dispensa di storia economica pt 1

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Dispensa di Storia Economica Pt 1 di 2 edizione A.A. 2014/2015 A cura di: Alberto Cudoni Daniela Costa Francesco Di Santo Francesco Maria Fama Umberto Lobina Mario Moschetta Matteo Sturla Francesca Verna Tommaso Vitiello Giulia Ragazzi CAPITOLO 3 CRESCITA E TRASFORMAZIONE DELLE ECONOMIE I. LA MISURAZIONE DELLA CRESCITA ECONOMICA MODERNA Per crescita economica moderna s’intende l’incremento della quantità di beni prodotta da un paese. E’ calcolabile come somma del valore aggiunto da ciascuno stadio di lavorazione dei beni. Per valore aggiunto s’intende la differenza tra il valore di un bene finito e venduto ed i costi d’acquisto degli input, ovvero la somma dei costi dei fattori produttivi (salari per il lavoro, interessi per il capitale e rendite per la terra). Indicatore canonico della crescita economica è il PIL (prodotto interno lordo) che presenta però degli svantaggi: 1) non tiene conto dei divari regionali all’interno dei vari paesi; 2) non tiene conto delle esternalità provocate dalla crescita. Il PIL pro capite è invece utilizzato per misurare il livello di sviluppo. Ha però dei limiti: è infatti una misura unilaterale inadeguata a restituire il grado di benessere. Un indicatore dello sviluppo più accurato è lo Human Development Index (HDI), che considera un insieme di indicatori: - PIL pro capite; - Aspettative di vita alla nascita; - Scolarizzazione. Quando si confronta il livello di sviluppo di paesi diversi, di solito si usa una medesima valuta (dollaro americano) e l’effettivo potere d’acquisto (Purchasing Power Parity, PPP). La PPP indica la quantità di beni e servizi acquistabili in diversi paesi con una determinata quantità di dollari. Ciò perché un’identica somma di danaro rappresenta un potere d’acquisto chiaramente maggiore nei paesi più arretrati rispetto ai paesi 1

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Dispensa di Storia Economica Pt 1 di 2 edizione A.A. 2014/2015

A cura di:Alberto CudoniDaniela CostaFrancesco Di SantoFrancesco Maria FamaUmberto Lobina

Mario MoschettaMatteo SturlaFrancesca Verna Tommaso VitielloGiulia Ragazzi

CAPITOLO 3 CRESCITA E TRASFORMAZIONE DELLE ECONOMIE

I. LA MISURAZIONE DELLA CRESCITA ECONOMICA MODERNA

Per crescita economica moderna s’intende l’incremento della quantità di beni prodotta da un paese.E’ calcolabile come somma del valore aggiunto da ciascuno stadio di lavorazione dei beni. Per valore aggiunto s’intende la differenza tra il valore di un bene finito e venduto ed

i costi d’acquisto degli input, ovvero lasomma dei costi dei fattori produttivi (salari per il lavoro, interessi per il capitale e

rendite per la terra). Indicatore canonico della crescita economica è il PIL (prodotto interno lordo) che presenta però degli svantaggi:1) non tiene conto dei divari regionali all’interno dei vari paesi;2) non tiene conto delle esternalità provocate dalla crescita.

Il PIL pro capite è invece utilizzato per misurare il livello di sviluppo. Ha però dei limiti: è infatti una misura unilaterale inadeguata a restituire il grado di benessere.Un indicatore dello sviluppo più accurato è lo Human Development Index (HDI), che considera un insieme di indicatori:- PIL pro capite; - Aspettative di vita alla nascita; - Scolarizzazione. Quando si confronta il livello di sviluppo di paesi diversi, di solito si usa una medesima valuta (dollaro americano) e l’effettivo potere d’acquisto (Purchasing Power Parity, PPP).La PPP indica la quantità di beni e servizi acquistabili in diversi paesi con una determinata quantità di dollari. Ciò perché un’identica somma di danaro rappresenta un potere d’acquisto chiaramente maggiore nei paesi più arretrati rispetto ai paesi

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!più sviluppati: 1000$ in India permettono l’acquisto di più beni e servizi rispetto agli USA. Se non si tiene conto del relativo potere d’acquisto, si sottostima il livello di sviluppo dei paesi più arretrati.

II.MODELLI DI CRESCITA E PERFORMANCE PER PAESECi sono due teorie che esprimono il fenomeno di crescita economica:

Steady-state growth (Neoclassica)Data la stessa tecnologia di partenza, il reddito Pro capite del Paese con una

maggiore dotazione di capitale per addetto cresce a ritmo più lento fino a crescere solo per effetto dell’aumento demografico .

La crescita dipende dal tasso di arretratezza relativa.Il fatto che i Paesi più avanzati non abbiano sperimentato un rallentamento della

crescita è dovuto al progresso tecnologico. E’ considerato un elemento “esogeno”, cioè accade accidentalmente.

Più arretrato è un Paese (più basso stock di capitale) più rapida è la crescita (catching up)—>riferimento al vantaggio dell’arretratezza di Gerschenkron; nel tempo si ha convergenza del PIL pro capite tra paesi avanzati e paesi arretrati.

New growth theory Il progresso tecnologico è una variabile endogena, considerato come il risultato di

una serie di investimenti da parte delle imprese in R&S o in acquisizione di nuove tecnologie dall’estero.

La crescita dipende dalla dotazione di capitale umano. Assegna un ruolo chiave al capitale umano, all’innovazione, alla conoscenza. La convergenza non è scontata: grazie gli investimenti destinati alla ricerca di

base e alla ricerca applicata e allo sviluppo del capitale umano, i paesi avanzati possono mantenere un considerevole divario rispetto ai paesi meno sviluppati.

Per CONVERGENZA si intende la riduzione del divario nei livelli di reddito pro capite. Il presupposto della convergenza è che il “trasferimento di tecnologia” dei paesi più sviluppati acceleri la fase di crescita dei paesi più arretrati.

Periodizzazione della convergenza. Considerando il periodo 1870-1973, si osservano tre distinti sotto-periodi1. 1870-1913: convergenza moderata; 2. 1913-1950: tendenziale divergenza; 3. 1950-1973: convergenza pronunciata;

Questo perché i trasferimenti di tecnologia avvengono soprattutto in condizioni di liberalizzazione del movimento internazionale dei beni e dei fattori di produzione (capitale, lavoro) e richiedono social capabilities (Abramovitz) che i paesi arretrati non sempre posseggono: istruzione e capitale umano; sistemi finanziari adeguati; infrastrutture efficienti; istituzioni pro-crescita.

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!III. CICLI E FLUTTUAZIONI

Per ciclo s’intende una fluttuazione (ossia un calo) del tasso di crescita di un’economia intorno alla tendenza di lungo periodo, ma non una diminuzione del reddito. Sono stati proposti diversi tipi di cicli.Ciclo di Kitchin: 40 mesi, sostanzialmente coincidente con l’andamento delle

scorte;Ciclo di Juglar: 7-11 anni: recessione-depressione-ripresa-boom;Ciclo di Kuznets: 20 anni;Ciclo di Kondratieff: 50 annima non sono state individuate regolarità costanti.

Perché i cicli importano?Contrazione dei consumi e disoccupazione sono fenomeni socialmente e politicamente difficili da accettare. Illusione monetaria: la gente è più sensibile all’andamento delle grandezze nominali (in particolare i salari) che di quelle reali. In genere le prime tendono a calare se i prezzi diminuiscono, dando una sensazione di crisi anche se la quantità di beni a disposizione (grandezza reale) aumenta.

IV. LE TRASFORMAZIONI STRUTTURALI

Nel lungo periodo la crescita economica nel senso inteso da Kuznets ha provocato profondi cambiamenti strutturali. Uno dei più importanti riguarda la struttura occupazionale, ossia il travaso di forza lavoro dal settore agricolo a quello industriale e dei servizi. La riduzione di occupati nel settore primario è avvenuta più rapidamente nei paesi di più antica industrializzazione. Nei paesi latecomers la trasformazione è stata più lenta a causa della concorrenza estera nel settore industriale. Laddove i settori industriale e dei servizi avevano una produttività maggiore di quello agricolo, il semplice travaso occupazionale è stato fonte di crescita (—>USA 1810-50).

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!6. MONETA E CREDITO

1. Moneta, credito e sviluppo economico1.1 La natura della moneta. La moneta è un mezzo di pagamento che rende irrilevante acquisire informazioni sulla solvibilità dei singoli contraenti, in mercati dominati dall’incertezza sulle condizioni future: la moneta permette così di ridurre i costi di transazione e di informazione connessi alle imperfezioni dei mercati reali. La moneta assolve inoltre un’altra duplice funzione: alla moneta quale misura del valore (o unità di conto) si rapporta il valore di ogni merce espresso in termini di prezzo; la moneta quale riserva di valore conserva potere d’acquisto, nel tempo e nello spazio, consentendo di separare atto di vendita e atto di acquisto. La gestione dei mezzi monetari e creditizi assolve la duplice funzione di poter introdurre nei sistemi economici, da un lato, rigore allocativo e antinflazionistico e, dall’altro, essenziali elementi di flessibilità nei meccanismi di governo della liquidità nelle fasi di deflazione e di crisi dei mercati reali e monetari. Secondo la definizione dell’economista inglese William Petty (XVII secolo) la moneta è il grasso di un corpo politico: un eccesso nella circolazione di moneta nuoce all’agilità di tale corpo, mentre la scarsità lo rende malato, impedendo la regolarità degli scambi. La progressiva monetizzazione dell’economia si impernia sulla propensione a regolare le transazioni mediante strumenti monetari. La monetizzazione segue la crescita della complessità e dell’articolazione delle economie sviluppate. A questo proposito, nei sistemi finanziari le istituzioni, formali e informali, giocano un ruolo preponderante rispetto a quanto avviene negli altri settori dell’economia, quantomeno per l’incidenza dell’accettazione dei mercati e per la dipendenza delle regole dalle decisioni e dalle scelte dei poteri legislativi.

1.2 La crescita delle economie monetarie. L’affermazione delle economie monetarie tra il Cinquecento e il Seicento si legò a tre fenomeni paralleli: 1) l’espansione e la diffusione dei centri urbani; 2) la specializzazione produttiva delle aree rurali e dei centri urbani; 3) la crescita qualitativa e quantitativa dei traffici mercantili. L’evoluzione monetaria non segue una transizione progressiva da un’economia di baratto a un’economia monetaria e, infine, a un’economia creditizia, ma rivela la lunga coesistenza di diversi spazi e circuiti di scambio sia in economie internamente non omogenee, sia tra economie differentemente sviluppate. Durante il Seicento e il Settecento si affermarono tre ambiti di circolazione monetaria: se il circuito dei commerci a lunga distanza si imperniava sulla moneta aurea e si reggeva su un sistema di compensazioni, gli scambi regionali e locali comportavano l’impiego di moneta argentea, mentre gli scambi minuti erano in genere saldati con una moneta divisionale di rame. Inoltre, durante il Settecento si affermarono alcune monete grosse, la sterlina e la livre, come unità di conto. L’offerta di moneta metallica era tuttavia un’offerta anelastica, relativamente rigida, che dipendeva dalle produzioni minerarie, dalle scoperte di nuovi giacimenti e dalle tecniche di sfruttamento. La stabilizzazione monetaria conseguita tra Settecento e Ottocento fu correlata non solo all’espansione della componente monetaria fiduciaria (cartacea e creditizia), con la quale si soddisfarono le aumentate necessità di mezzi di pagamento dell’economia reale, ma anche alla progressiva razionalizzazione dei criteri di emissione e di gestione dei debiti pubblici.

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!La mutata struttura dell’offerta di credito produsse una contestuale modificazione nella quantità e nella composizione dell’offerta globale di moneta, con una dilatazione degli aggregati monetari. L’offerta complessiva di moneta si è andata definendo in termini di aggregati monetari comprendenti la base monetaria (le passività della banca centrale intese come moneta ad alto potenziale) e i depositi bancari a vista, lo stock di moneta e tutti i tipi di depositi, e dai titoli di stato a breve scadenza.

2. Nascita ed evoluzione della banca centrale2.1 Funzioni della banca centrale. Le prime banche di emissione europee vennero create per emettere banconote e gestire una parte del debito pubblico (funzioni macroeconomiche). Esito di un intervento dello stato, le banche di emissione si trasformarono soltanto successivamente, tra Ottocento e Novecento, in banche centrali assumendo la responsabilità duplice di governare l’offerta di moneta fiduciaria e garantire la stabilità dei sistemi bancari. Le maggiori banche centrali acquisirono, gradualmente, gli strumenti operativi essenziali della politica monetaria: a) il tasso ufficiale di sconto; b) la gestione delle riserve; c) le operazioni di mercato aperto in titoli di stato. La banca centrale assolve funzioni macroeconomiche e microeconomiche. Le funzioni macroeconomiche connesse all’offerta di moneta, di cui si è detto, si enuclearono e si precisarono durante la prima metà dell’Ottocento in Gran Bretagna e Francia. Le funzioni microeconomiche di garanzia della stabilità emersero invece lentamente, in genere a seguito delle ripetute crisi di fiducia che nell’Ottocento provocarono fallimenti bancari a catena compromettendo sia il credito sia la regolarità dei pagamenti. Durante le crisi di fiducia le banche di emissione assunsero, a poco a poco, il ruolo di prestatore di ultima istanza (lender of last resort) a favore dei rispettivi sistemi bancari. La funzione di lender of last resort assolta dalle banche di emissione ne fece non tanto semplici banche tra le banche, ma ne definì piuttosto la centralità all’interno dei sistemi creditizi in qualità di banche delle banche. Storicamente, l’istituzione banca centrale, intesa come razionalità collettiva dei mercati, si forma nell’ultimo terzo dell’Ottocento sulla scorta dell’esperienza che le principali banche di emissione europee trassero dalle crisi finanziarie. Le sole esperienze storiche di free banking (libertà di emissione di moneta fiduciaria convertibile in moneta merce da parte di banche in concorrenza) della Scozia e degli Stati Uniti, a seguito di ripetute crisi, si sono evolute verso un sistema meno instabile o per un processo legislativo complesso conclusosi con la costituzione di una banca centrale (negli Usa la Federal Reserve fu istituita nel 1913).

