d.d. - movimenti collettivi e sistema politico in italia 1960-1995

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© 1996, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1996 È vieta ta la ri produzione, anche parziale, con qu alsia si mezzo effettuata , compre sa  la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocop ia è lecita solo per uso personale  purc non d anneg-  gi l autore.  Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minac- cia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la scienza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi co- munque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

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Volume irreperibile nel mercato del nuovo, che probabilmente non vedrà mai più, e nel mercato dell'usato

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© 1996, Gius. Laterza & Figli 

Prima edizione 1996

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneg-

 gi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minac-cia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la scienza.Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi co-munque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

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Donatella Della Porta

MOVIMENTI COLLETTIVI

E SISTEMA POLITICO IN ITALIA1960-1995

Editori Laterza

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Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, RomaBari

Finito di stampare nel gennaio 1996 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari 

CL 2048477 ISBN 884204847X

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a mia madre 

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PREMESSA

Lo stimolo a scrivere un libro introduttivo sui movimenti col-lettivi in Italia, dagli anni Sessanta a oggi, mi si è presentato rip etu-tamente nel corso delle mie ricerche: all’inizio degli anni Ottanta,studiando le teorie sull’azione collettiva presso il Centre d’Actionet d’Intervention Sociologique, diretto da Alain Touraine all’Ecoledes Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi; poco dopo, quan-do Gianfranco Pasquino mi chiamò a collaborare con lui a una ri-

cerca sul terrorismo in Italia, presso l ’istitu to Carlo Cattaneo di Bo-logna; nella metà del decennio, quando ero Visiting Scholar allaCornell University, dov’era in corso una importante ricerca sulla

 pro testa in Italia, diretta da Sidney Tarrow; all’inizio degli anni N o-vanta, collaborando con il dipartimento di studi su Oeffentlichkeit  und soziale Bewegung, diretto da Friedhelm Neidhardt presso ilWissenschaftszentrum für Sozialforschung di Berlino. Ma la spinta

decisiva mi è com unque venuta durante il mio primo corso di Po li-tica comparata alla facoltà di Scienze politiche di Firenze, quandomi resi conto che, nonostante la presenza di ricerche pregevoli suisingoli movimenti, non vi era in Italia un testo di sintesi, che potes-se offrire una visione d’insieme sull’evoluzione di quella che chia-merò in questo libro «sinistra libertaria». Nell’estate del 1994 hoavuto la fortuna di potere utilizzare parte di un generoso Career 

Development Award assegnatomi dalla H.F. Guggenheim Founda-tion per perfezionare il quadro teorico di questa analisi.Diversi amici e colleghi mi hanno, più o meno consapevolmen-

te, aiutata in quest’impresa. Innanzitutto, ho molto imparato col-laborando, in diversi momenti, con Sidney Tarrow, Dieter Rucht,Mario Diani e Hanspeter Kriesi. Nel corso di oltre dieci anni hoavuto la fortuna di confrontare le mie idee e i miei risultati di ricer-

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ca con altri fra i più importanti studiosi sul tema dell’azione collet-tiva: Bill Gamson, Bert Klandermans, Doug McAdam, John McCarthy, Alberto Melucci, Friedhelm Neidhardt, Alessandro Pizzor

no, Philippe Schmitter, Dave Snow, Alain Touraine, Michel Wieviorka e Mayer Zald. Sidney Tarrow e Mario Diani hanno avuto la pazienza di leggere e commentare una prima stesura del volume.H erb ert Reiter ha, come sempre, sfidato le mie interpretazioni sul-la politica italiana, dalla sua prospettiva di storico mitteleuropeo,spingendom i verso una analisi implicitamente com parata e interdi-sciplinare.

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MOVIMENTI COLLETTIVI E SISTEMA POLITICO IN ITALIA

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MOVIMENTI DELLA SINISTRA LIBERTARIA 

E PROTESTA. UNA INTRODUZIONE

I

 Nel corso degli anni Sessanta, in Italia come in altre democra-zie occidentali, nuovi attori sono emersi, accanto ai partiti e ai grup-

 pi di pressione, per mobilitare e aggregare domande politiche: i m o-vimenti sociali. Rispetto ai partiti e ai gruppi di pressione, i movi-menti sociali (o movimenti collettivi) si caratterizzano per un bassolivello di organizzazione. Diversamente dai partiti, essi non compe-tono per conquistare voti, ma tendono a mobilitare consenso attra-verso azioni di protesta utilizzando i mass media per rivolgersi a isti-tuzioni e opinione pubblica. Diversamente dai gruppi di pressione,i movimenti sociali non mirano prevalentemente a rappresentare gliinteressi dei loro iscritti o simpatizzanti, ma si propongono come

 porta to ri di modelli alternativi per la società e il sistema politico. Norm almente, i movimenti sociali si coagulano atto rno a una te -matica generale (come i diritti delle donne o la pace), articolando-

la in singoli obiettivi, attorno ai quali costruire delle campagne di pro testa (ad esempio, per l’aborto libero o contro l’installazione deimissili nucleari).

Se guardiamo all’evoluzione del sistema politico e della societàcivile in Italia a partire dagli anni Sessanta, vediamo che la capacitàdi mobilitazione di questi attori collettivi si è estesa, coinvolgendoi più diversi gruppi della popolazione. Movimenti sociali e cam-

 pagne di pro testa si sono sviluppati su temi quali la fabbrica e lascuola, il territorio e i servizi, la polizia e l’esercito, l’ecologia e la pace. Se prima pochi erano coloro che osavano sfidare le autoritàattraverso azioni collettive che si allontanavano dalle forme istituzipnalizzate della partecipazione politica, a partire dagli anni Set-tanta, sitin e occupazioni sono divenute forme diffuse di protesta i utilizzate da giovani e anziani, strati marginali e ceti medi, senza

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tetto e vigili urbani. Ciò ha portato a parlare, anche per l’Italia, diuna «società di movimenti». Di fronte a un sistema che, per la suacrescente complessità, parcellizza e differenzia le domande dei cit-

tadini, i movimenti appaiono più adatti dei partiti a cogliere le te-matiche emergenti, e più abili dei gruppi di pressione a trasforma-re la molteplicità dei bisogni individuali in identità collettive.

Paradossalmente, però, proprio mentre la capacità di protestasi diffondeva, si è anche parlato della «fine dei movimenti». Comein un refrain dei primissimi anni Sessanta, negli anni Ottanta si è ri-tornati a parlare della scomparsa delle grandi utopie, identificando

nel pragmatismo tipico del decennio la dissoluzione finale di gran-di sommovimenti collettivi, che erano del resto già entrati in crisinegli anni Settanta, schiacciati tra cooptazione e marginalizzazioneviolenta. Gli anni Novanta si sarebbero aperti poi con una «nor-malizzazione»: neppure la «crisi della prima repubblica» sarebbestata infatti in grado di risvegliare i movimenti dal loro torpore.

Siamo dunque di fronte a una società di movimenti o alla finedei movimenti? Nel corso di questo libro vorrei provare ad affron-tare questo tema spostando l’attenzione dai singoli movimenti al-l’evoluzione di un complesso di movimenti che chiamerò, comedirò meglio in seguito, «movimenti della sinistra libertaria». In que-sta introduzione vorrei illustrare le premesse e le potenzialità diquesta scelta.

1. Cosa sono i movimenti sociali e perché ce ne occupiamo

Da quan to appena accennato, i movimenti sociali o movimenticollettivi si possono definire come attori collettivi che, attraversouno sforzo organizzato e sostenuto di reticoli di individui e gruppidotati di una comune identità, si mobilitano in campagne di pro te-

sta per la realizzazione di mutamenti sociali e/o politici (per defini-zioni in parte simili, cfr. Diani 1992; Tarrow 1994: 34). Non rap-

 presentano, ad esempio di per sé, movimenti sociali né i recentiscontri interetnici in alcune metropoli, dove non vi era uno sforzoorganizzato e sostenuto; né la Croce Rossa, che utilizza forme d’a-zione prevalentemente istituzionali; né «la protesta dei fax» controil decreto sulla giustizia del governo Berlusconi, nel luglio del 1994,

dato che essa non esprimeva una collettività di individui che s’i-

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dentificavano in un «noi» comune; e nemmeno le bande di ultra,che non mirano a trasformazioni sociali o politiche.

Se la definizione appena presentata può servire a distinguere i

movimenti da altri fenomeni in parte assimilabili, non si può dire però che il concetto di movimento sociale si sia consolidato nel lin-guaggio quotidiano o in quello scientifico. In quest’ultimo, anzi, es-so è stato soggetto a interpretazioni mutevoli, a seconda delle ca-ratteristiche contingenti assunte dai movimenti collettivi in vari pe-riodi storici e aree geografiche. Nel secolo scorso, tumulti violentiavevano fatto parlare dei movimenti come di fenomeni irrazionali

le masse, le folle ecc. mentre solo successivamente, con lo svilup- po del movimento operaio e dei suoi partiti, si era cominciato a par-lare dei movimenti come attori consapevoli del cambiamento poli-tico. Nel corso degli anni Venti, di fronte allo sviluppo negli StatiUniti di episodiche ondate di protesta, i sociologi della Scuola diChicago avevano descritto i movimenti collettivi come attori razio-nali, seppure legati a contingenze straordinarie.

L’attenzione ai movimenti sociali è aumentata sopra ttutto a pa r-tire dagli anni Sessanta, insieme al diffondersi in molte regioni delmondo di fenomeni di protesta difficilmente definibili a partire daivecchi concetti. Nei due decenni successivi l’uso dell’espressione«movimenti collettivi» si è esteso e consolidato, nel gergo politicoe giornalistico, per riferirsi alle campagne di mobilitazione sui temidella liberazione della donna, della difesa delle minoranze etniche,della protezione dell’ambiente, della pace. Lo studio di questi fe-

nomeni ha conquistato un sempre maggiore spazio anche nellescienze sociali, dove la ricerca si è orientata su temi quali le condi-zioni strutturali per l’emergere dei movimenti sociali, le dinamicheindividuali di adesione alle azioni di protesta, le peculiarità dellestrutture organizzative delle mobilitazioni collettive contempora-nee1. Negli Stati Uniti lo sviluppo di campagne di protesta focaliz-zate su singoli temi e la loro capacità d ’ influenza sulle politiche

 pubbliche facevano guardare ai movimenti soprattutto come a sfor-zi organizzati e propositivi. In Europa le grandi utopie del movi-mento studentesco e dei movimenti che lo avevano seguito stimo

1 Per una breve introduzione alle principali interpretazioni dei movimenti collettivi, rinvio a Della Porta 1995; per una trattazione più sistematica, a Me Adam, McCarthy e Zald 1988; Neidhardt e Rucht 1991; Fillieule 1993; Della Por-

ta e Diani 1996.

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lavano le teorizzazioni sull’emergere di un nuovo attore sociale, chedoveva sostituire la classe operaia ormai «istituzionalizzata». Ri-spetto a quest’ultima immagine che prendeva a modello una ver-sione rivista della fase di «massimo splendore» del movimento ope-

raio i nuovi movimenti divenivano un oscuro oggetto di deside-rio, ombre di un nuovo attore dai contorni ancora imprecisi.

In questo saggio vorrei dimostrare che i movimenti sociali nonsono finiti e che anzi si sono moltiplicati anche se la loro immagi-ne è oggi parzialmente diversa da quella dominante qualche decen-nio fa. Come i partiti politici che adesso poco assomigliano ai tra-dizionali partiti di integrazione sociale o ai partiti di massa anche

i movimenti sociali hanno cambiato il loro volto specifico. Le lorotrasformazioni riflettono mutamenti politici e sociali che sono, al-meno in parte, il risultato dell’azione degli stessi movimenti. Per co-gliere la loro evoluzione generale al di là delle loro immagini con-tingenti, utilizzerò qui un concetto più ampio di quello di «movi-mento sociale» un concetto che, in analogia con la letteratura sui partiti (che parla di party family ,familie de politique e familie spiri-  

tuelle  per definire partiti ideologicamente affini), chiamerò «fami-

glia di movimenti sociali» (cfr. anche Della Porta e Rucht 1992).Suggerirò, infatti, che tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta ab-

 biamo assistito in Italia alla nascita e all’evoluzione di una famiglia particolare di movimenti sociali: la famiglia della sinistra libertaria.

 Nella ricerca sui movimenti collettivi, l’unità d ’analisi privile-giata è stata, fino a ora, il singolo movimento o la singola campagnadi protesta. Sebbene sia stato spesso sottolineato che un movimen-

to sociale non deve essere considerato come isolato dalla moltitu-dine degli altri movimenti coesistenti nello spazio e nel tempo, so-no stati fatti pochi tentativi di analizzare degli «insiemi» di movi-menti (fra le eccezioni Garner e Zald 1985; Brand 1985; Kriesi1989; Rucht 1994; Tarrow 1990). Questa omissione è facilmentespiegabile: non solo non vi sono categorie sufficientemente elabo-rate per definire questi soggetti più ampi, ma i loro confini sono an-

che difficili da delimitare empiricamente. N onostante queste diffi-coltà, l’utilizzazione di un concetto di portata più ampia permettedi rilevare alcune caratteristiche generali del rapporto tra movi-menti collettivi, nel loro complesso, e ambiente, guardando non so-lo agli effetti di quest’ultimo sui primi ma anche alla relazione in-versa.

Possiamo considerare una famiglia di movimenti sociali come

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l’insieme di movimenti che, a prescindere dai loro obiettivi specifi-ci, hanno valori di base simili e sovrapposizioni organizzative, e tal-volta si alleano per campagne di protesta (Della Porta e Rucht1992). Questo concetto è delimitato nello spazio e nel tempo, rife-

rendosi a una specifica configurazione di movimenti sociali, defini-ti a livello nazionale, che seguono un ciclo di emergenza, stabiliz-zazione e, infine, scomparsa, che può durare alcuni decenni. Du-rante questo ciclo, una specifica configurazione storica, basata suconvergenze sia ideologiche che strutturali di una rete di movi-menti, emerge e si stabilizza o scompare. Come vedremo in segui-to, ogni Stato e periodo storico può vedere contemporaneamente

 presenti più famiglie di movimenti sociali, tra loro alleate, conflit-tuali o indifferenti. Queste diverse famiglie compongono quelloche, in analogia con il sistema dei partiti, può essere definito comeun «sistema di movimenti sociali».

 Nel corso degli ultimi decenni una famiglia di movimenti socia-li è stata particolarmente rilevante, non da ultimo per l’evoluzionedel dibattito sociologico sul tema della protesta: i movimenti socia-

li della sinistra libertaria. Utilizzando per primo questo concetto a proposito di un tipo specifico di partiti, il politologo tedesco H er- bert Kitschelt ha scritto:

Sono «di sinistra» perché condividono con il socialismo tradizionale la sfiducia nel mercato, nell’investimento privato, e n ell’etica del successo, in-sieme alla fiducia nella redistribuzione egualitaria. Sono «libertari» perché  si oppongono al controllo delle burocrazie pubbliche e private sulle con-

dotte individuali e collettive. Essi, invece, auspicano una democrazia par-tecipatoria e sostengono il diritto dei singoli e dei gruppi a definire auto-nomamente le istituzioni economiche, politiche e culturali, sottraendole ai dictat di burocrazie e mercati. (Kitschelt 1990: 180)

Empiricamente, possiamo dire che, in particolare in Italia, la fa-miglia dei movimenti della sinistra libertaria include attori che so-no stati definiti come «nuova sinistra» e «nuovi movimenti sociali».

Le visioni del mondo proprie a questi due attori non sono certoidentiche. Nei termini usati da Kitschelt, possiamo dire che la N uo-va sinistra era più vicina alla ideologia socialista, mentre i Nuovimovimenti sociali hanno formulato la critica «libertaria» alle buro -crazie. Se guardiamo alle ideologie delle organizzazioni più «pure»,o più «estreme», da entram be le parti, la loro definizione come «si-nistra libertaria» sembra infatti inappropriata. A un livello più com-

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 plessivo, comunque, le organizzazioni della Nuova sinistra hanno proclamato la democrazia diretta, e i Nuovi movimenti sociali si so-no pronunciati a favore di una maggiore giustizia sociale. La conti-nuità nelle biografie individuali e nelle reti organizzative legittima

ulteriormente la decisione di ricostruire la storia dei movimenti chesi sono identificati con queste immagini del mondo, come parte delciclo evolutivo di una famiglia di movimenti sociali.

Ai movimenti della sinistra libertaria dedicherò ampio spazio inquesto libro, cercando di analizzare le loro caratteristiche e trasfor-mazioni. Se, come abbiamo detto, alcuni tratti considerati come ti-

 pici dei movimenti sociali erano in realtà legati a situazioni contin-

genti, cercheremo di delineare invece i connotati di un concetto che possa «viaggiare» nel tempo e nello spazio (Sartori 1990). Al con-tempo, però, scendendo di alcuni gradini nella scala di astrazionedei concetti, sarà utile individuare delle classificazioni che ci per-mettano di distinguere le principali fasi evolutive dei movimenti so-ciali in Italia, con particolare attenzione ai movimenti della sinistralibertaria. Per far questo dovremo collocare i risultati della nostra

analisi in un contesto più ampio, comparando sia esplicitamen-te i movimenti in periodi diversi, sia implicitamente l’Italia conle altre democrazie occidentali in cui famiglie di movimenti della si-nistra libertaria si sono sviluppate nel corso del tempo. Nel far ciòdelineeremo, quindi, alcune peculiarità dei movimenti collettivi inItalia, del loro emergere e della loro evoluzione.

Quali sono le caratteristiche che perm ettono di distinguere i di-versi movimenti nel tempo e nello spazio? Gli effetti dei movimen-

ti sono stati spesso spiegati a partire dalla loro forza. Come per al-tri attori sociali, la forza di un movimento collettivo può essere ana-lizzata in relazione a diversi indicatori quali il numero di aderentidelle organizzazioni che a esso fanno riferimento, la partecipazionealle varie azioni di protesta, e il sostegno nell’opinione pubblica.Date le caratteristiche di informalità dei movimenti collettivi, co-munque, questi indicatori non sono di semplice rilevazione. A ciò

va aggiunto il fatto che i movimenti collettivi non sempre assumo-no forme visibili: anzi, come ha osservato Alberto Melucci (1992),essi oscillano tra fasi di visibilità, caratterizzate da mobilitazioni dimassa, e fasi di latenza, cioè di sopravvivenza all’interno di specifi-che subculture. Gli indicatori appena menzionati possono essere,

 più o meno, adeguati a misurare la forza dei movimenti collettivinelle loro fasi di visibilità, ma non nelle loro fasi di latenza. Non

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avendo statistiche adeguate a misurare la forza dei movimenti so-ciali per tutto il periodo in esame, nel corso di questo saggio ci con-centreremo, dunque, su alcune caratteristiche qualitative, piuttostoche quantitative, dei movimenti. L’obiettivo principale è infatti la

ricostruzione dell’evoluzione nel tempo della famiglia di movimen-ti della sinistra libertaria, attraverso un’analisi delle differenze tra idiversi periodi.

Dal punto di vista qualitativo, una prima caratteristica rilevan-te è la struttura organizzativa  cioè le infrastrutture materiali e dicomunicazione rappresentate da centri, reticoli e organizzazioniformali collegati ai movimenti. Come le altre organizzazioni po liti-

che, anche quelle dei movimenti sociali assolvono a compiti diver-si, dalla formazione delle identità collettive all’elaborazione strate-gica, dal coordinamento di campagne di protesta alla rappresen-tanza del movimento nelle istituzioni, dalla sperimentazione sim-

 bolica alla offerta di servizi. Criticando le teorie allora dominanti,che assimilavano i movimenti sociali ad altri comportamenti collet-tivi di tipo spontaneo e in parte irrazionali, a partire dalla fine de-gli anni Sessanta un nuovo filone di studi ha invece focalizzato l’at-tenzione sulle «organizzazioni di movimento sociale» (Social Move-  ment Organizations o SMOs), definite come organizzazioni razio-nali, capaci di raccogliere risorse nell’ambiente e di allocarle per fi-ni di trasformazione politica (ad esempio, McCarthy e Zald 1977).Secondo i teorici di questo approccio, infatti, lo stesso emergere delmovimento dipende dall’esistenza di «imprenditori» della protestacosì come dalla densità delle precedenti reti di aggregazione. N ono-

stante l’importante funzione svolta dalle organizzazioni di movi-mento, c’è stato comunque un certo accordo fra gli studiosi del fe-nomeno nel definire i movimenti collettivi come attori dotati di un basso grado di strutturazione. I movimenti sono stati caratterizzati,allora, come segmentati , con differenti cellule che crescono e muoio-no in un breve volgere di tempo; policefali, con numerosi leader checontrollano comunque solo piccole frazioni dei movimenti nel loro

insieme; reticolari, cioè basati su legami multipli tra cellule autono-me che costruiscono delle reti dai confini indefiniti (ad esempio,Gerlach 1976). Di recente è stato comunque sottolineato che le or-ganizzazioni di movimento possono assumere modelli molto diversitra loro, assomigliando di volta in volta ad associazioni, imprese,

 partiti o gruppi d ’interesse (ad esempio, Kriesi 1993).La struttura organizzativa dei movimenti è collegata alla loro

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ideologia , cioè alla loro immagine del mondo, intesa come insieme divalori e percezioni sulla società e il sistema politico. Le funzioni del-le ideologie sono molteplici: la definizione dei problemi, l’individua-zione delle possibili soluzioni, la motivazione all’azione. Per reazio-

ne alla scuola strutturalfunzionalista che aveva spiegato l’esistenzadei movimenti con la diffusione di credenze generalizzate (Smelser 1962), gli approcci prevalenti negli anni Settanta il resource mobi-  lization approach negli Stati Uniti e l’approccio neomarxista in Eu-ropa avevano trascurato lo studio delle strutture di significato e deisistemi di valori. Considerati per lungo tempo come epifenomeni(come «credenze», «sovrastruttura» o «falsa coscienza»), le culture

dei movimenti sono tornate comunque al centro dell’attenzione ne-gli anni Ottanta, in particolare attraverso l’approccio interazionistaallo studio dei movimenti collettivi. Ci si è allora concentrati suglischemi interpretativi usati dai movimenti per interpretare il mondoesterno (Snow et al. 1986; Hunt, Benford and Snow 1994). In gene-rale, le ideologie dei movimenti sociali sono state considerate cometendenzialmente utopiche, quindi poco fondate empiricamenie eastratte, cioè lontane dall’esperienza quotidiana dei soggetti, oltreche spesso manichee, perché basate sulla netta distinzione tra amicie nemici. La loro forza starebbe invece nella loro capacità di convin-cere la popolazione della universale importanza degli obiettivi per-seguiti da un movimento. Anche per quanto riguarda le ideologie, sivedrà comunque che esse sono mutate nel tempo. Se i movimenti de-gli anni Sessanta sono stati infatti definiti come emancipatori e pro-gressivi, quelli del decennio successivo vengono indicati come anti-

modernisti e regressivi (Brand 1990). Studi più recenti hanno segna-lato una tendenza dei movimenti degli anni Ottanta a divenire più

 pragmatici, allontanandosi dalle grandi utopie per concentrarsi su te-mi specifici e rinunciando alla contrapposizione frontale a favore delnegoziato.

La cultura dei movimenti è poi collegata a un’ultima caratteri-stica: i loro comportamenti , comprendenti sia le azioni strategica-

mente orientate che fanno riferimento a «una concezione coscien-te, di lungo periodo, pianificata e integrata» (Rucht 1990: 161) siaquelle più spontanee e meno coordinate. Il com portam ento è quin-di un elemento emergente, risultante dalle attività di vari attori chenon necessariamente condividono motivazioni e obiettivi. Se ilcomportamento dei movimenti è per definizione collegato a do-mande di cambiamento (o resistenza a trasformazioni), esistono co-

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munque per i movimenti diverse opzioni strategiche. Seguendo laletteratura sull’argomento, si può distinguere innanzitutto tra stra-tegie culturali e strategie politiche, a seconda che l’azione privilegimutamenti nel sistema di valori nel lungo periodo o trasformazioni

 politiche nel medio periodo. Sia le strategie culturali sia quelle po-litiche si caratterizzano, poi, per diversi gradi di radicalità: dallamoderata evoluzione subculturale alla radicale sfida controcultura-le, nel primo caso; dal negoziato alla confrontazione, nel secondo.Un indicatore diretto dei comportamenti sono le forme d’azione.Anche se la protesta non è una forma d’azione monopolizzata daimovimenti, specialmente nelle sue forme più innovative, comun-

que, essa può essere considerata come il modo di espressione tipi-co dei movimenti sociali. In particolare, si è osservato che i movi-menti collettivi utilizzano prevalentemente forme di azione defini-te come «perturbative» (disruptive), perché mirano a intimorire leélite attraverso una dimostrazione della forza numerica ma anchedella determinazione degli attivisti (Tilly 1978; Tarrow 1983). Allostesso tempo, comunque, la protesta serve a raccogliere consensi:essa dev’essere abbastanza innovativa o, in generale, avere ab ba-

stanza «notiziabilità» da raggiungere i mezzi di comunicazione dimassa e, attraverso essi, un pubblico ampio, che i movimenti come«minoranze attive» (Moscovici 1979) cercano di convincere dellagiustezza dei loro obiettivi. Pur restando nell’ambito delle forme di

 protesta, possiamo dunque osservare che esse possono variare no-tevolmente, adattandosi di volta in volta al raggiungimento di obiet-tivi potenzialmente conflittuali. Se negli anni Settanta si era osser-

vata una tendenza a mantenere l’attenzione dei media e il potenzia-le di minaccia accentuando sopra ttutto la radicalità delle azioni, piùdi recente due nuove tendenze sono state individuate: la diffusionedella protesta anche ad attori istituzionali e la crescente modera-zione dei repertori d ’azione utilizzati dai movimenti stessi.

2. Cosa spiega l’evoluzione dei movimenti: dove guardare

I movimenti collettivi sono influenzati da un insieme di variabi-li sia internazionali che nazionali e, fra queste ultime, sia da fattoriinterni alla famiglia dei movimenti sociali cioè endogeni che dafattori ad essa esterni o esogeni. Per quanto riguarda i fattori in 

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ternazionali  di cui ci occuperemo solo marginalmente in questolibro diverse ricerche com parate hanno sottolineato le somiglian-ze esistenti tra movimenti collettivi sviluppatisi quasi contempora-neamente in diversi paesi (fra gli altri, Della Porta e Rucht 1992;McAdam e Rucht 1993). Questi paralleli sono stati attribuiti a duefenomeni: quell’aumento delle interazioni tra i diversi paesi che hafatto parlare di «globalizzazione», e i contatti sempre più frequen-ti tra attivisti.

A livello di fattori nazionali  s u i quali concentreremo invece lanostra attenzione diverse teorie hanno fatto riferimento all’am -

 biente dove i movimenti collettivi operano, guardando di volta in

volta a variabili sociali o politiche. In primo luogo, le caratteristi-che dei movimenti collettivi sono state collegate a quelle delle so-cietà in cui essi sono emersi. Le spiegazioni sono state da questo

 punto di vista molto divergenti, andando dalla variante irraziona-listica della privazione relativa collegata allo status di alcuni grup-

 pi a quella razionalistica della organizzazione del conflitto di clas-se; o ancora dal mutamento nelle condizioni strutturali di alcuni

gruppi nel lungo periodo a fattori precipitanti congiunturali. Co-me vedremo, in Italia movimenti collettivi si sono costituiti su te-mi quali l’istruzione, la condizione femminile, l’assetto urbano, i problemi dei giovani, l’ecologia, la pace, il welfare state. Il loroemergere ha coinciso, di volta in volta, con la presa di coscienzadell’acuirsi di alcune tensioni sociali: la trasformazione delle fina-lità del sistema di istruzione dalla riproduzione delle élite alla sco-

larizzazione di massa; l’ingresso massiccio delle donne nel merca-to del lavoro; rapidi processi di urbanizzazione; la disoccupazionee la sottoccupazione giovanile; lo sfruttamento crescente delle ri-sorse naturali; l’aggravamento delle tensioni internazionali; la cri-si fiscale con conseguenti difficoltà nell’erogazione dei servizi so-ciali.

