariti dal

sole, sandali infradito e un didgeridoo.«Buongiorno.»

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Un altro giovane con il viso scarlatto e un didgeridoo.«Salve.»Un altro ragazzo dal color miele ed un didgeridoo.Normalmente da un volo di provenienza australiana scendono

dai quindici ai venti didgeridoo. Non ho veramente idea di cosa se ne faccia uno, una volta portatoselo a casa. Lo lascia a raccogliere polvere nella stanza da letto? Oppure lo si può semplicemente lasciare a girare tutt’intorno sul nastro per la riconsegna bagagli, che poi è esattamente il modo in cui almeno due o tre didgeridoo per volo terminano la loro vita, una volta entrati nel Regno Unito.

«Salve a tutti» dice una giovane assistente di volo tutta lentiggini che si presenta con un block notes. «Chi di voi due è qui per il minore non accompagnato?»

Andy e io ci guardiamo in faccia, le sue spalle si abbassano leggermente. Lui sa che se non si offrisse di sua spontanea volontà per accompagnare il minore, molto probabilmente eserciterei il mio potere per farglielo fare. Dovendo scegliere tra un cadavere e l’accompagnare un minore, il cadavere vince sempre.

I minori non accompagnati sono una vera spina nel fi anco. Non solo devi fi rmare per loro ad ogni fase dell’accompagnamento, come se si trattasse ogni volta di una parcella carissima, e non solo devi assolutamente assicurarti di consegnarli al parente/tutore giusto agli arrivi, ma i piccoli, dal canto loro, sembrano mettercela tutta per raggiungere un unico scopo e cioè quello di scappare dalle tue mani. E così, mentre stai cercando il loro bagaglio, oppure ritirando il loro passaporto o sistemando il loro visto, se la squa-gliano. Si nascondono nei negozi, sgattaiolano nei bagni; si impe-gnano al massimo per farti saltare le coronarie prima che tu possa raggiungere l’uffi cio doganale. Francamente ho già fatto la mia ragionevole parte in fatto di minori; e onestamente preferisco un cadavere tutta la vita.

«Baratto il minore con il morto» borbotta Andy dall’angolo della

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bocca, sapendo comunque che il suo tentativo è del tutto vano.«Scordatelo» gli rispondo.«Ma su» dice la ragazza «non è poi tanto male».«Si, certo.» Andy ed io commentiamo in contemporanea.«No» insiste la ragazza. «È davvero molto dolce. Non è vero?»

aggiunge guardando giù, verso un ragazzino basso, cicciottino, strizzato in un paio di pantaloncini blu. Porta uno zainetto sulla schiena e in ciascuna delle due mani stringe un grosso micidiale giocattolo di plastica.

«Sì, Kathy» risponde il bambino, sorridendo dolcemente a Kathy prima di voltarsi verso Andy. «Mi chiamo Jamie» gli dice, indurendo tutto a un tratto la sua espressione, stringendo gli occhi mentre un paio di corna sembrano spuntargli dalla testa. «E scommetto che mio padre è più ricco del tuo.»

«Probabilmente hai ragione» risponde Andy, mentre gli prende bruscamente la mano piena di fossette. «Ma il mio l’ho fatto ucci-dere.»

Mentre Andy cammina verso il terminal con la sua zavorra ormai ammutolita, Terry, Derek e io abbiamo il via libera per salire a bordo.

Dentro, il posto è un vero casino. Ci sono giornali sparsi per tutto il pavimento, riviste strappate dalla plastica, poi fatta a pezzetti, che giacciono arrotolate sui sedili, centinaia di calzini di spugna in omaggio e i tessuti di fl anella riscaldati dalle facce che coprono letteralmente la lunghezza dei due corridoi. È stupefacente il caos che quasi 400 persone possono creare quando volano da una parte all’altra del mondo.

Terry e Derek passano prima di me. In effetti tocca a loro accertarsi che il passeggero sia veramente morto. Io ripercorro il corridoio dietro Shirley, che a sua volta controlla che niente sia rimasto abbandonato sull’aeromobile. Potreste restare stupiti da quello che si trova. Dentiere, occhiali e, per una qualche strana

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ragione, anche mutandine: queste sono le cose che maggiormente vengono dimenticate su un aereo, oltre ovviamente ai vari cappotti, borse, libri, riviste e diversi prodotti del Duty-free. Shirley ha già una giacca su un braccio e un paio di bretelle da bimbo in mano e siamo soltanto a metà della classe economica.

Un altro paio di fi le e raggiungiamo il morto. Terry e Derek annuiscono entrambi, confermando che sì, l’uomo è proprio morto; una donna, che presumo sia la moglie, è ancora seduta vicino al corpo. Il suo viso è bianco come un lenzuolo e si stringe le mani mentre guarda davanti, mormorando qualcosa sottovoce. Non puoi far altro che provare compassione per questa donna, seduta lì, vicino al corpo del defunto marito. Deve essere in un terribile stato di shock.