2.2 Alle origini delle banche centrali: la Banca d’Inghilterra. L’“arte di risparmiare oro” mediante l’adozione di banconote e di strumenti di credito cartacei fu paragonata da Smith e Thornton alle innovazioni tecnologiche della rivoluzione industriale: l’impiego delle banconote e la formazione di un mercato nazionale delle cambiali furono riguardati come la sostituzione di macchinari che consentivano di produrre a costi minori e di offrire quindi merci a prezzi inferiori.La Banca d’Inghilterra fu costituita nel 1694 come società con personalità giuridica autonoma in risposta alle esigenze di raccolta immediata di risorse di cui la corona necessitava per finanziare la guerra che Guglielmo III combatteva contro Luigi XIV. La banca ricevette una serie di privilegi: per oltre un secolo fu l’unica a responsabilità limitata e l’unica società per azioni autorizzata ad emettere banconote in Inghilterra.

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!Essa ottenne, inoltre, la custodia esclusiva dei fondi di cassa del governo, un privilegio connesso alle successive concessioni di credito e alla creazione di un debito pubblico nazionale. In Francia agli inizi del Settecento lo scozzese John Law si fece promotore di una radicale riforma delle finanze francesi che permettesse di ristrutturare il debito dello stato sia di attuare una politica monetaria espansiva a sostegno dell’economia attraverso l’offerta di credito bancario. Con la creazione della Banque Royale, Law riuscì a realizzare un articolato sistema finanziario fondato sui monopoli dell’emissione, dell’esazione delle imposte dirette assegnata alla Ferme Gènèrale e dei commerci transoceanici gestiti dalla Compagnie des Indes. Ne seguì un forte moto speculativo sulla scorta delle aspettative di un rialzo dei corsi delle azioni delle tre società di Law, culminato in un drastico crollo delle valutazioni dei titoli. Un altro serio colpo alla fiducia dei francesi nella moneta cartacea fu arrecato durante la Rivoluzione dall’inflazione causata dalle eccezionali emissioni di assegnati (assignats), i biglietti rappresentativi di specifici terreni demaniali. La Banca di Francia venne costituita da Napoleone nel 1800 con l’obiettivo di avere un canale di finanziamento privilegiato della spesa dello stato allora impegnato in una lunga guerra. Nel 1848 la Banca di Francia approfittò della grave crisi di fiducia connessa agli avvenimenti politici e decise di non sostenere le banche regionali di emissione riscontandone il portafoglio cambiario e si annetté numerose banche dipartimentali. Essa assunse il monopolio dell’emissione sull’intero territorio nazionale.Negli Stati Uniti con il Bank Act del 1863 fu ridefinito il quadro istituzionale della struttura bancaria americana. Gli Stati Uniti rimasero senza una vera banca centrale sino all’approvazione del Federal Reserve Act: dopo la grave crisi del 1907 si affermò infatti l’idea di creare un sistema decentrato di banche centrali in armonia con la struttura federale degli Stati Uniti. Nel 1913 fu infine istituito il Federal Reserve System, composto dalle banche della riserva federale con il compito di fornire una moneta elastica, per offrire gli strumenti per riscontare gli effetti commerciali, per stabilire un controllo più efficace dell’attività bancaria. Le banche associate furono tenute a detenere una parte delle loro riserve sotto forma di depositi presso la Federal Reserve, con l’effetto di ridurre il rapporto tra i depositi e le riserve del sistema bancario e di attenuare la distinzione tra le banche nazionali e le altre banche.

3. Banche centrali e crisi finanziarie3.1 Il periodo precedente la prima guerra mondiale. Le banche centrali europee tentarono di assolvere la propria funzione macroeconomica di regolazione delle variabili monetarie ancorandosi alla parità aurea, nella convinzione di poter regolare l’emissione fiduciaria e stabilizzare la dinamica dei prezzi attraverso un meccanismo a lungo ritenuto automatico (gold standard). Negli ultimi decenni dell’Ottocento il tasso ufficiale di sconto divenne uno strumento di effettiva regolazione della liquidità e dei livelli di attività dei sistemi bancari: la manovra dei tassi ufficiali di sconto permetteva alle banche centrali di preservare le riserve metalliche. Quando la fase di crescita congiunturale dava luogo ad un’espansione creditizia, producendo tensioni sulle riserve, le banche centrali alzavano il tasso ufficiale di sconto riducendo la circolazione fiduciaria e allentando di conseguenza la pressione sulle scorte auree: entro un certo lasso di tempo la manovra della banca centrale si comunicava ai mercati reali, con l’effetto di imprimere un rallentamento alle attività. Allo stesso modo il ristagno dell’economia induceva le autorità monetarie, assistite dalle

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!ricostituzione delle riserve, a ridurre il tasso ufficiale di sconto con l’obiettivo di favorire una ripresa ciclica della produzione e degli scambi. Nella strumentazione tecnica delle banche centrali erano importanti anche le operazioni di rifinanziamento delle banche commerciali. L’ammissione al risconto e le anticipazioni implicavano un giudizio sulla qualità della carta commerciale presentata dagli operatori e nel contempo consentivano alla banca centrale di acquisire informazioni sulle condizioni del credito e dell’economia.Nella seconda metà dell’Ottocento la funzione di lender of last resort svolta dalla Banca d’Inghilterra e la centralità assunta dalla sterlina quale fulcro del sistema monetario aureo nei pagamenti internazionali furono la conseguenza di un secolare processo evolutivo. La stabilità della sterlina e la supremazia delle merchant banks londinesi garantite dalla Banca d’Inghilterra ne fecero il principale centro internazionale di servizi finanziari. La capacità della Banca d’Inghilterra di intervenire a garanzia della stabilità monetaria e finanziaria dipese tuttavia dalla disponibilità delle riserve auree della Banca di Francia, l’effettivo creditore di ultima istanza internazionale dell’Ottocento. Tra il 1870 e il 1914 la relativa stabilità dei principali sistemi finanziari europei, pur soggetti a periodiche crisi di liquidità, venne assicurata in effetti da un patto di reciproca cooperazione tra le maggiori banche centrali. Dopo quasi mezzo secolo di sostanziale autonomia, durante la guerra le banche centrali vennero subordinate, di fatto, alle inedite esigenze di spesa degli stati belligeranti. La guerra fu in genere finanziata dalla crescita del debito pubblico, interno ed estro, e dalla monetizzazione di una parte consistente dei disavanzi. La monetizzazione dei disavanzi pubblici e il parallelo aumento delle emissioni cartacee produssero una forte inflazione fiduciaria. Dopo l’inflazione postbellica, negli anni venti le banche centrali seguirono in genere una politica monetaria deflazionistica, volta a ripristinare condizioni di normalità: da un lato, si impegnarono a compiere il rientro dall’inflazione e dall’altro mirarono a ricostruire il precedente regime di cambi fissi mediante il ritorno all’oro. Dal 1926 al 1931 in Europa fu ripristinato il regime dei cambi fissi incentrato sul gold exchange standard.

3.2 Crisi e recessione. La crisi del 1929 è stata ricondotta a fattori monetari e a fattori reali, a fattori di breve e di lungo periodo: nell’impostazione keynesiana la depressione fu ascritta alla caduta della domanda seguita a un mutamento delle aspettative indotto da una crisi di liquidità a cui le autorità monetarie, rigidamente vincolate ad una politica ortodossa di rispetto della parità aurea, non seppero o non vollero rispondere convenientemente; secondo l’analisi monetarista la crisi fu invece causata da un’inadeguata politica monetaria delle Federal Reserve. Di recente, la crisi è stata riportata all’assenza negli anni venti di un creditore di ultima istanza internazionale e alla mancanza di cooperazione tra le banche centrali. Tra il 1929 e il 1931 la crisi assunse dimensioni internazionali in ragione della rapida trasmissione dell’instabilità finanziaria: l’instabilità fu in breve comunicata dagli Stati Uniti all’Europa dai movimenti dei capitali e dal crollo dei prezzi di prodotti e di servizi trattati nei mercati internazionali, per l’esigenza degli operatori di disfarsi, anche a prezzi cedenti, delle scorte di materie prime e delle attività finanziarie in risposta alla stretta creditizia attuata nell’intento di guidare i movimenti di capitale. Le banche centrali furono chiamate a salvaguardare la stabilità dei sistemi finanziari in un quadro di severa politica monetaria coerente con il mantenimento delle riserve e della parità aurea delle valute.

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!La contrazione delle risorse amministrate dagli istituti di credito non venne compensata da una politica monetaria espansiva delle banche centrali, che tennero ferma la linea restrittiva necessaria alla difesa della parità aurea. Questa politica non poté non aggravare e prolungare la recessione economica e l’instabilità dei sistemi bancari. La politica monetaria restrittiva, il ritiro dei fondi esteri a breve e l’indisponibilità delle banche centrali inglese e francese a fornire crediti fecero precipitare la crisi in Germania e Austria: la crisi fino allora latente si volse in crisi aperta quando la viennese Creditanstalt, collegata ai Rothschild, dovette dichiarare bancarotta, con l’effetto di una drammatica corsa agli sportelli. La crisi si trasmise quindi alla Germania dove la Reichsbank tentava da tempo di arginare la spinta degli operatori a coprire le rispettive posizioni revocando e liquidando i crediti concessi. Nei primi anni trenta un intervento diretto dello stato a sostegno delle banche in crisi fu attuato anche in Italia: la riforma dei mercati mobiliari e la politica monetaria restrittiva connessa alla rivalutazione della lira (Quota 90, 1926) furono in larga parte all’origine di alcuni dissesti bancari minori e delle immobilizzazioni delle maggiori banche miste. Con la costituzione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) del gennaio 1933 e con le convenzioni bancarie del marzo 1934 si procedette a una generale riorganizzazione della struttura finanziaria italiana al fine di smobilizzare la stessa Banca d’Italia, i cui interventi di salvataggio ne avevano fatto, indirettamente, il creditore di ultima istanza di una parte consistente dello stesso sistema industriale. L’intervento dello stato diede alla Banca d’Italia, divenuta istituto di diritto pubblico con la legge di riforma del 1936, un maggiore controllo dell’offerta di moneta e ulteriori poteri di vigilanza sulle aziende di credito. Negli Stati Uniti le autorità monetarie, dopo il repentino crollo a Wall Street dei corsi azionari dell’ottobre 1929, si susseguirono tre ondate di fallimenti bancari: questi furono dovuti al fatto che, malgrado la pronta immissione di liquidità tramite un’operazione di mercato aperto, nei mesi successivi il Federal Reserve Board optò per una restrizione con effetti negativi sulla liquidità delle banche. La politica restrittiva seguita dalla Federal Reserve e la vendita di titoli da parte delle singole banche accentuarono la vendita di titoli da parte delle singole banche accentuarono la deflazione e indebolirono l’intero sistema bancario. Nel 1932, Roosevelt fece approvare il Glass-Steagall Act, una nuova legge che, oltre a sancire la netta separazione tra banche commerciali e banche di investimento, consentiva di ampliare le garanzie accessorie a fronte delle quali la Federal Reserve emetteva moneta e di estendere il sostegno alle banche in difficoltà. Di fronte alla crisi bancaria le autorità monetarie europee e americane si comportarono in maniera non omogenea. Nei casi di maggiore gravità (Germania, Italia e Stati Uniti), la politica monetaria restrittiva delle banche centrali connessa alla conservazione delle riserve metalliche e valutarie costrinse i poteri pubblici a intervenire direttamente, e con nuovi strumenti, in funzione anticrisi. L’intervento delle banche centrali venne concepito non solo in termini anticiclici, ossia di stabilizzazione dei cicli, ma anche come responsabilità istituzionale di governo dell’offerta di moneta e di regolazione dei mercati monetari, valutari e finanziari nella prospettiva di rimuovere i fattori di crisi attraverso la politica creditizia.

4. Le banche centrali dopo la Seconda Guerra MondialeL’autonomia delle banche centrali si ridusse sensibilmente tra i primi anni trenta e la fine degli anni quaranta quando la politica monetaria venne in genere subordinata alle necessità di spesa pubblica degli stati impegnati nella guerra e nella

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!ricostruzione (es. Germania Nazista). Nonostante la disciplina dei prezzi, dopo il 1943 l’espansione fuori controllo dell’offerta monetaria produsse forti spinte inflazionistiche: questo fatto, insieme alla sconfitta e divisione della Germania, segnarono la fine della Reichsbank e la nascita nel 1957 della Deutsche Bundesbank, cui il governo federale della Germania Occidentale affidò la responsabilità prioritaria di garantire la stabilità della moneta. Negli anni cinquanta e sessanta le banche centrali, in genere, furono in grado di conservare la stabilità dei prezzi interni e dei rapporti di cambio delle rispettive valute con il dollaro, la nuova moneta di riferimento per il sistema finanziario internazionale. Dopo la crescita dei prezzi durante la seconda guerra mondiale, la statunitense Federal Reserve dovette fronteggiare le ulteriori spinte inflazionistiche implicite nella tendenza a monetizzare i disavanzi governativi. Nel 1950 la guerra coreana e l’aumento conseguente delle spese fecero acuire il latente conflitto tra il Tesoro e la Federal Reserve sulla prassi della monetizzazione dell’indebitamento pubblico. La ripresa dell’inflazione dal 1965, a seguito delle politiche di spesa pubblica connesse ai programmi sociali e alla lunga guerra in Vietnam, richiese un intervento di razionalizzazione da parte della Federal Reserve: ne discesero la monetizzazione dei disavanzi governativi e la crescita dell’offerta monetaria. Negli anni sessanta la Federal Reserve fu inoltre chiamata a intervenire a sostegno della stabilità del sistema finanziario, mentre i rapporti di cambio andarono progressivamente deteriorandosi, sotto la spinta dei saldi negativi della bilancia dei pagamenti (prezzi USA ↑, import ↑, export ↓), finché nell’agosto 1971 la posizione del dollaro non divenne insostenibile costringendo Nixon a dichiararne l’inconvertibilità.