La presenza di tensioni sociali non spiega com unque, di per sé,l’emergere della protesta. È stato infatti osservato che le contraddi-zioni non esplodono nel momento di loro massima tensione, né lacaduta della mobilitazione vuol dire la soluzione dei problemi chel’avevano prodotta. L’individuazione di un conflitto strutturale nonci dice, inoltre, molto sulle forme, specifiche e cangianti, che la m o-

 bilitazione assumerà. Per comprendere l’emergere e le caratteristi-che dei movimenti sociali, bisogna guardare invece alle occasioniche il sistema politico offre agli sfidanti. Ispirati dal politologo ame-

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ricano Peter Eisinger (1973), che aveva dimostrato una relazionecurvilineare tra l’incidenza della protesta nelle città americane el’accesso dei movimenti collettivi nelle arene politiche locali, mo-delli sempre più complessi sono stati elaborati per spiegare l’emer-gere e lo sviluppo dei movimenti a partire dalle caratteristiche delsistema politico. La maggior parte di questi lavori hanno fatto ri-ferimento alla struttura delle opportunitàpolitiche (McAdam 1982;Tarrow 1983, 1990, 1994; Brand 1985; Kitschelt 1986; Kriesi 1989e 1991; Kriesi et al. 1995). Nella definizione del contesto politico siè guardato in primo luogo a quella struttura tendenzialmente sta-

 bile di caratteristiche istituzionali e culturali che determinano le

 possibilità di accesso al sistema da parte di attori esterni. Nella suadistinzione tra una struttura di input e una struttura di output,Her-

 bert Kitschelt (1986: 6164) ha sottolineato in particolare la rile-vanza di alcune caratteristiche costitutive dei regimi politici, qualiquelle relative al sistema elettorale, alla divisione dei poteri tra i d i-versi organi dello Stato, e ai rapporti tra cittadini e istituzioni.G uardando a un livello meno formalizzato, H anspeter Kriesi (1989:

295) ha parlato di «strategie nazionali» che fisserebbero le regoledel gioco per le situazioni di conflitto. I percorsi di costituzione del-lo Stato nazionale avrebbero portato i diversi paesi a optare, in par-ticolare nei confronti del movimento operaio, tra strategie di tipoinclusivo, caratterizzate da compromessi e integrazione, e strategiedi tipo esclusivo, basate su repressione e isolamento.

Istituzioni e cultura politica influenzano gli atteggiamenti con-

creti dei singoli attori, ma non determinano però, una volta per tu t-te, i rapporti di forza all’interno del sistema politico, i quali sono in -fatti influenzati anche dalla mutevole configurazione dei rapporti di  potere tra gli attori che appoggiano e quelli che osteggiano un m o-vimento sociale. Seguendo alcuni studi recenti (Kriesi 1989 e 1991;Klandermans 1989 e 1990; Della Porta e Rucht 1992), possiamo in-fatti parlare di un sistema di alleanza, composto dagli attori politi-ci, istituzionali e non, che sostengono una famiglia di movimento

sociale, e di un sistema di conflitto, formato invece da quelli che visi oppongono. Mentre il sistema di alleanza fornisce risorse e creaopportunità politiche per i movimenti collettivi, il sistema di con-flitto tende a ridurre quelle risorse. È importante osservare chespesso la linea di confine tra alleati e oppositori tende a sovrappor-si a fratture preesistenti: «Il cleavage tra sistemi di alleanza e siste-mi di conflitto dei movimenti collettivi può coincidere con altri clea- 

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vages, come classi sociali, linee etniche o affiliazioni destrasinistra»(Klandermans, a cura di, 1989: 303).

Per quanto riguarda il ruolo degli alleati,Kriesi (1989: 296) ha per primo insistito sull’influenza preponderante della «configura-

zione degli attori rilevanti della sinistra» nel determinare alcuniconnotati dei movimenti sociali. In particolare, la loro posizione ri-spetto ai movimenti sociali che si può distinguere in ostile, cooptativa, o cooperativa influisce sulle scelte strategiche degli attoridella protesta. La strategia generale dei partiti di sinistra (difensiva,

 pragmatica, riformista ecc.), la loro ideologia (socialdemocratica ocomunista), il loro radicamento (subculturale o meno), le caratteri-

stiche del loro elettorato (di opinione o di appartenenza), la lorostruttura organizzativa (inclusiva o esclusiva), la vicinanza al pote-re (a livello locale o nazionale) sono tutti elementi che si riflettonosugli atteggiamenti e i comportamenti rispetto alla protesta. Si de-ve aggiungere che i movimenti spesso si alleano tra loro all’internodi quello che abbiamo definito come sistema dei movimenti socia-li, cioè dell’insieme di movimenti sociali presenti all’interno di unasocietà2. In Italia, in particolare, i movimenti della sinistra liberta-ria hanno trovato spesso appoggi all’interno del movimento operaioo di movimenti di tipo etnico.

Parallelamente a quanto avviene rispetto ai loro alleati, i movi-menti sociali sono anche influenzati dalle strategie adottate dai lo-ro oppositori, sia al di dentro che al di fuori delle istituzioni. Nel si-stema di conflitto si trovano in primo luogo i contromovimenti, cioèquegli attori non istituzionali che si contrappongono alle conquiste,

attuali o potenziali, dei movimenti sociali. Movimenti e contromo-vimenti si influenzeranno reciprocamente, contribuendo sia all’e-voluzione del discorso ideologico sui singoli temi, che alla defini-zione delle politiche pubbliche. Al livello istituzionale le principalicontroparti dei movimenti della sinistra libertaria sono in genere i

 partit i di centro e di destra e, nella maggior parte dei casi, gli entilocali. Come ha osservato Charles Tilly (1978), le strategie degli at-

tori istituzionali rispetto ai loro «sfidanti» combinano repressionee facilitazione. Rispetto ai fini del movimento, i rappresentanti del-le istituzioni potranno utilizzare attraverso la promozione e l’im-

2 Questo concetto (presentato in Della Porta e Rucht 1992) è simile a quello di  social movement sector, che comprende invece tutti i movimenti sociali ope-ranti in una certa società (Garner e Zald 1985: 120; McCarthy e Zald 1977:1220).

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 plementazione delle politiche pubbliche una gamma di risposteche va dall’accettazione totale al totale rifiuto. Rispetto agli attoridella protesta, la reazione può variare dalla repressione al negozia-to, prevedendo diversi gradi di riconoscimento. Non solo in Italia,aU’interno del sistema di conflitto, gli apparati repressivi dello Sta-to hanno giocato un ruolo rilevante soprattutto nella prima fase disviluppo dei movimenti della sinistra libertaria. In particolare, lestrategie dei movimenti sono state influenzate da quello che può es-sere definito come controllo di polizia della protesta un termine

 più neutrale per quello che gli attivisti definiscono norm alm ente co-me repressione e i loro avversari come ripristino della legge e del-

l’ord ine (Della Porta 1995). In generale, si è infatti osservato che leforze di polizia sono state spesso utilizzate contro i movimenti col-lettivi, con il compito di indebolire le organizzazioni attraverso in-filtrati e agenti provocatori, intimidazioni e arresti, diffusione di im-magini deform anti nei comunicati alla stampa e sabotaggio di par-ticolari azioni (Marx 1979). Anche per quanto riguarda il controllodi polizia sull’azione dei movimenti, si deve dire che esso varia mol-

to andando da selettivo a diffuso, in relazione al numero di com- portamenti e di attori considerati come legittimi; da preventivo areattivo, a seconda del momento in cui si interviene; da hard a soft,a seconda della quantità di forza impiegata; da legale a illegale, a se-conda dell’uso o meno di tattiche proibite dalla legge. Complessi-vamente, possiamo distinguere un controllo poliziesco tollerante daun controllo di tipo repressivo.

Un’ultima osservazione: rispetto alle spiegazioni basate sulle ca-ratteristiche strutturali, gli studiosi del così detto approccio dellamobilitazione delle risorse hanno sostenuto che in realtà la stru ttu -ra dei conflitti sempre latenti nella societànon spiega di per sé laloro attivazione. Nemmeno l’aprirsi della struttura delle opportu-nità politiche comporta la mobilitazione contemporanea di tutti iconflitti potenzialmente presenti nella società. Per spiegare l’em er-gere di un conflitto in un particolare momento, è infatti necessario

tener conto anche di fattori endogeni ai movimenti sociali. Perchéiconflitti diano luogo a mobilitazioni collettive, è, infatti, necessarioche siano disponibili sia risorse culturali come immagini del mon-do, valori, schemi, simboli, capacità, esperienze e motivazioni che

 predispongono all’azione che risorse materiali quali infrastruttu-re e reti di aggregazione. Come vedremo, queste risorse interne in-fluiscono sulle caratteristiche assunte dalla mobilitazione. In parti-

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colare, la realtà esterna viene filtrata attraverso la percezione che gliattivisti ne hanno, sicché tutti i menzionati elementi della strutturadelle opportunità politiche avranno un effetto diverso a secondadella cultura prevalente nel movimento. Come vedremo, inoltre, da

un lato, dinamiche interne di imitazione portano alla permanenzadi alcuni modelli organizzativi, elementi ideologici e forme d ’azio-ne, che vengono ereditate da un movimento all’altro; dall’altro, at-traverso strategie di apprend imento di prova ed errore i movi-menti evolvono e si trasformano, anche sulla base di riflessioni cri-tiche sugli errori del passato.

3 . 1 temi affrontati in questo libro

Un primo obiettivo di questo volume è la descrizione delle ca-ratteristiche assunte dalla famiglia dei movimenti della sinistra li-

 bertaria in diversi momenti storici. Riprendendo le categorie anali-tiche appena illustrate, nel corso di questo libro osserveremo le tra -sformazioni nei modelli organizzativi, nei contenuti ideologici e

nelle strategie d’azione dei movimenti. La struttura organizzativadei movimenti è almeno in Italia mutata considerevolmente inrelazione alla formalità o informalità della strutturazione organiz-zativa, alla centralizzazione o decentralizzazione dei rapporti inter-ni centroperiferia, al grado di partecipazione nelle procedure de-cisionali, all’impegno richiesto agli attivisti, all’inclusività o esclusi-vità dei rapporti con l’ambiente esterno. I movimenti collettivi so-

no emersi con strutture organizzative informali, decentrate, parte-cipative, totalizzanti ma inclusive. Essi hanno in seguito assunto ca-ratteristiche totalizzanti ed esclusive, pur all’interno di due diversimodelli, l’uno centralizzato, formale ed elitario, l’altro informale,decentrato e partecipativo. Entrambi i modelli si sono mantenutianche in una terza fase, quando però si sono ancora trasform ate lecaratteristiche della partecipazione e dei rapporti con l’ambiente,

con la prevalenza di atteggiamenti laici e inclusivi.Queste trasformazioni organizzative sono state accompagnateda mutamenti profondi nella cultura dei movimenti. A livello delladefinizione della identità del movimento si noterà, infatti, il pas-saggio da una identità di classe a una identità pluralista, e da unadefinizione di sé in termini ascrittivi e generalizzanti, con la preva-lenza «data» di un ruolo rispetto agli altri, a una definizione di sé

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come scelta soggettiva e concreta, dove la prevalenza di un ruolo ri-spetto agli altri è solo temporanea. Mentre la priorità data ad una

 base di identità rispetto alle altre ha creato un gioco a somma zeroin cui amici e nemici erano inevitabilmente e inequívocamente

schierati l’uno contro l’altro, le identità pluraliste hanno permessodi sviluppare un caleidoscopio di giochi diversi, con mutevoli alleatie avversari a seconda della identità temporaneamente prevalente. Alivello di definizione del mondo esterno, distingueremo tra atteg-giamenti pragmatici e utopistici, a seconda dell’ampiezza dei cam-

 biamenti richiesti, e tra atteggiamenti ottimisti o pessimisti, a se-conda della fiducia nella possibilità di raggiungere i propri obietti-

vi. Combinando le due dimensioni vedrem o che le ideologie preva-lenti nei movimenti erano, inizialmente, di tipo rivoluzionario (ot-timista e utopistico); in seguito fondamentaliste (pessimiste e uto-

 pistiche), e, infine, pragmatiche, con approcci ora riformistici (ot-timisti), ora minimalisti (pessimisti).

Accanto alla stru ttura organizzativa e alla cultura dei movimen-ti, vedremo che si sono trasformate in Italia anche le forme di pro -

testa da essi utilizzate. Partecipazione collettiva convenzionale, par-tecipazione nonconvenzionale legale, disobbedienza civile e azioneviolenta si sono spesso intrecciate. Nel corso dell’evoluzione deimovimenti della sinistra libertaria vi è stato comunque un profon-do mutamento nella combinazione relativa delle varie forme d’a-zione. Forme d’azione convenzionali e nonconvenzionali ma legalisono prevalse nella fase iniziale. In seguito si è assistito a un pro-cesso di graduale radicalizzazione, con un peso crescente delle for-me d’azione violente. Ma gli effetti della violenza sono stati così di-rompenti da portare a una sorta di vaccino contro i processi di ra-dicalizzazione: in una fase che dura tuttora, infatti, la violenza è

 pressocchè scomparsa dal reperto rio d ’azione dei movimenti col-lettivi, dove prevalgono adesso le azioni di disobbedienza civilenonviolenta insieme ad azioni convenzionali.

La diversa combinazione di questi tre insiemi di variabili per-

mette di definire ¿cune fasi che hanno caratterizzato l’evoluzionedei movimenti della sinistra libertaria in Italia: l’emergenza, la ra-dicalizzazione, il consolidamento, la specializzazione. La fase del-l’emergenza coincise con lo sviluppo del primo dei movimenti del-la sinistra libertaria a comparire sulla scena: il movimento studen-tesco. Al movimento studentesco seguirono vari movimenti collet-tivi, che nacquero in parte dalla sua stessa crisi: il movimento delle

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donne e il movimento^giovanile, in primo luogo. Lo sviluppo diquesti movimenti avvenne nella fase di polarizzazione che fu con-temporaneamente radicalizzazione e riflusso nell’azione culturale.Solo dopo una rottura un m omento di silenzio, seguito alla trage-

dia del terrorismo i movimenti collettivi riemersero e si consoli-darono con il movimento della pace ma anche con le diverse formedi azione su temi che vanno dall’ecologia allo stato sociale. Alla fa-miglia della sinistra libertaria ormai consolidata si affiancarono es’intrecciarono quindi altre famiglie di movimenti, in una situazio-ne di complessiva specializzazione delle loro organizzazioni.

A questi quattro processi che solo grosso modo coincidonocon i decenni tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta sono dedi-cati rispettivamente i capitoli secondo, terzo, quarto e quinto. Inciascuno di questi capitoli descriverò le caratteristiche dei movi-menti collettivi a partire dalle loro strutture organizzative, ideolo-gie e comportamenti. Questo ordine di presentazione è coerentecon l’ipotesi di una parziale derivazione di comportam enti e formed ’azione da alcune scelte ideologiche (e di definizione d ’identità), aloro volta interagenti con la struttura organizzativa assunta dai mo-

vimenti della sinistra libertaria. Esso riflette quindi l’ambizione, presente in ciascun capitolo, di non limitarsi alla enucleazione di al-cune caratteristiche ma piuttosto di cercare anche di spiegare le va-rie tappe di evoluzione dei movimenti. Per far questo l’attenzioneandrà alle risorse e dinamiche interne alla famiglia dei movi-menti sociali, ma non solo a esse. Accanto a queste variabili endo-gene, guarderemo infatti anche alle condizioni dell’ambiente ester-

no che possono essere intervenute nell’evoluzione dei movimenti:in particolare, alla struttura dei cleavage sociali e alle opportunità politiche.

In Italia la struttura dei cleavages  o fratture presenti nella so-cietà, così come le rivendicazioni su cui i movimenti collettivi si so-no formati, sono state influenzate dalla polarizzazione tra destra esinistra. Successivamente, a partire dall’inizio degli anni O ttanta, la

delegittimazione del sistema dei partiti ha spinto i movimenti a unrifiuto di collocarsi su quell’asse, fino a portare negli anni No •vanta alla creazione, almeno temporanea, del nuovo cleavage «onestidisonesti». A proposito della struttura delle opportunità

 politiche, nel caso italiano osserveremo il passaggio da una struttu-ra istituzionale tendenzialmente chiusa con centralizzazione ter-ritoriale, limitata indipendenza del potere giudiziario, scarsa possi

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 bilità di partecipazione dei cittadini, e una strategia complessiva ditipo esclusivo a una progressiva apertura grazie alla implemen-tazione del decentramento amministrativo e dell’istituto del refe-rendum abrogativo, oltre che all’accresciuta indipendenza dellamagistratura. Per quanto riguarda le strategie nazionali, gli effettidi una tradizione di repressione violenta del movimento operaio,

 percepibili ancora negli anni Settanta, si sono a poco a poco inde- boliti.

A proposito degli alleati potenziali dei movimenti, la strutturadelle risorse disponibili è stata influenzata dalla presenza di una for-te sinistra tradizionale, che ha teso a cooptare i movimenti sociali, ri-

ducendo le pressioni verso la formazione di autonome risorse inter-ne. Solo a partire dagli anni Ottanta si è assistito alla crescita p ro -gressiva di strutture autonome di movimento, che hanno permessoun parziale superamento della forte dipendenza della mobilitazionedalle risorse provenienti dalla sinistra istituzionale. La posizione delPei, così come quella dei sindacati principali alleati potenziali per i movimenti della sinistra libertaria si è trasformata nel tempo, pas-

sando da tentativi di cooptazione all’interno di un modello egualita-rio, alla competizione per l’«egemonia operaia» e, infine, alla coope-razione «a termine» su singoli obiettivi.

Per quanto riguarda gli oppositori dei movimenti, come osser-veremo nel corso della nostra ricerca la protesta si è sviluppata, ne-gli anni Sessanta, in una fase di repressione meno dura rispetto aquella che aveva caratterizzato gli anni Quaranta e Cinquanta, con

un minore uso della forza (pur all’interno di tattiche di tipo rea tti-vo e di repressione diffusa). Nel corso degli anni Settanta, essa ave-va comunque scatenato una risposta diffusa e reattiva, basata su unuso frequente di interventi coercitivi da parte delle forze di poliziae, talvolta, su interventi illegali. Se le strategie di controllo della pro -testa si erano fatte più selettive e preventive, le tecniche di control-lo non si erano certo «ammorbidite». Solo a partire dagli anni O t-tanta, la risposta della polizia diverrà nuovamente più tollerante,

mantenendo i caratteri di selettività e prevenzione sviluppati nel de-cennio precedente. Questa maggiore tolleranza nell’ordine pub bli-co rispecchierà il passaggio, per quanto riguarda gli oppositori, daatteggiamenti di scontro ad atteggiamenti negoziali. Vedremo an-cora che grazie anche alle alleanze con il Pei e i sindacati i m o-vimenti della sinistra libertaria hanno anche goduto, soprattu tto ne-gli anni Ottanta, di strategie di facilitazione da parte di alcuni enti

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locali. Ancora a proposito degli oppositori, soprattutto negli anniSettanta le interazioni tra movimenti e contromovimenti possonoessere descritte come battaglie, in cui l’obiettivo principale era ladistruzione dell’awersario, con poca attenzione ai costi. Scontri

quotidiani tra attivisti della sinistra e neofascisti hanno contribuito,attraverso una spirale di reciproche vendette, alla radicalizzazionedella protesta.

Un’ultima osservazione: questo libro nasce da esperienze direttedi ricerca su alcuni momenti e attori della protesta, da un interesse

 più che decennale per gli studi sui movimenti sociali, e da un’anali-si sistematica della letteratura scientifica e giornalistica sulle mobili-

tazioni collettive in Italia. Nel corso di questo studio ho prestato par-ticolare attenzione alle «voci» interne ai movimenti, sia nella formadi memoriali e biografie di attivisti3 che in quella di documenti del-le organizzazioni di movimento. Questa attenzione riflette la con-vinzione che sia le caratteristiche della protesta stessa che quelle del-l’ambiente esterno «contino» soprattutto nella misura in cui essevengono percepite dai vari attori che la costruzione sociale della

realtà della protesta sia cioè la variabile interveniente più rilevantenello spiegare il passaggio dalla stru ttura all’azione.

3 In particolare, le citazioni da «Storie di vita n. ...» si riferiscono a interviste con militanti di organizzazioni radicali, raccolte nell’ambito di un progetto di ri-cerca finanziato dalla Regione Emilia Romagna presso l’istituto Carlo Cattaneo di Bologna. Per maggiori informazioni cfr. Della Porta 1990: 306308.

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LA PROTESTA STUDENTESCA E L’EMERGERE DI NUOVI MOVIMENTI SOCIALI 

NEGLI ANN I SESSANTA

II

Gli anni Sessanta si erano aperti in Italia con grandi mobilita-zioni di massa. Alla decisione del Movimento sociale italiano di te -nere il suo congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro del-la resistenza al fascismo, era seguita, il 30 giugno del 1960, una ma-nifestazione antifascista nella stessa città, con la partecipazione dialcune decine di migliaia di persone. Dopo momenti di grande ten -

sione, il governo guidato da Fernando Tambroni, sostenuto ancheda missini e monarchici, aveva avviato una repressione violenta, cheaveva portato alla morte di un dimostrante a Licata, il 5 luglio, e dialtri cinque, due giorni dopo, a Reggio Emilia. Altri dimostrantimorirono durante le cariche della polizia, l’8 luglio dello stesso an-no, a Catania e a Palermo (Ginsborg 1989: 25657). La Cg i l   p ro-clamò lo sciopero generale, e per le pressioni all’interno della stes-sa De, il governo Tambroni fu costretto a dimettersi poche setti-mane dopo. Mentre la formula del centrosinistra, basata sull’al-leanza di governo tra De e Psi, veniva sperim entata a livello locale,l’avvento alla presidenza del democratico John F. Kennedy negliStati Uniti cominciò a rendere possibile un’apertura al Psi anche algoverno nazionale. E infatti, nel 1962, il Psi si astenne nel voto difiducia al governo DcPsdiPri guidato da Amintore Fanfani, e, neldicembre del 1963, divenne parte di un governo presieduto da Al-

do Moro. N onostante le forti resistenze incontrate, che portaronoa vari rimpasti governativi, il programma di riforme del centrosinistra suscitò numerose speranze.

In questo clima comparve sulla scena il primo movimento dellasinistra libertaria: il movimento studentesco. Già nel 1965 venneoccupata la sede dell’ateneo pisano, la Sapienza; nel 1966 occupa-rono gli studenti della nuova facoltà di Sociologia dell’università di

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Trento, fiore all’occhiello dei notabili locali; nel 1967 vi fu l’occu- pazione, durata quasi un mese, della sede centrale dell’università diTorino, Palazzo Campana. Le mobilitazioni, inizialmente appoggia-te dagli organi di autogestione degli studenti, si estesero gradual-

mente dai temi legati alla vita accademica alla società nel suo com- plesso. Nella primavera del 1968 prima del maggio francese l’on-data di protesta si estese a tutti gli atenei, radicalizzandosi nei lun-ghi bracci di ferro con le autorità accademiche, nei primi scontri conla polizia chiamata a sgombrare le sedi occupate, e nelle sempre piùfrequenti scaramucce con i neofascisti.

Come si dirà nel corso di questo capitolo, nella prima metà d e-

gli anni Sessanta si definirono alcune delle caratteristiche organiz-zative, ideologiche e comportamentali che caratterizzarono, anchein seguito, la famiglia dei movimenti della sinistra libertaria in Ita-lia. Alcune di esse erano simili a quelle dei movimenti che, sui temidella scuola, si erano sviluppati quasi contemporaneamente in altri

 paesi del mondo occidentale e orientale, del ricco Nord e del po-vero Sud. Altre, invece, appaiono più tipiche del caso italiano e so-

no spiegabili, almeno in parte, con le reazioni all’emergente fami-glia dei movimenti della sinistra libertaria.

1. Le strutture organizzative: dall’assemblearismo alla Nuova sinistra

Il modello organizzativo del movimento studentesco era basatosul principio della democrazia partecipativa, o democrazia di base.Presentata come mezzo di «ricomposizione dell’unità studentesca»,l’assemblea era la principale formula organizzativa: «La scelta del-la democrazia assembleare sembra precedere qualsiasi teorizzazio-ne, e nascere in un certo senso da sé, come frutto diretto della no-vità stessa della situazione» (Ortoleva 1988: 118). Proprio nell’af-fermazione dell’assemblea scompariranno, infatti, quelle organiz-

zazioni studentesche al cui interno la protesta aveva avuto un pri-mo timido avvio.

Quando il movimento studentesco emerse in Italia alla metà de-gli anni Sessanta, le sue prime risorse organizzative provenivanodalla Unione nazionale universitaria rappresentativa (U n u r i ), cioèda un «parlamentino» studentesco cui partecipavano gruppi condifferenti orientamenti ideologici: l’Unione goliardica italiana

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(Ugi), di sinistra, la cattolica Intesa, i monarchici del gruppo «VivaVerdi», i liberali Goliardi indipendenti, la destra neofascista delFuan. Tradizionalmente, questi «partitini» studenteschi costituiva-no delle riserve di giovani leader per i partiti politici, ai quali i varigruppi erano affiliati (Statera 1973). Durante gli anni Sessanta, conla crescente insoddisfazione degli studenti rispetto al funziona-mento del sistema accademico, I’Un u r i  e alcuni partitini studente-schi si radicalizzarono, divenendo le prime palestre in cui la prote-sta studentesca si espresse e poi crebbe. Nel 1964 I’U n u r i  organizzòuno sciopero nazionale contro la proposta governativa di riformadell’università (Tarrow 1990: 121 sgg.) e un’ala più radicale emerse

all’interno dell’Ugi. Attaccate per la loro mancanza di democraziainterna, queste stesse organizzazioni divennero comunque le primevittime della protesta studentesca. Nel dicembre del 1968 I’U n u r i  venne sostituita da delegati studenteschi eletti dalle assemblee ge-nerali. Per quanto riguarda I’Ugi, proprio quei legami con i partitidella sinistra, che le avevano permesso di usufruire di importanti ri-sorse organizzative nel corso della sua esistenza, si dimostrarono

 però troppo ingombranti quando la pro testa si sviluppò alla metàdegli anni Sessanta. Sconvolta dal dissenso interno e incapace diguadagnare indipendenza e credibilità, I’Ugi si dissolse così dopole prime manifestazioni di massa.

 Nella critica a «partitini» e «parlamentini» si sviluppò un nuo-vo modello di democrazia: la democrazia diretta. Le formule orga-nizzative adottate dalle organizzazioni del movimento studentesco

all’inizio della mobilitazione furono assemblee generali di studen -ti di una facoltà o di una università; gruppi di studio o «contro-corsi», con l’obiettivo di «sperimentare forme diverse di cono-scenza»; com itati di facoltà. La partecipazione nei nuclei universi-tari non comportava scelte di adesione form ile. Le decisioni erano

 prese in assemblee generali aperte a chiunque volesse partecipare,i leader erano coloro che devolvevano più energie all’azione col-lettiva, e varie tendenze ideologiche coesistevano senza frizionidrammatiche. Fino al 1969 gli studenti teorizzavano sull’autoorganizzazione e il controllo permanente. Occupazione e assembleeavevano il compito di elaborare un nuovo modello di democrazia,che si contrapponeva alla democrazia maggioritaria e delegata,spostando la base della legittimazione dalle regole formali alla par-tecipazione sostanziale. Durante le occupazioni le commissioni distudio eleggevano rappresentanti revocabili, che poi si riunivano

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nei «comitati di agitazione», responsabili di fronte alle assemblee.I principi organizzativi più innovativi si dimostrarono però dif-

ficili da applicare alla realtà della mobilitazione. Come si disse in se-

guito, la democrazia assembleare instaurava nei fatti processi di de-lega e di manipolazione, con investitura plebiscitaria dei leader e personalizzazione della politica. Se il movimento studentesco esal-tava la spontaneità, esso aveva comunque bisogno di strutture de-cisionali efficienti e di risorse organizzative. Quando la critica del-la «burocratizzazione» demolirà le organizzazioni studentesche

 preesistenti, nuove risorse per il coordinamento verranno soprat-

tutto da una serie di piccoli gruppi, fondati all’inizio degli anni Ses-santa. Intellettuali che criticavano «da sinistra» il Pei, il Psi e i sin-dacati diedero vita ad alcune riviste come «Q uaderni rossi» e«Classe operaia» dette «operaiste» perché sottolineavano la cen-tralità della classe operaia nel conflitto di classe e il suo bisogno diuna organizzazione autonoma. A ttorno a esse si costituirono picco-li gruppi con poche dozzine di aderenti e non coordinati l’uno conl’altro, che cercavano con qualche successo di reclutare «qua-

dri» di classe operaia. Tra di essi, uno di quelli destinati ad averemaggiore influenza sulla successiva evoluzione dei movimenti inItalia era Potere operaio toscano, costituito alla fine del 1966 da ex-membri del Pei, con l’obiettivo di intervenire nelle fabbriche di Pi-sa, Livorno, Massa e Piombino. Altre riviste, create come periodicidi critica artistica o letteraria, si politicizzarono1. La stru ttura orga-nizzativa di questi gruppi, usualmente costituiti da densi reticoli di

rapporti personali, era scheletrica e la partecipazione tendenzial-mente inclusiva. Gli attivisti di questi gruppi giocarono un ruoloimportante nella fase centrale della mobilitazione studentesca.

A partire dal 1968, incontri organizzativi ad hoc, a livello inter-regionale o nazionale, vennero convocati per coordinare le attivitànelle diverse università. Nello stesso tempo, i nuclei universitarirafforzarono i loro legami con l’uno o l’altro dei gruppi operaisti,

organizzando iniziative comuni all’esterno dell’università. Questo processo, sviluppatosi tra il 1968 e il 1969, portò all’emergere del-le organizzazioni della Nuova sinistra: da Avanguardia operaia aPotere operaio e a Lotta continua. La storia di quest’ultima può ser-

1 Un esempio è la rivista «Nuovo Impegno». Fondata nel 1965, con il sotto-titolo «Rivista bimestrale di letteratura», nel 1967 essa divenne uno dei principa-li giornali della protesta studentesca. Su questa fase, cfr. Tarrow 1990: eh. 10.

