dolce attesa

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Racconto apocalittico di Cristò (2012)

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Cristò

Dolce attesa

racconto apocalittico

2012

«C’era un volta, poi non c’è più» (Domenico Modugno)

Il paradosso è evidente: a questo punto scrivere è del tutto

inutile. Tra due mesi finisce la Storia, tra meno di sessanta giorni

non ci sarà più nulla da consegnare ai posteri. I posteri non ci saranno mai. Spariranno la Divina Commedia e i libri di Borges, spariranno tutti i volumi nella biblioteca di Buenos Aires e in tutte le altre biblioteche della Terra. Spariranno i cataloghi e i tavoli, le sedie, gli scaffali, le porte. Spariranno i lettori e i bibliotecari. Spariranno le biblioteche. Sparirà Buenos Aires. Spariranno tutte le altre città. La carta brucerà, probabilmente.

Già adesso la mancanza di corrente elettrica mi costringe a scrivere su un quaderno a quadretti con una bic blu (non mi sono mai piaciute le penne nere, me ne ero scordato) e raccogliermi sotto la coperta perché, nonostante sia fine ottobre, fuori c’è un metro di neve. Nevica sul mare come fosse alta montagna. La Murgia deve sembrare uno sconfinato tappeto bianco e forse le otto torri di Castel del Monte cominciano ad arrotondare la propria ottagonalità.

Chi può dirlo? Non ci sono notizie da fuori. Non si telefona, non si

guarda la tv. Non funziona più niente. E poi quella cosa che

ci sta venendo addosso ha fatto passare a tutti la voglia di fare qualunque cosa.

Dalle nostre parti, almeno. Quindi scrivere è assolutamente inutile, carta da bruciare. Non ci sarebbe nient’altro da fare che aspettare. Giusto per vedere come sarà. Se penso che avevano tentato in tutti i modi di tenere

nascosta la notizia, per non scatenare il panico – hanno dovuto ammettere poi – mi viene quasi da ridere.

Sì, perché il panico è durato poco, giusto il tempo di rimanere senza elettricità per una settimana intera.

Tutti, anche gli ospedali. Poi è tornata per tre o quattro giorni. Poi più niente. Giusto il tempo di rendersi conto che quella cosa lì era

inarrestabile. Appena il tempo di avere la consapevolezza che non c’era proprio niente da fare. Sapevamo tutti quanti giorni mancavano. Giusto il tempo di realizzare che non avremmo realizzato niente di più di quello che era già stato fatto. Nel bene e nel male.

Con l’elettricità è finita presto anche la benzina e, rimasti a secco gli ultimi generatori di corrente, siamo rimasti davvero al buio.

Da queste parti si è già suicidata un sacco di gente. Si

buttano dai terrazzi, spesso di sera, qualche volta anche di notte. Vogliono essere sicuri di morire subito. Se ti fai molto male e basta puoi rimanere ad agonizzare sulla strada anche per giorni. Nessuno ti viene a prendere. Niente ambulanze, naturalmente.

A che serve curare la gente? Questa settimana se ne sono buttati almeno tre nel

quartiere. Uno l’ho guardato dalla finestra. Una ragazza. È stata seduta più di un’ora sul bordo del terrazzo del palazzo

di fronte. Dondolava i piedi; come sul bordo della piscina. Non nevicava da un po’. Si era aperto anche il cielo. C’era altra gente a guardare dalle finestre e un paio di persone nella strada di fronte.

Tutti guardavano e basta. Nessuno ha provato a fermarla. Naturalmente. Il suicidio è diventato una cosa molto privata. Una specie

di religione. Ci sono credenti e atei del suicidio ma tutti ci pensano costantemente.

Almeno dalle nostre parti è così. Come in qualsiasi religione, i credenti sono quelli che

hanno paura e gli atei sono quelli che vogliono vedere come sarà davvero. Mi sarei aspettato senz’altro molta più gente affannarsi a mondare i propri peccati convinta che stessero arrivando i cavalieri dell’apocalisse per lo scontro finale. Invece sembra che a quella religione non creda più nessuno o che siano rimasti davvero in pochi.

Dalle nostre parti mi sembra che sia così. E alla fine si è buttata. Ha semplicemente indurito i

muscoli delle braccia e si è lasciata cadere. Come dal bordo della piscina.

Si è sfracellata su una macchina grigiometallizzato che rifletteva l’arancione esploso del tramonto.

Nessuno ha detto amen. Almeno io non l’ho sentito. Poco dopo ha ripreso a nevicare e nevica ancora. Altri si lanciano in piedi e con le braccia aperte. A volo

d’angelo, per così dire (credo sia una questione di carattere e non di stile).

Oppure si buttano con i bambini in braccio (questo mi fa venire in mente il battesimo, a proposito di religione).