5. I sistemi monetari: il Gold Standard5.1 Le premesse. L'accentuata segmentazione delle aree monetarie rimase un fattore di instabilità fino ai primi tentativi settecenteschi di riforma, riordino e innovazione. Durante il Settecento si procedette a una lenta stabilizzazione delle monete metalliche, alla diffusione delle prime banconote e alla formazione di un ampio mercato degli effetti cambiari in Gran Bretagna (Londra) e Olanda (Amsterdam). L'esigenza di disporre di monete diverse per transazioni di differenti entità e carattere non venne meno, né si esaurisce la tendenza dei mercati, di fronte a strozzature e restrizioni nelle disponibilità, a individuare strumenti di pagamento non vincolati da controlli che ne irrigidissero l'offerta. Durante il Settecento nei principali stati europei si tentò una stabilizzazione della circolazione monetaria. Le politiche di stabilizzazione tesero a ricostruire, o a definire ex novo, parità monetarie che consentissero di razionalizzare e uniformare le aree di sovranità con riguardo al rapporto tra i prezzi di mercato e i valori di conio di oro e argento. Dopo la coniazione compiuta da Elisabetta, l'Inghilterra pose le basi della prima forma di monometallismo aureo, gold standard, nel 1717, quando il responsabile della zecca Isaac Newton fissò il prezzo dell'oro rispetto a valore della sterlina punto la fissazione della parità aurea di Newton durò fino alla 1931 e comporta un afflusso di oro in Inghilterra è una progressiva di monetizzazione dell'argento.

5.2. Il sistema aureo. Durante le guerre napoleoniche si formarono due grandi spazi monetari, non alternativi ma complementari. Se la Gran Bretagna si orientò in maniera decisa verso l'adozione del monometallismo aureo, la Francia mantenne invece il bimetallismo fissando il rapporto di cambio legale tra oro e argento. Nei primi decenni dell'Ottocento la Gran Bretagna costituiva di fatto un'isola

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!monometallista, dotata di istituzioni finanziarie e monetarie avanzate. La circolazione monetaria francese era essenzialmente incentrata sulla componente argentea, mentre oltremodo limitato era l'uso delle banconote e dei depositi bancari. La lenta transizione a un regime monometallista aureo nel corso del Settecento procedette di pari passo con la diffusione delle banconote e dei depositi bancari come mezzi di pagamento. La convertibilità della sterlina fu sospesa fra il 1790 e il 1821 in ragione dei rischi che la guerra poneva alla conservazione delle riserve della Banca d'Inghilterra. Nel paese si accese un vivace dibattito tra i sostenitori della currency school e gli esponenti della banking school. Gli amministratori della Banca d'Inghilterra, in accordo con la banking school, sostennero che l'emissione di banconote dovesse essere regolata con riferimento alla domanda di mezzi di pagamento da parte della produzione e dei commerci. L'emissione doveva quindi procedere di pari passo con le transazioni effettive in modo tale da evitare un eccesso di offerta, con effetti inflazionistici, rispetto alla reale domanda dei mezzi di pagamento. La riforma di Peel (Bank Act, 1844), oltre ad affidare la stabilità dei prezzi alla pratica della riserva frazionaria, distinse nettamente l'emissione di moneta, come attività particolare, dalle altre attività produttive e distributive sottoponendola a un vincolo restrittivo. Questo speciale vincolo diede alla Banca d'Inghilterra il monopolio delle missioni imponendo allo stesso tempo una politica restrittiva, regolata dai massimali sulle banconote non coperte dalle riserve. In definitiva, un sistema tanto rigido di regolazione dell'emissione doveva in realtà essere violato in ogni momento di crisi per potere essere applicato sul lungo periodo nei momenti di normalità: il tallone aureo non costituiva pertanto un meccanismo automatico, ma rappresentava un sistema di amministrazione dei mezzi monetari e richiedeva un ente, la banca centrale, che si assumesse il governo della moneta. Dagli anni 70 dell'800, il gold standard divenne in realtà un sistema imperniato sulla sterlina. Con il Peel act si assistette all'affermazione del gold standard quale perno essenziale di un sistema monetario internazionale coerente con la crescita dei commerci mondiali, a tal punto che per lungo tempo il tallone aureo fu descritto e inteso dagli economisti come un meccanismo di compensazione quasi automatico degli eventuali squilibri della bilancia dei pagamenti e intimamente legato alle politiche commerciali liberiste in auge nella seconda metà dell'Ottocento. Nei fatti il gold standard era un sistema monetario gestito internamente dalla banca centrale e internazionalmente in forza della cooperazione tra le maggiori banche centrali cui era affidata la gestione delle riserve. Tra il 1870 e il 1914 il gold standard si estese alle maggiori economie, configurandosi in tale modo come un sistema monetario internazionale caratterizzato da stabilità e da un regime di cambi fissi. L'adesione al regime monetario aureo comportava il rispetto di tre regole fondamentali: la fissazione di una parità aurea legale, la possibilità di convertire in oro, a vista e al valore nominale, le banconote e la libera esportazione e importazione dell'oro. Le regole del gioco prevedevano che le singole banche centrali restringessero l'offerta di moneta in caso di deflusso dell'oro e che l'ampliassero in caso di afflusso. Il flusso di oro avrebbe infatti ridotto l'offerta di moneta e provocato una conseguente caduta dei prezzi, mentre l'ascesa dei prezzi nei paesi verso cui loro fossero influito ne avrebbe segnato la perdita di competitività con l'effetto di invertire il ciclo di afflusso e deflusso di oro determinando un mutamento nell'andamento dei prezzi e un quasi parallelo riequilibrio della bilancia commerciale.

6. Dal Gold Exchange Standard alla crisi di Bretton Woods

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!6.1 Il “Gold Exchange Standard”. Ancora prima della crisi dell'agosto 1914 il sistema aureo mostrava segni di cedimento. Lungi dall'essere un meccanismo automatico, con la fine della cooperazione tra le banche centrali e la sospensione della convertibilità imposta dalla guerra il gold standard si rivelò come il risultato di esili equilibri conseguiti attraverso una politica monetaria adeguata. Nonostante la sospensione della convertibilità e l'introduzione dei controlli sui cambi e sulle esportazioni di oro, in alcuni casi la prima guerra mondiale non mutò la forma legale di regolazione dell'offerta monetaria. Ciò che la guerra modificò fu piuttosto la situazione della bilancia commerciale e dei pagamenti dei paesi belligeranti e, di conseguenza, lo stato delle riserve metalliche, in larga parte impiegate per finanziare gli squilibri nei conti con l'estero. Nei primi anni 20 le autorità centrali europee tentarono di stabilizzare i prezzi interni e ricostituire il sistema monetario prebellico con cambi fissi. Tra il 1922 il 1927 furono ripristinate le parità delle principali valute europee intorno ai livelli prebellici. Malgrado i tentativi in tale senso, non fu tuttavia possibile ritornare al sistema aureo nella versione originaria. Le difficoltà a ricostituire il sistema di cambi fissi derivavano anzitutto dalle modalità di finanziamento della guerra, con il fardello della di inflazione, dell'abnorme indebitamento pubblico e dei debiti Inter alleati. Ma fattori di instabilità e squilibrio erano impliciti anche nell'imposizione alle potenze sconfitte di elevate riparazioni di guerra. Il caso estremo di aumento dei prezzi fu rappresentato dall'iperinflazione tedesca. L’iperinflazione venne fermata da una riforma monetaria che introdusse il Rentenmark: il marco aveva infatti cessato di assolvere le funzioni di unità di conto e di riserva di valore poiché l'aumentata velocità di circolazione rendeva impossibile fissare stabilmente i prezzi la cui variazione avveniva più volte al giorno. La Reichsbank smise di emettere marchi e la Rentenbank assunse il carico della circolazione a un cambio di un miliardo di marchi per un Rentenmark. Nei primi anni 20 fenomeni inflazionistici e forti svalutazioni si registrarono anche in Austria, Cecoslovacchia, Polonia Ungheria, Bulgaria, Romania e nei paesi sudamericani. Dopo la stabilizzazione dell'Austria e della Cecoslovacchia, anche in vista di obiettivi politici, tra il 1924 e il 1928 la Società delle Nazioni concesse vari prestiti per la stabilizzazione della Polonia, dell'Ungheria e della Bulgaria. L'obiettivo dei prestiti internazionali ai paesi dell'Europa centrale e orientale era intimamente connesso alla ricostruzione della normalità prebellica attraverso il tallone aureo e la creazione di una rete di banche centrali autonome. Nonostante il parere contrario di Keynes e di altri economisti, il Cancelliere dello Scacchiere Winston Churchill decise di ripristinare la parità prebellica della sterlina con l’oro alla fine del 1925, imponendo per tale via una politica deflazionistica non solo alla Gran Bretagna ma anche alle altre maggiori economie industriali e alle economie extra europeo collegate. Nei paesi con alta inflazione, Francia, Belgio e Italia, la produzione e l'occupazione aumentarono sulla spinta della crescita della domanda esterna e interna in ragione della maggiore competitività internazionale conseguita attraverso la svalutazione valutaria che favoriva le esportazioni e riduceva le importazioni. Di contro, nei paesi con ridotta inflazione (Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Svezia, Olanda, Norvegia, Danimarca e Giappone), produzione e occupazione risentirono negativamente del l'apprezzamento valutario. La crisi bancaria tedesca dell'estate del 1931 mise a nudo le fragilità intrinseche del gold exchange standard, costringendo le autorità centrali inglesi a sospendere la convertibilità della sterlina. Nell'economia mondiale si formarono rapidamente tre gruppi di paesi: un primo dell'area della sterlina legato alla Gran Bretagna, un secondo dell'Europa centrale isolato da restrizioni e controlli

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!e valutarie (Stati Uniti, Francia, Belgio, Olanda, Italia e Svizzera). Laddove furono perseguite politiche monetarie restrittive la durata e intensità della crisi furono maggiori.

6.2 Bretton Woods e la ricostruzione del sistema monetario internazionale. Malgrado i tentativi di finanziare le spese belliche con l’aumento dell’imposizione fiscale, alla fine della seconda guerra mondiale la circolazione monetaria era cresciuta in Europa con effetti altamente inflazionistici sui livelli dei prezzi. Lo studio di un nuovo sistema monetario internazionale da realizzare a guerra finita era iniziato nell’estate 1941. Nel corsi di quell’anno, John M. Keynes redasse un programma relativo a una International Clearing Union e Harry D. White venne incaricato dal Tesoro americano di redigere la proposta per un sistema di stabilizzazione che favorisse gli aiuti interalleati e costituisse la base di un sistema monetario internazionale per il dopoguerra. Nel 1942 le proposte di Keynes e White furono prese in esame dalle autorità di governo statunitensi e britanniche. Le proposte concordavano sulla necessità di stabilizzare i cicli economici e di introdurre meccanismi di controllo della liquidità internazionale mediante la cooperazione all’interno di un organismo sovranazionale. Dopo modifiche e revisioni, i piani di Keynes e White si confrontarono sulla valuta di riferimento: per i saldi tra le banche centrali l’inglese propose di creare una valuta internazionale denominata in oro, il bancor, mentre l’americano sostenne la formazione di un paniere di valute esistenti legate all’oro. Gli accordi di Bretton Woods del luglio 1944, realizzando un sistema di cambi fissi e di saldi valutari multilaterali, resero necessaria la costituzione di due organismi internazionali: l’International Bank for Reconstruction and Development (World Bank) e l’International Monetary Fund (IMF). Nella fissazione dei tassi di cambio si prevedeva che i rapporti in linea di principio fissi potessero venire aggiustati in particolari condizioni. Secondo lo schema originario i paesi in difficoltà valutarie avrebbero potuto richiedere all’IMF di accedere alle riserve presso un fondo creato con i contributi obbligatori degli stati membri. La passività dell’IMF fece scivolare il sistema dei cambi dall’originaria stabilità relativa dei tassi alla stabilità in senso assoluto derivante dall’autonoma fissazione dei rapporti di cambio da parte dei singoli stati membri. La trasformazione dei sistema in gold-dollar standard richiedeva che gli Stati Uniti, e quindi il dollaro, mantenessero la centralità economica e politica acquisita, laddove la bilancia dei pagamenti americana continuava a deteriorarsi. Negli anni sessanta, infatti, aumentarono i dubbi sulla capacità delle autorità centrali americane di mantenere un adeguato rapporto tra riserve auree e base monetaria. Nonostante le misure restrittive prese dagli Stati Uniti all’esportazione di capitali, le difficoltà del sistema monetario internazionale emersero in termini evidenti. La corsa speculativa verso l’oro, sollecitata dalla scelta di De Gaulle di convertire in oro le riserve in dollari, rese insostenibili gli interventi dei paesi del Gold Pool sui mercati internazionali per tenere il corso dell’oro intorno al tasso ufficiale. Nell’agosto 1971 il presidente statunitense Richard Nixon, incalzato dalla speculazione e dall’ulteriore deterioramento della bilancia dei pagamenti, dichiarò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro ponendo fine al sistema di cambi fissi di Bretton Woods. La decisione unilaterale di Nixon, con la svalutazione del dollaro, impresse una spinta alla competitività delle merci americane e permise di riassorbire una quota della crescente disoccupazione. Il tentativo di legare i rapporti di cambio delle valute europee in un “serpente monetario” perseguito dalle autorità europee, invece, era destinato a fallire di fronte alle esigenze di elasticità implicite nelle politiche

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!espansive a sostegno dei redditi e dell’occupazione seguite da alcuni stati: ciò contribuì a diffondere i tassi di cambio fluttuanti.