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vire a illustrare il modo in cui questi gruppi nacquero, attraversol’aggregazione di nuclei impegnati in diverse realtà.

Alle origini di Lotta continua ci sono, infatti, delle piccole reti

di attivisti, costituitesi soprattutto durante gli scioperi alla Fiat Mirafiori di Torino. Proprio alla Fiat Mirafiori, alcuni degli studenti diPotere operaio pisano si incontrarono con gli attivisti di altri grup- pi operaisti (come La Classe di Porto Marghera), offrendo le lororisorse organizzative ai lavoratori più critici nei confronti della lea-dership sindacale. In seguito, i gruppi che venivano da Potere ope-raio toscano e Potere operaio di Pavia, insieme a studenti attivi ne l-le università di Torino e Trento e nell’università Cattolica di Mila-no, fondarono Lotta continua. All’inizio, «Lo slogan “la lotta con-tinua” [...] divenne l’espressione con cui venne designata onni-comprensivamente un’ampia coalizione di studenti militanti e dioperai estremisti che si radunavano ogni giorno in [un] bar» (Tarrow 1990: 227). La sua principale forma organizzativa erano le as-semblee operaistudenti, aperte a tutti gli attivisti che vi volevano

 partecipare e coordinate attraverso assemblee interregionali orga-

nizzate settimanalmente in diverse città. Con una esplicita critica alconcetto leninista di «partito», l’organizzazione veniva definita co-me un processo di coordinamento e unificazione delle «avanguar-die interne alle singole situazioni di lotta».

L’evoluzione di Lotta continua e degli altri gruppi fu quindi in -fluenzata dal declino della mobilitazione nell’università e dal con-temporaneo estendersi della protesta ai più diversi strati sociali. Se

la protesta si organizzò a livello di base in centinaia di collettivi difabbrica, scuola o quartiere, una parte delle risorse per le nuovemobilitazioni vennero comunque proprio dalle organizzazioni del-la Nuova sinistra, che continuarono a raccogliere una buona partedegli attivisti provenienti dal movimento degli studenti. Tra la finedegli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, queste organizza-zioni si trasformarono, adottando un modello organizzativo piùcentralizzato ed esclusivo. Il congresso nazionale del movimentostudentesco a Venezia nel settembre del 1968 fu, nelle parole delleader di Lotta continua Luigi Bobbio, «forse l’ultimo m omento incui il confronto avviene in modo aperto sulla base dell’appartenen-za di ciascuno al “movimento”» (Bobbio 1988: 16). Nel contempo,i contatti con la classe operaia ebbero delle conseguenze sulla stru t-tura organizzativa, che si pro iettò piùjverso l’esterno. Sebbene ra-dicati prevalentemente o esclusivamente nelle scuole e nelle uni-

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versità, molti gruppi si dotarono di strutture di intervento fra lemasse operaie e popolari.

Il 1969 rappresentò un momento di svolta. Mentre le occupa-zioni universitarie declinavano, gli attivisti presero strade d ifferen-

ti: alcuni «rifluirono» nel privato, altri divennero «professionisti»della politica. Tra questi ultimi non furono molti, almeno in que-sto periodo, coloro che entrarono nelle organizzazioni della sini-stra tradizionale. Nel corso dell’evoluzione del movimento stu-dentesco , limitate furono le adesioni alla Fgc i , che infatti, nel 1968,entrò in una profonda crisi che si riflesse in un drammatico decli-no delle adesioni2. Solo più tardi, nel corso degli anni Settanta, an -

che il Pei recluterà fra gli exattivisti del movimento degli studen-ti (Lange, Irvin e Tarrow 1990) anche se la mem bership del Peicrescerà meno nelle aree in cui il movimento era stato p iù forte chein quelle alla sua «periferia» (Barbagli e Corbetta 1978: 19). Mol-to numerosi furono invece coloro che aderirono ai gruppi della si-nistra extraparlamentare, che nel frattempo si trasformarono. Es-sendo stati protagonisti della fase alta della protesta studentesca,

questi gruppi potevano contare su una membership abbastanzaampia: 2030.000 militanti per Lo tta continua, 56000 per il Mani-festo, circa 3000 per Avanguardia operaia (Monicelli 1978; cfr. an -che Teodori 1976). Tornando alla storia di Lotta continua, ancoraBobbio ricorda che proprio nel 1969 «si ritenne di dover superarequesto stadio primitivo dando vita a un coordinam ento nazionaledei delegati» (1988: 74). Si concluse così la fase dell’assembleari-smo e si cominciarono a strutturare le organizzazioni della Nuova

sinistra.

2. L’ideologia; dal rivendicazionismo studentesco alla rivoluzione proletaria

Le trasformazioni organizzative si riflessero sulle altre caratteri-

stiche del movimento studentesco, in primo luogo sulla costruzio-ne della sua identità e sulle proposte di trasformazioni politiche e

2 D numero degli iscritti della F g c i , che era già declinato dai 438.759 nel 1951 ai 125.438 nel 1968, si ridusse ancora l’anno successivo, arrivando a un minimo di appena 68.648 (Barbagli e Corbetta 1978: 11).

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sociali. Nata su rivendicazioni interne al mondo accademico, la pro -testa studentesca elaborò poi una u topia sui temi della conoscenza,ampliando i suoi interessi anche al mondo esterno.

Il movimento degli studenti iniziò la sua storia con dom ande le-gate alla situazione interna all’università. Sin dall’inizio degli anniSessanta le organizzazioni rappresentative degli studenti avevanochiesto una maggiore partecipazione negli organi decisionali, unariforma della didattica e un miglioramento dei servizi. Già nel no-vembre del 1963 la facoltà di Chimica dell’ateneo pisano era stataoccupata per protestare contro l’aumento delle tasse e rivendicarela presenza di una rappresentanza studentesca negli organi di ge-

stione dell’università. Nel febbraio dell’anno successivo il parla-mento degli studenti di Pisa (I’O r i u p) proclamò l’occupazione del-la Sapienza, domandando l’ingresso dei rappresentanti degli stu-denti nel consiglio di amministrazione dell’ateneo, la pubblicità dei

 bilanci e la costituzione di commissioni paritetiche su didattica edesami. Il movimento studentesco napoletano nacque, nel 1965, sultema dell’edilizia universitaria, chiedendo, contro il previsto smem-

 bramento delle facoltà, una nuova sede concentrata. Nello stessoanno, a Pisa, gli studenti occuparono per protestare contro il cosìde tto «piano Gui» (il disegno di legge n. 2314) che prevedeva la pia-nificazione degli interventi su ricerca, didattica ed edilizia, intro-ducendo nei fatti un sistema di iscrizioni a numero chiuso.

 Nel corso delle occupazioni della fine del 1967 e del 1968 que-ste rivendicazioni vennero elaborate in progetti di trasformazioni

 più generali. La protesta degli studenti si rivolse in primo luogo altipo di conoscenza prodotto e riprodotto nelle università. Durantel’occupazione di Palazzo Campana a Torino, nel febbraio del 1967,le richieste presentate dagli studenti riguardavano, ancora una vol-ta, l’immissione con voto consultivo degli studenti negli organi di-rigenti e la partecipazione all’elezione del rettore. Cominciarono^comunque, anche le elaborazioni sul tema di una diversa cultura, esi organizzarono commissioni di studio e «controcorsi». Il potere

studentesco doveva essere un mezzo per riaffermare il controllo sul-la propria formazione. Infatti, nella Carta rivendicativa, elaboratadurante l ’occupazione, vennero presentate domande concrete rela-tive a: piena liberalizzazione dei piani di studio, richiesta di di-spense per i corsi monografici, diritto di intervento degli studentidurante le lezioni, discussione collettiva del voto con gli studenti

 presenti agli esami, abolizione dei controlli sulle presenze, dir itto di

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inchiesta degli studenti sulle decisioni relative a fondi di ricerca, in -carichi e concorsi.

Mentre queste rivendicazioni si estendevano agli altri atenei, sielaborò ulteriormente la critica al modo tradizionale di insegnare e ai  

contenuti dell’insegnamento. Alla contestata «parcellizzazione deisaperi» veniva contrapposta la ricerca di una interdisciplinarietà ri-spettosa delle diversità culturali. Oltre che rottura con il passato, ilSessantotto fu infatti anche una sfida alla separazione tra alta e bas-sa cultura, tra cultura tout court e cultura di massa (Ortoleva 1991).Accanto alle aspirazioni alla interdisciplinarietà, vi era la richiesta diavvicinare gli intellettuali alle esperienze concrete (da qui nascerà più

tardi la parola d’ordine, di derivazione maoista, «metàstudio e metàlavoro»). Esemplare è un documento degli studenti trentini dove silegge: «Quest’anno ci hanno costruito una biblioteca che è costatanon so quanti milioni. Avremmo potuto costruirla materialmentenoi e avremmo imparato facendola. Domani potremmo costruirenoi i nostri alloggi, le nostre mense [...] A Trento non c’è una disco-teca per la gente, potremmo farla noi e noi potremmo farla funzio-nare» (in Leoni 1991: 184).

All’estensione della contestazione corrispose una politicizzazio ne di nuove aree. Tematiche un tempo considerate come dominioesclusivo del discorso privato cominciarono a essere affrontate in

 pubblico. Si guardò, inoltre, agli effetti delle caratteristiche del si-stema economico o istituzionale anche sulla sfera intima. Come haosservato Peppino Ortoleva:

Forse, l’aspetto più radicale e «scandaloso» della cultura del ’68 fu il fatto che essa assumeva all’interno del proprio universo di discorso, e di azione politica, aree tradizionalmente escluse non solo dalla sfera politica, ma dalla comunicazione pubblica: allargando il proprio discorso alla ses-sualità, alla vita quotidiana, all’inconscio [...] [ridefinendo] i confini tra cultura e «noncultura», ammettendo fra i temi di possibile elaborazione  intellettuale e politica quelle aree che erano state in precedenza «escluse  dalla storia». (1991: 51)

Quella che venne definita come «didattica della liberazione»mirava a un approccio critico degli studenti al sapere partendo dal-la constatazione che l’università funzionava, ancora secondo gli stu-denti torinesi, come «strumento di manipolazione ideologica e po-litica teso ad instillare [negli studenti] uno spirito di subordinazio-ne rispetto al potere (qualsiasi esso sia) ed a cancellare nella strut

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tura psichica e mentale di ciascuno di essi la dimensione collettivadelle esigenze personali e la capacità di avere rapporti con il pros-simo che non siano completamente competitivi» (in Revelli 1991:

235). L’università avrebbe dovuto «costruire una coscienza critica»contro le «manipolazioni». Molte attività duran te l’occupazione diPalazzo Campana miravano ad «autoeducarsi» alla libera discus-sione, sottrarsi alla soggezione culturale nei confronti dei docenti,sviluppare un approccio paritario allo studio, fondato sulla discus-sione come metodo di apprendimento. Significativamente, in undocumento torinese su «didattica e repressione» si affermava chegli studenti avevano

voluto riaffermare e cominciare a costruire la propria autonomia culturale  e politica. Scegliere i contenuti dei controcorsi, imparare a discutere (la scuola e l’Università ci hanno fatto disimparare a discutere), studiare col-lettivamente e non in modo individuale, vedere l’incidenza politica e so-ciale di quello che si studia, imparare a parlare e a pensare autonomamen-te e non su comando, imparare a stabilire dei rapporti egualitari e di parità tra chi è preparato e chi non lo è, non considerare più il sapere come un 

privilegio e una fonte di prestigio, (in Revelli 1991: 239)

Accanto a quello della didattica, gli studenti posero il problemadel diritto allo studio. Le Tesi della Sapienza, formulate durantel’occupazione della sede centrale dell’ateneo pisano all’inizio del1967, individuavano un ruolo specifico per gli studenti nel rappor-to tra università, società e mercato del lavoro3. Insieme al rifiuto

dell’assetto vigente nella didattica con richieste di allungamentodegli orari dei laboratori, abolizione delle firme di frequenza e del-la votazione di «respinto», introduzione di appelli mensili, trasfor-mazione delle lezioni in seminari si proponeva l’istruzione gratui-ta fino a 18 anni, maggiori finanziamenti pe r la didattica e il dirittoallo studio, l’arricchimento delle biblioteche, orari di lezione con^cordati, esami di gruppo, politica dei trasporti, investimenti edilizie servizi sociali. Il salario studentesco «diretto» per gli universi-tari e «indiretto» (tramite assegni familiari integrati) per gli studentimedi era rivendicato come un salario a pieno titolo per lavorato-ri in formazione, strumento di «contestazione dell’uso capitalistico

3 Non è casuale che nell’ateneo pisano la mobilitazione fosse cresciuta dopo che nel 196667 c’era stata la più alta percentuale di respinti agli esami e la con-ferenza dei rettori riunita a Pisa si era pronunciata per il numero chiuso.

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della formazione della forza lavoro» e di «critica del piano del ca- pitale». L’occupazione della Università Cattolica di Milano, nel no-vembre 1967, fu una reazione all’aumento del 50 per cento delle tas-se: la rivendicazione del diritto allo studio si combinava con l’indi-gnazione morale per l’ingiustizia sociale dell’esclusione dei poveridall’istruzione superiore (Lumley 1991). In una mozione dell’as-semblea della facoltà di Lettere romana, approvata nel febbraio1968, si legge: «Identifichiamo come carattere fondamentale del-l’attuale struttura universitaria il suo carattere di selettività. [...]Un’università limitata nella sua base sociale non può essere che au-toritaria. All’autoritarismo contrapponiamo il potere studentesco»

(in Grispigni 1991: 297).Dai temi interni all’università si passò comunque a richieste di

trasformazioni generali della società. Già nell’estate 1968 emerse in-fatti la tendenza a «uscire dall’università». L’abbandono dell’uni-versità come terreno privilegiato di intervento e la concentrazionesulla «centralità della strada e dello scontro politico» era definitodai «Quaderni Piacentini» come

ultimo ed effettivo salto qualitativo che porta lo studente a qualificarsi co-me militante rivoluzionario, negando non solo la sua funzione sociale, ma radicando il proprio dissenso in settori che non lo investono direttamente, che si pongono cioè al di fuori del contesto della sua condizione sociale. Immergersi in altre condizioni sociali e in altri settori d’oppressione non serve tanto a trovare terreni comuni di lotta, quanto altri temi funzionali a una comune volontà eversiva, (in Grispigni 1991: 29798)

Uscendo dall’università, le organizzazioni degli studenti comin-ciarono a riprendere alcune tematiche tipiche del movimento a lo-ro più vicino: il movimento operaio. Come nota un attento osser-vatore, «L’unità [studentioperai] venne interpretata come la mo- bilitazione e organizzazione degli studenti contro lo sfruttamento el’oppressione nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, piuttosto chenelle università e nelle scuole» (Lumley 1990:109). Al convegno na-

zionale del movimento studentesco a Venezia, nel settembre del1968, i leader del movimento studentesco romano affermarono la

 prevalenza del «discorso di classe» «È il discorso di classe che de-ve passare a tutti i livelli; la logica antiautoritaria al contrario non porta niente di buono» (in Grispigni 1991: 298).

 Nel corso dell’evoluzione del movimento studentesco, dunque,i suoi obiettivi si ampliarono ai campi più vari. R iprendendo dal mo-

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vimento sindacale il tema dell’autonomia, gli studenti lo applicaro-no a una serie di rivendicazioni. Come ha osservato Tarrow:

Più duratura dell’operaismo del movimento degli studenti fu la sua ac-

centuazione del tema dell’autonomia. Essa iniziò con gli studenti politiciz-zati con la richiesta di autonomia dai partiti delle loro associazioni studen-tesche, si ampliò nel concetto del diritto degli studenti a prendere decisio-ni sui programmi e su altri aspetti dell’istruzione, sulla liberazione sessua-le, la critica della scienza, della tecnologia e dell’arte borghesi; nella richie-sta di democrazia diretta e di antiautoritarismo e nel rifiuto di obbedire. (Tarrow 1990: 129)

Al contempo, mutò la definizione della controparte, individua-ta non più nelle autorità accademiche ma nel potere politico e nel-lo Stato «borghese», m entre la «repressione» diveniva uno dei temicentrali del movimento. Nel «Bollettino degli studenti torinesi» del5 marzo 1968 si legge:

La polizia controlla ogni nostro passo. Sotto ogni sede di riunione so-stano poliziotti in borghese; viene esercitata stretta sorveglianza anche sul-le case private, molte abitazioni sono state perquisite [...]. L’atteggiamento  del governo nei nostri confronti, come quello della grande stampa, indica  come lo Stato non può assolutamente tollerare un movimento come il no -stro che, rifiutando i tradizionali canali di espressione dell’opposizione, non è integrabile nel sistema, (in De Luna 1991: 192)

 Ne seguiva la necessità di individuare una controparte più

«complessiva»: «tutte le strutture di potere della società» (De Luna1991: 192). Nell’università le organizzazioni degli studenti comin-ciarono a identificare uno strumento della razionalizzazione del do-minio capitalista, fino al punto che, nel giugno 1970, gruppi stu-denteschi napoletani contesteranno i promotori di un corso di lau-rea in Sociologia, ritenendo le scienze sociali come funzionali al pro -cesso di razionalizzazione neocapitalista (Barbagallo 1991: 319).

Al di fuori dell’università, gli studenti si trovarono a competere

con le organizzazioni della sinistra tradizionale. Le trasformazioninell’ideologia dei gruppi studenteschi possono, almeno in parte, es-sere collegate all’elaborazione, in alcuni circoli intellettuali, di unasorta di critica ideologica «da sinistra» alla sinistra tradizionale.Proprio nella competizione con la vecchia sinistra, l’ideologia diquesti grupp i si radicalizzò. Come era immaginabile in un clima cul-turale influenzato dallo sviluppo di movimenti di liberazione na-

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zionale (in Algeria come in Vietnam) e rivoluzioni politiche (in Ci-na come a Cuba), una delle principali accuse alla «vecchia» sinistrafu di avere rinunciato alla prospettiva di una sollevazione violentacontro il capitalismo. Il movimento studentesco assorbì, così, sul

nascere grandi utopie e alcune giustificazioni per l’utilizzazione del-la violenza.

3. Le forme d’azione: dalla resistenza passiva alla violenza difensiva

Queste risorse culturali non comportarono automaticamentel’uso di tattiche violente e, infatti, le prime forme d’azione del mo-vimento studentesco furono i repertori nonviolenti «importati» dalmovimento per i diritti civili negli Stati Uniti. Se l’ideologia del m o-vimento studentesco divenne sempre più radicale, le sue forme d ’a-zione furono però prevalentemente pacifiche. Come ha notato Sid-ney Tarrow a proposito degli studenti italiani:

Gli elementi utopistici espressivi e dimostrativi [...] furono elaborati inizialmente intorno a richieste politiche, strumentali [...] benché i loro de-trattori li qualificassero come «utopisti», i dati giornalistici suggeriscono  che anche le loro idee più utopistiche avevano una base strategica e cultu-rale. (Tarrow 1990: 12224, passim)

Il movimento studentesco combinò vecchie e nuove forme d ’a-zione, ispirandosi sia al repertorio del movimento operaio italianoche a quello del movimento per i diritti civili negli Usa. Dal prim ovennero riprese soprattutto le forme d ’azione come i cortei e leoccupazioni che miravano a dimostrare il num ero e la decisionedei partecipanti. Dagli Stati Uniti vennero importati repertori ad al-to contenuto simbolico, in grado di attirare l’attenzione dei mezzidi comunicazione di massa come, ad esempio, i sitin o la resi-stenza pacifica. A queste forme d ’azione gli studenti aggiunsero an -

che un repertorio proprio, rielaborando in forma di protesta alcu-ni moduli d’azione collettiva propri del mondo giovanile, dove lanonviolenza veniva combinata con la provocazione simbolica.

Gli studenti elaborarono un repertorio di azione con un’alta ca-rica perturbativa, adottando spesso tattiche deliberatamente pro-vocatorie, a partire dal linguaggio scurrile e dal rifiuto dell’abbi-gliamento tradizionale. Per fare un solo esempio, in un resoconto

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sul movimento studentesco a Trento si definisce la cultura degli stu-denti come caratterizzata da «due caratteristiche: la rottura del-l’immaginario tradizionale della popolazione trentina attraversodegli choc, veri e propri choc psicologici e l’assoluto uso della non

violenza nelle azioni» (Leoni 1991: 179). Proprio a Trento vi furo-no infatti episodi di contestazione che si rivolsero, con grande irri-verenza, ai simboli della cultura tradizionale: dal «controquaresi-male» tenuto dagli studenti nel Duomo, all’interruzione del corteodel presidente della Repubblica durante le celebrazioni del 50° an-niversario della vittoria nella prima guerra mondiale, agli spoglia-relli durante gli incontri con le autorità.

Se la strategia della provocazione serviva ad attirare l’attenzio-ne sulle domande degli studenti, la pressione era esercitata sopra t-tutto attraverso la più caratteristica forma di protesta del movi-mento degli studenti: le occupazioni degli atenei. Questa forma d’a-zione combinava il bisogno di pubblicizzare le proprie richieste conquello di costruire una identità collettiva, un’esigenza particolar-mente importante per un movimento sul nascere. Secondo Peppino Ortoleva, l ’occupazione espresse infatti «la tendenza a “ritirar-si”, a separarsi dalla società dominante, la ricerca di un proprio spa-zio, di un luogo (in senso fisico, non solamente simbolico) in cui vi-vere in piena autonomia e libertà, circondati da una comunità di pa-ri, e sulla base di un sistema di valori distinto e praticato in pienaautenticità» (1988: 47). L’occupazione dell’università era infatti un«atto contemporaneamente di rovesciamento simbolico dell’auto-rità e di creazione di uno spazio proprio, separato e protetto, di spe-

rimentazione di una vita diversa» (Ortoleva 1988: 48). L’occupa-zione permise così la costruzione di densi reticoli sociali4.1 forti le-gami personali motivavano prima all’adesione e, in seguito, raffor-zavano l’impegno e ne erano rafforzati.

A parte la provocazione simbolica, in Italia come in altri paesi ilmovimento studentesco assunse, inizialmente, forme pacifiche. Nelsuo studio sul ciclo di protesta in Italia tra il 1966 e il 1973, Sidney

4 Come è stato scritto a proposito di una delle prime occupazioni dell’uni-versità di Trento, nel 1966, «[l]ì si creò il gruppo politico che poi portò avanti il resto» (Leoni 1991: 178). Nella comunità studentesca i legami di solidarietà co-struiti durante occupazioni e assemblee venivano rafforzati nella vita privata; scri-ve un attivista di allora: «Ogni appartamento era diventato un prolungamento dell’assemblea, oppure l’assemblea il prolungamento della vita in comune che si faceva all’università» (ibid.).

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Tarrow ha rilevato che le forme convenzionali di mobilitazione era-no le più numerose, crescendo in parallelo con la mobilitazione piùin generale (1990: 56130). Inoltre, per un lungo tempo, le azioni di

violenza furono limitatissime:

Malgrado l’immagine violenta che degli studenti diede la stampa bor-ghese, e malgrado la loro retorica, il movimento fu prevalentemente non violento fintantoché rimase all’interno delle mura universitarie. [...] Quan-do la violenza si manifestò, accadde molto più spesso in grandi gruppi e tra gruppi di studenti opposti, o in scontri con la polizia, che non contro obiet-tivi e autorità pubbliche. [...] L’osservazione che i movimenti sociali crea-

no nuove forme d ’azione e infondono nuovo significato in quelle vecchie è particolarmente vera nel caso degli studenti universitari. Essi organizzaro-no occupazioni che durarono settimane, utilizzarono una retorica violenta creando allo stesso tempo una retorica carnevalesca; si scontrarono fisica mente con gli oppositori e la polizia, ma raramente fecero ricorso alla vio-lenza deliberata. (Tarrow 1990: 12329, passim)

Agli interventi coercitivi delle forze di polizia per evacuare le

università occupate, almeno fino alla primavera del 1968, gli stu-denti reagirono con la resistenza nonviolenta.

Una radicalizzazione si ebbe comunque nel corso dei frequentiincontri con le forze dell’ordine, chiamate dalle autorità accademi-che a intervenire nell’università. La storia dell’ateneo torinese for-nisce una illustrazione di queste dinamiche. Il 1967 si concluse conlo sgombero di Palazzo Campana, occupato da circa un mese. Il 4

gennaio 1968 il rettore dell’ateneo torinese annunciò che il senatoaccademico aveva deciso provvedimenti disciplinari nei confrontidi alcuni degli occupanti denunciati per «occupazione di edificio»e «turbativa violenta del possesso di cose immobili»: sessanta stu-denti vennero sospesi per sei mesi da lezioni ed esami, a un assi-stente venne tolto lo stipendio e un assistente volontario venne al-lontanato. Gli studenti reagirono con una serie di iniziative pacifi-

che: riunioni in provincia con gli studenti fuorisede, volantinagginelle scuole medie, consegna dei libretti da parte di chi non era sta-to punito. Il 10 gennaio, dopo che un’assemblea di oltre mille pe r-sone aveva votato l’occupazione a oltranza, 296 studenti opposeroresistenza passiva all’immediato intervento della polizia. Dopo losgombero gli studenti iniziarono la pratica della «occupazione

 bianca», trasform ando le lezioni in discussioni con i docenti o sa- botandole , talvolta attraverso provocazioni di tipo goliardico. Con-

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tro il blocco delle lezioni i docenti chiesero spesso l’intervento del-la polizia, mentre il rettore dichiarava che il controspionaggio l’a-veva avvertito della presenza di agenti russi infiltrati (Revélli 1991:234). Il 16 gennaio due studenti vennero arrestati all’interno stesso

della università; quattro giorni dopo, con duemila studenti assiepa-ti ne ll’aula magna, si svolse un confronto tra docenti e studenti; su- bito dopo il rettore rifiutò di ricevere la delegazione che dovevatrattare l’inizio dei negoziati. Il 22 gennaio ci fu quindi una nuovaoccupazione, seguita da uno sgom bero e da una «serrata» dell’uni-versità che durò tre settimane, durante le quali le riunioni degli stu-denti si tennero alla Camera del lavoro. In marzo la spirale di vio-lenza si avvitò ulteriormente: dopo l’emissione, il 1° marzo 1968, dimandati di cattura contro tredici studenti (per occupazione di au-le o interruzione di lezione), alcuni attivisti ruppero le vetrine del-la redazione della «Stampa». Il 18 aprile gli studenti approvaronouna mozione dove si diceva:

La struttura autoritaria della società contro cui stiamo combattendo ri-vela la sua natura violenta e aggressiva. Le migliaia di processi istruiti con-

tro gli studenti in tutta Italia, le decine di ordini di cattura eseguiti a Tori-no e a Pisa, gli arresti continui, le intimidazioni nelle fabbriche, le minac-ce di spostamenti e di licenziamenti che in questi giorni accadono alla Fiat, dimostrano che il sistema si difende con tutti i mezzi contro le lotte degli  studenti e degli operai, (in De Luna 1991: 195)

Ancora a Torino, il 1° giugno un corteo di studenti e operai sfilò per le vie della città: vennero nuovamente infrante le vetrine del

quotidiano torinese e ci furono scontri e arresti.La repressione scatenò una violenza inizialmente difensiva, stru-

mentale e non fine a se stessa, una violenza che richiamava la tradi-zione del movimento operaio con riferimenti militaristici alla Resi-stenza. Come ricorda De Luna: «Si stabilì con la violenza un nessocomportamentale e non teorico» (1991: 196). Ben presto, però, laconcezione della violenza cambiò. La «battaglia» di Valle Giulia a

Roma, nel marzo del 1968, venne celebrata come vittoria militaredegli studenti, che per la prima volta reagirono anche con pietree bastoni alle cariche della polizia, tenendo «in scacco» centinaiadi agenti. Il 31 maggio dello stesso anno, ancora a Roma, negli scon-tri a Piazza Farnese durante una manifestazione di solidarietà congli studenti francesi, comparvero le prime bottiglie incendiarie e i

 primi discorsi sulla violenza come sfogo a una rabbia esistenziale.