C’è anche chi si impicca e chi si spara un colpo in testa, nonostante non ci siano tutte queste munizioni in giro.

Almeno dalle nostre parti.

Però io ne vedo un sacco che si buttano dai terrazzi. È la maniera più spettacolare, una specie di evangelizzazione.

In ogni caso è evidente che scrivere non serve a nulla. Dovrei descrivere fatti che tutti conoscono visto che li

vivono quotidianamente e, soprattutto, dovrei scrivere cose che nessuno vorrà né potrà leggere. Non ho mai scritto per me stesso e non mi sembra certo questo il momento migliore per cominciare a farlo.

Tra l’altro non sono riuscito a recuperare così tanti blocchi e la sera non posso fare tardi, le candele sono merce rara. Conviene andare a dormire, quando ci si riesce, oppure restare a occhi aperti nel buio.

Quelli che non si suicidano, gli atei della nuova religione

di massa, in genere conservano i propri appartamenti, gli stessi che avevano prima che la notizia fosse divulgata e che la corrente andasse via. Abitiamo quasi tutti nello stesso luogo di prima ma le case hanno perso pulizia, luce, calore, acqua. Gli orologi in casa sono tutti fermi. Le ultime pile cariche le conserviamo per la torcia elettrica.

Almeno a casa nostra. Io e lei abbiamo deciso così, tanto la pendola della signora

del terzo piano continua a battere le ore fintanto che c’è qualcuno che continua a dare la carica tutti i giorni. È poggiata su un muro accanto a una finestra che si affaccia sull’androne delle scale. Nello stesso luogo in cui, a casa nostra, lei ha deciso di appendere uno specchio. L’ho appeso io, naturalmente. Questo avveniva due anni fa. Naturalmente allora aveva ancora un senso appendere uno specchio.

Lei è incinta, la torcia carica la conserviamo nel caso dovesse avere le doglie prima che quella cosa lì ci venga addosso. Dice sempre che nostro figlio non farà a tempo a nascere e dice anche che è meglio così. Io preferirei che

nascesse prima. Perché voglio vederlo – abbiamo fatto giusto in tempo a sapere che è un maschio – e perché voglio che ci veda, me e sua madre. E poi voglio che veda come andrà a finire tutto quanto.

In ogni caso non sta a noi decidere. Non abbiamo neanche pensato a un nome, credo che in

realtà non farà in tempo ad averne uno. In fondo non m’importa granché.

La pendola rintocca quattro volte. È lugubre, lo è sempre stata. Rimbomba nel portone scandendo il tempo per tutto il palazzo.

Tra un po’ sarà buio. Fa buio sempre più presto e il buio porta freddo.

Sembra che abbia smesso di nevicare. Insomma io credo che tu nascerai proprio mentre quella

cosa ci sta venendo addosso. Intanto hai in qualche modo risolto il paradosso della scrittura. L’ha risolto tua madre per merito tuo.

Lei è venuta qui, qualche minuto dopo il rintocco delle quattro (sta cominciando a mettere le mani sui fianchi come fanno tutte le donne incinte) è venuta e mi ha chiesto cosa stessi scrivendo. Io le ho risposto che non sapevo neanche perché stessi scrivendo, neanche per chi. Il cosa era evidente, il cosa ci sta venendo addosso. Lei allora mi ha detto che avrei dovuto scrivere qualcosa per te. Mi ha detto che te lo avrebbe letto lei fintanto che sei ancora nella sua pancia. Lei è convinta che tu sentirai e capirai. Io non lo so se è davvero così ma non sono incline a crederci. Adesso quindi sto scrivendo perché tu, che non hai né avrai nome, possa ascoltare le parole di tuo padre mentre sei ancora tutt’uno con tua madre.

Lei mi ha detto che dovrei scriverti una favola ma io non le so scrivere le favole. Cominciare con C'era una volta non è

mai stata la mia cifra stilistica. In effetti ho scritto sempre cose non del tutto adatte alla verginità di un cervello appena creato. Sempre cose inadatte a qualsiasi verginità. (Non riesco ad immaginare altro modo di scrivere). Ma lei, tua madre, vuole che scriva per te una favola, una realtà vigilata, una irrealtà. Tua madre, lei che ha deciso di essere un'atea del suicidio nonostante porti nel grembo la tua vita potenziale, la tua inconsapevolezza di crescere, di inventarti per un mondo che smetterà di esistere poco prima o poco dopo te.