CAPITOLO 7 - L’EVOLUZIONE DEI SISTEMI FINANZIARI

1. LE STRUTTURE FINANZIARIE E LO SVILUPPO ECONOMICO

Lo sviluppo economico produce una distinzione tra i centri di formazione del risparmio (es. famiglie) e i centri di decisione degli investimenti (le imprese, lo stato).

Le istituzioni e le strutture d’intermediazione finanziaria devono la loro nascita proprio alla necessità di raccordare i centri di risparmio e d’investimento. Si pensi, per esempio, al ruolo del banchiere: egli deve giudicare il merito di credito (e le prospettive) di richiedenti che possiedono informazioni cui gli offerenti non possono accedere se non affrontando costi di ricerca molto superiori rispetto ai benefici. Il banchiere deve quindi:

a) acquisire e restituire informazioni al sistema;b) negoziare contratti;c) assicurarsi il successivo rispetto attraverso un’azione di monitoraggio.

Tra il Settecento e l’Ottocento, l’evoluzione delle economie più avanzate, si concretizzò proprio nel processo di progressiva specializzazione dei soggetti che detengono attività e dei soggetti che emettono passività finanziarie.

Raymond W. Goldsmith mostra, a tal proposito, l’esistenza di una correlazione positiva – definita “rough parallelism” tra lo sviluppo delle sovrastrutture finanziarie e la crescita dell’economia reale. Il modello di John G. Gurley e Edward S. Shaw sostiene che le strutture finanziarie si limiterebbero a seguire la crescita dell’economia reale adeguandosi alle esigenze espresse dagli operatori. Rondo Cameron distingue tre casi nazionali: i sistemi finanziari possono aver assolto una funzione positiva, una funzione neutrale o anche una funzione negativa rispetto allo sviluppo economico. Un ruolo positivo è assegnato da Alexander Gerschenkron alla banca quale fattore sostitutivo delle insufficienti forze di mercato nei processi di industrializzazione dei paesi a sviluppo tardivo.

In linea di massima si può dire che i mutamenti e le innovazioni istituzionali nelle strutture finanziarie giocarono un ruolo positivo nell’assicurare risorse alle economie in crescita.

Goldsmith, nelle sue analisi, individua una serie di regolarità nell’evoluzione dei sistemi finanziari che accompagnano lo “sviluppo economico moderno”: a) l’insieme delle attività finanziarie crescono a ritmi superiori rispetto alla ricchezza nazionale; b) tra le attività finanziarie crescono quelle emesse dagli intermediari; c) prima aumenta

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!il rapporto tra moneta circolante e ricchezza, rapporto che diminuisce in una fase successiva; d) il sistema bancario si riduce progressivamente a favore degli intermediari non bancari; e) i sistemi finanziari tendono all’articolazione verso forme complesse e verso una graduale specializzazione funzionale degli intermediari; f) l’istituzionalizzazione delle forme di risparmio riduce i costi di acquisizione dei capitali finanziari, favorendo l’accumulazione dello stock complessivo di capitale.

Il modello, tuttavia, presenta alcuni limiti. Infatti, per Goldsmith, le linee evolutive dei sistemi finanziari dei paesi con diversi livelli di sviluppo economico sono le medesime; i casi storici mostrano invece evidenti elementi di differenziazione di carattere istituzionale e organizzativo nei sistemi bancari nazionali. Inoltre egli non considera il ruolo dello stato e delle autorità centrali nella formazione e nella gestione dei sistemi finanziari (vedi Francia, Germania e Italia, dove l’intervento dei poteri pubblici fu rilevante nella gestione dei sistemi finanziari).

2. LE STRUTTURE FINANZIARIE: UNA TASSONOMIA

Alla fine dell’Ottocento le principali economie non avevano ancora raggiunto la piena realizzazione di un mercato nazionale dei capitali, nonostante si fosse raggiunta, in alcuni casi, un’integrazione geografica e settoriale.

L’evoluzione storica dei sistemi finanziari dei paesi sviluppati ha sancito la nascita di due modelli alternativi di organizzazione: da un lato, i sistemi finanziari dei paesi anglosassoni, caratterizzati da una struttura market-oriented, dall’altro, i sistemi finanziari dell’Europa continentale e quello giapponese definiti bank-oriented.

I sistemi finanziari market-oriented (orientati ai mercati) prediligono, come principale fonte di finanziamento per le imprese, i mercati; mentre gli intermediari finanziari assumono tratti operativi di forte specializzazione. Nei sistemi finanziari bank-oriented (orientati agli intermediari) prevale invece il credito bancario quale canale di finanziamento esterno delle imprese e predomina la despecializzazione degli intermediari bancari.

L’efficienza e il livello di stabilità dei diversi sistemi finanziari devono essere ricondotti alle effettive condizioni economiche e istituzionali.

3. I SISTEMI FINANZIARI ORIENTATI AI MERCATI (“MARKET-ORIENTED”)

Come accennato, nei paesi anglosassoni prevalsero sistemi finanziari “market-oriented”.

Il motivo è che il finanziamento dell’industrializzazione inglese non richiese massicce mobilitazioni di risorse nel breve termine, ma fece perno su un processo di accumulazione di lungo periodo, con investimenti graduali in settori a ridotta intensità di capitale fisso in cui era prevalente l’autofinanziamento delle imprese. Lo sviluppo

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!di un mercato dei titoli pubblici tra il Settecento e l’Ottocento favorì poi il ricorso a finanziamenti esterni mediante l’emissione di azioni e obbligazioni sui mercati. Negli Stati Uniti la crescita dei mercati finanziari dipese in larga misura dalle politiche delle autorità monetarie, sia dopo la guerra di secessione sia nei primi anni trenta, quando si separarono banca e industria e si favorirono così le attività di intermediazione.

In Gran Bretagna, almeno fino alla fine dell’Ottocento, l’assetto delle strutture finanziarie fu in linea con le limitate necessità di credito; infatti le imprese della prima industrializzazione avevano dimensioni contenute, capitale fisso modesto e tecnologie facilmente accessibili. Le banche poterono dunque facilmente sostenere il processo di accumulazione, assumendo una funzione centrale nell’assicurare capitale di esercizio e commerciale.

In Inghilterra il Bubble Act (1720) impose notevoli limitazioni alla costituzione di società per azioni, rallentando notevolmente lo sviluppo di un moderno sistema bancario.

Nel ‘700 le “country banks” (banche provinciali) vissero una crescita tumultuosa a causa dell’ingente domanda di servizi di intermediazione, della necessità di depositare fondi e dell’insufficienza di moneta metallica per i pagamenti. Il ruolo delle country banks fu importante nell’assicurare ai settori in via di industrializzazione i capitali e i mezzi di pagamento necessari.

La struttura di un sistema bancario su base nazionale fu favorita dall’azione legislativa; dapprima, nel 1826, con l’approvazione di una legge che consentiva la costituzione di banche come società per azioni (joint stock banks) al di fuori di un raggio di 65 miglia da Londra e poi, nel 1833, con una nuova legge che autorizzava la costituzione di joint stock banks anche a Londra, a condizione che non emettessero banconote. Negli anni cinquanta la struttura del sistema finanziario inglese assunse la classica forma piramidale con ai vertici la Banca d’Inghilterra con compiti di supervisione del sistema e ai livelli inferiori i banchieri privati e i merchant bankers.

In Scozia il sistema bancario fu estremamente dinamico e innovativo; ciò permise di mobilitare e anticipare risorse a sostegno di un accelerato processo di industrializzazione. Da un unico istituto di emissione privilegiato, la Bank of Scotland, si giunse a un sistema bancario nazionale articolato in una dozzina di banche costituite come società per azioni. Grazie alla favorevole legislazione scozzese le banche poterono sviluppare un’estesa rete di filiali e rendere le regioni settentrionali dell’isola all’avanguardia nei servizi bancari. Tutte queste innovazioni organizzative e operative resero le banche un importante fattore di sostegno allo sviluppo industriale scozzese.

Anche negli Stati Uniti, dove il sistema finanziario era in prevalenza orientato ai mercati, il ruolo degli intermediari non fu secondario. Sino alla metà dell’Ottocento il sistema bancario fu un sistema di free banking, contraddistinto da una marcata segmentazione e da un forte atomismo. Con i due “National Currency Acts” del 1863 e del 1864 l’elevata segmentazione territoriale fu limitata e fu favorita la mobilità di

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!capitali sui mercati interbancari; inoltre fu creato il sistema delle banche nazionali che erano obbligate a investire una parte del capitale in titoli del governo federale, titoli che potevano servire da riserva dell’emissione di banconote. Nei decenni centrali dell’Ottocento, uno stimolo significativo alla crescita industriale fu conferito soprattutto dalle piccole e medie banche locali attraverso finanziamenti a industriali e commercianti legati alle banche da relazioni di partecipazione ed affari.

La centralizzazione dei mercati dei titoli a New York, alla fine dell’Ottocento, fece dello Stock Exchange di Wall Street la principale borsa nazionale. La crescita dei volumi di azioni trattati dipese in larga parte dall’affermazione di intermediari specializzati, le investment banks, che dominarono la scena finanziaria di fine Ottocento.

4. I SISTEMI FINANZIARI ORIENTATI AGLI INTERMEDIARI (“BANK-ORIENTED”)

Nei sistemi finanziari “bank-oriented” la borsa è scarsamente sviluppata e poco o per nulla efficiente. Le imprese ricorrono a intermediari tendenzialmente despecializzati nella provvista dei fondi esterni, con preferenza per i rapporti di lungo periodo con la medesima banca. Fino alla crisi dei primi anni trenta nei sistemi bank-oriented prevalse la banca mista (istituzione caratterizzata da stretti legami con le imprese industriali), e solo in seguito le autorità centrali ridefinirono la struttura dell’offerta introducendo una marcata specializzazione degli intermediari. Dalla crisi emersero tre nuovi tipi di istituzioni finanziarie: le banche di credito ordinario, gli istituti di credito speciale e le holding pubbliche. L’evoluzione dei sistemi orientati agli intermediari rivela una molteplicità di casi nazionali del tutto originali.

In Francia le maggiori innovazioni finanziarie si ebbero durante il Secondo Impero, quando si affermarono le banche in forma di società per azioni. Una di queste, il “Crédit Mobilier”, costituita dai fratelli Pereire, si fece promotore di molte imprese ferroviarie, industriali, minerarie, assicurative, immobiliari e bancarie, sia in Francia che all’estero, sopravvivendo però sino alla crisi di liquidità del 1867.

Gli investimenti di lungo termine non provennero però dalle nuove banche; spesso erano il frutto della capacità di autofinanziamento delle stesse imprese o provenivano da risparmiatori privati e dalle facilitazioni dei fornitori. Inizialmente il sistema bancario francese era articolato nella Banca di Francia, in un gruppo di grandi banche nazionali e in un nucleo ristretto di banche d’affari impegnate nelle operazioni in titoli pubblici e nei finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese industriali partecipate. Alla fine della seconda guerra mondiale De Gaulle nazionalizzò la Banca di Francia e le prime quattro banche di credito ordinario (il Crédit Lyonnais, la Société Générale, il Comptoir National d’Escompte e la Banque Nationale puor le Commerce et l’industrie). Tra il il 1945 e il 1965 il sistema bancario fu sottoposto a rigidi controlli amministrativi e il settore fu regolato da accordi di cartello.

In Germania il sistema nazionale prese avvio dopo la metà dell’Ottocento con la creazione delle prime banche miste per azioni. In Germania la banca mista svolse

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!un ruolo centrale nel finanziare i settori industriali ad alta intensità di capitale. Se la banca universale aveva mosso i primi passi in Belgio e in Francia, fu solo in Germania che riuscì a dispiegare interamente le ampie potenzialità di agente sostitutivo delle ampie potenzialità di agente sostitutivo delle spontanee forze di mercato nei processi di sviluppo industriale di lungo periodo. La banca mista tedesca, la Kreditbanken, diede un contributo significativo all’industrializzazione tedesca della seconda metà dell’Ottocento in termini di apporto di risorse materiali e sotto il profilo dell’allocazione di capacità imprenditoriali e competenze organizzative. Le maggiori banche miste, le Grossbanken, acquisirono alla fine dell’Ottocento posizioni di notevole potere tanto da assumere in diversi casi il controllo delle imprese finanziate.

In Italia, all’indomani dell’unificazione politica, gli istituti di credito mobiliare - il Credito Mobiliare e la Banca Centrale - contribuirono a finanziare la costruzione delle infrastrutture, mentre le banche miste assolsero una funzione fondamentale nella formazione delle imprese nei settori capital intensive della seconda rivoluzione. Le banche miste fornivano alle imprese crediti a breve termine che poi venivano rinnovati e rinegoziati alla scadenza e curavano le emissioni dei titoli delle imprese collegate.

Dopo la prima guerra mondiale una severa crisi di riconversione costrinse le autorità monetarie a intervenire in salvataggi e risanamenti industriali e bancari. Negli anni venti le autorità attuarono una riforma solo parziale, volta a integrare la struttura dell’offerta di credito con la creazione di istituti pubblici di credito speciale. Dopo la seconda guerra mondiale si affermò una prassi di derogazione ai vincoli sugli attivi degli istituti di credito ordinario senza che insorgessero immobilizzazioni o squilibri significativi. La struttura finanziaria italiana che emerse dalla riforma degli anni trenta impose una rigida specializzazione degli intermediari, senza favorire però lo sviluppo di mercati borsistici complementari, dando vita ad un sistema ibrido che ebbe effetti negati sullo sviluppo delle imprese.

In Giappone la storia dell’economia ebbe avvio con la riforma Meiji, con un’importante modernizzazione delle strutture economiche e finanziarie. Negli anni ottanta dell’Ottocento fu costituita la Banca del Giappone che divenne il fulcro della nuova struttura finanziaria e le riforme attuate dal ministro delle finanze Matsukata adeguarono il sistema finanziario nipponico a quelli dei paesi industriali occidentali. Ne conseguì una struttura finanziaria articolata, orientata prevalentemente agli intermediari. Fu favorita la nascita degli “zaibatsu” (gruppi di imprese diversificate controllate da poche grandi famiglie) che permise la compenetrazione dei gruppi industriali e degli intermediari finanziari.