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L’evoluzione delle forme d’azione nel movimento studentescoitaliano seguì un modello comune a molte ondate di protesta (Del-la Porta e Tarrow 1986). All’inizio del ciclo i repertori erano di ti- po più tradizionale (ad esempio, assemblee e dibattiti), e molte

azioni erano rivolte a una elaborazione culturale, funzionale alla co-struzione dell’identità collettiva. In seguito le forme di protesta m u-tarono. Dalle azioni simboliche di piccoli gruppi, orientate ad at-trarre l’attenzione di un pubblico distratto, si passò gradualmentealle azioni di massa, adatte a dimostrare il radicamento del movi-mento. Estendendosi a nuovi gruppi, la protesta interruppe la rou -tine quotidiana e confuse sia gli alleati che gli oppositori. In una fa-

se di crescente mobilitazione, form e d ’azioni irrituali e radicali, manonviolente, dovevano servire ad ampliare l’audience e raccoglierenuove adesioni. La violenza cominciava a emergere, ma quasi esclu-sivamente negli scontri con i contromovimenti della destra neofa-scista. In un secondo momento, i fronti si definirono meglio e si dif-fusero le tattiche più perturbative, cui le autorità cominciarono areagire in maniera più decisa. In questa fase la violenza si sviluppò,inizialmente in forme ancora difensive, nel conflitto con le forzedell’ordine. Proprio l’esperienza diretta nell’uso della forza portò,comunque, alla graduale specializzazione da parte di gruppi di di-mensioni molto limitate nell’uso dei repertori violenti. Mentre larepressione aumentava i costi delle forme d’azione perturbative,ma nonviolente, l’acutizzarsi del conflitto allontanava dal movi-mento i gruppi più moderati. Più la mobilitazione declinava nel nu -mero, più cresceva l’intensità della partecipazione fra coloro che ri-

manevano attivi. Per alcuni di essi l’uso di azioni violente cominciòa essere una scelta strategica, orientata a mantenere un’immaginedi forza anche di fronte al declino della mobilitazione. In alcunigruppi di attivisti la violenza cominciava quindi a essere percepitanon solo come una difesa, ma anche come uno strum ento per rag-giungere alcuni risultati. Come vedremo meglio nel prossimo capi-tolo, comunque, la pratica radicale, lungi dal produrre vittorie,

isolò i militanti. Se in alcuni casi ciò portò a una autocritica, in al-tri casi si produsse semplicemente un passaggio da una giustifica-zione strumentale a una giustificazione «estetica» della violenza

L&tessa. Concludendo, la presenza di forme di violenza variò duran-te il ciclo di protesta. Come è stato rilevato al termine di una ricer-ca quantitativa sui repertori d ’azione durante il «lungo autunno cal-do» italiano:

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L’incidenza della violenza politica è strettamente connessa all’azione collettiva in due modi: in primo luogo, essa crebbe in numero complessivo durante l’intero ciclo; in secondo luogo, il suo peso percentuale era medio  all’inizio, basso durante la fase alta della mobilitazione, e alto nella fase de-clinante dell’ondata di protesta. Le forme di protesta erano quindi parte 

del repertorio della violenza sin dall’inizio, e la loro presenza tese a cresce-re complessivamente durante l’intero ciclo. Ma fu quando l’ondata di azio-ne collettiva declinò, che la loro presenza aumentò in percentuale. (Della Porta e Tarrow 1986: 616)

4. Ambiente esterno ed emergere 

di una nuova famiglia di movimenti socialiQuali sono state le condizioni esterne per l’emergere del movi-

mento studentesco? Quali fattori esogeni ne hanno influenzato losviluppo? A queste dom ande forniremo qualche elemento di rispo-sta in questo paragrafo conclusivo. Per far questo guarderemo alle

 principali variabili che, nel capitolo in troduttivo, sono state defini-te come rilevanti per la storia dei movimenti collettivi: la strutturadelle tensioni sociali e, all’interno del sistema politico, le reazioni dialleati e oppositori.

4.1. Sintomo di crisi o nuovo movimento sociale? 

Come si è detto, l’emergere di un movimento studentesco alla

fine degli anni Sessanta è lungi dal presentarsi come un fenomenotipicamente italiano. La compresenza di movimenti studenteschi invari paesi è stata spiegata come reazione a fattori demografici5: lacrescita esponenziale delle nascite (baby boom) degli anni Cin-quanta, legata in parte allo sviluppo economico del dopoguerra,aveva avuto come conseguenza, alla fine degli anni Sessanta, un au -mento annuo degli iscritti all’università (che in Italia passeranno da

268 mila nel 1960 a oltre 450 mila nel 1968). La riforma della scuo-la media aveva creato inoltre le basi per un’espansione anche delladomanda di istruzione superiore, mentre una società sempre piùcomplessa aumentava le esigenze di sapere scientifico e tecnologi

’ Utili rassegne delle spiegazioni sociologiche dell’emergere dei movimenti studenteschi si trovano in Rootes 1987 e Miiller 1992.

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co. Le proteste degli studenti sono state viste, in primo luogo, comeuna conseguenza dei problemi esistenti nell’università, che non riu-sciva ad adeguare la propria organizzazione alla crescente domandadi qualificazione. Le tensioni nelle università furono innanzitutto ditipo culturale. Il benessere economico aveva consentito l ’allungarsidella fase della giovinezza; la società dei consumi aveva tendenzial-mente unificato il modo di essere di una coorte di età; una prima ge-nerazione era stata socializzata ai valori democratici, dopo gli orro -ri del fascismo e della guerra. In questa situazione, i forti residui diautoritarismo presenti nella scuola e nell’università divenivano sem-

 pre meno sopportabili. L’università si sarebbe prestata, dunque, co-me cassa di risonanza dei problemi giovanili, facendo parlare di un

«1789 sociogiovanile» e di una «lotta di classe di età». Accanto aiconflitti culturali e alle tensioni generazionali, comunque, comin-ciarono a delinearsi anche tensioni economiche. I conflitti legati airitardi nell’adattamento delle vecchie strutture scolastiche ai nuovi

 bisogni divennero infatti esplosivi quando l’incipiente crisi econo-mica cominciò a minacciare il mercato del lavoro intellettuale.

In una visione meno «reattiva», la protesta studentesca è stata vi-

sta come critica alla impersonalità e iperburocratizzazione della so-cietà tecnocratica, ed espressione del primo emergere di una genera-zione postmoderna. Le forme più dissacratorie nell’azione degli stu-denti sarebbero state un segno di una rottura epocale destinata a ma-turare negli anni Ottanta: «Il maggio ’68, con tutto il suo avventuro-so eudemonismo, il suo nichilistico sensualismo, il suo gusto adole-scenziale per lo sberleffo dissacratorio, ha aperto la via all’edonismo

individualistico degli anni Ottanta» (Bongiovanni 1991: 110). E in-fatti, già al suo emergere, la mobilitazione studentesca era stata salu-tata come riappropriazione delle origini libertarie e democratiche delmovimento operaio, contro la tecnocrazia e le gerarchie; un ultimoconflitto di classe del vecchio mondo, e primo di un nuovo mondo(Touraine 1968). Alla congiunzione di una crisi di passaggio e dellanascita di una nuova epoca, la protesta degli studenti avrebbe espres-so contemporaneamente i bisogni di modernizzazione e l’antagoni-smo all’interno di un nuovo modello di sviluppo sociale postindustriale. Nel nostro paese, a questi due elementi si sarebbe unita la rea-zione a una crisi politica come ha osservato Alberto Melucci,

Il ’68 rappresenta in Italia il primo momento di congiunzione tra un importante processo di modernizzazione del paese e l’apparizione embrio

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naie di nuovi movimenti antagonisti. Le spinte innovative destinate ad ac-celerare il passaggio verso il capitalismo maturo si scontrano con l’arcai-smo della struttura sociale e con un sistema politico bloccato nell’impossi-bile mediazione tra gli interessi più tradizionali e le necessità di riforma di  

una società avanzata. (1982: 101102)

4.2.11 movimento studentesco e la «vecchia»sinistra 

Quest’ultima citazione ci riporta alle caratteristiche del sistema politico, che senza dubbio ebbero, non solo in Italia, una influenzarilevantissima sull’evoluzione del movimento studentesco. La con-temporanea presenza di mobilitazioni studentesche nella maggior 

 parte delle democrazie industriali è stata collegata a una aperturadella struttu ra delle opportun ità politiche. La fine della guerra fred -da portò a una almeno parziale «depolarizzazione» nella politica in-terna delle democrazie occidentali, aprendo nuovi spazi per l’azio-ne collettiva. Al contempo, aumentò il potere dei potenziali alleatidegli attori della protesta. I partiti di sinistra, più vicini al movi-

mento degli studenti, andarono al governo in Germania e negli Sta-ti Uniti o si avvicinarono a esso, come accadde con il centrosinistrain Italia. Questo aumentò le speranze degli attivisti dei movimenti,ma poi spesso provocò anche amare delusioni. Anche in Italia, so-

 prattutto al suo nascere, il movimento studentesco trovò molti al-leati. All’interno dell’università gli studenti godettero spesso del so-stegno dei gruppi orientati verso una riforma del sistema accade-

mico quali, tra l’altro, le associazioni nazionali dei professori in-caricati e degli assistenti (A n p u r  e A n a o ). All’esterno dell’univer-sità, il movimento degli studenti coagulò forze politiche già orien-tate al cambiamento in primo luogo la sinistra cattolica, il Pei e isindacati.

Pe r quanto riguarda la Chiesa cattolica, già in periodo preconciliare erano emerse nelle organizzazioni più tradizionali come

l’Azione cattolica (Ac), le A c l i   e la Federazione degli universitaricattolici italiani (Fuci) così come nelle iniziative di don Prim o Mazzolari, don Milani, padre Balducci, Giorgio La Pira o della rivista«Testimonianze» una insofferenza verso l’intervento della gerar-chia ecclesiastica a favore di posizioni conservatrici e pressioni per una «riaffermazione dei valori cristiani». Dopo l’enciclica giovan-nea Pacem in terris erano iniziati incontri tra ambienti cristiani e co-

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munisti. La delusione per i compromessi del Concilio Vaticano IIaveva favorito la nascita di gruppi spontanei (intitolati, ad esempio,a Camillo Torres, prete morto combattendo con i guerriglieri in Co-lumbia nel 1966), comunità fondate sulla partecipazione egualita-

ria (come quelle dell’Isolotto a Firenze), e aggregazioni politiche(come Cristiani per il socialismo). Il Sessantotto offrì a questi reti-coli una nuova identità, portandoli a denunciare il carattere anti-evangelico della Chiesa istituzionale e ad aderire alle lotte della clas-se operaia. A partire dal 1968 si delineò, così, nelle forze cattolicheuna polarizzazione fra tendenze innovative e conservatrici raffor-zate queste ultime dalla riaffermazione, da parte di Paolo VI, della

dottrina tradizionale sulla regolazione della natalità, l’autorità del-la gerarchia e il celibato del clero, oltre che dalla ribadita necessitàda parte dei vescovi della unità politica dei cattolici (Verucci 1991).

Se una parte della contestazione della fine degli anni Sessantanacque all’interno della Chiesa cattolica, fu comunque nella sinistratradizionale che i nuovi movimenti trovarono i loro principali al-leati. In questa fase il Pei cercò di integrare la protesta in una stra-tegia di opposizione riformista, mantenendo nonostante le criti-che interne e le controversie ideologiche un atteggiamento di coo-

 perazione rispetto alla Nuova sinistra. Almeno fino al 1973 il Peiconsiderò i movimenti di protesta come una componente del «fron-te unito della sinistra» nella lotta per le «riforme di struttura». La

 presenza di un forte partito di sinistra all’opposizione influenzò imovimenti, portandoli a scegliere schemi ideologici che erano co-nosciuti e accettati nella sinistra. La Nuova sinistra adottò quindi

un linguaggio che poteva essere capito dai militanti del Pei:

In un paese in cui il principale partito nella sinistra istituzionale aveva ottenuto la sua egemonia sottolineando l’idea che esso rappresentava mol-te forze sociali alleate alla classe operaia, coloro che cercavano di creare  uno spazio politico alla sua sinistra dovevano presentare le loro domande in un modo che fosse comprensibile per la cultura politica tradizionale del-la sinistra. (Tarrow 1989: 51)

Enfatizzare i simboli e gli schemi di riferimento più profonda-mente radicati nella cultura tradizionale della sinistra rappresenta-va, quindi, un modo di definire una più larga base di riferimento.Adottare delle formule appena abbandonate dalla «vecchia» sini-stra era, inoltre, una forma di «differenziazione del prodo tto», cioè

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di affermazione delle proprie specificità. Bisogna aggiungere co-munque che la critica alla sinistra tradizionale non si era rivolta so-lo al suo «revisionismo», ma anche alla sua resistenza al cambia-mento, alla sua sclerosi.

Diversamente che nei paesi dove erano dominanti nella sinistrai partiti socialisti o socialdemocratici, il principale partito della si-nistra italiana, il Pei, non solo era ancora, nella sua ideologia e nel-la sua pratica, un partito operaio, ma inoltre, dal 1947, non era maistato al governo e neanche vicino a esso. Come partito d’opposi-zione, il partito comunista aveva un interesse a «guidare» o con-trollare tutti i movimenti di protesta che si sviluppavano alla sua

sinistra. La lontananza dal potere lo aveva infatti spinto a sostituirerisorse materiali con risorse ideologiche, riducendo i livelli di tolle-ranza per ogni «deviazionismo» ideologico. Così, almeno negli an-ni Sessanta, il Pei era un partito centralizzato che lasciava pochissi-mo spazio a una opposizione interna. Possiamo dire dunque che, inItalia, le organizzazioni dei movimenti collettivi si trovarono difronte al bisogno, in parte contradd ittorio, di differenziarsi dal Pei,ma al contem po di evitare la rottu ra con la base di quel partito. Dal-l’altra parte, come partito di opposizione, il Pei aveva un interessea stimolare i movimenti di protesta, ma non sopportava la presen-za di forze autonome, soprattutto alla sua sinistra.

La posizione del Pei si riflesse in quella dei sindacati, per i qua-li la metà degli anni Sessanta aveva portato tumultuosi mutamenti.L’apertura del movimento sindacale verso i movimenti è stata spie-gata a partire da alcune sue caratteristiche interne. A proposito del

caso italiano si è parlato, in primo luogo, di una singolare sintoniatra mondo studentesco e mondo operaio, favorita anche da una tra -dizionale attenzione del sindacalismo operaio verso studi ed elabo-razioni culturali, oltre che dall’ingresso nelle fabbriche dei giovaniscolarizzati (Manghi 1991). L’esplodere, nelle fabbriche, delle ten-sioni accumulatesi con l’espansione delle assunzioni a una classeoperaia dequalificata e immigrata portò , a partire dall’autunno cal-

do del 1969, alla più estesa ondata di scioperi della storia della Re- pubblica italiana. Sia nelle scelte di forme d ’azione poco ortodosse(che includevano nuove forme di sciopero, a «singhiozzo», a «scac-chiera» o sciopero «selvaggio») che in quelle di strutture organiz-zative basate su una democrazia partecipativa (comitati di base edelegati), gli operai si trovarono concordi con gli studenti. Una p ar-te della spiegazione dell’apertura ai nuovi attori sociali sta, inoltre,

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nella debolezza della sinistra: basti ricordare che nel 1967 si era toc-cato il minimo storico degli iscritti al Pei e l’anno successivo il mi-nimo storico degli iscritti alla Cg i l . A questa debolezza congiuntu-rale si sommava una debolezza strutturale, legata al limitato rico-

noscimento del sindacato sia nelle imprese che nelle istituzioni.Ma più che dalla debolezza in sé, l’atteggiamento del movimen-to operaio rispetto al movimento studentesco fu influenzato dallareazione a essa. Come osserva Accornero (1992:54), in modo simi-le al new deal negli Stati Uniti, al Fronte popolare in Francia e ai go-verni socialdemocratici nei paesi scandinavi negli anni Trenta, l’au -tunno caldo portò in Italia al riconoscimento sociale del lavoro ma-nuale e alla legittimazione politica dei sindacati. A rafforzare il mo-vimento operaio contribuì il processo di unificazione sindacale, cuiera collegata l’idea di una crescente autonomia dal governo e dai

 partiti, oltre che dai «padroni». A venti anni dalla scissione sinda-cale del 1948, la rescissione dei legami con i partiti, attraverso l’in-compatibilità delle cariche sindacali con cariche parlamentari o di

 partito, divenne infatti il presupposto per l’unificazione. I sindaca-ti italiani si caratterizzarono, inoltre, in questi anni, per l’afferma-

zione, anomala nel panorama internazionale, di un radicale eguali-tarismo. Ancora secondo Accornero (1992: 31), «Che ne fosseroconsci oppure no, i sindacalisti e gli operai che nel Comitato cen-trale della F io m  optarono per gli aumenti uguali per tutti tradusse-ro in domanda rivendicativa un intero filone utopico e rivoluziona-rio». AH’egualitarismo salariale si accompagnò una strategia diriforme contro l’autoritarismo in fabbrica, le ferie diseguali e le

mense separate per operai e impiegati. Nel 1969, anno in cui si rag-giunse un picco senza precedenti di ore di sciopero, la formula o r-ganizzativa dei delegati di reparto e dei consigli di fabbrica rapp re-sentò la scelta, da parte del sindacato, di un principio di rappre-sentanza universalistica. Al modello rivendicativo egualitario si af-fiancarono un modello sociale proletario e una cultura conflittualeche esaltava l’antagonismo dei rapporti sociali (Accornero 1992:

92). I conflitti si espressero attraverso l’adozione di tecniche che,come lo sciopero articolato, erano comunque legate soprattutto al-la produzione. La conseguenza dei primi successi fu una strategiamassimalista del sindacato, che tendeva a estendere l’azione dallafabbrica al sociale, aprendo vertenze su una serie di temi che spa-ziavano dalle pensioni alle riforme.

Gli studenti trovarono dunque il loro principale alleato in un

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movimento operaio in espansione e combattivo. Si è già detto cheal declino della protesta nell’università corrispose la sua espansio-ne all’esterno; com’è stato osservato nel corso di una ricerca com- parata sui movimenti studenteschi:

Che l’allargamento della lotta al di fuori dell’università dovesse neces-sariamente portare, prima o poi, a un incontro con la classe operaia era  convinzione largamente condivisa nel movimento studentesco europeo, anche in quei settori che meno accettavano l ’ortodossia marxistaleninista e più sottolineavano la necessità di cercare nuove strade per l’attività rivo-luzionaria. (Ortoleva 1988: 185)

Differentemente che in altri paesi, però, in Italia gli studenti«incontrarono» la classe operaia. La situazione di smobilitazionenelle università dopo l’estate del 1968 è descritta con parole acco-rate da uno dei leader degli studen ti torinesi:

Il loro privato era ormai la politica e dovevano applicarla a qualcosa, ma avevano perso l’oggetto. Il periodo tra il ’68 e il ’69 per me è stato an-gosciosissimo perché non potevamo fare nient’altro che militanza politica, ma non potevamo farla, perché tutto quello che facevamo ci si perdeva fra le mani. A un certo punto abbiamo finito per applicare questo desiderio al-la Fiat, (in Passerini 1988: 132)

Per ragioni in parte indipendenti dagli studenti stessi, alla Fiatquesto desiderio si realizzò. Qualsiasi fosse la realtà circa le possibi-lità di una stabile alleanza fra lavoratori e studenti, l’immagine che

si sviluppò alla fine degli anni Sessanta fra gli attivisti del movimen-to studentesco fu quella di un grande entusiasmo per il «fronte uni-to operaistudenti». Per usare le parole di una studentessa torinese:

Nell’autunno del 1968 successe l’impossibile. Gli studenti convocaro-no un’assemblea generale dei lavoratori nell’università. E quelli arrivarono a centinaia [...] L’ingresso era completamente pieno era impressionante! La maggior parte erano immigrati. Ed essi non solo riempirono l’aula, ma 

presero anche il microfono e parlarono delle loro condizioni di vita, (in  Fraser 1988: 251)

L’incontro degli studenti italiani con la classe operaia trasformòle loro tattiche, strategie e, conseguentemente, le loro forme orga-nizzative. Come ricorda un attivista, dopo la mobilitazione operaiaalla Fiat Mirafiori:

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Non potevamo crederci noi stessi. Scoprimmo immediatamente che  avevamo un ruolo da svolgere e che nessuno lo metteva in discussione. Co-si finimmo per fare nel 1969 quello che avevamo rifiutato di fare nel ’68. E  ovviamente ciò portò piano piano alla professionalizzazione della militan-za, alla formazione del partito politico, e a tutto quello contro cui avevamo 

lottato nel ’68. (in Fraser 1988: 251)

Se nel 1968 la maggior parte dei gruppi studenteschi facevanoappello alla democrazia diretta, dopo l’autunno caldo del 1969 essientrarono sotto l’influenza del modello di organizzazione operaia.Come ha spiegato Luigi Manconi (1990, cap. 2), ci fu un passaggioda un modello organizzativo studentesco caratterizzato da una

stru ttura a fisarmonica, che mutava a seconda dei bisogni, amplian-dosi nella fase dell’azione e restringendosi in quella della prepara-zione a un modello operaio caratterizzato invece da stabilità e

 proiezione teleologica con una stru ttura esclusiva e centralizzata.

4.3. Il movimento studentesco e lo Stato 

Se la disponibilità di alleati nella vecchia sinistra e nel movi-mento operaio certamente rafforzò il movimento degli studenti, es-sa spinse comunque gli studenti a schierarsi in un campo dove sisvolgeva una dura battaglia. Mentre gli studenti ricevettero inizial-mente molte espressioni di solidarietà, man mano che il movimen-to si caratterizzò come alleato del movimento operaio e «di sini-stra», esso ereditò anche il sistema di conflitto del movimento ope-raio e della sinistra. Ciò facilitò la polarizzazione dell’opinione pub -

 blica e la radicalizzazione di atteggiamenti e comportamenti sia de-gli studenti che dei loro avversari.

Le prime controparti degli studenti furono le autorità accade-miche, le quali reagirono inizialmente in maniera molto indecisa.Se le prime occupazioni vennero spesso forzatamente interrottedall’intervento della polizia, ben presto i rettori si resero conto che

la presenza delle forze dell'ordine nell’università interrom pendotra l’altro la tradizione di autogoverno del mondo accademico aveva l’effetto di creare ondate di solidarietà con gli studenti piùattivi. Proprio per evitare di accrescere le simpatie verso la prote-sta, le occupazioni vennero in seguito tollerate, talvolta per lunghesettimane, e gli studenti ottennero le prime concessioni. Anche le

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reazioni nella sfera pubblica furono, inizialmente, positive: comeha osservato Gian Giacomo Migone (1991: 17), le prime m obilita-zioni studentesche «vengono accolte dalla maggioranza della stam-

 pa come un qualsiasi movimento rivendicativo, di carattere setto-riale, non privo di alcune sue buone ragioni». Alcune rivendicazio-ni degli studenti incontrano consensi all’interno stesso del governo,non solo nel Psi ma anche nella sinistra De. Come si è detto gover-ni di centrosinistra avevano presentato ampi programmi di riforme.Parte di queste riforme erano state varate: tra le più importanti, lanazionalizzazione dell’industria elettrica e la scuola media unificata,obbligatoria fino ai quattordici anni. La crisi economica che, pro -

 prio nel 1963, portò a restrizioni del credito ostacolò comunque il processo di trasformazione. Molti progetti, che riguardavano tral’altro il decentramento amministrativo, il sistema fiscale e la buro -crazia pubblica, rimasero sulla carta. Tra di essi, proprio la riformauniversitaria divenne uno dei punti di maggiore tensione all’internodi un centrosinistra già scosso dalle divisioni interne.

Queste incertezze iniziali si tradussero in un uso moderato delle

forze di polizia, che rappresentò sicuramente una rottura rispetto aldecennio precedente. Gli anni Cinquanta erano stati infatti caratte-rizzati da un’aspra repressione di diversi gruppi politici e forme di

 protesta: «Il mezzo prevalente per mantenere l’ord ine pubblico haconcluso l’autore di una delle poche ricerche in materia fu l’usodelle armi da fuoco da parte delle forze di polizia, contro manife-stanti, scioperanti, contadini che occupavano le terre» (Canosa

1976: 181). Cifre crudeli possono essere citate a sostegno di questaaffermazione: tra il 1948 e il 1962, 95 dimostranti vennero uccisimentre le forze di polizia caricavano cortei e manifestazioni usan-do armi da fuoco (Canosa 1976: capp. 2 e 3, pp. 12728, 13334,21013,21724). Le leggi sull’ordine pubblico così come le caratte-ristiche organizzative delle forze dell’ordine favorirono infatti stra-tegie repressive dure e diffuse. Per quanto riguarda l’assetto legi-slativo, il corpo di leggi che regolava la pubblica sicurezza, risalen-te al regime fascista, dava ampi poteri alla polizia. Nel 1948, inol-tre, una nuova legge permise l’arresto immediato dei manifestantiche bloccavano il traffico e i «Regolamenti sui servizi territoriali edi ordine pubblico» diedero alla polizia maggiori poteri nell’usodelle armi da fuoco nel caso di dimostrazioni che «minacciavano»l’ordine pubblico, stabilendo che: «Il fuoco dovrà essere direttocontro gli individui che appaiono più pericolosi, che incitano alla

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violenza e, possibilmente, contro i capi dei dimostranti» (cit. in Canosa 1976: 146). Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi, lestrategie di repressione più dura e diffusa vennero facilitate dall’e-

 purazione dalle forze dell’ord ine degli expartigiani, dalla riaffer-

mazione della dipendenza della polizia dal potere esecutivo nazio-nale e dalla militarizzazione della polizia, che comportava il divietodi riunirsi in sindacati, oltre a un training di tipo prevalentementefisico, orientato al controllo dei disordini di massa più che alla lot-ta contro il crimine. Se il controllo repressivo della protesta, che ri-fletteva le tensioni della guerra fredda, prevalse per tutti gli anniCinquanta, il clima mutò com unque negli anni Sessanta, quando le

strategie di controllo divennero più «morbide» e selettive. Questaaffermazione si può riassumere in un dato: tra il 1963 e il 1967 nonun dimostrante venne ucciso dalla polizia. D urante l ’emergenza delmovimento studentesco, la polizia spesso tollerò marce spontanee seppure non autorizzate come prescriveva la legge e l’occupa-zione di edifici pubblici, e non fece ricorso ad armi da fuoco.

Alle prime aperture seguì comunque una progressiva polarizza-

zione. Man mano che le forme di azione divenivano più dirompen-ti, la stampa accentuò i toni critici. Le rubriche di lettere dei letto-ri riportavano sempre più spesso reazioni che riflettevano una con-cezione della protesta come attacco alla democrazia. Illustrativauna lettera al quotidiano torinese «La Stampa», dove si legge: «So-no un padre che lavora dieci ore al giorno per far studiare il propriofiglio all’Università [...] Non credo che ci sia una grande differenzafra la marcia su Roma e l’occupazione dell’Università. Le armi ri-mangono sempre le stesse: l’intimidazione e il disprezzo per le leg-gi democratiche» (in De Luna 1991: 199).

Più frequenti si fecero inoltre gli scontri, anche fisici, tra gli at-tivisti del movimento e gli studenti di destra, che pure in un primotempo avevano appoggiato molte rivendicazioni studentesche. Du-rante gli anni Cinquanta e nella prima metà degli anni Sessanta c’e-rano state limitate occasioni di interazioni dirette tra neofascisti e

militanti della sinistra, soprattutto nel corso di alcune occasioni ri-tuali ad esempio, quando la sinistra dimostrava contro i congres-si nazionali del Msi o contro i comizi dei suoi leader, in particolarenelle città dei distretti industriali del Nord o delle regioni rosse delCentro. A partire dalla fine degli anni Sessanta gli scontri tra mili-tanti delle due opposte fazioni divennero invece sempre più fre-quenti. In questa fase le interazioni seguivano un modello prestabi-

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lito: gli studenti di sinistra occupavano una scuola o una facoltà evenivano quindi attaccati dall’esterno dai gruppi neofascisti, checercavano di «disoccuparla», ristabilendo quello che essi definiva-no il «diritto allo studio».

Questa polarizzazione si riflesse anche in un isolamento deglistudenti dai loro alleati più moderati e in una reazione più decisada parte delle autorità accademiche che, ad esempio, comincia-rono a tollerare sempre meno le occupazioni delle università, ri-chiedendo sempre più spesso l’intervento delle forze dell’ordine. Inquesta fase di particolare tensione riemersero anche le più tradizio-nali strategie poliziesche di controllo dei disordini. Alla fine degli

anni Sessanta gli interventi della polizia si fecero sempre più duri.Invertendo il trend inaugurato dal centrosinistra, le cariche della polizia produssero tre morti tra i partecipanti a un corteo sindaca-le nel 1968, mentre altri tre dimostranti verranno uccisi nel 1969(Della Porta 1995, cap. III).

Le trasformazioni nei repertori di controllo della polizia riflessero quelle nel sistema politico. Il centrosinistra, formatosi nel1963, aveva assunto una posizione liberale che si era espressa in una

 più avanzata legislazione sul tema dei diritti civili (Grevi 1984). P ro- prio il movimento studentesco contribuì, però, alla definitiva crisidel centrosinistra, che si spaccò tra un Psi che chiedeva il disarmodella polizia in servizio di ordine pubblico e partiti conservatori chevolevano un intervento più deciso contro i disordini. Le pressionidei movimenti collettivi ebbero alcune risposte in Parlamento. Nel1969 una riforma migliorò il sistema pensionistico. L’anno succes-

sivo vennero varate le leggi di implementazione delle regioni e deireferendum abrogativi, figure entram be previste dalla costituzione.Ancora nel 1970 venne emanato lo Statuto dei lavoratori (che, tral’altro, fissava il diritto di assemblea e organizzazione sindacale sulluogo di lavoro) e concluse il suo iter la legge che istituiva il divor-zio. Tra il 1968 e il 1972, comunque, se la formula del centrosini-stra sopravvisse in una serie di governi dalla vita molto breve, le spe-

ranze di grandi riforme furono però accantonate e nel controllo del-l’ordine pubblico prevalsero le strategie più coercitive. Basti ricor-dare che alla fine del 1968 ben 2.700 studenti risultarono denun-ciati per la mobilitazione all’università; nel 1970 si aggiunsero a es-si 10 mila operai sotto processo per le lotte dell’autunno caldo (Melucci 1992: 109). Al di là della «politica visibile», inoltre, una partedelle forze di destra avevano congiurato contro il governo, attra-

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verso piani di colpi di stato e l’uso dei servizi segreti per ricattare lasinistra6. Come abbiamo visto, la reazione da parte dei movimentialla repressione fu una iperpoliticizzazione, che poi paradossalmente rafforzò la vicinanza tra studenti e vecchia sinistra. Con una

opinione pubblica e delle forze politiche nettamente schierate lungo il continuum destra-sinistra, il movimento degli studenti fu costretto a scegliere i suoi alleati nel Pei e nei sindacati. La polarizzazione favorì dunque, paradossalmente, il colloquio tra studenti ePei: «Colloquio possibile ora, pur con notevoli difficoltà e disaccordi, perché il linguaggio e i referenti divengono comuni: il predominio del politico, la conquista del potere, la centralità operaia.