Vuole che inventi una metafora per te che sei metaforicamente vivo, che esisti a metà. Tu che puoi sentire il suono, la vibrazione delle parole di tua madre attutite dal liquido amniotico che è il tuo mondo in scadenza. Tu che forse avrai addirittura il tempo di venire fuori a vedere il nostro mondo in scadenza e quella cosa che ci sta venendo addosso. Tu che di quelle parole, di queste parole che lei ti leggerà, non puoi comprendere il significato. Tu che per questo sei beato, vergine, puro. Tu che se ci sarai, ci sarai una volta e basta, nell'attimo della tua nascita, perfetto, se coinciderà con la fine del mondo. Tu che saresti il protagonista ideale di un C'era una volta se solo potesse rimanere qualcuno per raccontare della volta, l'unica, in cui ci sarai, forse.

Tu la senti – vero? – che piange nel buio. Non sai cosa

sono le lacrime, non conosci la sofferenza, ma senti i suoi singhiozzi inarrestabili che fanno sobbalzare anche il tuo piccolo corpo in preparazione. La sento piangere anche io, di notte, ma rimango fermo e in silenzio perché quella cosa che ci sta venendo addosso ha cancellato la capacità di consolare. E faccio finta di dormire perché quella cosa ha cancellato anche la capacità di dormire davvero.

Lo so io e lo sa lei, lo sanno tutti. Tranne te.

Perché tu dormi e ti svegli naturalmente e forse patisci un poco la leggera malnutrizione di tua madre. Ma non lo sai, pensi che sia normale così. Tu non conosci altro che così.

Mangiamo sempre meno, scatolette che siamo riusciti a comprare o a recuperare in qualche modo. Non ci sono più negozi perché nessuno ha bisogno di lavorare. Ci sono ancora gli scaffali, ma tutti vuoti. Ognuno ha quel che è riuscito a prendere. Ho fatto dei calcoli e razionato il cibo. Dovremmo farcela per due mesi, dopo non importa. In fondo c’era un sacco di roba là fuori, abbastanza per tutti.

Almeno dalle nostre parti. L’unica favola che posso raccontarti è questa: la

descrizione di un’attesa, di un disfacimento. Tua madre preferirebbe un regno su cui grava la minacciosa presenza dell’esercito dei cavalieri del regno nemico e cattivo e nero e potente, incredibilmente potente, che si avvicina e s’ingrossa all’orizzonte. Vorrebbe lunghe descrizioni dei giardini, delle fontane, delle strade e dei palazzi del regno dei buoni. La serena felicità dei suoi abitanti consapevoli di essere governati da un monarca buono e saggio che li ama. La verità è che il regno di favola è un posto davvero schifoso in cui nascere. No, non voglio dire che ce lo siamo meritati o che siamo artefici del nostro destino a scadenza, sarebbe troppo semplice e ovvio persino per le tue sinapsi appena formattate. Nessuno si merita questo terrore slabbrato, questo totale abbandono, questa assenza di movimento interiore. Però nel regno che sta per essere distrutto, quello in cui forse nascerai appena, non eravamo proprio tutti felici. Non avevamo una gran possibilità di scelta, non potevamo essere sicuri che la felicità dipendesse davvero solo dalle nostre decisioni, dalle nostre capacità, dal nostro impegno.

Ma tu non puoi capire. Percepisci il mondo da troppo poco, forse non sei ancora consapevole di esistere, chissà se esisti già. Cosa puoi saperne del libero arbitrio? Quel che è

certo è che in te le regole della biologia e della chimica e della fisica continuano a funzionare come se niente fosse, come se le stesse regole non stessero per spazzare via tutto, inevitabilmente. Tu continui a nascere come si faceva prima mentre fuori, tra i già esistenti, si aspetta o ci si ammazza.

Non c’è altro da fare. Niente è come prima. In realtà non so neanche se sarò capace di aiutare tua

madre a farti nascere. Dovrò prenderti per la testa con fermezza ma con delicatezza. Sarà come la sensazione indescrivibile che si prova raccogliendo un passerotto ferito per strada, quella strana forza delicata che bisogna esercitare con le mani per non farlo scappare senza fargli male, e sentire il suo battito accelerato per il panico di essere in mano a un potenziale carnefice. Sarà così, forse. Dovrò prenderti e tirarti fuori mentre tua madre urla di dolore. E poi la testa uscirà e ti guarderò in faccia, tutto sporco di sangue e placenta. E poi verrai fuori e dovrò tagliare il cordone ombelicale. E tu piangerai e tua madre piangerà e quella cosa ci verrà addosso. Proprio in quel momento.