Nella seconda metà degli anni venti la stagnazione economica e il fallimento di numerose imprese produssero una grave crisi, inducendo le autorità pubbliche a rivedere la normativa bancaria. L’intervento frequente della Banca del Giappone a sostegno delle banche in crisi aveva sì attenuato l’instabilità finanziaria, ma aveva anche favorito comportamenti di moral hazard negli intermediari. Dopo la seconda guerra mondiale la ricostruzione e il rilancio dell’economia giapponese furono

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!finanziate mediante una divisione dei ruoli tra il sistema bancario e lo stato: le banche finanziarono a bassi tassi di interesse i settori in forte espansione, mentre lo stato sostenne i settori interessati da processi di ristrutturazione. La grande ripresa e la crescita industriale degli anni cinquanta-settanta furono finanziate in particolar modo dalle istituzioni di credito ordinario, con crediti formalmente a breve termine.

5. LA FINANZA INTERNAZIONALE: INVESTIMENTI ESTERI E TRASFERIMENTI DI CAPITALE

Lo sviluppo delle attività e dei sistemi finanziari è principalmente frutto dell’esigenza di relazioni commerciali con l’estero e dell’opportunità di investire a condizioni di tasso migliori rispetto a quelle dei mercati interni. L’efflusso di capitali può avvenire o attraverso investimenti di portafoglio, cioè quando si acquistano titoli pubblici o privati, oppure sotto forma di investimenti diretti, nel caso in cui si realizzino infrastrutture, impianti produttivi e strutture di servizi all’estero. Nello sviluppo dell’industrializzazione inglese, ad esempio, fondamentale fu l’apporto di capitali olandesi: nel corso del Settecento circa i due terzi degli investimenti furono finanziati attraverso le risorse interne, mentre l’un terzo rimanente provenne principalmente dall’importazione di capitali esteri. Nel corso dell’Ottocento la posizione relativa delle economie mondiali subì delle variazioni. La Gran Bretagna divenne creditore netto alla conclusione dell’industrializzazione, nei primi anni dell’Ottocento, raggiunte capacità produttive e di risparmio maggiori degli altri paesi; la Francia si trasformò da debitore a creditore netto più tardi, intorno agli anni cinquanta; mentre la Germania iniziò a esportare capitali all’esterno dagli anni settanta-ottanta. Dopo le guerre napoleoniche i mercati finanziari olandesi iniziarono il loro declino, lasciando spazio ai mercati della City di Londra, le cui transazioni in titoli e merci erano gestite dalle grandi merchant banks. Durante i primi anni del Novecento la situazione conobbe una nuova inversione con gli Stati Uniti che si trasformarono da paese debitore in paese creditore netto, potendo sfruttare il deterioramento della posizione della Gran Bretagna che nel corso della Grande Guerra dovette ritirare gran parte dei propri investimenti a lungo termine all’estero. Ciò segnò l’avvio della graduale perdita di ruolo della sterlina quale valuta di riferimento internazionale e l’inizio dell’avvento del dollaro. Attraverso gli investimenti esteri i paesi esportatori ampliavano le opportunità di profitto delle istituzioni finanziarie e dei risparmiatori nazionali e estendevano i mercati di sbocco delle imprese sotto il profilo geografico e dimensionale. L’evoluzione dei commerci internazionali fece inoltre sviluppare i grandi centri finanziari internazionali (Londra e Parigi) e rese necessari mercati organizzati e istituzioni che attuassero i trasferimenti valutari e regolassero le transazioni. I fenomeni regressivi e recessivi degli anni trenta e quaranta determinarono una temporanea interruzione delle transazioni finanziarie internazionali, che ripresero negli anni cinquanta e sessanta con l’intervento di ricostruzione dei mercati mondiali attuato dagli organismi dell’ “Imf” e della “World Bank”: gli investimenti all’estero crebbero a ritmo costante fino ai primi anni settanta; nel frattempo gli Stati Uniti divennero il maggior creditore sui mercati finanziari internazionali e i suoi investimenti all’estero assunsero una quota senza pari.

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CAPITOLO 9 - I TRASPORTI E LE COMUNICAZIONI

La teoria che fa del mercato il propulsore e il regolatore del sistema economico, cominciò ad essere elaborata proprio quando si compiva quella rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni che nei decenni centrali dell’800 trasformò il tradizionale rapporto dell’uomo con lo spazio e le dimensioni stesse del pianeta. Gli operatori economici riuscivano a comunicare in tempo reale tra le opposte sponde dell’atlantico, a trasportare merci e persone su grande scala a costi e tempi decrescenti, mentre una miriade di consumatori poteva entrare in contatto con una miriade di produttori. Il concetto di concorrenza perfetta è dunque frutto della rivoluzione dei trasporti e dell’elettricità (poi oligopolio). Per i primi neoclassici il trasporto costituisce attività produttiva perché sposta beni abbondanti in un luogo, in un’altra località in cui scarseggiano accrescendone l’utilità marginale. In effetti quando diventa mezzo di trasferimento dei fattori della produzione e di distribuzione di prodotti finiti, su distanze prima impensabili, esso “cessa di essere uno strumenti mercantile di scambio e diventa parte, ed una parte rilevante, dei mezzi di produzione. Più recentemente su è attribuita al trasporto una funzione attiva e una passiva; quella passiva è connessa al trasferimento spaziale di beni e persone, quella attiva concerne la sua capacitò di promuovere lo sviluppo. Un sistema di trasporto efficiente riduce i costi di transazione (funzione passiva) ma in tal modo libera risorse che possono essere destinate ad altri consumi, sostenendo la crescita economica (funzione attiva). Il costo di trasporto è un ostacolo alla circolazione dei beni: una barriera protettiva che consente di spostare merci tra luoghi con costi di produzione. La scala geografica entro cui lo scambio può svolgersi si amplia via via che la tecnologia riduce quel costo. Non va infine dimenticato che, in termini fisici, lo spostamento di un peso è lavoro meccanico, cioè un’attività che, per antonomasia, richiede energia.2. Le prime civiltà furono fluviali perché irrigazione e fertilizzazione dei suoli favorirono il passaggio all’agricoltura, e perché la possibilità di portare sul fiume ciò che prima bisognava andare a cercare favorì sedentarizzazione e sviluppo dei primi insediamenti urbani. Zattere e natanti erano spesso costruiti per il solo viaggio verso valle e poi venduti con il carico; ove le condizioni lo permettevano le merci dirette a monte erano ben diverse, per peso specifico valore intrinseco, da quelle che scendevano. La minore energia richiesta dal traino sull’acqua condusse a scavare canali per fiancheggiare strade a traffico intenso o superare rapide. Dal XII secolo si svilupparono via terrestri lungo le quali fino al XVII secolo merci preziose e derrate alimentari viaggiavano con non pochi vantaggi rispetto ai rischi della via marittima. I costi di trasporto per t\km (tonnellata per km) si ridussero a un quarto del livello precedente. Il trasporto fluviale costava circa un settimo di quello terrestre e i due sistemi non erano alternativi ma complementari. Gli animali da soma percorrevano 30-50 km al giorno. La navigazione a vela, si affermò su mari circondati da terre. Per mare il costo era un ventesimo di quello su strada dunque un terzo di quello fluviale. Tra 1250 e 1400, nel Mediterraneo numerose innovazioni determinarono quelle rivoluzione nautica medievale che consentì di navigare tra Gibilterra e la Manica su rotte sicure evitando l’abbandono invernale dei traffici. Dopo il 1250 tra i mercanti si

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!diffuse la cocca mediterranea dotata di buona capienza, ottima manovrabilità, possibilità di navigare di bolina e operare con equipaggio ridotto e meno esperto.  La caracca raddoppiò la produttività dell’equipaggio rispetto alla cocca ma il vantaggio era solo nominale perché su rotte infide occorreva una ciurma numerosa per difesa. Nei viaggi di esplorazione atlantica si usò la caravella, più piccola ma con caratteristiche nautiche analoghe alla caracca. I Portoghesi trovato il modo di determinare la latitudine, raggiunsero l’origine delle spezie in India accaparrandosi l’interno valore aggiunto nel trasporto tra oceano Indiano ed Europa.  La nave d’elezione per carichi voluminosi e a buon mercato si rivelò il fluyt olandese (flyboat) per muoversi sui bassi fondali ed entrare in estuari e canali. L’incremento dei traffici che ne derivò fu alla base dello sviluppo olandese del XVII secolo; grazie ai minori noi quella marineria poté estendere il raggio d’azione e, ridottisi i rischi della pirateria, accaparrarsi quote crescenti dei traffici mediterranei.3. l’incremento dei traffici marittimi dovuto a riduzione dei costi di trasporto e maggiore sicurezza delle rotte impose l’adeguamento e la modernizzazione dei trasporti interni, mentre l’incremento della popolazione europea accrebbe la domanda di merci voluminose e di scarso valore che si poteva soddisfare solo migliorando la navigazione interna. La costruzione di canali ebbe impulso in Francia ove la Loira fu congiunta con la Senna. Altri canali vennero realizzati nei paesi bassi, Spagna, Germania e Svezia ma il maggior impulso alla navigazione interna si ebbe in Inghilterra: tra il 1660 e il 1749 vi furono oltre duecento provvedimenti del parlamento per il miglioramento delle vie di comunicazione interna. Le canalizzazioni in genere su brevi tratti, erano promosse da imprenditori locali su licenza parlamentare: si trattava di iniziative spontanee spesso mal coordinate, lontane dagli interventi mercantilistici che caratterizzarono gli altri paesi europei. I primi canali univano le miniere di carbone ai mercati e non presentarono rilevanti problemi costruttivi. In assenza di finanziamenti pubblici furono seguiti nel modo più economico, aggirando gli ostacoli naturali per evitare opere costose.Negli USA ove le strade erano pressoché inesistenti e i fiumi scendevano da nord a sud mentre le direttrici della colonizzazione andavano da est a ovest, l’opera più rilevante fu il sistema di canali Erie che, con 72 chiuse, collegò i grandi laghi al porto di NY via Albany e fiume Hudson. L’investimento interamente sopportato dallo stato di NY a vantaggio del proprio porto, fu molto redditizio fornendo un milione di dollari l’anno di utili. In Francia ove il trasporto su ruote aveva sostituito quello someggiato, le corvées per la manutenzione delle strade diedero risultati insoddisfacenti finché, nel 1716 fu istituito un organo tecnico- amministrativo per la formazione degli ingegneri e la direzione dei lavori stradali. Le 1776 c’erano 40mila km di strade maestre che, vennero risistemate sotto l’impero per scopi strategici. Il miglioramento delle reti viarie dovette molto al nuovo interesse per i sistemi scientifici di costruzione: fra il 1790 e 1820 le tecniche adottate dal Corps des Ponts et Chaussées e in Inghilterra soprattutto da Telford e Mc Adam eliminarono rapidamente l’acqua principale nemico delle carreggiate. La Francia era il paese di antico regime con la miglior rete interna di comunicazioni. In Inghilterra invece i pedaggi erano spesso elusi e le entrate dei consorzi locali che non erano sufficienti a coprire i costi. Negli Usa a fine 700 gran parte della popolazione viveva lungo la costa atlantica e comunicava grazie al cabotaggio: solo il New England aveva una modesta rete stradale paragonabile a quella inglese.

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!Le comunicazioni: la posta, i quotidiani, il telegrafo ottico. Sino a fine 700 informazioni e notizie, salvo il ricorso a mezzi poco affidabili viaggiavano con staffette, coprendo circa 150 km al giorno. Alla posta prerogativa sovrana o signorile per esigenze militari e politiche, potevano accedere in casi particolari anche privati cittadini. All’inizio del 500 pur senza innovazioni tecniche di rilievo circa strade e mezzi di trasporto, la formazione di un impero esigeva rapidi collegamenti interni: il servizio fu affidato in monopolio a Francesco Tasso (Francia) : questi si impegnava a coprire il tratto Bruxelles-Parigi in 5 giorni e mezzo e quello Bruxelles-Granada in 16 giorni in estate. I Tasso formarono un vero e proprio clan insediato presso le principali corti europee che per oltre tre secoli estese la sua rete in tutti i paesi del continente. Dalla diffusione sempre più ampia dei bollettini di notizie curati da grandi case, o associazioni mercantili, e dalla necessità delle amministrazioni pubbliche di notificare le deliberazioni ai sudditi sorsero nel 600 i primi periodici a stampa; la nascita del primo giornale quotidiano. Ma le informazioni viaggiavano ancora alla velocità dei cavalli. Le esigenze militari indussero il fisico francese Claude Chappe a presentare alla Convenzione nel 1792 il suo telegrafo ottico: un sistema di trasmissione di segnali tra postazioni in contatto visivo, distanti circa 15 km che razionalizzava un rozzo sistema di comunicazione antico quanto l’uomo. Due bracci snodabili di legno potevano assumere novantadue configurazioni diverse e, attraverso un codice segreto, trasmettere 8464 parole o frasi a velocità straordinaria. La prima linea mostrò prontamente la sua utilità sul piano militare collegando la capitale con il fronte e su quello politico rafforzando il legame tra Parigi e la provincia. Sul continente invece il telegrafo da mezzo di comunicazione militare si trasformò in strumento di polizia per il controllo del territorio.  Solo dopo 1830 il suo uso si aprì anche alla comunicazione commerciale mentre le primitive reti radiali centripete, si trasformarono progressivamente in reti a maglie, con collegamenti diretti tra le linee.4. Alla fine del 700 i sistemi di trasporto interno, pur notevolmente progrediti rispetto al medioevo, non avevano compiuto molti progressi. Il mutamento fu piuttosto lento. Carbone e vapore, simbolo più appariscente dei nuovi mezzi, pur innovando profondamente anche il anche il trasporto navale aprirono all’uomo, in quello terrestre, la nuova dimensione della velocità. Tempi e modalità di applicazione dell’energia inanimata ai trasporti costituiscono u modello emblematico di affermazione di una nuova tecnologia. Le motrici, ancora ingombranti e pesanti potevano invece essere sistemate più agevolmente su battelli azionati. Il primo vapore commerciale, il Claremont di Fulton, mosso da una macchina di Watt operò dal 1807 sulla più frequentata via d’acqua americana (quello europeo “Comet” nel 1812) .  La necessità di utilizzare il più possibile acqua dolce e l’antagonismo tra scorta di combustibile e carico utile resero il battello a vapore adatto alla navigazione interna, a manovre portuali o al più al servizio su brevi tratte marittime. Il successo dei battelli si protrasse fino alla guerra civile: l’immobilizzo per la loro costruzione era ben inferiore ai costi d’impianto di strade e ferrovie, anche se i mezzi operavano in condizioni precarie di sicurezza. Ma la concorrenza di ferrovie e convogli di chiatte mossi da vapori a elica decretò la fine dei battelli che avevano fatto la fortuna del vecchio sud. Affinché i nuovi mezzi esplicassero la loro potenzialità senza limiti stagionali per variazioni del regime idrico, fu necessario ricostruire l’alveo dei fiumi. Un compito gigantesco che richiese parecchi anni di lavoro empirico e vide, tra le realizzazioni più impegnative, la sistemazione del corso del Reno. Il piroscafo entrò rapidamente anche nella navigazione marina di corto raggio. Nel 1823 il nuovo