Appannato il “desiderio dissidente”, un colloquio con gli “estremisti” diventa possibile» (Grispigni 1991: 297).

Riassumendo, nella fase aurorale della famiglia della sinistra libertaria troviamo in Italia un movimento caratterizzato da unastruttura organizzativa inizialmente informale, decentrata e partecipativa, con un’adesione inclusiva anche se totalizzante. Già in

questa fase, comunque, emergono i segni di una evoluzione versomodelli più strutturati e gerarchici, e, soprattutto, verso una partecipazione tendenzialmente esclusiva. L’assemblea, considerata come principale strumento organizzativo della democrazia partecipativa, rivela infatti i suoi limiti dal punto di vista del reale coinvolgimento della base e della efficienza nelle decisioni. Dal punto di vista ideologico, il movimento studentesco è stato caratterizzato da

un ottimismo utopistico, con una rapida estensione dell’attenzionedall’università alla società nel suo complesso. Il conflitto con lo Stato porterà, in particolare, alla prevalenza di una definizione politica del conflitto, rispetto a quella più culturale presente inizialmente. Questo stesso conflitto, unito a frequenti scontri fisici con i neofascisti, influenzò anche le forme di protesta. Dalla provocazionesimbolica che caratterizzava le prime azioni, le tattiche si radicaliz-

zarono fino a un’accettazione della violenza «difensiva».

6 Nel 1964 il capo del Servizio di sicurezza militare (S i f a r  ), generale De Lorenzo, fu accusato di pianificare un colpo di stato e costretto alle dimissioni. Durante l’«era De Lorenzo», il S i f a r   aveva raccolto informazioni sulla vita privatadei principali uomini politici dei vari partiti. In generale, sui servizi segreti cfr. DeLutiis 1991; sulla «strategia della tensione» cfr. Ferraresi 1995.

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Guardando all’ambiente esterno in cui la protesta emerse, abbiamo osservato che la principale peculiarità del movimento studentesco italiano furono i suoi intensi rapporti con il movimentooperaio. Le risorse organizzative iniziali vennero dai «partiti» studenteschi, ma anche dai gruppi operaisti. Gli studenti collegaronole loro rivendicazioni anti-autoritarie con la «rivoluzione delle classi lavoratrici» e cercarono nelle grandi fabbriche i loro alleati. L’immagine del movimento degli studenti come alleato della classe operaia divenne dominante quando i nuclei di attivisti nelle varie università rafforzarono i loro legami con l’uno o l’altro dei gruppi operaisti, costituendo le principali organizzazioni della Nuova sinistra.

Più che altrove in Europa, la Nuova sinistra italiana usò simboli ecategorie noti e accettati dai militanti della vecchia sinistra, e riuscìa reclutare anche fra i lavoratori più critici della linea del sindacato. Per quanto riguarda il repertorio d’azione, il movimento importò forme di protesta elaborate dal movimento per i diritti civilinegli Stati Uniti, ma riprese anche le forme di azione della vecchiasinistra. Gli studenti occuparono scuole e università, indissero scio

peri e organizzarono picchetti. Sebbene i leader sindacali criticassero spesso gli studenti per la radicalità delle loro forme d’azione,gli eventi di protesta più perturbativi si ebbero quando studenti eoperai si mobilitarono insieme (Tarrow 1990: 166-69). Nonostantereciproche critiche, gli obiettivi e le strategie della vecchia e dellaNuova sinistra coincisero in larga misura. Almeno fino al 1974, imovimenti della sinistra libertaria percepivano la vecchia sinistra, ein particolare il Pei, come il loro principale alleato. La posizione dientrambi i raggruppamenti della sinistra rispetto alle élite era caratterizzata infatti da una forte conflittualità.

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MOVIMENTI COLLETTIVI E VIOLENZA POLITICA:LA RADICALIZZAZIONE DELLA PROTESTA

Il ciclo di protesta iniziato nella seconda metà degli anni Sessanta portò, almeno nella politica visibile1, a una polarizzazione trai sostenitori della necessità di modernizzare il paese, e completareil consolidamento democratico, e i difensori dei vecchi equilibri.L’autunno caldo mise in crisi il modello di sviluppo economico, basato sulle esportazioni e la compressione dei salari, che aveva dominato gli anni Cinquanta. Nell’autunno del 1973, la decisione dei

paesi dell’OPEC di aumentare (fino al 70 per cento) il prezzo del petrolio, riducendone le forniture, segnò l’avvio di una lunga recessione economica, caratterizzata contemporaneamente da stagnazione e inflazione (stagflation, si disse allora). La particolare debolezza strutturale dell’economia italiana, in particolare la scarsità dirisorse energetiche e un sistema arretrato di relazioni industriali, accentuò gli effetti della crisi, portando a fughe di capitali, crescita del

settore «sommerso» del mercato, aumento del debito pubblico e riduzione della produzione. Al contempo, le frequenti svalutazionidella lira accentuavano l’inflazione.

Nel corso del decennio, l’emergenza non fu solo economica.Nel 1970, le Brigate rosse (Br ) avevano annunciato la loro decisione di «prendere le armi» contro lo Stato e il capitalismo; i Nucleiarmati proletari (Nap) seguirono la stessa strada pochi anni dopo.

Nel 1974 vi furono i primi omicidi politici del terrorismo «rosso»,giustificati come «incidenti sul lavoro»; nel 1976, i primi omicidipremeditati. Fu, comunque, soprattutto nella seconda metà del de

1 Alessandro Pizzorno (1993) ha infatti osservato che ai forti conflitti ideologici nella sfera visibile della politica si accompagnava spesso una gestione consociativa in una sfera occulta.

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cennio che le organizzazioni clandestine cominciarono a destare serie preoccupazioni. Sia il numero delle azioni terroristiche che quello delle formazioni clandestine di sinistra avevano infatti avuto una

impennata a partire dal 1977. Tra il 1976 e il 1980, 97 persone persero la vita e 145 rimasero ferite nel corso degli attentati del terrorismo «rosso». Nel 1978 vi fu una delle azioni più clamorose delleB r  : il rapimento, e successivamente l’omicidio, del presidente della De, Aldo Moro. Come vedremo, nel corso del decennio, inoltre,il terrorismo «nero» interagì con quello «rosso», con un susseguirsi di massacri di cittadini inermi che culminarono nella strage di Bologna, nell’agosto del 1980. Il conflitto all’interno delle stesse élite

dirigenti sui modi di affrontare le frequenti crisi portò a instabilitàgovernativa, con una compresenza di riforme e repressione.

A livello dei movimenti, questa situazione si riflesse in una divaricazione strategica. Nel corso degli anni Settanta, infatti, i movimenti della sinistra libertaria seguirono due strade. Da un lato, alcune organizzazioni si istituzionalizzarono, entrando in Parlamento o partecipando ai nuovi organismi di governo decentrati. Dal

l’altro lato, le forme di protesta si radicalizzarono. Al declino dellamobilitazione nell’università seguì, come si è detto, un lungo ciclodi protesta. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, la mobilitazione si estese ai temi urbani, alla liberazione della donna, alla condizione giovanile. A partire dal 1972, i piccoligruppi informali che avevano sviluppato, su modelli importati dagli Stati Uniti e dal Nord Europa, una pratica di self-help sui temi

della (allora ancora illegale) contraccezione e della salute delle donne, si incontrarono con i collettivi femministi formatisi all’internodella Nuova sinistra, concentrandosi su temi più «politici». In risposta al referendum, richiesto da organizzazioni cattoliche, per l’a brogazione della legge che consentiva il divorzio, mobilitazioni dimassa si svilupparono, anche a favore della liberalizzazione dell’aborto. La seconda metà degli anni Settanta vide il riflusso della mobilitazione visibile, con una latenza dei movimenti di massa, latenza interrotta tuttavia da un’ondata di protesta giovanile nella primavera del 1977 e dalla campagna contro la costruzióne di centrali nucleari, culminata nell’estate del 1978. In tutto il periodo, le forme di protesta si radicalizzarono, mentre una massiccia ondata diterrorismo distruggeva gli spazi per l’azione collettiva.

Le dinamiche di questa radicalizzazione possono essere meglioanalizzate guardando - come faremo nei prossimi paragrafi - ai tre

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elementi caratterizzanti i movimenti collettivi: i modelli organizzativi, l’ideologia e le forme d’azione. Come si vedrà nella quarta parte di questo capitolo, l’evoluzione dei movimenti della sinistra libertaria fu influenzata dalla mutata struttura delle opportunità po

litiche, in particolare da una situazione di progressivo isolamento diuna protesta che diveniva sempre più violenta.

1. La struttura organizzativa:frammentazione e settarismo

L’evoluzione della struttura organizzativa dei movimenti dellasinistra libertaria è caratterizzata da una duplice dinamica di strutturazione e destrutturazione - con tendenze, in entrambi i casi, siaverso la istituzionalizzazione dei repertori che verso la loro radica-lizzazione. Quasi contemporaneamente, si assistette, infatti, allaistituzionalizzazione dei gruppi della Nuova sinistra e alla sedimentazione delle prime organizzazioni clandestine. In parte come

reazione a questi processi, si ebbero le continue scissioni di alcunefrange che dicevano di opporsi, tra l’altro, alla «burocratizzazione»delle organizzazioni al cui interno si erano costituite. Nel corso dicontinue trasformazioni, alcuni gruppuscoli si evolveranno versouna critica di tipo prevalentemente controculturale; altri farannoun crescente uso della violenza.

Non solo in Italia, il movimento studentesco è stato seguito da

altri movimenti che - pur derivandone direttamente - ne criticavano tuttavia alcune «degenerazioni», rappresentando quindi, rispetto a esso, contemporaneamente una continuazione e un superamento. A partire dagli anni Settanta, il movimento femminista cosìcome quello giovanile sperimentarono forme organizzative alternative al modello leninista tipico delle organizzazioni della Nuova sinistra, stigmatizzandone il «verticismo», la burocratizzazione e il

centralismo. Il movimento femminista così come quello giovanile sistrutturarono infatti in piccoli gruppi decentrati e informali con basso livello di coordinamento, enfasi su comunitarismo e amicizia, eprivilegiamento dell’espressività sulla strumentalità, fino alla delegittimazione di ogni tipo di potere formale e burocratico.

Per quanto riguarda il movimento delle donne - con l’eccezione dell’Unione donne italiane (Ud ì), vicina al Pei, e del Movimen

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to di liberazione della donna (M l d ), vicino al Partito radicale2 - ipiccoli gruppi erano considerati come la formula organizzativa necessaria a un processo di graduale presa di coscienza della propriaoppressione. Fin dalla fine degli anni Sessanta si erano formate, sul

tema della condizione femminile, alcune prime aggregazioni che assunsero la forma di gruppi informali misti, concentrati prevalentemente sulla discussione e l’elaborazione culturale3. A partire dall’inizio degli anni Settanta, emersero i gruppi dell’autocoscienza che,prendendo a modello il femminismo americano, affrontarono temiquali la sessualità, l’aborto, il corpo. Nel frattempo, dopo un intenso dibattito, a partire dal 1972 nuclei femministi si formarono al

l’interno delle organizzazioni della Nuova sinistra, rendendosiquindi autonomi. La formula dei piccoli gruppi focalizzati su alcuni temi ebbe successo: consultori si crearono sul tema della saluteaccanto a cooperative per la formazione professionale e a centri distudio. Di importazione americana, ma anche recupero delle primeforme organizzative del movimento studentesco, il piccolo grupporappresentava, nelle intenzioni delle attiviste, il rifiuto della burocrazia e dell’aspirazione al potere, definiti come elementi tipicamente maschili. I collettivi dell’autocoscienza, sviluppatisi soprattutto fra il 1972 e il 1974, dovevano essere lo strumento capace diesprimere «i contenuti più vivi» del movimento. L’autocoscienzaavrebbe dovuto, infatti, fare emergere le basi sociali della propriaoppressione attraverso una rivisitazione della vita quotidiana insieme alle altre donne - «si congiungono così pratica politica e produzione culturale» (Boccia 1980: 69).

Questa struttura esprimeva anche una critica alla leadership tradizionale della Nuova sinistra, caratterizzata dal controllo delle risorse ideologiche. Rivolta femminile fu fra i primi gruppi a teorizzare il rifiuto di ogni leader, definito come «quella persona che cerca di rendersi indispensabile a un gruppo, facendogli credere che ilmomento più importante della vita di questo gruppo consiste nel

2 L’Ud i aveva, infatti, una struttura organizzativa burocratica e gerarchica,dotata di oltre 1.200 circoli locali e 84 provinciali, gestiti da uno staff professionale, e coordinati in una struttura piramidale. Nato nel 1970, I’Ml d aveva il suoorgano decisionale nel congresso (vincolanti le mozioni approvate con una maggioranza di 3/4); l’organo di gestione era il consiglio federativo, che nominava lasegreteria e le delegate alla segreteria del partito.

3Uno dei primi gruppi misti orientati alla sensibilizzazione sul tema delle differenze tra uomo e donna era il D emau (Demistificazione Autoritarismo), fondato nel 1966.

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fronteggiare l’esterno nei modi della cultura corrente» (cit. in Ciuf-freda e Frabotta 1974: 10). Le funzioni di coordinamento cominciarono a essere assunte da organizzazioni di movimento (quali riviste, radio o luoghi di ritrovo) costituite ad hoc4. I campeggi an

nuali, come il Convegno nazionale di Pinarella (che si terrà tre volte tra il 1973 e il 1975), rappresentarono altrettante occasioni di incontro per i collettivi attivi in tutto il paese. La critica alla leadership autoritaria e alla burocratizzazione della Nuova sinistra emerge anche nel funzionamento dei piccoli gruppi. Così vengono, adesempio, descritti gli incontri di uno dei collettivi del femminismo«storico» italiano, il Collettivo di via Cherubini (costituitosi, a Mi

lano, nel 1972):Mentre i vari gruppi di autocoscienza continuano a riunirsi soprattut

to in case private, il collettivo dei gruppi si riunisce una volta alla settimana: il sabato pomeriggio. Durante la settimana la sede ospita gruppi diversi, ma non esiste una rete formalizzata di relazioni tra tali gruppi; i contatti, quando ci sono, sono a livello informale e passano attraverso le persone.Cherubini non ha una struttura organizzativa rigida né obiettivi da perse

guire rispetto all’esterno: è un luogo, uno spazio in cui le donne possonoincontrarsi e verificare alcune acquisizioni teoriche che derivano dalla pratica dell’autocoscienza. Alle riunioni del sabato pomeriggio partecipanodalle 50 alle 70 donne; non esiste di solito un argomento predeterminato[...] Normalmente, dopo una mezz’ora di chiacchiericcio, una inizia a parlare su un argomento qualsiasi, che comunque verte intorno all’identitàfemminile. Alla fine, nessuna tira le conclusioni. (Mormino e Guarnieri1988:31-32)

Una simile frammentazione organizzativa caratterizzò anche ilmovimento giovanile, strutturato attorno a circoli giovanili di quartiere, attivi su temi quali la casa, il tempo libero, il lavoro, il costodella vita. Gestiti in forma prevalentemente assembleare, i collettivi giovanili avevano un’esistenza spesso precaria, con una sperimentazione continua di nuove formule organizzative. Anche il mo

4 Fra le riviste, a «Noidonne» (nata a Napoli nel 1944) si aggiunsero «Compagna» (nel 1971); «Effe» e «Sottosopra» (nel 1973); «Differenze» (nel 1976);«Quotidiano Donna» (nel 1978); fra le sedi cittadine, quella di via Col di Lana aMilano e di via del Governo Vecchio a Roma. Inoltre a partire dalla metà deglianni Settanta in numerose città furono aperte librerie delle donne, e fondate case editrici, collane (come II vaso di Pandora e La Tartaruga, rispettivamente nel1975 e 1976) e gruppi teatrali (come Maddalena Teatro, a Roma, nel 1973, e Tea-tra, a Salerno, nel 1977).

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vimento giovanile criticò la leadership tradizionale della Nuova sinistra, caratterizzata dal controllo delle risorse ideologiche. È statonotato, infatti, che «Il movimento del ’77 sembra aver cancellato lafigura e il ruolo del leader centrale in grado di ricomporre o co

munque controllare i conflitti interni e assicurare - verso l’esterno -il raggiungimento di obiettivi unificanti» (Lodi e Grazioli 1984:118). Anche in questo caso, alcuni giornali (come «Re Nudo»), radio «libere» (come «Radio Alice» a Bologna), e luoghi di ritrovo(come il Macondo a Milano) offrivano possibilità di interazione agliattivisti dei vari collettivi, lanciando iniziative su temi che spaziavano da «l’arte di arrangiarsi» alla emarginazione giovanile5. Molto

sporadiche furono le iniziative propagandate a livello nazionale - come, nel 1976, il festival del proletariato giovanile organizzato da «ReNudo» a Parco Lambro, o il Convegno dei circoli del proletariatogiovanile alla Statale di Milano, o ancora la manifestazione alla Scala di Milano che rappresentò l’inizio del «movimento del ’77».

Estremamente decentrata rimase, infine, anche la struttura delmovimento urbano, che emerse nella prima metà degli anni Settanta come espressione di «socializzazione del conflitto di classe».Esprimendo la richiesta di una maggiore partecipazione al governodel territorio, i movimenti urbani premettero infatti per un decentramento amministrativo, da realizzarsi attraverso una serie di consigli decentrati, prima di tutto di consigli di quartiere, ma anche diconsigli di zona, circoscrizione, frazione o rione. Coerentementecon le loro richieste, i gruppi attivi su questioni urbane si organizzarono infatti a livello locale, con rarissimi momenti di coordina

mento. Tipicamente, molti comitati locali nacquero nelle borgate enei quartieri popolari attorno alle parrocchie. Espressione dell’associazionismo cattolico di base, molti tra i comitati di quartiere nacquero infatti da gruppi di cattolici del dissenso, spesso guidati dapreti «ribelli»: «N el 1967-68, in varie parrocchie disseminate in tutta Italia, dei comuni fedeli si riunirono per dimostrare contro la gerarchia della Chiesa» (Tarrow 1990: 176). Come mostra l’esempio

di una delle più importanti di queste comunità - quella dell’Isolot-to di Firenze raccolta attorno a don Mazzi - il loro emergere si in

5 Tentativi di coordinare le azioni dei vari gruppi vennero fatti anche, ma senza troppo successo, dalle organizzazioni della Nuova sinistra: Lotta continua organizzò così il Coordinamento dei circoli del proletariato giovanile; Ao e M ls ilCoordinamento dei centri giovanili.

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trecciò con la mobilitazione di altri movimenti collettivi (Tarrow1990: 196)6. La struttura del movimento urbano rimase decentrataanche quando questi gruppi si istituzionalizzarono.

Possiamo dire dunque che si creò una controcultura di piccoli

gruppi informali e non strutturati, ma esclusivi e totalizzanti. Assolvendo a diverse funzioni all’interno e all’esterno dei movimenti,i reticoli di militanti attivi sui temi della condizione femminile, giovanile o urbana convergevano in alcuni momenti di mobilitazione,quali le campagne di autoriduzione dei prezzi di affitti e spettacoli.La struttura di questi gruppi tendeva comunque a privilegiare ilconsolidamento delle relazioni all’interno, piuttosto che la mobili

tazione all’esterno. La fase di costruzione dell’identità coincise infatti con una sorta di chiusura in se stessi e con la creazione di unacontrocultura dove rapporti politici e amicali si intrecciavano inestricabilmente, finendo per creare dei ghetti, poco sensibili alle influenze esterne.

Questo processo evolutivo dei movimenti della sinistra libertaria non è tipico solo del caso italiano. Anche in Germania, in Francia e negli Stati Uniti - ad esempio - gli anni Settanta videro il fiorire di iniziative di protesta, fortemente decentralizzate e informali.Una caratteristica del caso italiano è invece il fatto che questi processi interagirono con la istituzionalizzazione dei gruppi, numerica-mente piuttosto consistenti, della Nuova sinistra - nati nel corsodella mobilitazione studentesca - e con la creazione di strutture organizzative specializzate nell’utilizzazione della violenza. Accanto aipiccoli gruppi dei movimenti delle donne, dei giovani e urbani, si

svilupparono organizzazioni piccole ma molto agguerrite, dotate diun modello organizzativo che si adattò sempre più a quella che, progressivamente, divenne la loro attività caratterizzante: la violenza.

Per quanto riguarda le organizzazioni della Nuova sinistra, infatti, nel corso del decennio si assistette a una progressiva centralizzazione e al privilegiamento di un modello esclusivo (che, comesi è detto, scoraggiava le adesioni multiple) con un susseguirsi di na

scita e scomparsa di gruppetti e gruppuscoli. La storia di Lotta continua ci può, ancora una volta, aiutare a illustrare questo processoe le sue conseguenze. Se alla sua nascita aveva enfatizzato, come ab

6 L’esempio dell’Isolotto si estese rapidamente. Come ha rilevato ancora Tarrow, «vi fu una strettissima correlazione tra il livello del conflitto civile e industriale in varie province e lo scoppio di proteste religiose» (1990: 180).

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biamo visto nel precedente capitolo, la spontaneità organizzativa, alsuo primo congresso nazionale, nel 1970, Lotta continua - che contava allora 50 sezioni distribuite in tutte le principali città del Centro-Nord - si dotò di un comitato nazionale per il coordinamento e

di un comitato esecutivo. Nell’autunno del 1972, quando le sezioni erano salite già a 150 e l’influenza dell’organizzazione si era estesa a tutto il paese, i suoi leader cominciarono a cercare una nuovaformula che permettesse di «recuperare il patrimonio positivo dimilizia, di disciplina e di serietà operaia» (Bobbio 1988: 129). Secondo un dirigente di allora, i nuovi principi organizzativi del gruppo rappresentarono «null’altro che la riscoperta del centralismo democratico e della concezione terzinternazionalista del partito»(Bobbio 1988: 130). Insieme al centralismo democratico si affermòanche una visione esclusiva della membership. Durante la secondaconferenza nazionale di Lotta continua, il giornale della organizzazione scrisse infatti: «Non esistono solo tanti gruppi [...] Esistonotante linee politiche. Di queste una è giusta perchè contribuisce aunire e rafforzare il proletariato, le altre sono sbagliate perchè lo indeboliscono e lo confondono» (in Bobbio 1988: 97). È anche si

gnificativo che, ancora nel 1972, Lotta continua inaugurò il suoproprio quotidiano - «Lotta continua», appunto - che andò a competere, su un mercato ristretto, con altri due quotidiani della Nuova sinistra, «Il Manifesto» del gruppo omonimo e il «Quotidianodei lavoratori» fondato da Avanguardia operaia.

Nel corso di queste trasformazioni organizzative, Lotta continua così come altri gruppi della Nuova sinistra cominciarono ad af

fermare la necessità di «organizzare» la violenza politica, costituendo dei «servizi d’ordine», cioè delle unità specializzate nella«autodifesa» e nelle azioni «militanti». Questo processo fu collegato, in primo luogo, alla escalation dei conflitti con la estrema destra.Quando, infatti, gli scontri nelle scuole e nelle università divennero un’esperienza quotidiana, i militanti della sinistra e della destracominciarono a organizzare le loro azioni di «attacco» o di «difesa». Fra i militanti della sinistra, i gruppi specializzati negli attacchi

ai neofascisti divennero sempre più strutturati. Come ricorda unmilitante di allora, le attività del servizio d’ordine

consistevano nel fatto che ci incontravamo alle sei, o a ore impossibili, epattugliavamo la scuola con barre di ferro per controllare se vi fossero fascisti. Quindi, controllavamo l’ingresso per essere sicuri che gli studentipotessero entrare a scuola tranquilli. Dopo di che entravamo in classe - na

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turalmente alla seconda ora, perché eravamo membri del servizio d ’ordine,e questo era ben considerato dai professori. («Storia di vita» n. 12: 10)

Da parte loro, i neofascisti organizzavano le guardie del corpo

per proteggere i leader del Msi. Secondo il racconto di un attivistadell’organizzazione giovanile di quel partito, le sue attività politicheall’inizio degli anni Settanta consistevano esclusivamente in: «attività di ciclostile, attacchinaggio di manifesti, spalleggiamento nelleuniversità, negli scontri [...] nella presenza ai comizi, guardia armata, anche perché chiaramente questi signori [i parlamentari missini in campagna elettorale] [...] quando si spostavano avevano dei

problemi di incolumità fisica; di conseguenza scorta, controscorta»(in Pisetta 1990: 193). Molti futuri terroristi della destra e della sinistra ebbero infatti, in questi gruppi paramilitari, le loro primeesperienze con la violenza.

La violenza dei servizi d’ordine interagì con quella dei primigruppi organizzati clandestinamente. Alcuni piccoli collettivi studenteschi ritennero infatti che la concezione della «violenza di massa», prevalente nelle organizzazioni maggiori della Nuova sinistra,fosse troppo moderata e cominciarono invece a praticare una «violenza di avanguardia», che doveva rappresentare una tappa di uninarrestabile «processo rivoluzionario». Da questa area provenne ilprimo dei gruppi clandestini italiani, le Brigate rosse, fondate a M ilano nel 1970 da alcuni militanti di un gruppo della sinistra radicale, il Collettivo politico metropolitano (Cpm), a sua volta costituitoda attivisti provenienti da un piccolo gruppo politico della «rossa»

Reggio Emilia e da un gruppo studentesco attivo nell’università diTrento. Nei primi anni della loro esistenza, le B r  adottarono tattiche che erano illegali, ma non molto diverse da quelle tollerate, senon apertamente invocate, dalle altre organizzazioni dei movimenti collettivi. All’inizio il gruppo provò a mantenere una «doppia militanza»: l’organizzazione stessa era clandestina, ma i suoi membrisi impegnavano in attività pubbliche. Questa strategia entrò però in

crisi nel 1972 quando, dopo una serie di attentati, l’organizzazionebrigatista fu decimata da arresti e perquisizioni. Fu in risposta aquesti avvenimenti che alcuni membri decisero di entrare in clandestinità, mentre altri considerarono quella decisione «avventuristica» e uscirono dall’organizzazione (Caselli e Della Porta 1984).

L’uso della violenza produsse divisioni anche all’interno delleorganizzazioni non-clandestine della Nuova sinistra. Già all’inizio

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degli anni Settanta il disaccordo sul ruolo dei servizi d’ordine provocò seri conflitti all’interno dei gruppi più radicali, fino alla scissione delle fazioni più «militarizzate». Le vicende di Potere operaioe di Lotta continua illustrano bene questo processo (cfr. Della Por

ta 1995, cap IV). Dentro Potere operaio, dove strutture semi-autonome e semi-militari erano state create a partire dal 1971, il dibattito sull’utilizzazione della violenza aveva assunto toni drammaticia seguito delle indagini giudiziarie relative a un attentato nel corsodel quale avevano perso la vita i due giovanissimi figli di un esponente del Msi romano7. A seguito di queste vicende e delle accesepolemiche che esse provocarono, Potere operaio subi la prima im

portante scissione: gli attivisti che ritenevano che i militanti arrestati fossero colpevoli abbandonarono, infatti, l’organizzazione.Quelli che rimasero si divisero, ancora una volta, l’anno successivo,ancora una volta sul tema della violenza. Alla conferenza nazionaledi Rosolina, nel 1973, fu invece l’ala più radicale ad abbandonarel’organizzazione (che comunque si sciolse poco dopo), proponendosi la «organizzazione» della violenza.

Anche Lotta continua sperimentò frequenti oscillazioni fra unospontaneismo spesso violento e la ricerca di una legittimazione istituzionale. Nel 1972 la conferenza nazionale dell’organizzazione aRimini assegnò un ruolo rilevante ai servizi d’ordine, sottolineandoil «bisogno» di violenza rivoluzionaria sia da parte delle masse cheda parte dell’avanguardia. Già nell’autunno dello stesso anno, comunque, quella scelta sarà valutata da alcuni militanti con toniestremamente critici: «abbiamo incarnato - dichiarò pubblicamen

te un dirigente dell’organizzazione - l’estremismo di sinistra nellasua accezione più tradizionale» (in Bobbio 1988: 115). Nel 1973 ilgruppo maggioritario nell’organizzazione rinunciò alle strategie piùviolente, tentando invece la strada della partecipazione alle elezioni. Al contempo, dalla organizzazione si staccarono i gruppi più ra-dicalizzati. Fra coloro che abbandonarono Lotta continua, propugnando una strategia di organizzazione della violenza, vi era un nu

trito nucleo di attivisti della sezione milanese di Sesto San Giovanni e molti membri del servizio d’ordine (Bobbio 1988: 141). I dissensi sulla questione della violenza scossero ancora frequentemente ciò che restava dell’organizzazione.