Devo ammettere che nemmeno io mi sento granché bene. So che io ed Andy sembriamo piuttosto indifferenti quando capitano queste cose, ma in realtà non ci si abitua mai ad aver a che fare con un morto. Il corpo è avvolto in un lenzuolo e ha una maschera di ossigeno messa sopra la sua testa calva. Il viso dell’uomo è bianco e ceruleo, la sua bocca leggermente aperta e gli occhi non sembrano essere completamente chiusi. All’apparenza potrebbe avere circa una sessantina d’anni, mentre la moglie sembra essere di almeno dieci anni più giovane.

«È successo tutto così in fretta, è successo così in fretta» continua a ripetere la donna. «Un minuto stava bene e il minuto dopo era morto. È successo così in fretta…»

«Stia tranquilla, signora» la consola Derek «non avrebbe potuto fare nulla per aiutarlo. E sicuramente non ha sofferto».

Il comandante arriva dietro di me.«Attacco di cuore?» chiede con un tono di voce pseudopre-

occupato.«Sembrerebbe» risponde Derek. «Credo sia stato molto veloce»

aggiunge, cogliendo lo sguardo della vedova.

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«È quello che mi ha detto Shirley» ribatte il comandante annuendo con la testa, i suoi riccioli piccoli e resi luccicanti da un qualche prodotto per capelli. Si protende verso la vedova e le accarezza la spalla. «Mi dispiace molto per la sua perdita».

«Grazie» sussurra lei.«Sono sicuro che le hostess abbiano fatto tutto il possibile.»

Sorride e l’accarezza di nuovo.«Sono state straordinarie» conferma la vedova.«E quindi, è morto proprio appena atterrati» dice velocemente

a Terry, che sta iniziando a riempire le pratiche. Gesù, quest’uomo non perde tempo.

«No» dice la vedova «è morto più o meno sopra l’India».«Certo, naturalmente» concorda il comandante sorridente.

«Appena atterrati? Eh amico?» di nuovo si rivolge a Terry.«Non preoccuparti» conferma Terry. «Proprio appena atter-

rati.»Uffi cialmente, quando un passeggero si ammala o muore, il

comandante avrebbe il compito di fermarsi all’aeroporto dispo-nibile più vicino. Ma questo non capita quasi mai. I comandanti detestano farlo perché rovinerebbe i loro piani di volo e costerebbe alla linea aerea un sacco di soldi in termini di carburante e ritardi. Questa è anche la ragione che si nasconde dietro la riluttanza di ogni vettore nell’imbarcare soggetti malaticci, come se potessero spirare in qualsiasi momento a metà dell’Atlantico. I comandanti preferiscono che i loro passeggeri muoiano sulla terra ferma nel Regno Unito, perché ottenere un certifi cato di morte, diciamo dalle autorità indiane, in realtà presenta più guai che vantaggi.

«Quanto ci vorrà per il pubblico uffi ciale e le imprese di pompe funebri?» chiede il comandante, guardando il suo orologio. Ovvio, in teoria lui è l’ultima persona che deve lasciare l’aereo, e per questo motivo è così ansioso che il corpo venga spostato, così che anche lui possa andarsene a casa.

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«Non molto ormai» risponde Terry.«Bene» dice il capitano. «Ditemi quando arrivano. Sono sulla

rampa a parlare con gli ingegneri. Arrivederci uhm… signora…?»«Signora Fletcher» risponde la signora Fletcher.«Sono ancora terribilmente dispiaciuto per la sua perdita, signora

Fletcher» ripete ancora, stringendole per l’ennesima volta la spalla prima di sparire nel corridoio.

«Signora» dico alla signora Fletcher che sta guardando il coman-dante allontanarsi. «Le dispiace seguirmi?»

«Cosa?» risponde, guardando sperduta attorno a sé per vedere chi le sta parlando.

«Le dispiace venire con me?»«Oh, certo» dice.«C’è nessuno che lei dovrebbe chiamare?» le domando mentre

si alza dal suo sedile.«Oh» dice cercando a tentoni nella sua borsa. «Nostra fi glia

vive ad Hammersmith.»«Usciamo di qui signora, le farò avere una tazza di tè e chiame-

remo sua fi glia» le suggerisco.«Non voglio lasciare Albert» si ribella.«Lo so» rispondo «ma lasciamo fare a questi ragazzi il loro

lavoro e rivedrà suo marito in un minuto. È per il suo bene, glielo prometto».

È veramente per il suo bene. L’ultima cosa di cui ha bisogno ora è vedere suo marito rimorchiato fuori da questo sedile lurido, piazzato su un carrello per le bevande e portato fuori dall’aereo. Non è esattamente la più dignitosa delle uscite e, sicuramente, non qualcosa che una moglie dovrebbe vedere. Ma solitamente è l’unico modo per far uscire un corpo dall’aereo, soprattutto se la persona è morta in classe economica ed è seduta vicino la coda. Se si trovano in prima classe, in quella business o magari anche più avanti, si può cercare di caricare il corpo su una barella, ma così

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indietro è troppo pesante e troppo diffi coltoso cercare di tirarli fuori senza utilizzare un carrello portabevande.