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!mezzo, che per la sua regolarità privilegiava passeggeri e posta, entrò nel mare del Nord, nel Baltico e nel Mediterraneo. La traversata atlantica compiuta nel 1819 dal Savannah, piroscafo di 300 t a propulsione mista in 25 giorni rimase una pionieristica impresa isolata.A fine Settecento i sistemi di trasporto interno, pur notevolmente progrediti rispetto al Medioevo, non avevano compiuto molti progressi in confronto all’antichità classica: “Napoleone va alla stessa lentezza di Giulio Cesare”. Anche nella navigazione marittima, dove le innovazioni erano state pur rilevanti circa capacità, manovrabilità, robustezza delle navi e sicurezza delle rotte, il mutamento fu piuttosto lento. Fu solo dopo il 1850 che carbone e vapore, simboli della prima rivoluzione industriale, innovando profondamente il trasporto navale e terrestre, aprirono all’uomo la nuova dimensione della velocità. Tempi e modalità di applicazione dell’energia inanimata ai trasporti costituiscono un modello emblematico di affermazione di una nuova tecnologia e delle soglie che essa deve superare perché il suo successo diventi irreversibile. 4.2 Le strade ferrate. Come molte altre innovazioni nei trasporti, la ferrovia è frutto della combinazione di principi già noti. La macchina perfezionata da Stephenson (1825) servì brevi linee merci, ma grazie all’introduzione della caldaia tubolare, che moltiplicava il rendimento, fu possibile inaugurare la tratta Liverpool-Manchester (1829), convenzionalmente nota come la prima moderna ferrovia. Un nuovo sistema di trasporto terrestre, finalmente efficace, legava indissolubilmente mezzo e via di comunicazione. Triplicando la velocità delle diligenze rivoluzionò la tradizionale percezione del tempo e dello spazio e apparve l’unica via per liberare i traffici dagli abusi monopolistici dei proprietari di canali. Nel XIX secolo le costruzioni ferroviarie conobbero tre stagioni:• 1830-1850: copre la fase pionieristica che vide l’affermazione del treno in

Inghilterra, Usa centrorientali e alcuni paesi europei. Nel Regno Unito, ove industriali e commercianti erano pronti a “rischiare qualsiasi cosa, anche la costruzione di una ferrovia, per liberarsi dalle grinfie dei proprietari di canali”, il Parlamento, nel solo 1835, autorizzò investimenti per più di quanto era stato speso per tutti i canali. Durante il tumultuoso sviluppo della rete fino al 1850 (railway mania), le ferrovie finanziate da imprese private, secondo il modello sperimentato per i canali, si infittirono sul territorio senza fondersi in una rete unitaria, ma rimasero una mera somma di linee locali indipendenti prive di coordinamento, finché non fu creato un organismo per il coordinamento del traffico (1842). In Inghilterra la ferrovia era nata per soddisfare la domanda di trasporto di un paese già industriale, ma in America sorse per soddisfare quella proveniente dall’agricoltura divenendo, a sua volta, occasione di rapida industrializzazione. A differenza di quelle inglesi, costruite con cura, le ferrovie americane furono un prodotto dell’improvvisazione, ma all’inizio si preferì avere una ferrovia imperfetta a non averne nessuna. Il finanziamento delle ferrovie americane si scostò dal modello seguito per canali e  turnpikes: gli stati non rinunciarono a programmare e promuovere la costruzione di molte linee, ma i fondi pubblici non superarono il 25% del capitale investito, raccolto principalmente tramite obbligazioni. In Francia, con una consolidata tradizione mercantilista in tema di vie di comunicazione, il piano ferroviario governativo incentrato su Parigi (1842) fu osteggiato dai fattori del completamento dei canali

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!progettati durante la Restaurazione: il risultato fu una gran perdita di tempo, sicchè il vero decollo ferroviario si ebbe solo con il Secondo Impero (1852). Per l’impossibilità di attuare il finanziamento pubblico in un paese così vasto, si giunse ad una ripartizione di ruoli: lo stato decideva la struttura della rete, mentre le società concessionarie assumevano gli oneri relativi a materiale rotabile, personale e organizzazione del servizio.

• 1850-1870: è noto come l’età d’oro della ferrovia, durante il quale videro strutturarsi le reti continentali europea e americana che condussero alla formazione del mercato mondiale e all’adozione generalizzata del libero scambio. L’avvento del treno sconvolse le preesistenti reti di trasporto: le diligenze scomparvero, cessarono i pedaggi e il traffico stradale si ridusse alle brevi distanze con frequenza e regolarità complementari alle ferrovie. Le vie d’acqua sopravvissero, specie ove la rete era frutto di rilevanti investimenti pubblici (Francia, Usa, Reno), abbandonando il trasporto di persone e posta per le sole merci voluminose. Il vantaggio della ferrovia era di arrivare in aree irraggiungibili per vie d’acqua; non appena poi le reti assunsero dimensioni adeguate le compagnie poterono condizionare i traffici e ridefinire la convenienza e la geografia del trasporto applicando tariffe differenziali per attrarre maggiori volumi di traffico con vantaggio delle aree sprovviste di materie prime e combustibili.

• 1870-1900: la terza fase di costruzioni fu il risultato del completamento della rete secondaria europea, a redditività minore delle linee principali, e della realizzazione di grandi collegamenti internazionali in Europa (trafori alpini e transcontinentali in America e Asia. In Nord America la scoperta dell’oro californiano accelerò i progetti e la realizzazione (1868) della transcontinentale che riduceva a otto giorni il viaggio da Saint Louis a San Francisco. La Transiberiana consentì la colonizzazione di nuovi territori e il consolidamento della presenza zarista in Asia e Nord Pacifico in funzione anticinese. Le costruzioni ferroviarie avevano innescato una catena di trasformazioni che mutarono profondamente la struttura economica grazie alle connessioni a monte e a valle con altre parti del sistema (backward/forward linkages). Basterà ricordare, tra le prime, gli stimoli a siderurgia e meccanica o la mobilitazione del credito per finanziare gli investimenti, tra le seconde, ampliamento dei mercati, crescita del settore agroalimentare e maggior mobilità delle materie prime. Ma anche mercato del lavoro, organizzazione aziendale e meccanizzazione del lavoro d’ufficio conobbero profonde innovazioni grazie alle imprese ferroviarie. Le ferrovie americane furono le prime grandi imprese a struttura multidivisionale in cui un’articolata gerarchia manageriale programmava e coordinava la circolazione dei treni e l’organizzazione del traffico tra le diverse unità operative realizzando la separazione tra proprietà e direzione dell’azienda. Per i conteggi relativi a passeggeri, merci, tariffe, percorrenze, orari e redditività si adottarono innovative tecniche di accounting  utilizzando anche, da fine Ottocento, i nuovi sistemi meccanografici a schede perforate.

Le valutazioni circa il ruolo delle ferrovie nella promozione dello sviluppo sono state all’origine di importanti innovazioni metodologiche nella storiografia economica. Gli studi tradizionali attribuivano grande importanza alle costruzioni ma risentivano spesso di un approccio eccessivamente impressionistico. A metà degli anni sessanta comparvero lavori che, utilizzando la più rigorosa dottrina neoclassica, la strumentazione econometrica ed ipotesi alternative, si ripromettevano di sfatare

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!luoghi comuni cercando di misurare il contributo delle ferrovie allo sviluppo economico come risparmio sociale o come saggio di rendimento sociale. Il primo concetto di Fogel è definibile come la diminuzione di reddito nazionale riscontrabile in un anno nell’ipotesi controfattuale dell’inesistenza delle ferrovie, considerando che la medesima quantità di merci e persone fosse trasportata con sistemi alternativi (New Economy History). I lavori di Fogel suggeriscono che nelle società industriali del XIX secolo nessuna innovazione presa singolarmente fu vitale per la crescita dell’economia perché per ognuno esistevano valide alternative.Il ritardo con cui il vapore fu applicato alla navigazione non è riconducibile solo alla lenta evoluzione della nuova tecnologia nel ridurre consumi e carico combustibile ma anche alla maturità ed efficienza raggiunte dalla marineria a vela nel XVII secolo che rendevano i vantaggi dell’energia fossile meno decisivi che nel trasporto terrestre. Pur senza innovazioni di rilievo la nave settecentesche registrò continui miglioramenti che ne accrebbero velocità e manovrabilità. Lo sviluppo della siderurgia consentì di sostituire manovre, attrezzi e catene in ferro all’equipaggiamento tradizionale. Dall’evoluzione delle golette dell’età della restaurazione prese forma il clipper a quattro alberi. Alcuni velieri cominciarono, poi, a utilizzare le innovazioni adottate sui piroscafi: scafo e in ferro e piccole macchine a vapore per meccanizzare i servizi di bordo.Rispetto alla vela, il vapore costituiva un’innovazione labour saving (riduzione degli equipaggi) ma anche e soprattutto capital saving (maggior durata delle navi in ferro e maggior numero di viaggi annui, pur con un investimento più ingente).La prima nave in ferro è del 1836, i grandi vapori comparvero dopo il 1850. Perché i vapori diventassero autonomi e competitivi su lunghe distanze, almeno nei servizi celeri, occorrevano motrici con maggiori potenze e minori consumi specifici: la risposta venne dalle macchine compound, a duplice espansione e poi a triplice. Intanto tramontava l’era dei clipper per India e Oceania a causa dell’apertura del canale di Suez che abbreviava i percorsi e spostava le rotte su mari interni poco ventosi. Le costruzioni in ferro vennero abbandonate per quelle in acciaio; i primi piroscafi erano concepiti per trasporto promiscuo di merci e passeggeri, ma la corsa alla velocità sulle rotte atlantiche indusse a differenziare i due tipi di navi che persero ogni ricordo dell’età ella vela. Tra i mercantili si delineavano intanto alcune specializzazioni con navi dedicate a trasporti particolari come petrolio o carne congelata. Le prime petroliere collegarono USA ed Europa nel 1870, assumendo poi un ruolo crescente nei traffici internazionali.  Un sistema di trasporto è efficiente se le informazioni necessarie al controllo viaggiano più celermente dei mezzi del sistema stesso: il controllo delle ferrovie esigeva comunicazioni più affidabili del telegrafo ottico. Ricercatori diversi, misero a punto soluzioni il cui successo dipese dalla capacità di soddisfare al meglio gli stimoli del mercato. Oltre Manica fu messo a punto nel 1837 un sistema a cinque aghi (e 5 fili), poi ridotti a due che indicava direttamente la lettera trasmessa. Cooke e Wheathstone svilupparono scoperte precedenti ma il contributo di Morse che adottava una punta scrivente, era stata del tutto originale; nel 1838 l’apparecchio ricevette i perfezionamenti che ne decretarono il successo: i relè, che ritrasmetteva automaticamente il segnale ampliando enormemente il raggio d’azione e il noto codice che individuava ogni lettera co non più di quattro impulsi e consentiva elevate velocità di trasmissione.

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!La simbiosi fra telegrafo e ferrovia si esplicò anche in campo finanziario: la railways mania degli anni 1840-50 ampliò enormemente l’attività alla Borsa di Londra facendo sorgere una dozzina di borse in provincia che comunicavano grazie al telegrafo.In Usa il telegrafo nacque grazie all’intervento pubblico per trasformarsi in un lucroso business privato: in Francia sorse come affare di stato, e solo dal 1850 si aprì alla comunicazione commerciale; in Inghilterra si sviluppò, come le ferrovie, per esclusiva iniziativa privata ma nel 1868 fu assunto dallo stato per colmare carenze e calmierare tariffe. L’intervento statale riguardò solo la rete interna, quella dei cavi internazionali facenti capo a Londra. La ferrovia rivoluzionò anche la posta con contenimento dei costi e ampliamento dell’utenza. Si applicò il pagamento anticipato del porto (francobollo) e la tariffa nazionale uniforme per ogni distanza: il servizio elitario divenne accessibile a tutte le classi sociali.La registrazione dell’immagine e quella del suono, pur realizzate con uno scarto di mezzo secolo, seguirono un processo evolutivo: le prime riproduzioni di immagini e di suoni crearono un unicum finché i negativi su vetro e lo stampaggio dei cilindri fonografici, consentirono la riproduzione di multipli.In campo fotografico l’innovazione determinante fu la pellicola negativa di Eastman e il suo sistema Kodak che mise la fotografia alla portata di molti, economicamente e tecnicamente.Il telefono è il caso più noto d’innovazione dalla paternità contestata: esso comunque comparve sulla scena economica per iniziativa di Bell. Nel 1869 era sorta a Filadelfia la prima centrale telegrafica che consentiva di commutare linee private collegando direttamente utenti appartenenti alla comunità finanziaria: il telegrafo si era trasformato in strumento di conversazione. Per tutto il XIX secolo rimase un’innovazione eminentemente americana, confinata al mondo degli affari perché un apparecchio in rete è utile in ragione del numero e della tipologia degli altri utenti collegati. Solo a fine secolo si estese l’uso alla comunicazione privata (anche se l’impiego d’elezione rimase quello finanziario).