7 L’attentato venne compiuto il 17 aprile 1973 a Roma. Morirono Virgilio eStefano Mattei.

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Se il tema della violenza contribuì alla crisi della Nuova sinistra,nella seconda metà degli anni Settanta esso fu però, in alcune areedi movimento, un fattore di temporanea riaggregazione di alcunigruppi. Una tappa di questo processo fu la costituzione di comita

ti detti «autonomi» perché enfatizzavano l’autonomia della classeoperaia e proclamavano la loro indipendenza dalla Nuova sinistra,accusata di eccessiva moderazione. Se i leader dell’Autonomia operaia provenivano in buona parte proprio dalla (dissoluzione della)Nuova sinistra, la sua espansione fu dovuta all’incontro fra questileader e una nuova generazione di militanti, socializzati alla politica in un clima di pessimismo culturale e crisi economica. Basati nel

le fabbriche o nei quartieri, i «collettivi autonomi» tennero i loroprimi incontri di coordinamento tra il 1972 e il 1973 (Castellano1980; Palombarini 1982), aggregandosi in seguito in «aree». Alla fine di questo processo, due riviste - «Senza tregua» e «R osso» - divennero punto di riferimento per alcuni «vecchi» militanti di Lotta continua e Potere operaio e per i giovanissimi attivisti dei vari circoli giovanili formatisi nelle periferie delle grandi città del Nord8.Entrambe si dedicarono a rielaborare l’ideologia operaista degli anni Sessanta, rendendola «compatibile» con una nuova potenzialebase di mobilitazione che rifletteva il clima radicalizzato degli anniSettanta.

Nonostante le differenze ideologiche - «Senza tregua» era piùlegato all’operaismo tradizionale, mentre «Rosso» elaborò la tesidel «lavoratore sociale come soggetto rivoluzionario» - i due gruppi condividevano un tratto importante che può spiegare la somi

glianza nei successivi percorsi politici di molti dei loro attivisti. Entrambi volevano, infatti, dedicarsi alla organizzazione delle formepiù estreme di violenza, pur mantenendo una struttura organizzativa prevalentemente legale - cercando di realizzare quella che un exmilitante di «Senza tregua» ha descritto come: «una doppia militanza, diciamo così, [...] una militanza di fabbrica con l’autonomia[...] e un inizio di pratica diretta [. ..]» («Storia di vita» n. 3:47). Ciò

doveva passare, secondo la strategia condivisa dai due gruppi, attraverso la costruzione di «nuclei armati» all’interno dei collettivi

8 «Senza tregua» era il giornale dei Comitati comunisti per il potere operaio(Cero), fondati a Milano da ex-militanti della sezione di Lotta continua del popolare quartiere di Sesto San Giovanni e da membri di Potere operaio. Altri militanti di Potere operaio, che avevano lasciato l’organizzazione nel 1973, si unirono ai membri di vari gruppi autonomi per fondare «Rosso».

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autonomi: «a ll’interno di ogni collettivo - racconta un militante di“R osso” - si cercava di costruire anche un nucleo, una squadra armata» («Storia di vita» n. 4:14-15). In un clima di acute tensioni sociali e di polarizzazione politica - reso più cupo dai primi omicidi

delle B r - la violenza divenne fattore di aggregazione di una base«volatile», poco incline al negoziato, e ansiosa di passare dalle elucubrazioni ideologiche ai «fatti». L’escalation dei conflitti sociali inviolenza politica venne così facilitata dalla presenza di «imprenditori» violenti cioè, come spiega un ex-militante, dalla «formazionequi a Milano di quadri con questa doppia abilità: da una parte diintuire se c’è una situazione di lotta esplosiva, e starci dentro, e far

la crescere; dall’altra di avere in mente tutti i problemi della lottaclandestina, quindi la capacità di scegliere persone adatte a costruire dei nuclei, addestrarle, trasmettergli quel carisma originaledell’organizzazione» («Storia di vita» n. 12: 25).

I tentativi di mantenere una struttura legale dedicandosi contemporaneamente ad azioni illegali erano comunque destinati a fallire: «In realtà - ha osservato un militante di “Senza tregua” - nonera possibile risolvere questo problema, non si riesce a fare politicae a coniugare l’altro elemento, quello clandestino e militare; questidue spezzoni sono sempre in contraddizione tra loro» («Storia divita» n. 27: 35). La conseguenza dell’azione dei gruppi più violentifu così, nella seconda metà degli anni Settanta, il rapido declino delle residue organizzazioni di movimento sociale e la fondazione dialtre organizzazioni clandestine. La seconda maggiore organizzazione clandestina dopo le B r, Prima linea (Pl) emerse infatti, alla fi

ne del 1976, proprio dalla scissione nei Ccp o (i collettivi vicini a«Senza tregua»), mentre in modo simile, nel 1977, dalla crisi di«Rosso» nacque un’altra organizzazione terrorista: le Formazionicomuniste combattenti (Fcc).

2. Ideologia: fondamentalismo e riflusso

Non solo in Italia, la struttura decentrata dei movimenti si è collegata a una focalizzazione dell’attenzione sull’identità. Un modello centrifugo ha caratterizzato movimenti che - come quello giovanile e delle donne - hanno privilegiato il piano culturale, prestando meno attenzione al potere politico. Come vedremo in questa parte del capitolo, i movimenti degli anni Settanta si connota

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rono infatti per la richiesta di autonomia contro la «egemonia» delconflitto di classe e per la proclamazione della diversità contro unaforzata «omogeneizzazione». Dal punto di vista ideologico, questimovimenti avevano rinunciato alle grandi utopie, proponendo una

sperimentazione di un nuovo modello di società a partire dal proprio quotidiano. Alla centralità del conflitto di fabbrica si sostituìla pluralità di soggetti che sottolineavano la «differenza»; all’ope-raio-massa, l ’operaio sociale - o in ogni caso un soggetto che si definiva attraverso una pluralità di ruoli. Questo approccio, che sievolverà successivamente nel pragmatismo degli anni Ottanta, siconnota però - in questa fase di radicalizzazione - con un pessimismo fondamentalista, fornendo in alcuni casi la base per una giustificazione della violenza che, da difensiva, diventerà sempre piùesistenzialista.

Nella sua fase d’incubazione, il movimento delle donne si presentò come un movimento soprattutto culturale, rivolto a trasformare il sistema di valori e il modo di far politica. Gli slogan più conosciuti, da «Donna è bello» a «Il personale è politico», riflettonoquesta attenzione9. Nel movimento ci si proponeva di superare il di

scorso tradizionale della emancipazione con quello innovativo della «liberazione», che verrà cercata attraverso due percorsi: uno, piùpsicologico, sfocierà nella pratica dell’inconscio (ad esempio, nelCollettivo di via dei Cherubini); l’altro, più economicista, si esprimerà nei gruppi per il salario alle casalinghe (organizzati da Lottafemminista). La caratteristica comune ai due filoni era comunqueun certo purismo ideologico, che si manifestava nella critica globa

le alla società «patriarcale». Come è stato notato a proposito di altri movimenti femministi, lo sviluppo di una teoria distica della società era un passaggio necessario alla costruzione del femminismo- costituendone infatti la fase utopica (Boucher 1979). Bisogna aggiungere comunque che, in Italia, data la presenza nel movimento

9 Lo slogan «Donna è bello» riprendeva quello dei neri americani, cui il movimento si richiamava anche nella difesa della pratica della «separatezza» comeaffermazione di autonomia, mentre, si osservava, solo alle donne e agli schiavi nonviene pagato il lavoro. Non a caso, un documento del Cerchio di gesso si intitolava: Le donne e i neri. Il sesso e il colore (cit. in Ergas 1986: 19). A proposito diquesta diffusione cross-nazionale si può anche osservare che i gruppi di donne chesi riunirono alla fine degli anni Sessanta (Anabasi a Milano, Cerchio spezzato aTrento, Collettivo delle compagne del gruppo comunicazioni rivoluzionarie a Torino, tra gli altri) utilizzarono e discussero testi del movimento americano, sia della Nuova sinistra che del filone radical-borghese (Passerini 1991: 372).

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della (vecchia e nuova) sinistra, le analisi più diffuse sul ruolo delladonna nella società utilizzavano le categorie tradizionali del discorso «di classe»: lo «sfruttamento» delle donne come produttrici diservizio o oggetto sessuale, r«imperialismo» dei valori maschilisti, la

«natura strutturale» della «contraddizione» fra i sessi (Ergas 1986:64; cfr. anche Ergas 1992). La ricerca sulla condizione femminile«echeggiava i temi e le tesi della nuova sinistra richiamandosi quasi puntigliosamente allo ‘sfruttamento’ delle donne come oggettisessuali e come casalinghe, ‘aU’imperialismo’ e allo ‘sciovinismo’dei valori maschili, all’ ‘autoritarismo’ del rapporto uomo-donna,alla natura ‘strutturale’ della contraddizione fra i sessi, all’ ‘antica

pitalismo’ ed alla valenza ‘rivoluzionaria’ insiti nei movimenti femminili» (Ergas 1980: 557).Dopo una fase di mobilitazione aperta, i gruppi femministi si di

visero tra l’elaborazione culturale e l’impegno concreto, soprattutto nella sinistra e nei sindacati. Nel corso degli anni Settanta, comunque, le analisi si spostarono dalla famiglia come luogo di sfruttamento economico alla famiglia come «fabbrica del privato» (Boccia 1980: 70). Il movimento delle donne, differentemente da quelliche lo avevano preceduto, reintrodusse quindi le differenze invecedi mirare a superarle. Per la prima volta nel discorso della sinistralibertaria, le donne rifiutarono l ’egualitarismo come «emancipazio-nismo», enfatizzando invece la diversità. Più che di politica, i gruppi di autocoscienza discutevano di temi quali la riproduzione, lasessualità, i rapporti interpersonali, la vita quotidiana. Rifiutando ilprimato della contraddizione capitale-lavoro e della sfera produtti

va, che avevano caratterizzato la Nuova sinistra, i collettivi femministi affermarono il ruolo centrale della contraddizione uomo-donna, la prevalenza della differenza di sesso rispetto all’unità di classe.In generale, il movimento delle donne si concentrò su temi legati piùalla trasformazione della cultura che alla riforma delle istituzioni.L’attenzione al potere si perse e prevalse la voglia di trasformare sestesse, senza curarsi troppo della realtà esterna. All’inizio degli anni

Settanta, l’autocoscienza divenne - come abbiamo detto - il modoalternativo di fare politica. Per molte donne ciò comportò la rinuncia all’altra politica, alla «politica maschile», e l’uscita quindi dalleorganizzazioni di vecchia e nuova sinistra. In questa fase, il clima diradicalizzazione portò così a una subordinazione degli aspetti piùconcreti rispetto alla elaborazione controculturale, accentuando ilpessimismo sul futuro dell’umanità.

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Anche il punto culminante della protesta giovanile - il così detto «movimento del ’77» - si caratterizzò per l’enfasi sulle trasformazioni culturali, l ’affermazione della diversità, l’assenza di un progetto a lungo termine. I circoli del proletariato giovanile esprimevano

l’insofferenza rispetto al dominio istituzionale sulla vita quotidiana,rifiutando il concetto di progresso, assimilato dal movimento operaio. L’isolamento era preferito rispetto al rischio di integrazione.Come hanno scritto Giovanni Lodi e Marco Grazioli (1984: 68):

A partire dallo «specifico giovanile» il movimento del ’77 sceglie di trasformare la diversità in risorsa, accentuando invece che occultare il particolarismo degli interessi e delle appartenenze. Ciò consente a questi «g io

vani» di affermare una presenza autonoma in società che tendono a negarla o comunque a controllarla. In termini più generali essi vogliono assicurarsi un’esistenza separata in sistemi che inglobano e annullano gli interessi non caratterizzati e quindi non competitivi.

E ancora: «Rinunciando a obiettivi universalistici, questo movimento rende esplicita la frantumazione dei conflitti operata dalle

società complesse» (1984: 69-70).In maniera simile, e talvolta intrecciata, si svilupparono anchele mobilitazioni sui temi urbani. Negli anni Cinquanta e Sessantal’organizzazione della protesta a livello locale era passata soprattutto attraverso l’intermediazione dei partiti, strutturati in sezioni presenti in molti quartieri delle grandi città italiane, mentre i gruppi dicittadini che si organizzavano al di fuori dei partiti portavano avanti iniziative di tipo culturale o solidaristico. Negli anni Settanta, in

vece, sull’onda delle grandi ondate di protesta nelle scuole e nelleuniversità, anche la questione urbana si politicizzò e si svilupparono movimenti sul tema dei servizi pubblici, o, secondo la definizione di Castells (1983), un «sindacalismo per consumi collettivi».Queste proteste si indirizzarono, inoltre, alla struttura del potere,dando vita a movimenti di cittadinanza. Insieme alla partecipazione alla gestione della scuola e della università e alla democraticiz-

zazione della rappresentanza dei lavoratori con l’elezione dei delegati di squadra e di reparto, si chiedeva una maggiore partecipazione alle scelte che riguardavano il territorio. Mentre la strutturadei partiti alla periferia si indeboliva e le sezioni perdevano il lororuolo di aggregazione della domanda, per trasformarsi in strumenti di organizzazione della clientela, i movimenti urbani rivendicavano l’estensione della partecipazione «d al basso».

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Bisogna aggiungere che sia il movimento delle donne che quello giovanile e quello urbano elaborarono specifiche rivendicazionisu vari temi. Nelle proteste del Settantasette, ad esempio, convergevano sia i temi della scuola selettiva e priva di servizi, che quelli

del diritto alla casa, della lotta al carovita, dell’assenza di infrastrutture nei quartieri popolari, della disoccupazione e del lavoronero, della mancanza di luoghi di cultura e della diffusione delledroghe pesanti. Per quanto riguarda le donne, rivendicazioni concrete riguardarono il sistema della produzione (orari di lavoro, discriminazioni nelle assunzioni e nei salari ecc.) così come quello della riproduzione (dagli asili nido al lavoro domestico). Il movimento ebbe, infatti, diverse anime, che espressero numerose proposte:dal salario alle casalinghe alla separatezza. A partire dal 1975, i corsi delle «150 ore» - cioè, le ore di formazione pagate dai datori dilavoro - offrirono in alcune città occasione di incontro a donne provenienti da ambienti diversi. Concrete furono, infine, le rivendicazioni dei movimenti urbani, che riguardarono i rincari dei prezzi deitrasporti pubblici, lo sventramento dei centri metropolitani, le carenze dell’edilizia pubblica.

Per i movimenti della sinistra libertaria, comunque, il clima diradicalizzazione portò, alla metà degli anni Settanta, a una subordinazione delle rivendicazioni concrete rispetto alle elaborazionicontroculturali, fondamentaliste e pessimiste. Una specificità delcaso italiano è infatti l’intreccio di una definizione antagonista a livello controculturale con il passaggio dalla giustificazione della violenza come arma difensiva alla esaltazione della violenza come pra

tica, di per sé, autoliberatoria. Nel corso degli anni Settanta, un fattore che legittimò la violenza fu la diffusione, nella controculturadella sinistra, dell'immagine di uno Stato violento e ingiusto, di unoStato, cioè, che aveva violato le stesse regole del gioco democratico. Questa immagine crebbe, innanzitutto, nelle memorie direttedegli scontri tra manifestanti e polizia, di cariche con manganelli efumo di candelotti lacrimogeni, e nella convinzione diffusa tra gliattivisti che fosse necessario «resistere» agli attacchi della polizia.Per molti attivisti, infatti, l’intervento delle forze di polizia, percepito come brutale, giustificò una assolutizzazione della condannadello Stato - come ricorda un giovane militante di allora: «a chi hale armi, a chi ha i lacrimogeni, a chi ha i manganelli uno rispondecon i sassi, e questo differenziale diventa anche dal mio punto di vista un motivo di giustificazione» («Storia di vita» n. 9 :26). La mor

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te di alcuni dimostranti - per mano dei fascisti o della polizia - acquisì un alto valore simbolico come espressione della impossibilitàdi cambiare il sistema in modo pacifico. Nelle parole di un attivista:«i giorni della morte di Zibecchi a Milano, Boschi a Firenze e Mic-

cichè a Torino furono il momento in cui la rabbia e il desiderio diribellione giunse a possederci tutti [...] Quelle morti ci diedero strana impressione, quasi come se non fosse più possibile di tornare indietro» (in Novelli e Tranfaglia 1988: 206).

La giustificazione più forte per l’uso della violenza venne dallaconvinzione che lo Stato fosse coinvolto in una «sporca guerra». Lastrage di Piazza Fontana, nel 1969, e gli indizi di un coinvolgimen

to dei servizi segreti nella protezione degli assassinii ebbero, sullacultura di sinistra, un effetto di radicalizzazione. Agli occhi degli attivisti, lo Stato divenne lo «Stato delle stragi», che usava la «strategia della tensione» per reprimere la protesta democratica. Divenne,quindi, «giusto, lì in Italia, contro chi faceva la strage di Stato, mettere in piazza la violenza» («Storia di vita» n. 27: 18). Questa situazione stimolò una sorta di retorica del momento storico. Negli anni che seguirono alla strage di piazza Fontana, i militanti vissero nella paura di un colpo di stato autoritario. Qualsiasi fosse la reale probabilità che esso si realizzasse, i timori ebbero un impatto direttosulla vita degli attivisti della sinistra, non solo radicale: «La vitaquotidiana stessa - ricorda un militante - è intessuta di questo clima: ricordo periodi con lo zaino pronto sotto il letto, falsi allarmiper un giornale radio non trasmesso, catene di telefonate più o meno rassicuranti» (in Novelli e Tranfaglia 1988: 122); e ancora,

«Quante persone in quelle notti non hanno dormito a casa - nonmi riferisco soltanto a compagni della sinistra extraparlamentare -quanti occhi erano puntati sulle caserme per vedere se c’erano movimenti strani» (in Novelli e Tranfaglia 1988:204). Fra i radicali della sinistra, si diffuse così la convinzione che fosse necessario equipaggiarsi per la «resistenza». Numerose biografie documentano lapresenza di quello che un militante definisce come una «identità co

spirativa», caratterizzata dalla «paranoia del colpo di Stato, i racconti dei vecchi del Pei o del sindacato, che come minimo han dormito fuori. Poi magari era tutto folclore, però c’era, era forte, fortissima, questa tensione cospirativa, questo prepararsi» («Storia divita» n. 18: 47); mentre «In caso di colpo di Stato [...] era il classico libro che dovevi mettere in fondo alla libreria, lo mettevi nascosto» («Storia di vita» n. 6: 19).

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Ma fu soprattutto negli scontri con la destra radicale, semprepiù frequenti nella seconda metà del decennio, che si sviluppò unaconcezione «esistenziale» della violenza. Gli scontri fisici ebbero effetti psicologici: la solidarietà crebbe, infatti, all’interno di ciascuno

dei due fronti. Da entrambe le parti, il condividere l’impegno in attività ad alto rischio rafforzava i legami di lealtà fra i membri dei duegruppi di amici-compagni o amici-camerati. Allo stesso tempo, leviolente interazioni faccia a faccia aumentarono l’odio tra i duefronti, creando un’immagine astratta e assoluta dell’altro come nemico. I commenti di un militante di destra sintetizzano questa percezione dell’avversario: «Il nemico secondo me va visto, e penso chenoi tutti avevamo questa concezione, va visto in modo asettico, impersonale; se c’è lo scontro col nemico, in quel momento è il nemico, qu in di... o io, o lui» (in Pisetta 1990: 208). Una immagine simile si sviluppò anche a sinistra, specialmente dopo la strage di piazza Fontana, quando i neofascisti cominciarono a essere visti comenient’altro che assassini, e a essi venne negato il «diritto di parola»dentro le scuole e le università: «La strage di Piazza Fontana nel dicembre 1969 - ha scritto un ex-attivista della sinistra radicale - se

gna per me una svolta decisiva perché chiude il circuito (che finoallora mi era sembrato ancora aperto) tra le istituzioni, lo Stato, e ladestra [...] Rispetto alla destra, vivo la prima esperienza di forte polarizzazione» (in Novelli e Tranfaglia 1988: 114).

In questa atmosfera di paura e vendetta le interazioni tra l’estrema sinistra e l’estrema destra escalarono in una «logica d’odio,logica di morte» (in Pisetta 1990: 196). Un futuro terrorista nero

spiega, ad esempio, il suo crescente impegno politico come il risultato di una serie di vendette:

Ci sono state delle violenze contro mio fratello, e di qui ho tratto unsenso di ingiustizia che mi ha spinto a fare come lui politica. Il mio primoatteggiamento fu di ritorsione: era stata bruciata la macchina di mia madree bruciai qualche altra macchina, le percosse che aveva ricevuto mio fratello le restituii ad altri. La cosa è andata cosi per diversi anni, crescendo

man mano. Violenza ha chiamato violenza. [•••] I nostri avversari eranoquelli che professavano l’ideologia contraria alla nostra. Ma fondamentalmente le lotte che si verificavano erano lotte di banda, secondo la moda allora invalsa nella nostra generazione, (in Bianconi 1992: 51)

In modo simile, dalla parte opposta, viene descritta una «cacciaall’uomo senza pietà» («Storia di vita» n. 6: 29). L’esperienza di

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scontri quotidiani con gli avversari produsse, verso la politica, unatteggiamento da battaglia. Sia a destra che a sinistra la violenzavenne gradualmente accettata come normale strumento della politica. Le biografie dei militanti di allora mostrano infatti questa dif

fusa legittimazione delle forme d’azione più brutali: se un militante della sinistra si riferisce alla violenza come un modo per «identificarsi anche con la storia, la tradizione, con una parte dei movimenti trasformativi di questo secolo» («Storia di vita» n. 29: 36); unmilitante di destra afferma che «la violenza politica fa parte dellalotta politica, è un mezzo come un altro» (in Pisetta 1990: 205). Ementre i militanti della sinistra ricordano la metà degli anni Settanta come «gli anni dei manifestanti morti in piazza, [...] gli anni degliagguati fascisti con i compagni morti» («Storia di vita» n. 13:29), peri neo-fascisti si viveva «in una situazione in cui ammazzare il fascistanon è un reato, in una situazione in cui i fascisti non possono entrare nelle scuole, in una situazione in cui i fascisti non possono entrare nelle piazze, in una situazione in cui i fascisti non possono vivere»(cit. in Pisetta 1990: 200).

L’uso della violenza cominciò ad acquisire una sempre maggio

re legittimazione man mano che una seconda generazione di militanti aderì ai gruppi radicali. A sinistra come a destra, questa seconda generazione fu, molto rapidamente e a una età molto giovane, coinvolta nella politica radicale. Tipico è questo racconto daparte di un militante della sinistra: «Il mio primo corteo è datato 1°ottobre 1977; l’ingresso nel collettivo autonomo è del febbraio1978; tenevo per Prima linea già ad aprile-maggio di quell’anno» (in

Tranfaglia e Novelli 1988: 300). Parallelamente, per quanto riguarda i terroristi di destra, è stato osservato che: «a sedici-diciassetteanni quasi tutti [...] posseggono già l’esperienza di avere compiutofuori della legalità qualcosa di “veramente importante”» (Fiasco1990: 185). Essendo stati socializzati in un periodo di radicalizza-zione della politica, i membri della seconda generazione avevano infatti pochi tabù a proposito dei repertori da utilizzare - ancora me

no della precedente generazione. Queste differenze portarono addirittura ad alcune tensioni tra i «vecchi» e i «giovani» militanti. Fuproprio questa seconda generazione che fornì il maggior numero direclute alle organizzazioni terroriste. Molti neofascisti, così comeradicali di sinistra, guardarono alla «lotta armata» come alla «logica evoluzione» della loro carriera politica.

Concludendo, la ricchezza e novità delle rivendicazioni emer

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genti non riuscì a svilupparsi appieno. La costituzione di nuovi attori collettivi venne ostacolata dalla presenza di un ambiente politico radicalizzato, rafforzando le vecchie definizioni del conflitto rispetto alle nuove. Come vedremo, la chiusura del sistema politico

impedì, ancora per lunghi anni, l’articolazione di un discorso alternativo: «Gli oggetti collettivi emergenti, la difesa dell’identità personale e di gruppo contro l’intervento degli apparati, l’esigenza divalorizzare le risorse umane e il rapporto con la natura, la domanda di una sessualità non manipolata, il bisogno di espressione e dicomunicazione, sono stati spesso sommersi dalle necessità quotidiane di lottare contro la crisi, la repressione e lo sfacelo del sistema» (Melucci 1977: 156).

3. Cicli di protesta e violenza politica

Compartimentazione organizzativa e giustificazioni ideologicheper la violenza influenzarono il, e furono influenzate dal repertoriod’azione adoperato dalla famiglia dei movimenti della sinistra li

bertaria in Italia. La fase che abbiamo definito come «radicalizza-zione» ha visto, contemporaneamente, un riflusso dall’azione piùvisibile e una escalation violenta.

In primo luogo, alcune forme di protesta si istituzionalizzarono quando, attraverso processi di imitazione a catena, vari gruppi sociali le copiarono e adattarono alle loro caratteristiche ed esigenze.Al contempo, altri attori collettivi si appropriarono delle azioni un

tempo tipiche del movimento operaio. Le occupazioni, nate comereazione degli operai alla chiusura delle fabbriche, si estesero ad altre arene di conflitto: vi furono occupazioni di scuole, di atenei, diedifici pubblici e di abitazioni private10. Grazie alla presenza deisindacati, gli scioperi si estesero anche all’esterno delle fabbriche,in particolare sui temi urbani. Per fare solo un esempio, il 19 novembre 1969 venne proclamato uno sciopero nazionale per la riforma della legge sulle abitazioni, e ad esso seguirono una serie di iniziative su trasporti pubblici e ambiente, fino agli scioperi del 1974per un programma decennale di finanziamento delle case popolari.

10 Ad esempio, nel 1970 l’Unione degli inquilini (I’U n i a ) guiderà la occupazione simultanea di 700 case a Roma (Della Seta 1978: 318).

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Anche le manifestazioni divennero sempre più frequenti. È significativo che una caratteristica del femminismo italiano rispetto aquelli di altri paesi europei fu la organizzazione di campagne di mobilitazione di massa. Nel 1974 10 mila donne presero parte al convegno nazionale di Pinarella di Cervia; tra il 1975 e il 1977, una serie di iniziative nazionali - in buona parte sul tema della regolazione dell’aborto - vedranno una partecipazione oscillante tra le 30mila e le 50 mila donne11.

Avvicinandosi alle istituzioni - ad esempio attraverso l’elezionein Parlamento di alcuni rappresentanti dei partiti della Nuova sinistra - i movimenti della sinistra libertaria cominciarono inoltre a uti

lizzare modelli di pressione più istituzionali: dai progetti di legge alle proposte di referendum sui temi della liberalizzazione dell’aborto o dell’ambiente12, mentre il movimento delle donne organizzòpetizioni e richieste di referendum. Come hanno osservato Grazioli e Lodi (1984: 289) a proposito della campagna per l’aborto,

il mo vimento femm inista gestisce i pro pri interventi agendo su diversi p iani contem poraneam ente: a livello sotterraneo si attiva un com plesso di mi

crostrutture che autogestiscono la pratica abo rtiva organizzandola all’estero o praticandola direttamente; a livello istituzionale realizzando un rapporto organico con le componenti femminili dei partiti intenzionate a sostenere la legge; a livello di mobilitazione esterna co ncentrando le manifestazioni in relazione all’andam ento dell’iter legislativo.

M l d  e U d ì furono, ad esempio, i due gruppi più attivi nella uti

lizzazione di canali d ’azione istituzionali: dai progetti di legge di iniziativa popolare o parlamentare alle denunce alla magistratura contro la disapplicazione della legge sull’aborto.

Alcuni gruppi continuarono comunque un’opera di innovazione strategica - non foss’altro che per riconquistare l’attenzione dei

11 In particolare, il 18 gennaio 1975 ci fu la prima grande manifestazione aRoma sul tema dell’aborto con 20 mila partecipanti. Il corteo dietro lo striscione«D ’ora in poi decido io» era composto interamente da donne e seguito dalle organizzazioni miste, mentre qualche militante della vecchia sinistra vi partecipòportando cartelli con scritto «Sono del Pei, eppure sono qui». Nell’aprile 1976,I’Ud i (Unione donne italiane, vicino al Pei) e altre organizzazioni femminili deipartiti, accettarono di partecipare a una manifestazione separatista, che vedrà 50mila partecipanti.

12 Ad esempio, nel dicembre 1978 gli Amici della terra proposero un referendum popolare abrogativo della legge 393/75 relativa alla localizzazione degliimpianti nucleari.