Non ci sarà più niente. È venuta a bussare la signora del terzo piano, quella

della pendola. Tua madre è andata ad aprire la porta, io mi sono avvicinando per vedere che fosse tutto a posto. Insomma, hai sentito anche tu quello che ha detto. A casa sua non c’è più nessuno, è rimasta sola e allora ha preso tutte le provviste che aveva, le ha divise in dieci buste di plastica e ne ha portata una ad ogni famiglia ancora presente nel palazzo. Ha aggiunto di aver lasciato la porta di casa aperta semmai volessimo continuare a caricare la pendola. Ho sentito che diceva le stesse cose al ragazzo che abita al piano di sopra e che gli passava l’ultima busta. Poi è salita sul

terrazzo. Tua madre ha sistemato le scatolette nelle ante della cucina. L’hai sentita pure tu quando ha detto “Questi fagioli scadono tra tre anni”, ma non hai visto che ha sorriso. Subito dopo è arrivato il rumore sordo che fa un corpo quando cade da un palazzo. Hai sentito pure me rispondere “Mangiamoli stasera, allora”.

Scherzare fa bene anche alla fine. Fa sicuramente meglio dei conservanti di quelle scatole di fagioli che abbiamo mangiato direttamente dalla latta, freddi e con le mani. Quello che con un po’ di fuoco sarebbe diventato un brodo era una gelatina quasi congelata. Ci siamo lavati le mani con la neve del balcone. Anche l’acqua che beviamo è neve scongelata nelle cinque bottiglie di plastica che conserviamo come reliquie. Tu continui a crescere secondo natura anche in queste avversità e scalci nella pancia di tua madre. Forse non farai a tempo neanche a nascere. Ma questo non puoi saperlo.

In effetti fatico a pensarti pensante, cosciente, come tua madre vorrebbe. Fatico a scrivere una storia, persino a descrivere me e tua madre che mangiamo fagioli sotto le coperte come in un western apocalittico. Il tu che uso per rifermi a te, lo sento troppo letterario. Per me sarai davvero tu solo quando e se uscirai a vedere la fine, la dissipatio H.G. in cui sei capitato.

Come puoi capire davvero il significato di queste parole mentre sei, come in coma, immerso nel liquido amniotico? Come puoi sapere cosa sono i fagioli in scatola, la neve, il suicidio, il rintocco della pendola, un romanzo di Morselli, il western, il sorriso di tua madre, l’apocalisse? Se lo sapessi, se solo lo intuissi, squarceresti con le tue manine appena formate la porta verso l’esterno, strapperesti tu stesso il cordone ombelicale, verresti al mondo in tempo per vederlo finché esiste, non aspetteresti ancora.

Vorresti toccare la neve almeno una volta, vorresti berla, magari, e assaggiare i fagioli, anche freddi, anche in scatola, e parlare, urlare tutte le parole che ti vengono in mente, sperimentare il passare del tempo nei rintocchi della pendola, guardare un corpo cadere da un palazzo e sfracellarsi su un’automobile, fare la pipì, leggere un sacco di storie e poi poterne raccontare di nuove, come fa tuo padre. Come tuo padre non ha mai potuto fare veramente. Come tuo padre non ha mai saputo scegliere di fare davvero.

Non perdere tempo, fai presto a venire fuori. Lasciati guardare almeno un po’, fa’ che possa parlarti e spiegarti tutto prima che quella cosa che ci sta venendo addosso renda vani tutti i discorsi, cancelli i nomi e le cose, i significanti e i significati.

Vieni, cerca di esistere almeno un po’. Se abbiamo fatto bene i conti potresti addirittura esistere

per qualche giorno. Però potresti anche non esistere affatto, se abbiamo fatto

bene i conti. Scegli tu. Riesci già ad afferrare cosa voglia dire scegliere? È una cosa che in pochi sono riusciti a fare davvero e

che ora non può fare più nessuno, tranne te. Dovrai solo scegliere se esserci o no, poi sarai libero

come io non sono mai stato. Come non è mai stata tua madre, né i tuoi nonni. Sarai libero come nessun essere umano è mai stato.

Potrai rimanere a guardare cosa succede senza preoccuparti di niente altro perché dopo che quella cosa cadrà non ci sarà più nessun presente, nessun passato, nessun futuro. Nulla sarà mai esistito, nessuno e niente potrà mai raccontarti, dire se sei stato buono o cattivo, giusto o sbagliato. Nessuno potrà sapere se hai costruito quello che avresti potuto costruire o se hai lasciato che il tempo

divorasse le tue forze. Non proverai mai la frustrazione e il panico di essere molto meno di quello che ti aspettavi.

Sarai stato come tutti una nullità nella storia dell’Universo ma non avrai mai preteso di essere altro.

_________________________________________________ Cristò: (1976) è scrittore e musicista. Ha pubblicato “Come pescare, cucinare e suonare la trota” (Florestano, 2007) e “L’orizzonte degli eventi” (Il Grillo, 2011). Scrive sui blog minimaetmoralia e Artribune. È caporedattore della free press Pool | Academy. Il suo blog personale è Discanto. Il racconto Dolce attesa è comparso nella raccolta The End edita da Il Grillo Editore nel 2012.