CAPITOLO 10 - COMMERCIO E MERCATI

Il commercio estero e interno è uno dei più importanti fattori di crescita del reddito, in quanto permette lo sfruttamento ottimale dei fattori di produzioni. L’economista inglese Ricardo afferma che ciascuna area dovrebbe specializzarsi nei beni che è in grado di produrre a costi minori – indipendentemente dai costi di produzione nei paesi concorrenti. Secondo il teorema di Heckscher-Ohlin i costi di produzione di un determinato bene sono tanto più bassi quanto più la sua produzione richiede un uso intensivo del fattore più abbondante in quel paese. Ad esempio, un paese con molta terra e poca popolazione dovrebbe specializzarsi nell’agricoltura estensiva, mentre uno con poca terra e molto lavoro nella produzione di manufatti ad alta intensità di lavoro. Il reddito mondiale per definizione sarebbe massimo se tutti i paesi potessero sfruttare al meglio la propria dotazione di fattori. Di conseguenza la politica doganale ottimale è il libero scambio, salvo casi eccezionali. Limiti di questa politica presuppone che i fattori di produzione siano immobili, che tutti i paesi abbiano accesso alla stessa tecnologia e che non vi siano economie di scala. L’approccio è statico, considera cioè l’allocazione ottimale di fattori dati. Fa però trascurare due importanti effetti dinamici del commercio. In primo luogo come notato da Adam

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!Smith, l’incremento della domanda di beni determinata dal commercio rende possibile una maggiore divisione del lavoro e quindi accresce l’efficienza. Inoltre la competizione internazionale stimola il progresso tecnico. I vantaggi del commercio sono tanto più grandi quanto più ampia è l’area interessata. In un’area ampia le risorse e la dotazione dei fattori sono più diversificate, la domanda totale è maggiore e quindi è meno probabile che vincoli tecnici sulle dimensioni degli impianti impediscano lo sviluppo di un’attività produttiva. I costi di trasporto e transizione sono strutturalmente più elevati, e la presenza di frontiere politiche e aumenta la probabilità di interferenze governative. E’ quindi opportuno considerare separatamente lo sviluppo del commercio ai tra diversi livelli – locale, nazionale e internazionale. Tale processo sarà indicato con i termini di mercantilizzazione (sviluppo di un mercato locale), formazione del mercato nazionale e del mercato internazionale.Con il termine di mercantilizzazione si intende la crescita della percentuale dei beni scambiati al di fuori dell’azienda produttrice. La definizione è generale in quanto si applica a tutte le attività, astrae dall’area dello scambio e dal mezzo di scambio. In teoria, il processo di mercantilizzazione dovrebbe iniziare da unità produttive completamente autosufficienti e concludersi con un’economia completamente mercantilizzata, dove tutti i beni e servizi sono scambiati sul mercato. Ma sicuramente neppure oggi le economie moderne sono completamente mercantilizzate: infatti la maggior parte dei servizi e una parte non trascurabile dei beni sono prodotti in famiglia.  La mercantilizzazione implica un cambiamento della composizione della produzione. Per avere qualcosa da scambiare, è necessario aumentare la produzione di qualche bene o riducendo la produzione di altri o aumentando la quantità di fattori impiegati.È probabile che il cambiamento sia stimolato dall’esterno. Le dotazioni di risorse sono simili e la potenziale domanda di beni o servizi extragricoli è quasi sempre insufficiente per rendere economicamente conveniente dedicarsi alla loro produzione a tempo pieno. La natura del processo di mercantilizzazione in una data economia dipende anche da due caratteristiche strutturali, la concentrazione della proprietà terriera e l’attitudine dei contadini verso il mercato. La percentuale della produzione commercializzata cresce con il livello di concentrazione della proprietà. Infatti la rendita doveva essere venduta per permettere ai proprietari di acquistare manufatti. Tale operazione poteva essere svolta dai proprietari stessi, in casi di rendita in natura o dai contadini in caso di rendita in denaro. Gli antropologi hanno sostenuto che i contadini avrebbero rifiutato per quanto possibile di impegnarsi in scambi di mercato, preferendo l’autosufficienza. Essi adducevano a riprova delle loro affermazioni l’elevata percentuale di autoconsumo. Gli economisti ribattevano notando che ambedue i fenomeni erano perfettamente compatibili con la razionalità economica. Non ci sono ricerche concrete in quanto il tema è particolarmente difficile. In alcuni casi è evidente che la produzione agricola è destinata al mercato. Nella maggioranza dei casi il processo di mercantilizzazione implica un cambiamento graduale della specializzazione e una crescita della percentuale venduta sulla produzione agricola.  La maggioranza degli autori si è basata su dati aziendali, stimando le vendite come differenza fra produzione e fabbisogno alimentare delle famiglie conduttrici. Tale metodo è stato ampiamente utilizzato dagli storici americani. 

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!Un metodo radicalmente diverso prevede l’uso dei dati sul movimento ferroviario. Anch’essi sottovalutano la commercializzazione, poiché escludono gli scambi locali e i trasporti su lunga distanza con altri mezzi. Tale metodo è stato applicato, fra gli altri, da Gregory alla produzione di cereali in Russia. In mancanza di dati, molti storici sono ricorsi ad altre fonti. Per esempio Rothemberg nella sua analisi della trasformazione del Massashussets ha utilizzato i diari dei contadini per analizzare numero e istanza dei viaggi verso le città di mercato e i costi di trasporto. 

Un mercato nazionale è caratterizzato da un elevato livello di interazione e di interscambio. L’integrazione si riferisce al livello dei prezzi: un mercato è perfettamente integrato se i prezzi per lo stesso bene sono eguali.  I prezzi tendono ad avvicinarsi se esiste la possibilità di commerciare indipendentemente dall’effettiva presenza di scambi. (Si rimanda all’esempio a pagina 352-353)È opinione comune che il processo di formazione di un mercato nazionale, in atto da tempo, si sia concluso in tutti i paesi avanzati nel corso del secolo XIX grazie a miglioramento dei mezzi di trasporto. Secondo Sereni, il mercato interno italiano non era ancora ben integrato negli anni ottanta del XIX secolo. Tali risultati suggeriscono che il processo di integrazione potrebbe non essere stato così semplice e uniforme fra i vari Paesi come talora affermato. L’integrazione di mercato è condizione necessaria anche se non sufficiente per l’incremento dei flussi commerciali, è possibile che all’interno di un’area integrata non si sviluppino flussi commerciali significativi (ad esempio l’Italia). È probabile che alla vigilia della Prima Guerra Mondiale essa fosse un mercato integrato nel senso tecnico del termine, ma l’interscambio fra Nord e Sud era relativamente scarso. Le due aree infatti erano ancora troppo simili fra loro. Ambedue erano relativamente sottosviluppate e producevano più o meno gli stessi beni. I pochi prodotti tipici erano beni di consumo relativamente di lusso fuori quindi dalla portata della gran parte degli acquirenti nella penisola. Il sud era troppo povero per essere un mercato veramente importante. Nella maggioranza dei Paesi, il processo di integrazione è stato accompagnato da una specializzazione regionale e quindi da un incremento del commercio interno. L’aumento del commercio interno è stato però ostacolato dalla presenza di barriere naturali e dall’opera dell’uomo. Fino agli inizi del XIX secolo, l’unico sistema di trasporto relativamente economico per prodotti pesanti era la navigazione, marittima o fluviale (quindi l’entità degli scambi dipendeva anche dalla geografia). In parte i problemi furono risolti dalla costruzione di canali anche se quest’operazione richiedeva investimenti molto elevati e comunque era sottoposta a vincoli geografici stringenti. La vera soluzione fu la costruzione delle ferrovie.Dopo la Prima Guerra Mondiale il commercio interno è aumentato sicuramente più del traffico ferroviario per la crescita relativa del trasporto su strada. In tutti i paesi il movimento ferroviario è cresciuto più della produzione. Nel corso del XIX secolo anche gli ostacoli istituzionali al commercio sono diminuiti o scomparsi. Alla fine del XVIII secolo non esistevano più barriere interne in Francia, Gran Bretagna, ma l’Italia e la Germania erano ancora divise in vari stati indipendenti che imponevano restrizioni significative al commercio. Le barriere umane si rivelarono però molto più tenaci di quelle naturali. Il livello di integrazione del mercato fu ridotto dalla dissoluzione degli imperi russo e austriaco

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!dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. Infatti quasi tutti i nuovi stati si dedicarono a politiche protezionistiche. La crescita degli scambi ha causato lo sviluppo di un settore commerciale specializzato. In età moderna una parte notevole delle funzioni commerciali era svolta dagli stessi produttori. Gli artigiani vendevano i propri prodotti nella bottega, i contadini ai mercati o nelle fiere. I mercanti e negozianti erano relativamente poco numerosi in proporzione alla popolazione. La figura più tipica era l’ambulante, che girava le campagne e le fiere vendendo ogni tipo di bene. I costi di informazione e transazione per qualsiasi scambio erano molto elevati. Affidarsi agli ambulanti o ai mercanti implicava un forte rischio di essere frodati o di subire imposizioni sui prezzi grazie al potere monopsonistico\monopolistico di tali intermediari. La crescita economica ha risolto il problema in quanto l’aumento dei consumi ha reso conveniente affidare la distribuzione delle merci a personale specializzato. Il numero di addetti al commercio sul totale della popolazione è aumentato ovunque. Tale incremento è il frutto di due processi diversi. In primo luogo il numero di ambulanti è andato crescendo. Tale crescita riflette evidentemente un processo di adattamento alla nuova realtà urbana. In secondo luogo, il numero di negozi specializzati è aumentato ed essi sono divenuti il canale principale di approvvigionamento della popolazione. Contemporaneamente alla diffusione del negozio tradizionale sono comparse nuove forme di organizzazione commerciale: la catena di negozi, il grande magazzino, la vendita per corrispondenza e la cooperativa di acquisto fra consumatori. Le prime due possono essere considerate un’evoluzione del negozio tradizionale. La catena di negozi centralizzava la gestione di più esercizi in località diverse, il grande magazzino offriva una gamma più ampia di beni e\o un maggior assortimento per ciascuno di essi, le altre due forme invece si differenziavano più nettamente dal modello del negozio: la cooperativa di consumo perché era un’organizzazione senza fini di lucro, la vendita per corrispondenza perché aboliva ogni contatto fra venditore e acquirente. I primi esempi di grande magazzino e di cooperative di consumo risalgono agli inizi del XIX secolo, mentre le catene di negozi e soprattutto le ditte di vendita per corrispondenza si sono sviluppate qualche decennio dopo. La modernizzazione del commercio non ha fatto diminuire i costi di distribuzione nel senso stretto del termine. Essi possono essere approssimati dai margini commerciali, pari alla differenza fra prezzi all’ingrosso e il minuto per lo stesso prodotto. Com’è possibile spiegare questa crescita? Essa è da attribuire soprattutto all’incremento dei salari. Ovviamente i salari erano in aumento in tutto il sistema economico ma, a differenza che in altri settori, nel commercio tale incremento non era compensato a sufficienza dall’aumento della produttività. Altrettanto sorprendenti potrebbero apparire i margini più alti della grande distribuzione, dove la produttività del lavoro era maggiore, e probabilmente in crescita più rapida grazie alle possibilità di una divisione del lavoro più spinta. Innanzitutto essa doveva sopportare costi fissi molto più alti. Il massimo del risparmio era conseguibile facendo produrre i beni e vendendoli con la garanzia conseguibile facendo produrre i beni e vendendoli con la garanzia del proprio marchio, una pratica abbastanza frequente nei paesi anglosassoni. In effetti è nozione comune che il prezzo di vendita più basso fosse una delle principali attrattive delle nuove forme di distribuzione. La modernizzazione della distribuzione ha offerto notevoli vantaggi ai consumatori, vantaggi per definizione maggiori laddove essa ha eliminato le posizioni di monopolio da parte dei negozianti locali. In un famoso libro di Ransom e Sutch

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!hanno attribuito la povertà dei negri americani dopo l’emancipazione al potere dei negozianti di villaggio, che vendevano a credito le merci praticando prezzi altissimi. È stata particolarmente importante la diffusione delle vendite per corrispondenza, che si rivolgevano a consumatori rurali. Ma la modernizzazione ha avvantaggiato i consumatori anche in situazioni meno estreme. Essa infatti ha aumentato l’assortimento di beni, e la varietà è un bene in sé. Inoltre essa ha ridotto i costi di transazione che i consumatori dovevano sostenere.Ciascuna delle nuove forme di distribuzione presenta uno specifico vantaggio rispetto al negozio specializzato. La catena di negozi offre la sicurezza di trovare le stesse merci in tutto il territorio nazionale, allo stesso prezzo, riducendo così l’incertezza e il rischio di truffe. I grandi magazzini e i centri commerciali riducono i costi di ricerca concentrando nello stesso posto un’ampia gamma di merci diverse. La vendita per corrispondenza elimina il costo di recarsi al negozio, che poteva essere rilevante in paesi a bassa densità di popolazione. Le cooperative di consumo infine, riducono i prezzi agli affiliati restituendo loro parte dei profitti. Il processo di integrazione del mercato a livello mondiale è stato altrettanto se non più rapido di quello dei singoli mercati nazionali. Infatti anche il commercio internazionale ha profittato del miglioramento dei mezzi di trasporto, anche se l’eroe non è stato tanto la ferrovia quanto la nave a vapore. Per alcuni prodotti si sono rese necessarie innovazioni specifiche, come le tecniche di refrigerazione per il trasporto della carne su lunga distanza, messe a punto negli anni 80. Tutti i dati mostrano un rapido calo dei differenziali di prezzo. La diminuzione è stata più rapida per le materie prime e i prodotti alimentari, che presentavano differenziali iniziali più ampi.Nella maggior parte dei casi si tratta di un processo di integrazione puro: fra i beni considerati, il solo grano era oggetto di un interscambio rilevante fra i due Paesi. L’integrazione del mercato mondiale ha notevolmente aumentato il benessere complessivo. Il miglioramento dei mezzi di trasporto, pur importante, non spiega da solo la formazione del mercato mondiale. Il processo è stato accompagnato e facilitato da cambiamenti organizzativi, che hanno ridotto i costi di transazione. La rilevazione del commercio estero è stata ovunque il primo compito degli uffici di statistica. Gran Bretagna  e USA sono però evidentemente poco rappresentativi: è molto probabile che il commercio mondiale sia cresciuto meno, anche se non è possibile accertare di quanto. Il commercio mondiale è aumentato moltissimo – quasi sicuramente più del reddito. L’incremento si è concentrato negli anni fino alla prima guerra mondiale e nel secondo dopoguerra. Nel periodo intermedio il commercio è invece rimasto sostanzialmente costante – aumentando alquanto negli anni 20 e diminuendo durante le due guerre e negli anni 30. Inoltre la crescita totale del commercio dipende in qualche misura dall’incremento del reddito. Un indice più accurato della crescita della specializzazione è il cosiddetto grado di apertura, cioè il rapporto fra commercio totale (importazioni + esportazioni) e il reddito nazionale.  Nei Paesi avanzati esistono notevoli analogie fra l’andamento del grado di apertura e quello del commercio totale. Esso appare molto elevato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, in calo nel periodo fra le due guerre e poi di nuovo in aumento nel secondo dopoguerra. Le fluttuazioni nel medio periodo sono state influenzate in misura notevole se non predominante dalla politica doganale. E’ possibile individuare quattro fasi principali.