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media, assuefatti o distratti. Tipicamente, gruppi emergenti, dotatidi ancora limitate capacità di mobilitazione di massa, utilizzaronoforme di azione simboliche che, contemporaneamente, aiutavano lacostruzione dell’identità e attiravano l’attenzione del pubblico. Il

movimento delle donne introdusse nuovi modelli di protesta nel repertorio dell’azione collettiva - come le azioni éclat di piccoli gruppi o le autodenunce pubbliche sul tema dell’aborto13. La ricerca diforme d’azione «non-maschili» portò i collettivi femministi a puntare sulla creatività, attraverso mostre grafiche, improvvisati sketchper strada, volantini fumetto. Alla violenza si sostituivano le provocazioni «con fantasia» - come ad esempio il blocco per quattro

ore delle linee telefoniche di un quotidiano (Ciuffreda e Frabotta1974: 14) o le attività del Tribunale 8 marzo, che raccoglieva denunce e testimonianze dedicate ogni anno a un tema diverso (salute, giustizia, violenza domestica, discriminazione sul lavoro).

Emersero, inoltre, tattiche di protesta basate su azioni illegali ma nonviolente. Ad azioni perturbative, come l’occupazione di luoghi pubblici e asili o l’incatenarsi ai cancelli di edifici pubblici, siaggiunse il self-help per l’aborto (la così detta «autogestione dell’aborto», iniziata nel 1974). Queste attività erano organizzate sia dapiccoli gruppi decentrati - ad esempio dal primo consultorio autogestito, nel 1975, dal Gruppo femminista per una medicina delladonna operante presso il Collettivo di via Cherubini - che da gruppi più specializzati - come il Centro per l ’aborto e la contraccezione (Crac ) e il Centro informazioni sterilizzazione e aborto (Cisa)14.Quella che diventerà la disobbedienza civile verrà alla luce in que

sti anni anche con la «autoriduzione» delle tariffe di alcuni benipubblici, nel corso di due campagne, nel 1974, su trasporti ed elettricità e, nel 1975, su metano (in Piemonte) e telefono. Campagnedi autoriduzione degli affitti vennero inoltre organizzate per protestare contro le condizioni di degrado delle abitazioni, soprattuttonei centri storici delle grandi città.

13 Nel 1975 2.700 autodenunce per aborto vennero presentate da M l d  e Partito radicale alla Procura Generale della Suprema Corte di Cassazione.

14 II C r a c  venne creato a Roma nel 1975, da vari collettivi di quartiere, formati da donne della Nuova sinistra, con l’obiettivo di «intervenire» all’esterno.Organizzava gruppi di self-help e gruppi di sostegno alle donne che volevanoabortire. Il C i s a , federato al Partito radicale, iniziò la sua attività a Milano nel1973. Nel 1975 vennero arrestati un medico del centro e il segretario Spadaccia,accusato di procurato aborto e associazione a delinquere.

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Ma c ’è anche un altro processo che in Italia è stato - almeno nell’immaginario collettivo - dominante: un processo di radicalizzazio-ne di alcuni repertori, che coincise in parte con il riflusso dell’azione visibile, grosso modo alla metà del decennio. Il 1976 rappresentò

un momento di svolta per il movimento delle donne, che durante ladiscussione in Parlamento della legge sull’aborto perse interesse alle forme d ’azione più politica (Ergas 1982:268 sgg.; 1986:78). Mentre alcuni gruppi utilizzavano le nuove opportunità di accesso aicentri decisionali, il movimento si frazionò in una miriade di collettivi, con obiettivi centrati sulla «ricerca di sé» e nessun interesse verso il reclutamento o il coordinamento delle attività. Nel frattempo,gli attivisti della Nuova sinistra si allontanarono dalle scuole e dalleuniversità, preferendo l’intervento nei quartieri, dove vennero organizzate azioni di protesta contro lo spaccio di droga pesante e sicostituirono «circoli giovanili» in edifici occupati (Sorlini 1978).Un’ondata di proteste anti-nucleari seguì l’approvazione del Pianoenergetico nazionale (che prevedeva la costruzione di venti centralinucleari)1’ , ma il livello di mobilitazione rimase basso, e gli attivistidella Nuova sinistra esitavano ad adottare una linea ecologista («B i

sogna essere rossi, prima di essere verdi», dichiarò il leader del movimento studentesco Mario Capanna). A fronte delle grandi manifestazioni in altri paesi europei, le manifestazioni contro la costruzione di centrali nucleari vedranno la partecipazione di 10 mila attivisti nel novembre 1976,20 mila nell’agosto 1977 e 50 mila nel maggio 1979 (Farro 1991: 55-58; Diani 1994: 210-11).

Mentre si «rifluiva nel privato» e nella controcultura, la com

ponente più politica dei movimenti si trovò di fronte un’atmosferaiper-radicalizzata. La radicalizzazione seguì il percorso evolutivodel ciclo di protesta, crescendo al declinare della mobilitazione. Secondo lo studio quantitativo già citato sulla protesta in Italia tra il1966 e il 1973,

15 La campagna sul nucleare era stata avviata nel 1974, da W w f  e Italia nostra insieme a iniziative locali come il Comitato cittadino di Montalto e il Comitato di Capalbio, cui si aggregheranno gruppi della Nuova sinistra (in particolare, Democrazia proletaria e Avanguardia operaia) e anche cattolici (come Pax Christi), riuniti spesso in coordinamenti locali (come il Coordinamento generale per la Maremma). La mobilitazione crescerà soprattutto attorno alle centralidi Caorso, la cui costruzione era iniziata nel 1970, e a quella di Montalto di Castro, allora in costruzione, ma anche nei vari luoghi designati come possibili sedi di nuove centrali, come Viadano e Tavazzano in Lombardia, Alessandria e Trino Vercellese in Piemonte, Avetrana e Manduria in Puglia.

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La violenza tende ad apparire sin dall’inizio di un ciclo di protesta. Inquesta fase, essa è solitamente rappresentata dalle forme di azione menopianificate ed è usata da grandi gruppi di manifestanti. Gli scontri con gliavversari o la polizia durante azioni di massa rappresentarono il tipo di violenza politica più diffuso durante la fase alta del ciclo, e declinarono alla

sua fine. Nell’ultima fase, aggressioni portate avanti da piccoli gruppi dimilitanti e attacchi diretti contro persone divennero più frequenti. Le forme di violenza più drammatiche crebbero quando la fase di massa del ciclo di protesta declinò. In altre parole, mentre si riduceva l’azione di massa, la violenza politica crebbe in dimensione e intensità. (Della Porta e Tar-row 1986: 620)

Se gli episodi di violenza aumentarono in totale durante il ciclo,la loro presenza fu comunque media all’inizio, si ridusse quindi nella fase alta della mobilitazione, crescendo invece al declino dellaprotesta. Si deve aggiungere che, nel corso della mobilitazione,cambiarono le forme della violenza:

Mentre l’ampiezza della violenza messa in atto da gruppi di media dimensione si mantiene costantemente tra le altre due, la curva degli eventi

di violenza da parte di piccoli gruppi ha una tendenza opposta rispetto alla violenza di massa. Essa rimase costante durante i quattro anni all’iniziodel ciclo, specialmente nel 1968 e 1969, quando il suo peso era attorno al7% di tutti gli eventi violenti. Essa aumentò per la prima volta nel 1970,ma per quest’anno e quello successivo rimase ancora la forma di violenzameno rappresentata [...] La situazione cambiò drasticamente nel 1972 e nel1973, quando la violenza di piccolo gruppo raggiunse, rispettivamente, il47% e il 62% degli eventi violenti. (Della Porta e Tarrow 1986: 620)

Distinguendo le diverse forme d’azione violenta, si può osservare che gli attacchi contro persone (che rappresentano il 33 percento degli eventi violenti) crebbero nel tempo (fino a divenire quasi la metà degli episodi di violenza nel 1973) (Della Porta e Tarrow1986: 616). Gli stessi dati dimostrano comunque che la violenza sisviluppò soprattutto nel corso di incontri violenti tra gruppi contrapposti, che giunsero a rappresentare il 46 per cento degli episodi totali di violenza.

Se guardiamo alle dinamiche che portarono alla escalation violenta, vediamo che essa derivò dalla radicalizzazione di tattiche giàusate precedentemente e dalle interazioni conflittuali con avversari politici e con le autorità. Nel conflitto in fabbrica, a partire grosso modo dal 1973, forme di azione radicali come il blocco delle

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merci e le occupazioni si erano sviluppate come momento di pressione (Regini 1981, in particolare: 37 sg.). Testimonianze di futurimilitanti dei gruppi armati hanno indicato in irruzioni, «picchettiduri», sabotaggi, «processi ai capi» e occupazione delle case popo

lari episodi di socializzazione alla violenza, vista come strumento efficace per dimostrare la propria forza negoziale. Enfatizzati nellastampa del movimento, questi episodi divenivano la testimonianzamitica della «coscienza di classe». Come ha indicato un ex-militan-te, ad esempio, «venivano decise forme anche violente di picchettaggio, con uno scontro fisico, in relazione appunto al fatto che erail mezzo giusto per raggiungere alcune cose» («Storia di vita» n. 9:39). E un altro:

Ricordo per esempio che quei primi scioperi contro la cassa integrazione furono ad un livello altissimo di violenza, per impedire che la genteandasse a lavorare [...] A Torino, sull’onda di tutti questi primi comitati autonomi operai si erano autocostituite squadre di volante rossa [...] eranogruppi di operai, tra l’altro molto sindacalizzati, comunque conosciuti, chedurante i cortei interni [...] o sfasciavano una sede dei sindacati gialli, o picchiavano capi-reparti particolarmente detestati. («Storia di vita» n. 29: 20)

O ancora: «Io facevo il picchetto alla scuola. Agli spacciatoricercavo di spaccargli la testa. Era una cosa pratica, era l’unico mezzo per riuscire ad avere le cose» («Storia di vita» n. 8: 35).

Come si è già detto, a questo tipo di violenza si è affiancata comunque - divenendo sempre più dominante - una violenza di tipoespressivo, legata alla escalation dei conflitti rituali con le forze del

l’ordine durante le così dette espropriazioni proletarie o i cortei armati, che culminarono con la morte di due agenti di polizia nel 1977a Roma e a Milano. Di questo tipo di violenza un militante si ricorda, infatti, in questi termini:

Era un happening [...] Era un sabato «cosa facciamo? occupiamo perun week-end il palazzo della curia? ci facciamo un esproprio al supermercato?» quindi, non so, qualche spinello, clima un po’ orgiastico; questo è

un fatto di fine ’76 forse inizio ’77, caratteristico, non so, ci si ritrova al venerdì sera in un bar del ticinese e invece di dire andiamo a ballare quel giorno decidono, appunto dal bar, che domani si occuperà una casa, si farà unesproprio al supermercato. («Storia di vita» n. 3: 63)

Negli scontri con la polizia, le battaglie si intensificarono attorno alla «difesa di un territorio», spesso rappresentato da una casa o

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da un centro giovanile occupato. In questi casi il conflitto divennesempre più ritualizzato: « Io - ricorda un militante di sinistra - uscivo la mattina, me ne andavo a fare gli scontri, me ne ritornavo a casa a mangiare, ritornavo il pomeriggio fino alla sera e così via. È una

specie di Londonderry, cioè di battaglie fatte di molotov e sassi perconquistarsi cinque metri di terra» («Storia di vita» n. 27: 26).

Le forme d ’azione divennero sempre più brutali soprattutto negli scontri fisici tra la sinistra radicale e la destra radicale. La violenza degli scontri fra opposte fazioni crebbe in questa fase attraverso un reciproco «adeguamento» ad armi sempre più pericolose:dalle pietre e dai bastoni degli anni Sessanta, ai coltelli e alle pisto

le degli anni Settanta. Quando gli attivisti di alcuni gruppi della sinistra cominciarono a utilizzare grosse chiavi inglesi - affermandodi doversi difendere contro le aggressioni dei neofascisti - questi ultimi cominciarono a portare armi da fuoco - anch’essi giustificandosi con la necessità di reagire alle aggressioni degli altri. Nella percezione di un radicale di destra, «i fascisti alla fine sono obbligati acircolare armati e a dover usare la pistola perché vengono attaccati

per essere sprangati» (in Pisetta 1990: 201). L’uso delle pistole daparte dei fascisti incitava poi l’altra parte ad armarsi: «Il discorsodella contrapposizione fisica con la controparte, quindi con i fascisti, era comunque - ricorda un attivista della sinistra - un momento quasi giornaliero, nel senso che, quando si andava a dare volantini in certe zone della città, era comunque inevitabile l’attrezzarsiin termini militari» («Storia di vita» n. 13: 29).

L’effetto fu un numero crescente di agguati con conseguenzespesso mortali. In particolare nella capitale, la fine degli anni Settanta è insanguinata da una guerra per bande, combattuta da adolescenti armati di armi proprie e improprie. Parte integrante dell’ondata di pessimismo fondamentalista diffusa, non solo in Italia,nella seconda metà degli anni Settanta, i gruppuscoli dell’Autono-mia adottarono forme d’azione violente, proponendosi di resistereall’«annientamento» da parte di una «società totalitaria» che esten

deva il suo controllo agli ambiti più privati della esistenza individuale. A destra, altri gruppi copiarono i simboli e le tattiche del-l’Autonomia. L’escalation degli scontri di piazza tra militanti dellasinistra e della destra radicale, e tra entrambi e le forze di polizia,esacerbò lo scontro. Frange dei nuclei delPAutonomia andaronocosì a ingrossare le fila delle organizzazioni clandestine. Nel 1978 ilrapimento e l’uccisione del presidente della De, Aldo Moro, da par

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te delle B r  , acuì la crisi dei movimenti della sinistra libertaria,schiacciati nella logica del conflitto sempre più «arm ato» tra le frange radicali e lo Stato. Alla fine del decennio, le azioni dei gruppi semi-clandestini si intrecciarono con gli attentati delle organizzazio

ni terroriste, interrompendo per un lungo periodo ogni possibilitàdi protesta non violenta.

4. Marginalità o marginalizzazione?Alcune spiegazioni della violenza politica

È stata l’escalation violenta una conseguenza inevitabile dellaprotesta? Perchè e come giovani socializzati alla politica in una democrazia decisero di prendere le armi contro di essa? Perché all’ottimismo riformista degli anni Sessanta seguirono gli anni dipiombo? Nel corso degli anni Settanta e, soprattutto, nel decenniosuccessivo, varie risposte sono state proposte a queste domande(per una rassegna, Pasquino e Della Porta 1986). Le ipotesi sulle

cause della violenza hanno di volta in volta guardato alle caratteristiche sociali dei gruppi emergenti e alle risposte che essi hanno trovato nel sistema politico, da parte sia dei loro potenziali alleati chedegli avversari.

4.1. La «seconda società»

I nuovi movimenti collettivi sono stati spesso definiti come movimenti dei ceti medi. Così, il movimento femminista è stato considerato come reazione alle crescente contraddittorietà delle richieste rivolte alle donne - con forti tensioni soprattutto per le donnepiù scolarizzate, collocate in contesti urbani, socialmente avvantaggiate. Le emergenti rivendicazioni sul tema dell’ambiente sono state viste come effetto del benessere, possibili solo quando i proble

mi materiali di sopravvivenza sono stati superati. La violenza è stata talvolta spiegata come imitazione del proletariato da parte di intellettuali che cercano di «purificare» attraverso l’azione radicale isensi di colpa derivanti dalle loro origini borghesi.

Proprio nel corso degli anni Settanta, però, la crisi economicafece anche parlare della crescita di una «seconda società» - della so cietà dei non-garantiti, dei disoccupati, degli emarginati. A propo

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sito dei movimenti urbani, si è osservato che l’estendersi delle rivendicazioni dalla fabbrica alla scuola e al territorio, cioè dalla produzione alla riproduzione, corrispondeva all’emergere di nuovetensioni sociali. La crisi economica dell’inizio degli anni Settanta sirifletteva in un aumento dei prezzi di alcuni servizi pubblici (dai trasporti all’elettricità). L’urbanizzazione portava contemporaneamente allo sventramento di alcune aree delle grandi città e alla costruzione dei quartieri «a rischio» delle periferie urbane. L’istruzione di massa aumentava le aspettative diffuse mentre la crescitademografica aggravava i problemi relativi all’edilizia abitativa, scolastica e sanitaria. Per quanto riguarda la violenza politica, essa è

stata collegata alla fase di depressione del ciclo economico, iniziatacon la crisi internazionale del petrolio, e alle sue conseguenze sulmercato del lavoro. A proposito del movimento giovanile degli anni Settanta è stato scritto che:

Se gli «studenti» avevano impersonato le attese tardive di una utopiabasata sul futuro, i «giovani» degli anni Settanta accettano di misurarsi nonsolo con il cambiamento di prospettiva, ma con gli esiti più dirompenti delle nuove strategie sistemiche: focalizzano gli obiettivi sul presente e scelgono di misurarsi col sistema a partire dalla propria marginalità. Testimone privilegiato delle contraddizioni che attraversano il tardo-capitalismo,emerge una nuova figura sociale di giovane: proviene da un entroterra socio-culturale eterogeneo, non ha aspettative di valorizzazione professionale, perde i caratteri della omogeneità sovranazionale e si adatta ai diversicontesti territoriali. (Lodi e Grazioli 1984: 68-69)

Osservatori interni ai movimenti hanno inoltre sottolineato lamaggiore attenzione dei giovani del ’77 ai temi del diritto allo studio e della selezione rispetto a quelli della riforma dell’insegnamento o della democratizzazione della vita accademica che eranostati prevalenti nella prima ondata di proteste nell’università: «Nonè affatto un caso che, rispetto al ’68, sia stata questa volta molto piùrilevante la presenza degli studenti tecnico-professionali, dei fuori

sede, degli universitari meridionali: ossia dei settori più disagiatidella componente studentesca» (Bernocchi et al. 1979: 17).

Si può aggiungere che le organizzazioni più radicali trovaronouna base di reclutamento soprattutto fra i giovani delle aree marginali delle grandi città. Uno dei momenti più estremisti di Lotta continua fu, ad esempio, la campagna sui così detti «dannati della terra» - il marxiano sottoproletariato. La più massiccia ondata di vio

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lenza si ebbe quando gruppi autonomi crebbero, reclutando tra igiovani delle periferie delle grandi città, in controculture caratterizzate da una sostanziale sfiducia verso la politica, istituzionale enon, e da un’attrazione verso la violenza, come espressione di una

insoddisfazione esistenziale. Non fu un caso se i gruppi che adottarono le formule organizzative più militanti furono normalmentequelli impegnati nei settori più marginali della società. Nonostanteil tema della violenza producesse crisi e divisioni nelle organizzazioni dei movimenti della sinistra libertaria, per le formazioni piùradicali la violenza stessa si dimostrò in certi casi come una risorsadi aggregazione. Nel clima pessimistico prodotto dalla crisi econo

mica della metà degli anni Settanta, l’enfasi sulla «militanza» era,cioè, uno strumento per aggregare aree costitutive piuttosto volatili ai margini delle grandi metropoli. Come dimostra la storia del-l’Autonomia, comunque, l’incontro tra attivisti politici radicali egiovani emarginati non produsse più che brevi esplosioni di violenza: le «preferenze» dei due gruppi si dimostrarono infatti troppocontrastanti perchè si potesse creare una stabile alleanza. Se picco

li gruppi di autonomi sono sopravvissuti negli anni Ottanta ai margini dei movimenti di protesta, essi sono stati però soggetti a continue crisi e fratture tra gli attivisti che si proponevano obiettivi ditrasformazione della società e una base più interessata ai rituali conflitti con la polizia che alla politica.

Nel dibattito degli anni Settanta, le caratteristiche sociali del movimento giovanile sono state utilizzate per spiegare il suo radicalismo. Le domande avanzate dai giovani vennero così considerate come rivendicazioni non negoziabili di gruppi esclusi dal benessereeconomico. Giovani marginali, definiti talvolta come piccolo-borghesi, talaltra come sottoproletari, sono stati considerati come portatori di interessi antagonisti rispetto alla «prima società» e come dotati, di conseguenza, di un’alta propensione alla devianza. In realtà,nel corso del decennio successivo, molte delle richieste del «movimento del ’77» vennero nei fatti accolte e i circoli giovanili - nono

stante la precedente radicalizzazione - vennero riconosciuti comeassociazioni con funzioni di integrazione e spesso di surrogato rispetto alle carenze dello stato sociale, fino al punto da ricevere, inalcuni casi, finanziamenti pubblici. Più che dalla marginalità sociale la violenza sembrò infatti emergere - come cercherò di dire meglio in quanto segue - dalla sottorappresentazione politica. Se le richieste presentate nel corso della protesta erano varie, e se venne

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ro elaborate in forma non-negoziabile, ciò non avvenne perché esse non erano integrabili nel sistema - e infatti esse vennero integrate negli anni Ottanta. Piuttosto, le domande emergenti faticarono atrovare portavoce in grado di tradurle nel sistema politico perchéesse erano in parte esterne alla tradizionale definizione del politico.Come ha osservato Luigi Manconi (1990: 115-16): «Una volta interdetta la possibilità di parlare un linguaggio comune, il movimento viene ricacciato in una condizione pre-sociale e pre-politica:e non certo perché privo dei requisiti propri dei movimenti socialie politici ma perché - piuttosto - la controparte, negando l ’identitàsociale e politica di un aspirante attore del sistema, intende cancel

larne la stessa esistenza». Nella delicata fase di costruzione di unanuova identità collettiva, la presenza di un ambiente politico radi-calizzato si è infatti riflessa nella difficile scelta tra l’isolamento controculturale e l’azione violenta: «debolezza sociale della nuova identità giovanile e forte radicalizzazione politica si sono combinate inuna miscela esplosiva nel ’77» (Beccalli 1981: 66). La stessa radicalizzazione della scena politica avrebbe inciso anche sul movimento

delle donne, allontanandolo sempre più dai luoghi delle decisioniistituzionali, mentre il movimento urbano entrava in una fase di «riflusso».

4.2. Isolamento e radicalizzazione

La «diversità» degli attori emergenti rispetto ai connotati classici del movimento operaio portò a un rapporto sempre più difficile tra i movimenti collettivi e i loro potenziali alleati nella vecchiasinistra. Le incomprensioni crebbero insieme al rifiuto da parte deimovimenti dei princìpi della eguaglianza e della prevalenza del conflitto nelle fabbriche, e alla radicalizzazione delle forme d’azioneche fu in parte proprio un modo di differenziarsi dalla sinistra tradizionale. Ma esse esplosero soprattutto a seguito della svolta stra

tegica del Pei, alla ricerca di una legittimazione istituzionale.Durante l’evoluzione del movimento studentesco - seppure con

qualche conflitto interno - il Pei aveva sostenuto la protesta. Finoai primi anni Settanta, la repressione era percepita come diretta ingenerale contro la sinistra, così che la vecchia sinistra e i sindacatisi affiancavano ai movimenti sociali nel denunciare la «brutalità»poliziesca e le aggressioni dei gruppi neofascisti. Negli anni della

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violenza terrorista il rapporto tra Pei e movimenti della sinistra libertaria peggiorò notevolmente. Dopo la sostituzione della politicadi «unità delle sinistre» contro i governi di centro-destra con la proposta di un «compromesso» le forze popolari cattoliche e quelle comuniste, l’avanzata comunista alle amministrative del 1975, confermata alle politiche dell’anno successivo, ebbe paradossalmente uneffetto disgregante sui movimenti - delusi anche dallo scarso seguito elettorale dei partiti della Nuova sinistra, che avevano sperato di raccogliere un paio di milioni di voti e si erano dovuti accontentare dell’1,5 per cento dei suffragi, mentre scompariva il Partitosocialista di unità proletaria (Ps i u p), anch’esso alleato del movi

mento nella sua fase emergente. Svanita la speranza di un «sorpasso» elettorale che potesse aprire la strada a un’alternativa di sinistra, la nuova legislatura aveva visto nell’agosto 1976 la non-sfidu-cia di Pei e Psi al governo monocolore De e, quindi, il voto di fiducia del Pei al nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti, nelmarzo del 1978. Vicino al governo, il Pei aveva esitato a mantenereuna funzione di referente di interessi collettivi emergenti, senza che

fossero visibili risultati soddisfacenti a livello di riforme. A partiredal 1973, la proposta del Pei di un «comprom esso storico» - cioèdi una cooperazione tra «le masse cattoliche e quelle comuniste» -e, nel 1978 e 1979, il suo sostegno «dall’esterno» a governi guidatidalla De ridusse probabilmente l’influenza delle forze più conservatrici dentro le istituzioni. Nella sua ricerca di una legittimazione,comunque, il Pei rinunciò alla sua posizione di difensore dei dirit

ti dei cittadini, e la scelta di repressione «dura» delle ali più estreme trovò poche voci critiche. Nonostante la maggiore presenza diattivisti con precedenti esperienze nei movimenti (Lange, Irvin eTarrow 1990), il sostegno esterno del Pei ai governi di unità nazionale, tra il 1978 e il 1979, comportò un atteggiamento difensivo conpoche aperture nei confronti degli attori emergenti, anche nelle organizzazioni di base del partito (Hellman 1987; Beckwith 1985) enei governi locali con maggioranze di sinistra (Seidelman 1984).

Le trasformazioni nella posizione del Pei alla metà degli anniSettanta sono visibili, ad esempio, a proposito dei movimenti urbani. Il Pei aveva sostenuto, tra la fine degli anni Sessanta e l’iniziodegli anni Settanta, sia le lotte sulla casa che quelle per un nuovogoverno della città. Da queste azioni emersero le prime esperienzedi decentramento amministrativo urbano, che poi si istituzionalizzarono nel corso degli anni Settanta (Dente, Pagano e Regonini

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1978). Quando la legge 278/76 fissò le norme per la partecipazione popolare nell’amministrazione locale, con l’elezione di corpi decentralizzati per le municipalità con più di 30 mila abitanti, consigli di quartiere esistevano già in molti comuni «rossi» . Nella secon

da metà degli anni Settanta, però, il Pei, al governo in molte grandi città, fu piuttosto timido nell’applicazione della riforma. Comericorda una ricerca sul caso fiorentino, il Pei aveva appoggiato, subito dopo l’alluvione, i comitati di quartiere sorti su richieste qualiasili alternativi, controllo popolare sui piani di urbanizzazione e lotta alla speculazione. Il programma elettorale con cui il Pei venneeletto nel 1975 al governo della città riprendeva queste domande di

decentramento amministrativo. Quando però, nel 1976, con il Peial governo della città, nascono i consigli,

la dirigenza del Pei sembra impegnata in un gioco di cautela, facendo poco per incoraggiare il tipo di «indipendenza» che è un prerequisito per iltipo di «auto-organizzazione della società civile» che era stata proposta dalla strategia stessa del partito. Anche se gli estesi legami tra una porzione sostanziale dei nuovi consiglieri del Pei e la tradizione politica aggressiva dei

quartieri fiorentini indicano che il ruolo di «mediazione» cercato dai leader è in contrasto con l’esperienza degli stessi attivisti di base comunisti.(Seidelman 1981: 447)

Anche in altre campagne, come ad esempio quella contro il nucleare, il Pei abbracciò in questi anni posizioni opposte rispetto alle domande del movimento - al punto che mentre in comuni guidati da amministrazioni vicine alla maggioranza si opponevano allalocalizzazione di centrali nucleari sul loro territorio, quelli controllati dal Pei, a Caorso e a Trino, furono i più decisi sostenitori dellecentrali nucleari (Diani 1994: 216).

Accanto a quello che veniva percepito come un «tradimento»da parte del partito più influente della vecchia sinistra, vi fu il progressivo allontanamento dei movimenti della sinistra libertaria dall’ala protettrice del sindacato. All’inizio degli anni Settanta i sinda

cati parteciparono a molte mobilitazioni insieme agli attivisti deimovimenti della sinistra libertaria. Per fare un solo esempio, le proteste sul tema dell’assetto urbano erano state stimolate dalle confederazioni sindacali. Già nel 1970 i sindacati avevano iniziato unapolitica di riforme su sistema fiscale, sanità e casa. Su quest’ultimotema vi erano rivendicazioni quali il controllo degli affitti, il blocco di tre anni degli affitti, il miglioramento delle condizioni dell’e

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dilizia pubblica e un ampliamento dell’utilizzazione dell’esproprio.Sensibili alle nuove richieste, i sindacati vararono i consigli di zona,federazioni dei consigli di fabbrica operanti in alcune zone. A partire dal 1973-74, comunque, i sindacati divennero sempre più timorosi rispetto alle iniziative «di base» e sempre più critici sulleforme di azione radicale propagandate da alcune organizzazionidella Nuova sinistra. Questa svolta è stata spesso interpretata comeuna conseguenza della istituzionalizzazione dei sindacati. Si è detto che la crisi economica degli anni Settanta ha spinto il sindacatoa rinchiudersi a riccio nella difesa della sua base principale di riferimento. Due caratteristiche del sindacalismo italiano di questi an

ni - sottolineate nella letteratura sociologica più recente - potrebbero avere reso inoltre difficili i rapporti tra i sindacati e movimenti che aspiravano a una sempre maggiore autonomia: il forte operaismo, che rendeva difficile la comprensione di interessi esterni alle fabbriche, e il ruolo di supplenza politica, che faceva guardarecon sospetto alla nascita di nuovi attori collettivi. Come ha osservato Aris Accornero (1992), fino agli anni Ottanta l’operaismo sin

dacale ha creato l’illusione della rappresentanza universale. Il rifiuto dell’idea che gli interessi della classe operaia (identificata conl’«operaio-massa») potessero contrapporsi non solo a quelli dei capitalisti, ma anche ad altri interessi «non antagonistici» portò al rischio che «l’interesse di parte venisse scambiato per l’interesse generale. Questo fu lo scotto che C g i l , C i s l  e U i l  pagarono all’ambivalenza fra interesse di classe e interesse del paese, dovuta alla concezione che il sindacato di classe aveva della classe operaia comeclasse generale» (Accornero 1992: 73). Dal punto di vista strategico, l’identificazione dell’interesse collettivo con l’interesse della base operaia - il così detto «modello proletario» - portò al rifiuto diformule organizzative e forme d’azione esterne alle fabbriche.