Accompagno lentamente la signora Fletcher attraverso il ter-minal. Non dice una parola mentre passiamo davanti al controllo passaporti e alla Polizia di Dogana. Le dico di non preoccuparsi dei suoi bagagli, saranno ritirati dal nastro di riconsegna e lasciati dove lei dirà di portarli. È una sensazione strana quella di accompagnare qualcuno così profondamente avvolto in un lutto attraverso un aeroporto pieno di vacanzieri in festa. Il rumore, le luci, le risate e la musica sembrano tutti così inappropriati ora. Spero solo che non se ne renda conto. Quando arriviamo alla Sala Amica, la donna ormai si regge a fatica in piedi. Questa sala è il posto dove accom-pagniamo le persone colpite da un lutto o i disperati, in modo che possano restare da soli e riescano a calmarsi un pochino.

Subito dopo averla aiutata a sedersi su una poltrona più con-fortevole e aver iniziato a spiegarle che sto per portarle una tazza di tè e per chiamare la fi glia, la mia radio si accende.

«Sono io» dice Andy.«Mi dispiace signora, ma devo rispondere» dico alla signora

Fletcher, i cui occhi sembrano registrare soltanto vagamente una interruzione. «Prosegui, Andy.»

«Houston, abbiamo un problema» dice Andy.«Puoi occupartene tu?»«No, non posso amico» mi risponde. «Sto aspettando che arri-

vino i genitori del bambino.»«E io sono ancora con la signora Fletcher.»«Abbiamo un clandestino» dice.«Oh, no» rispondo. Il mio cuore collassa. «Davvero?»«Davvero.»Ecco, adesso siamo veramente nella merda.

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Perché un aeroporto internazionale è uno dei luoghi più misteriosi in cui potreste mettere piede? Immaginate un mondo diviso in due: ci sono quelli che indossano l’uniforme e quelli che non la indossano ma tutti si muo-vono nel turbinio di Air Babylon.La protagonista è una Duty Manager che inizia la sua giornata alle cinque di matti-na. Insieme a lei, il nostro viaggio parte dai preparativi necessari per quel volo che de-colla da Londra e attera a Dubai. Per motivi di sicurezza, nei bagagli a mano sono vietati i liquidi e gli oggetti appuntiti ma nessuno ha considerato che i vibratori - all’interno di una valigia – possono fare scattare un al-larme bomba. E perché quegli steward sal-gono sull’aereo completamente ubriachi?Naturalmente in volo scattano sempre le fantasie più tradizionali e sfrenate: è quello che succede alla coppia che fa sesso nell’an-gusta toilette dell’aeromobile…Ma voi…Sapete qual è il posto migliore per “farlo” su un aereo? Oppure: avete mai sospettato che qualcu-no abbia messo dei lassativi nelle vostre bevande? A chi avete affi dato la vostra vita prima del decollo? Forse allo stesso pilota che corre fuori pista?Questo libro non concede alla verità un posto di seconda classe.Imogen Edward Jones ed il suo anonimo informatore ci lasciano con il fi ato sospeso come durante un vuoto d’aria.Air Babylon è la scatola nera delle nascite, delle morti, delle risse tra ubriachi, dei rap-tus sessuali, della depravazione a migliaia di metri d’altezza. Allacciate le cinture di sicurezza. Si parte!

Imogen Edwards-Jones è nata a Bir-mingham e vive a Londra con suo marito e sua fi glia. È una giornalista e ha pubbli-cato diversi romanzi. Air Babylon è ormai un bestseller internazionale ed è il secondo libro della serie “Babylon”, con cui l’autri-ce sonda territori “proibiti”: Hotel Babylon, Fashion Babylon e Beach Babylon sono le rispettive incursioni nel mondo degli hotel, della moda e degli stabilimenti balneari.

Anonimo è un personaggio che lavora nello staff di una compagnia aerea. Una persona che opera sia a contatto con il pub-blico sia dietro le quinte, e la cui identità deve rimanere sconosciuta in modo da ga-rantirne l’anonimato.

Copertina foto © Costantino MargiottaRetro foto © Giuseppe Castrovinci

D A L L ’ A U T R I C E D I H O T E L B A B Y L O N

IMOGEN EDWARDS-JONES& A N O N I M O

gusta toilette dellMa voi…Sapete qual è il psu un aereo? Oppure: avete mno abbia messo bevande? A chi avete affi dadecollo? Forse alfuori pista?Questo libro noposto di seconda Imogen Edward informatore ci lascome durante unAir Babylon è la delle morti, delle tus sessuali, delladi metri d’altezzasicurezza. Si part

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“Scioccante ma fantastico, un libro da leggere prima di partire per le vacanze”

Star Magazine

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romanzo

“Un intrigante libro-denuncia sulla vita ad alta quota”

Marie Claire

“Per alcuni lettori sarà opportuno tenere a portata di mano un sacchetto antivomito”

Sunday Telegraph

“Roba che scotta”Sun

“Un libro sconcertante e straordinario”OK!


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