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!1. Una progressiva liberalizzazione nella prima metà del XIX secolo, partendo

da una situazione di protezionismo generalizzato. Il processo iniziò in Gran Bretagna e culminò con l’abolizione del dazio sul grano. Gli altri paesi europei seguirono l’esempio inglese, e il trionfo del libero scambio fu sancito nel 1860 da un trattato fra Francia e Gran Bretagna, gli Stati Uniti aumentarono considerevolmente i dazi per finanziare la guerra civile. 

2. Un cinquantennio di protezionismo dalla fine degli anni settanta agli anni 20. Fra i grandi Paesi solo la Gran Bretagna rimase fedele al libero scambio, abbandonandolo all’inizio degli anni 20.

3. Un periodo d fortissime restrizioni al commercio negli anni trenta. Esse furono imposte per combattere la Grande Crisi: si tentava di aumentare la domanda per la produzione nazionale a spese delle importazioni (politica detta di beggar thy neighbour). 

4. Una progressiva liberalizzazione nel secondo dopoguerra. Essa iniziò con un accordo generalizzato (General Agreement con trade and Tariffs o GATT) e poi proseguì in Europa con la fondazione della CECA per il carbone e l’acciaio. Negli anni sessanta vennero stipulati altri accordi GATT. Nonostante all’inizio degli anni 70’ le barriere doganali al di fuori delle aree di libero scambio erano ancora elevate. 

Il processo di formazione del mercato mondiale è stato accompagnato da un cambiamento della composizione merceologica del commercio. Infatti la diminuzione dei costi di trasporto ha favorito il commercio di prodotti primari. L’incremento della percentuale di manufatti è stato particolarmente rapido nel secondo dopoguerra e che si è concentrato nei prodotti avanzati. Fino alla Seconda Guerra Mondiale prevaleva lo scambio di prodotti primari contro manufatti (commercio verticale) dopo quello orizzontale (scambio manufatti). La distinzione fra questi due pattern è importante perché indicano due tipo di specializzazione differente; il commercio orizzontale è, essenzialmente, uno scambio fra Paesi industriali e spesso riguarda lo stesso tipo di beni. Tutti i principali Paesi europei sono allo stesso momento importatori ed esportatori di automobili. Invece il commercio verticale si svolge fra paesi con specializzazioni radicalmente differenti. La periferia (LDC) ha sempre fornito una percentuale molto ridotta delle esportazioni mondiali. Nel 1911 le tre più importanti commodities erano cotone, grano e carbone. Tutte e tre erano esortate da Paesi avanzati. Gli Stati Uniti fornivano tre quarti del cotone e un sesto del grano; le esportazioni di carbone provenivano per tre quarti dalla Gran Bretagna e per il resto dalla Germania. I principali prodotti tropicali di esportazione erano infatti beni di consumo voluttuario.  La loro mancanza avrebbe diminuito il benessere delle popolazioni del centro ma non ne avrebbe impedito l’industrializzazione. La composizione dell’interscambio di ciascun Paese dipende dalla sua struttura economica dalla dotazione di fattori. Essa viene modificata dalla crescita economica. Il pattern è stato stilizzato per primo da Kuznets. Un Paese arretrato per definizione deve importare manufatti e non può che esportare i prodotti primari. La composizione dei manufatti esportati cambia nel tempo secondo una gerarchia che va da prodotti semplici come i tessuti a beni di crescente livello di sofisticazione tecnologica – macchinari, prodotti chimici ecc. L’estrazione di minerali era spesso un’attività più capital intensive di molte industrie. La composizione del commercio dipende dalle caratteristiche dei Paesi e dalla loro dotazione di fattori. Chenery e Syrquin distinguono tre categorie di paesi: grandi (in

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!base al reddito e alla popolazione, non all’estensione geografica), piccoli, con scarse risorse naturali e quindi orientati verso le esportazioni di manufatti, e piccoli con abbondanti risorse naturali e quindi orientati verso le esportazioni di prodotti primari. Questi ultimi hanno una struttura del commercio più arretrata. La struttura delle esportazioni americane appare a lungo relativamente arretrata, nonostante essi avessero il più alto livello di reddito pro capite del mondo. Ancora nel 1911-1913 i prodotti industriali non superavano la metà delle loro esportazioni totali. Il rapporto fra commercio internazionale e crescita economica ha sempre affascinato storici ed economisti e di conseguenza la letteratura. Nessuno mette in dubbio i vantaggi delle esportazioni di manufatti e quindi il tema è relativamente poco studiato. La principale eccezione è il dibattito sul rallentamento della crescita britannica verso la fine del XIX secolo. 

Gran parte delle ricerche si sono comunque occupate del ruolo delle esportazioni di prodotti primari e della politica doganale, in particolare del protezionismo. In genere si ritiene che le esportazioni di prodotti primari abbiano svolto un ruolo positivo nella crescita dei paesi attualmente sviluppati. I paesi late-comers della periferia europea e il Giappone lo sono stati fino agli inizi del XX secolo. È molto difficile generalizzare su un gruppo così poco omogeneo. Però solo in alcuni casi si potrebbe attribuire alle esportazioni di prodotti primari un ruolo direttamente propulsivo. Cafagna ha sostenuto che le esportazioni di seta hanno rappresentato un fattore decisivo per l’avvio dello sviluppo economico in Lombardia. Esse aumentavano il reddito e creavano occasioni di contatto con Paesi economicamente più avanzati. Prados de la Escosura ha rivendicato il ruolo positivo delle esportazioni di prodotti primari nello sviluppo economico spagnolo. Si potrebbe dire quindi che le esportazioni hanno svolto un ruolo positivo, anche se non decisivo. Tale affermazione è confermata dai risultati di un recente lavoro di Prados de la Escosura, Daban Sanchez, Sanz Oliva che dimostra una correlazione positiva fra esportazioni e reddito anche ai livelli bassi per un campione di paesi europei. Le esportazioni di prodotti primari sono invece considerate decisive nel processo di crescita nei Paesi di western settlement anche se in periodi diversi. In tali paesi la terra era molto abbondante e quindi la produttività del lavoro molto alta. I Paesi di western settlement erano i Paesi opec del secolo scorso. Secondo i teorici della staple theory le esportazioni di prodotti primari hanno svolto un ruolo decisivo in tale trasformazione. Il reddito delle esportazioni avrebbe creato una domanda di manufatti sufficienti per giustificare lo sviluppo di un’industria nazionale. Tale felice esito potrebbe essere stato favorito dalle caratteristiche di alcuni dei beni esportati, come i cereali e creavano una domanda di attrezzi e di macchinari.  Molti studiosi hanno espresso scetticismo sui benefici delle esportazioni. Sono stati avanzati tre diversi argomenti economici: a. I prodotti primari esportati dai Paesi sottosviluppati avevano un modesto

potenziale di sviluppo perché prodotti in miniere o piantagioni che costituivano vere e proprie enclaves staccate dal resto dell’economia

b. La specializzazione nell’esportazione di prodotti primari si è rivelata svantaggiosa perché nel periodo cruciale fra il 1870 e il 1914 i loro prezzi sono diminuiti in rapporto a quelli dei manufatti. Si tende ad attribuire il deterioramento a un’insufficiente crescita della domanda di tali prodotti nei

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!paesi sviluppati, dovuta a una bassa elasticità della domanda rispetto al reddito. 

c. La specializzazione, soprattutto se in un solo prodotto, era svantaggiosa perché le fluttuazioni dei prezzi determinavano oscillazioni nel reddito complessivo delle esportazioni. 

Quindi gli effetti negativi delle esportazioni di prodotti primari sono quanto meno dubbi. Cosa si può dire di quelli positivi previsti dalla teoria economica? La risposta prevalente sostiene che essi si sono manifestati, ma in misura insufficiente per avviare la crescita economica moderna. Reynolds afferma che l’aumento della domanda mondiale fu il principale stimolo per la trasformazione economica soprattutto prima del 1914.  Tale stimolo è stato insufficiente per tre motivi. Innanzitutto per molti paesi il periodo di rapida crescita della domanda mondiale è durato troppo poco. Inoltre le esportazioni rappresentavano una percentuale troppo ridotta del reddito nazionale. Infine le economie di molti paesi sottosviluppati erano troppo arretrate perché i benefici delle esportazioni si potessero tradurre in sviluppo. È addirittura possibile rovesciare l’intera impostazione. Non sono state le esportazioni di prodotti primari a ostacolare lo sviluppo, ma l’arretratezza del Paese a danneggiare le esportazioni pur presenza di una domanda mondiale in espansione. Molti storici ritengono che la protezione contro la concorrenza dei manufatti di importazione sia stata indispensabile per l’industrializzazione. Bairoch attribuisce alla p ro tez ione con t ro la concor renza ing lese g ran par te de l mer i to dell’industrializzazione del continente europeo. Altri affermano che la protezione di un settore industriale può essere giustificata per superare il delicato periodo iniziale. Una politica protettiva è quindi giudicata efficace se l’industria è riuscita a nascere e a conquistare il mercato interno, un trionfo se si è irrobustita abbastanza da iniziare a esportare. Tale approccio trascura i costi della protezione in termini di cattiva allocazione delle risorse, che comunque una società potrebbe decidere di voler pagare se assolutamente convinta della necessità dello sviluppo di determinati settori industriali. Nulla esclude che quell’industria si sarebbe potuta sviluppare anche senza protezione. E d’altronde vi sono parecchi esempi di industrie che non si sono sviluppate nonostante la protezione accordata loro. In primo luogo non tutti i Paesi attualmente industrializzati hanno adottato una politica protezionistica. Sono ben noti i casi della Danimarca e dell’Olanda e del Giappone. Fino al 1899 i trattati internazionali gli proibirono di imporre dazi superiori al 5%. In secondo luogo, il protezionismo è stato adottato contemporaneamente da paesi a livello di sviluppo molto differente. Nel caso italiano le prime fasi dell’industrializzazione, si sono svolte in una regime di importazioni relativamente libere.  Capie esclude che la protezione possa essere stata un fattore determinante per l’industrializzazione. È abbastanza evidente che il protezionismo non ha per nulla seguito le prescrizioni della teoria dell’industria nascente. Quest’ultimo implica una protezione mirata ai settori industriali non ancora sviluppati e limitata nel tempo per il periodo strettamente necessario alla loro crescita. In gran parte dei casi, le tariffe sono state adottate per proteggere attività esistenti e su pressioni concrete delle categorie interessante. In quasi tutti i Paesi europei i dazi sui prodotti agricoli erano

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!più alti di quelli sui manufatti. Tale struttura danneggiava l’industria nel suo complesso, invece di favorirla, perché aumentava i costi delle materie prime e\o i salari nominali. È possibile interpretare tutta la struttura dei dazi in base all’influenza politica delle singole categorie di produttori e della loro capacità di organizzarsi per promuovere i propri interessi. Non bisogna inoltre dimenticare il ruolo dell’ideologia. Il nazionalismo ha in molti casi giustificato una politica protezionistica, specie volta a sviluppare determinate industrie di interesse militare. D’altra parte l’ideologia può spiegare le fasi di liberalizzazione generalizzata, difficili da motivare in un quadro di political economy. Qualunque fossero stati i reali motivi una parte notevole della crescita economica moderna si è svolta in regime di protezione più o meno elevata. La teoria economica suggerisce di distinguere fra l’effetto sul reddito complessivo e quello sulla distribuzione di esso fra i fattori di produzione. Il primo equivale al calo del consumo rispetto al livello ottimale, che corrisponde a quello di libero scambio. Molto più importanti sono gli effetti sulla distribuzione. La protezione favorisce i possessori dei fattori più intensivamente usati nella produzione dei beni protetti. Tale approccio trascura gli effetti del cambiamento dei prezzi dei fattori di produzione sull’allocazione settoriale e sull’intensità di uso dei fattori in ciascun settore. Per stimarli è necessario un approccio più sofisticato, i cosiddetti modelli di equilibrio economico generale. Si tratta di una tecnica poco usata di analisi abbastanza comune in economia. 

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