Si può aggiungere che gli anni Settanta hanno rappresentato undecennio di egemonia politica del sindacato. Ancora secondo Accornero (1992: 56), una peculiarità del caso italiano fu il fatto che

«i sindacati gestirono l’ondata di proteste e di lotte, iniziata conl’“autunno caldo”, come un movimento politico più che sociale.[...] i movimenti sociali sembravano aver bisogno di una legittimazione e di una leadership di tipo politico, che in Italia vennero appunto dai sindacati, i quali a loro volta ne trassero impulso». Lepiattaforme contrattuali cominciarono a contenere liste di richiestedi riforme sociali, mentre gli scioperi politici divenivano un fre

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quente mezzo di pressione. Con un’azione surrogatoria rispetto alsistema politico, e soprattutto rispetto ai partiti della sinistra16, i sindacati intervennero su - e «vertenzializzarono» - temi quali casa, fisco, sanità, disarmo della polizia in materia di ordine pubblico, in

vestimenti per lo sviluppo industriale. Le vertenze accrescevano lepossibilità di manovra politica del sindacato, richiedendo un aumento della sua capacità politica di manovra, ma ciò si scontravacon una scarsa attitudine alla mediazione e al compromesso. Se inquesta funzione di supplenza i sindacati erano propensi ad ampliare la loro pressione su temi sempre nuovi, il loro ruolo politico liportava comunque a cercare un monopolio della rappresentanza

degli «interessi antagonisti» rispetto a quelli del capitale. Essi erano invece scettici rispetto a movimenti che non solo nascevano aldi fuori della fabbrica, ma non erano nemmeno disposti a «subordinarsi» all’interesse della classe operaia e dei suoi legittimi rappresentanti.

4.3. Repressione e radicalizzazioneLa radicalizzazione dei movimenti della sinistra libertaria inte

ragì con una strategia istituzionale di repressione dura delle lorofrange più estreme, mentre crisi economica e instabilità governativa impedivano l’attuazione di riforme a lungo discusse. Il ciclo diprotesta accentuò, infatti, le divisioni nella maggioranza, aprendola strada a una lunga fase di rinegoziazione dei rapporti di forza tra

i partiti. Gli anni Sessanta si erano chiusi con la crisi della formuladel centro-sinistra, che aveva assicurato una certa stabilità, testimoniata dai tre successivi governi guidati da Aldo Moro. Gli anniSettanta si aprirono con un monocolore De, guidato da MarianoRumor, seguito, nel corso del decennio, da ben tredici gabinetti(contro i dieci del decennio precedente, che pure aveva visto un avvio piuttosto turbolento). Le coalizioni di governo furono inoltre le

più varie, all’interno di una maggioranza centrista: dal centro-de-stra del secondo governo Andreotti nel 1972, al centro-sinistra«monco», con appoggio esterno del Pei, del quinto governo An-

16 Come ha osservato Accornero: «Se in quella strategia vi era del riformismomassimalista, ciò era dovuto anche al fatto che l’assenza di un forte partito pro-labour al governo esaltava i compiti della rappresentanza sindacale» (1992: 68).

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dreotti, nel 1978, passando attraverso altre formule che vedevano,via via, l’appoggio, l’astensione o l’opposizione dell’uno o dell’altrodei piccoli partiti laici o del Psi. A dimostrare la rissosità del de

cennio, si possono citare anche le chiusure anticipate della legislatura: nel maggio 1972, ci furono infatti le prime elezioni anticipatedella storia della repubblica e prima della normale scadenza si chiusero anche le successive due legislature, con elezioni anticipate nelgiugno del 1976 e nel giugno del 1979.

Si trasformarono nel frattempo anche i rapporti di forza tra governo e opposizione. Nel 1972 il centro aveva ottenuto complessi

vamente oltre il 50 per cento dei suffragi, mentre la sinistra si eraattestata attorno al 40, e si era rafforzata la destra. Nel 1974, comunque, i risultati del referendum promosso da forze cattolichecontro la nuova legge che permetteva il divorzio - 59,1 per centocontro l’abrogazione della legge - avevano indebolito la De. Nel1976, inoltre, il Pei aveva confermato la notevole ascesa registratanelle amministrative dell’anno precedente, raggiungendo il 34,5per cento dei suffragi e portando la sinistra al 46,7, contro il 44,6

del centro. Questi mutamenti vennero poi confermati nelle elezioni del 1979, che videro un risultato stazionario, inferiore al 50 percento, per i partiti centristi, e una sinistra anch’essa stabile con il 46per cento delle preferenze.

La instabilità che ne segui non favorì le riforme. All’inizio deldecennio, completarono il loro iter parlamentare alcuni dei disegnidi legge avviati dal centro sinistra nella fase di maggiori speranze di

mutamento. Molti di questi progetti, comunque, si arenarono difronte alla crisi economica e politica17. Nel 1976 alcuni speraronoche il governo presieduto da Giulio Andreotti - detto della «nonsfiducia», perché si basava sulla non-opposizione di Psi e Pei - potesse riaprire la strada delle riforme. In particolare, il Po, che nel1978 votò la fiducia ad un nuovo governo Andreotti, si impegnò perfare passare alcune leggi (tra le più importanti quelle su edificabi

lità dei suoli, equo canone, edilizia residenziale, malattia mentale,istituzione del sistema sanitario nazionale e interruzione volontariadella gravidanza). Per quanto riguarda la politica industriale, la vec

17 Poche furono le eccezioni; tra le più significative, nel 1975 una riforma deldiritto di famiglia che sostituì le norme risalenti al codice penale del 1930 e al codice civile del 1942, stabilendo il principio della parità tra i coniugi, e introducendo principi di difesa dei figli, sia quelli nati dentro il matrimonio che quellinati da genitori non sposati.

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chia sinistra si aprì a una strategia neocorporativa, e la C g i l   dichiarò infatti nel 1978, per bocca del suo segretario Luciano Lama,la sua disponibilità a un patto tra le forze produttive, basato sullalimitazione degli aumenti salariali in cambio di un’azione di investimenti per ridurre la disoccupazione. La nuova linea venne, infatti, nello stesso anno approvata dal congresso nazionale del maggiore sindacato con la così detta svolta dell’EuR. Si potrebbe dunque concludere che gli anni Settanta abbiano posto le basi per unamodernizzazione del paese, istituendo uno stato sociale e relazioniindustriali avanzate. Numerose difficoltà emersero comunque nella fase di attuazione di queste leggi che, derivando da sfibranti com

promessi tra i partiti politici, erano state formulate in maniera spesso ambigua. Come ha osservato Paul Ginsborg (1989: 531), infatti:«Molte leggi rappresentarono dei seri tentativi di attuare riformecorrettive ma parecchie finirono largamente disattese e qualcunaignorata completamente. La più importante di tutte le riforme,quella dello Stato, sia nei suoi meccanismi interni che per il suo ruolo dentro la società, non fu mai seriamente avviata». Non a caso, nel

1979 il Pei abbandonerà il «compromesso storico» per la «alternativa democratica», ritornando all’opposizione.Nonostante gli anni Settanta abbiano visto anche il varo legisla

tivo di alcune riforme, la risposta più immediatamente visibile dello Stato alla protesta fu quella in termini di ordine pubblico. In questo periodo lo Stato reagì alla radicalizzazione dei movimenti dellasinistra libertaria con un uso della forza che, in molte occasioni, riportò alla tradizione degli anni Cinquanta. Le tattiche della poliziaper controllare la protesta continuavano a mescolare elementi piùtolleranti - che infatti produssero un complesso sistema di negoziato tra polizia e dimostranti - con una crescente durezza. Sebbene la polizia non facesse più ricorso alle armi da fuoco, le tecnichedi intervento alle manifestazioni non erano spesso in grado di evitare escalazioni, specialmente quando grosse unità di polizia caricavano i dimostranti con le jeep e i candelotti lacrimogeni, sparati

talvolta ad altezza d’uomo (Canosa 1976: 274-85). La lista dei dimostranti uccisi durante queste cariche si allungò nel corso del decennio. Fra il 1970 e il 1975 sette tra dimostranti e passanti persero la vita nel corso degli interventi delle forze dell’ordine a seguitodi ferite da manganello, investiti dai gipponi o colpiti da candelotti lacrimogeni (Canosa 1976: 274-85).

A seguito di questa escalation, le relazioni tra dimostranti e po

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lizia continuarono a peggiorare. Mentre gli scontri con i neofascistiproducevano, come abbiamo visto, una radicalizzazione dei conflitti politici, le voci diffuse di una complicità tra membri delle forze di polizia ed estremisti neri ridussero la fiducia della opinione

pubblica di sinistra nella neutralità dello Stato. Le accuse ai servizisegreti per la protezione accordata alla destra radicale furono particolarmente frequenti nel periodo dello «stragismo» - cioè dellastrategia dei massacri perpetrati dal terrorismo di destra. Fra il 1969e il 1974, come è tristemente noto, persero la vita in attentati dinamitardi diciassette persone il 12 dicembre 1969 a Milano; sei persone nel luglio del 1970 su un treno in Calabria; otto persone du

rante un comizio sindacale a Brescia nel 1974; dodici persone sultreno Italicus, ancora nel 1974. In queste occasioni, la repressionedel terrorismo nero fu così inefficace che mandanti ed esecutori diquelle stragi sono ancora sconosciuti18. L’intervento istituzionalesull’ordine pubblico divenne noto, non solo nei circoli dell’estremasinistra, come «strategia della tensione», cioè una manipolazione,da parte di alcune forze al governo, dei gruppi politici radicali, inmodo da creare disordine e indurre quindi l’opinione pubblica verso soluzioni autoritarie.

La strategia di controllo della protesta mutò comunque, ancorauna volta, alla metà degli anni Settanta, quando essa fu caratterizzata da una repressione dura, orientata più selettivamente verso lefrange violente dei movimenti. Con il declino della mobilitazione,le tattiche più «sporche» vennero parzialmente abbandonate - anche se la partecipazione di molti dirigenti dei servizi segreti alla log

gia massonica deviata «Propaganda 2» e una serie di episodi maichiariti nei giorni del rapimento del presidente della De Aldo Moro (Flamigni 1988) indicano che la strategia della tensione non aveva perso tutti i suoi sostenitori. La destra radicale vide, comunque,svanire molte protezioni istituzionali: per alcuni anni, essa cadde inuna crisi organizzativa da cui emerse solo dopo il 1977 con una strategia di «attacco contro lo Stato» e di quotidiani scontri con i mili

tanti dell’estrema sinistra.Anche nella seconda metà degli anni Settanta, sebbene l’intervento della polizia alle manifestazioni fosse divenuto più selettivo,

18 Sul radicalismo di destra in questa fase cfr. Ferraresi 1984:57-72. Sulla seconda metà degli anni Settanta, cfr. Revelli 1984.

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esso non fu comunque in grado di invertire l’escalation. Avendo ache fare con militanti armati di pistole P38, anche le forze di polizia - in alcuni casi, agenti in borghese - fecero talvolta uso di armida fuoco. Inoltre, come in passato, le forze dell’ordine venivano utilizzate in forma massiccia, cercando di compensare con il numerole insufficienze dell’armamento e della formazione professionale.Per scoraggiare i frequenti divieti di manifestazione, reparti di polizia ed esercito vennero in alcuni casi dislocati in un’occupazionedi intere città. Il risultato fu una lunga fila di morti durante azionidi protesta: dal militante di Lotta continua, Francesco Lo Russo,ucciso nel corso di una carica dei carabinieri a Bologna nel marzo

1977, alla giovane radicale Giorgiana Masi che, poche settimanedopo, perse la vita durante scontri con le forze dell’ordine a Roma.

Politiche di ordine pubblico dure ma inefficaci riflessero le scelte di una élite politica debole e divisa al proprio interno. All’iniziodegli anni Settanta, la crisi del centro-sinistra aprì la strada a unasvolta conservatrice e alla strategia della tensione, rafforzando leposizioni più ostili ai movimenti. Nella sinistra, non solo estrema,

si ebbe l’impressione che chi deteneva il potere fosse disposto anche a venir meno alle regole democratiche pur di non cederne neanche una parte. Di fronte a una destra violenta e a una Nuova sinistra radicale, le forze politiche più conservatrici domandarono unpolitica di legge e ordine che potesse contenere gli «opposti estremismi». La nuova coalizione di centro-destra potè così utilizzare ilterrorismo e una ondata di criminalità diffusa per giustificare duremisure in termini di ordine pubblico (Pasquino 1990). Nella seconda metà del decennio, istituzioni in crisi e governi deboli nonriuscirono a riguadagnare legittimazione fra gli attivisti dei movimenti. La spirale di violenza, favorita dalla «degenerazione» dei servizi d ’ordine dei gruppi dell’estrema sinistra, si avvitò ancora quando si cominciarono a sentire gli effetti di una crisi economica a cuile autorità non avevano saputo rispondere. Nonostante la strategiadella tensione fosse stata abbandonata, leggi di emergenza vennero

varate contro il terrorismo (Della Porta 1990). Nonostante i governi di unità nazionale rappresentassero un segno di secolarizzazionedel sistema politico, per gli attivisti dei movimenti sociali la legislazione contro il terrorismo così come la morte di alcuni dimostrantirievocarono l’immagine di uno Stato autoritario. Di conseguenza,gli anni tra il 1977 e il 1979 cominciarono a essere conosciuti come«anni di piombo», grigi e pesanti.

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In sintesi, per quanto riguarda gli effetti del sistema politico sulla protesta, si è osservato che una chiusura alle domande emergenti ha favorito l’allontanamento dei movimenti sociali dalla politica

o la loro radicalizzazione. Una spiegazione della violenza degli anni Settanta ha infatti menzionato il blocco del sistema politico, inteso talvolta come mancata attuazione delle riforme e talaltra comeassenza di alternanza o assenza di opposizione. Per quanto riguarda i movimenti, la repressione ha ritardato lo sviluppo di quelli chesarebbero poi divenuti nuovi attori del sistema di rappresentanzadegli interessi.

Riassumendo, alla fase di emergenza, alla fine degli anni Sessanta, seguì in Italia una fase contemporaneamente di riflusso e radicalizzazione. Le risorse organizzative per i movimenti della sinistra libertaria, che seguirono al movimento studentesco, vennerosoprattutto dal lungo processo di strutturazione e decomposizionedella Nuova sinistra. All’estremo decentramento di alcune componenti dei movimenti si accompagnò la burocratizzazione delle organizzazioni maggiori della Nuova sinistra e la «implosione» nellaclandestinità delle formazioni più radicali. Una struttura organizj'zativa tendenzialmente totalizzante ed esclusiva venne quindi declinata in due modelli: centralizzato, formale ed elitario il primo,informale, decentrato e partecipativo il secondo. In un ciclo culturale caratterizzato da pessimismo, l’ideologia dei movimenti della

sinistra libertaria assunse i toni di un profondo fondamentalismo.Mentre cominciavano a elaborare tematiche nuove - dalla differenza alla liberazione - i movimenti affrontavano anche il nodo difficile della violenza. Nella seconda metà degli anni Settanta la componente più visibile della sinistra libertaria si caratterizzò per unaprofonda sfiducia nei confronti dello Stato, visto come strumentodi una parte contro l’altra. Nella componente meno visibile, questa

sfiducia si estese alla politica, spingendo spesso a preferire l’azionecontroculturale. Il ciclo di protesta appena concluso portò a un ampliamento del repertorio della protesta, con la diffusione di alcuneforme d’azione, in primo luogo lo sciopero e le occupazioni, e l’emergere di tattiche nuove, come la disobbedienza civile. Una caratteristica del caso italiano è comunque una fortissima radicalizzazione delle forme d’azione, fomentata dalle battaglie di piazza tral’estrema destra e l’estrema sinistra e dalla ritualizzazione degli

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scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Nonostante un ciclo diriforme fosse seguito al ciclo di protesta, l’immagine più immediatamente visibile dello Stato fu quella della repressione di movimenti sempre più violenti. Compromesso storico e governi di unità na

zionale raffreddarono le simpatie della «vecchia» sinistra verso inuovi attori emergenti, che restarono così - o almeno si sentirono -sempre più isolati.

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UN DECENNIO PRAGMATICO?I MOVIMENTI COLLETTIVI

NEGLI ANNI OTTANTA

IV 

Gli anni Ottanta sono rimasti impressi, nell’immaginario collettivo, come anni di «calm a», dopo le turbolenze del decennio precedente. Nonostante la recessione economica si fosse prolungata finoal 1983, a partire dall’anno successivo una congiuntura internazionale favorevole ebbe riflessi anche in Italia, portando a un aumentodegli investimenti e a una riduzione dei tassi di inflazione, e facendoparlare di un secondo miracolo economico. Anche se il deficit pubblico continuò a crescere, fino a superare nel 1989 il valore del prodotto interno lordo, una domanda interna in crescita e il blocco parziale della scala mobile, confermato da un referendum nel 1985, stimolarono le iniziative imprenditoriali. D opo gli ultimi colpi di coda- con ancora 31 morti tra il 1981 e il 1982 - le residue organizzazioni del terrorismo rosso vennero smantellate dagli arresti, mentre anche le bande del terrorismo neofascista subivano la stessa sorte.

Il clima pragmatico che ne seguì si riflesse anche sui movimenti:il processo di radicalizzazione descritto nel capitolo precedente si invertì, infatti, negli anni Ottanta. Nonostante gli ultimi colpi di codadelle organizzazioni terroristiche, l’escalation violenta delle formed’azione si interruppe a partire dal 1981, in occasione della campagna di protesta, culminata nel 1983, contro l’installazione da partedella N a t o   dei missili a testata nucleare Cruise e Pershing II. Fino

all’inizio degli anni Ottanta il tema della pace aveva mobilitato soloalcuni gruppi religiosi e militanti del Partito radicale, i quali avevano combinato azioni di sensibilizzazione con strategie di pressionepiù convenzionale. Terreno di intervento privilegiato per le organizzazioni tradizionalmente impegnate sul tema della pace, la campagna contro l’installazione dei missili coinvolse numerose formazionipolitiche o di movimento preesistenti. In coincidenza con l’ondata

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di mobilitazione per la pace a livello europeo, per la prima volta dopo molti anni, la Nuova sinistra, la vecchia sinistra e i nuovi movimenti sociali cooperarono insieme in una campagna di protesta. Dopo la fase di bassa mobilitazione negli anni precedenti, l’azione col

lettiva assunse caratteristiche completamente differenti: l’impattodella ideologia socialista si ridusse insieme a quello della Nuova sinistra e si affermarono molte delle caratteristiche organizzative e culturali spesso descritte come peculiari dei nuovi movimenti sociali,mentre cresceva un movimento ecologista caratterizzato da unorientamento pragmatico alla politica. Insieme agli ecologisti e ai pacifisti, attivisti del movimento femminista e del movimento degli stu

denti si sono mobilitati in comuni azioni di protesta, quali la campagna di denuncia e sensibilizzazione contro la mafia e le sue protezioni politiche e contro l’intervento italiano nella guerra del Golfo.

In quello che segue, osserveremo le trasformazioni che gli anniOttanta portarono nella struttura organizzativa, negli schemi ideologici e nelle forme d’azione dei movimenti della sinistra libertaria,per poi cercare di spiegare questa evoluzione alla luce soprattuttodei mutamenti nella struttura delle opportunità politiche.

1. Organizzazione:tra gruppi di base e associazionismo

L’evidenza drammatica degli errori del decennio precedentespinse i movimenti collettivi degli anni Ottanta a un processo diprofonda autocritica e al tentativo di superare i limiti sia dell’«as-semblearismo» che della burocratizzazione. Le sperimentazioni organizzative si orienteranno in due direzioni: da un lato, nella proliferazione dei gruppi di base, autonomi l’uno dall’altro, e coordinatinei momenti di mobilitazione da apposite organizzazioni-ombrello;dall’altro, nella creazione di vere e proprie associazioni, dotate distatuti e regolamenti.

Nel movimento per la pace troviamo una prima illustrazione diuna struttura organizzativa capace di espandersi durante le campagne di mobilitazione, sopravvivendo poi, seppure in maniera menovisibile, nei momenti di riflusso delle azioni di protesta. All’inizio degli anni Ottanta, la protesta contro l ’installazione dei missili a testata nucleare assunse una struttura decentrata, composta da unità autonome attive a livello locale: oltre 600 comitati per la pace vennero

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infatti costituiti in quartieri, fabbriche, scuole. Essi erano dotati diuna struttura informale, con una partecipazione inclusiva. In occasione di alcune iniziative - convegni, marce, sit-in, campi - questi comitati si coordinavano, come vedremo, all’interno di appositi orga

nismi.Una delle tematiche organizzative centrali del movimento per la

pace è stato il rifiuto della delega, attraverso l’aspirazione a una responsabilizzazione individuale. Già alla prima assemblea nazionaledei comitati, nel novembre 1981, i partecipanti rifiutarono infatti ilruolo di «delegati» presentandosi come «individui impegnati in prima persona» che interpretavano la loro funzione come elementi di

collegamento fra il centro e la base, ma non ritenevano di poterprendere decisioni vincolanti per chi non partecipava direttamenteagli incontri (Lodi 1991:206). Sottolineando la «responsabilizzazione individuale di persone provenienti da tutte le parti politiche,ideali, religiose», un documento diffuso nel 1982 affermava ad esempio che: «L a presenza non deve essere per rappresentanze e delegazioni, ma sempre un fatto di persone sì ideologicamente collocate,

ma sempre disponibili ad una modificazione personale e politica.Non dei delegati, ma dei cervelli in funzione» (documento dei partecipanti al campo di Comiso, in Battistelli et al. 1990: 161-62).

La ricerca della responsabilizzazione individuale era sottolineata in modo particolare all’interno di un’altra unità organizzativa dibase, che si era affiancata ai comitati per la pace: i gruppi di affinità, definiti come «unità di base per il funzionamento della democraziadiretta e per il processo della formazione delle decisioni» (in Battistelli et al. 1990: 169). Oltre che per evitare infiltrazioni di provocatori, i gruppi di affinità erano espressamente pensati come un rimedio ai problemi di concentrazione di potere nella leadership, cheavevano caratterizzato i movimenti dei decenni precedenti. Costituiti da una dozzina di persone, i gruppi di affinità eleggevano deiportavoce (scelti a rotazione), che poi formavano il consiglio dei portavoce. L’assemblea aveva funzioni solo consuntive, mentre si teo

rizzavano meccanismi decisionali basati sul consenso - cioè orientati «alla formazione di una volontà collettiva o a risolvere le contraddizioni col metodo del convincimento e dell’accettazione positiva diuna parte delle posizioni dell’altro» (in Battistelli et al. 1990: 194). Ilprincipio della responsabilizzazione individuale si accompagnava all’enfasi sull’autonomia di ciascun gruppo. Nel 1984 la segreteria organizzativa dei comitati per la pace propose di creare «un modello

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di coordinamento nazionale di tipo federativo. In sostanza una grande autonomia di ogni singolo comitato ad assumere iniziative o anche analisi proprie in presenza di un momento di coordinamentocui si partecipa condividendo una piattaforma politica e che ha al

cune strutture centrali che organizzano e gestiscono le campagnedecise» (in Battistelli et al. 1990: 194).

La sperimentazione organizzativa non sarà comunque facile, riproponendo il problema del rapporto tra efficienza e democrazia,con una perenne tensione tra chi privilegiava la prima e chi la seconda. Uno dei primi conflitti organizzativi riguardò, infatti, le forme di partecipazione nei comitati per la pace. Mentre i gruppi più

istituzionalizzati volevano lasciare aperta la possibilità che intere organizzazioni confluissero nei comitati, i gruppi spontanei sostenevano la necessità di una adesione individuale, che doveva servire aresponsabilizzare i partecipanti oltre che a evitare la creazione dicomitati che funzionassero come semplice sommatoria di gruppi.Come è stato osservato: «Il primo approccio tendeva ad ignorare ibisogni emergenti e la natura eterogenea dei comitati, insistendo in

vece su soluzioni burocratiche dei problemi organizzativi; il secondo, invece, prendeva una posizione fortemente dogmatica su “rappresentazione individuale” e “principi di unanimità” che, a volte,ostacolarono decisioni cruciali su temi specifici» (Lodi 1991: 217).E infatti, nelle prime due assemblee di coordinamento nessuna risoluzione venne votata, proprio per il rifiuto dei partecipanti diconsiderarsi delegati.

La rinuncia al principio della delega portò inoltre al fallimentodi diversi tentativi di coordinamento. Il primo di essi fu il Comitato24 ottobre, costituito da esponenti di Dp , Pd u p, Fg c i , Lega per il disarmo unilaterale, e Ar c i, riunitisi il 27 giugno 1981 presso la sededella rivista cristiana «Com-Tempi Nuovi», con l’obiettivo di organizzare una manifestazione nazionale contro l’installazione dei missili a testata nucleare in quella che I’O nu  aveva dichiarato come giornata del disarmo. Nel gennaio del 1983, l’assemblea nazionale dei

comitati sostituì il Comitato 24 ottobre - sin dalla sua creazione accusato di funzionare come un «intergruppi» - con il Coordinamento nazionale dei comitati per la pace, dotato di poteri limitati (comela convocazione di manifestazioni nazionali). Ma, a parte la promozione di un referendum autogestito sull’installazione dei missili diteatro sul territorio italiano, il Coordinamento restò nei fatti inattivo. Nel 1985 la terza assemblea nazionale propose l’adozione di

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strutture centrali di semplice collegamento, articolate in gruppi diinteresse, tematici e di affinità. Nel 1987 la prima convenzione perla pace, convocata a Catanzaro da una cinquantina di organizzazio

ni di base, si concluse con la decisione di sopprimere lo stesso Coordinamento per la pace.La struttura decentrata dei comitati presentava un ulteriore prò- ,

blema. Nell’evoluzione organizzativa del movimento per la pace laspontaneità dei gruppi di base diede spesso, nei fatti, potere a partiti e gruppi organizzati - non ultimi il Pei e i gruppuscoli superstiti dell’Autonomia. La leadership formalizzata e accentrata di partitipolitici, sindacati, precedenti organizzazioni di movimento, associazioni cattoliche ebbe, in alcuni momenti, buon gioco su quella informale e diffusa che caratterizzava i nonviolenti, gli ecologisti, le donne e i gruppi del rinnovamento cattolico. La disponibilità di risorsemateriali si dimostrò come uno dei principali strumenti di controllodegli attori istituzionalizzati sulle attività del movimento. Se la «doppia militanza» permetteva la partecipazione di gruppi già dotati diuna propria identità, la compresenza di appartenenze potenzial

mente conflittuali rischiava però di produrre nel movimento spaccature profonde.

Pregi e difetti di questa struttura organizzativa si combinaronoin maniera diversa nelle diverse fasi evolutive della mobilitazione. Lastruttura decentrata e inclusiva del movimento permise l’afflusso dirisorse organizzative iniziali da fonti differenziate e molteplici. Nelle fasi alte della mobilitazione le differenze costituivano una fonte di

ricchezza per il movimento, permettendo di penetrare in aree diverse. Fra i gruppi di origini differenti si realizzava così un’efficace divisione dei compiti:

Le organizzazioni più strutturate, meglio equipaggiate con risorse organizzative tradizionali, garantivano un sostegno di base (finanze, trasporti, accesso ai media ecc.), e inoltre attivavano la loro base per le grandi dimostrazioni di piazza. I gruppi meno formalizzati, dall’altra parte, aiutava

no a sensibilizzare quelle sezioni della società che erano meno sensibili aitemi politici e, quindi, più difficili da attivare. Essi costituirono inoltre laparte espressiva della campagna, promuovendo la diffusione di repertorid ’azione meno tradizionali. (Lodi 1991: 218)

Non a caso, però, l’influenza dei gruppi organizzati nei comitati aumentò durante le fasi di latenza, allontanando ulteriormente gliindipendenti. Nella fase di declino della mobilitazione, le diverse

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anime del movimento tesero a dividersi nuovamente. Da un lato, iltema della pace diverrà un’occasione di riorganizzazione per i gruppi più strutturati, alcuni attivi già precedentemente altri emersi nelcorso della mobilitazione1. Dall’altro lato, una galassia di piccole

aggregazioni - biblioteche, archivi, centri di studio e di documentazione - si impegnerà nella creazione di una «cultura della pace».

La struttura organizzativa del movimento della pace riprese eampliò trasformazioni già presenti in altri movimenti della sinistralibertaria e, al contempo, contribuì alla loro trasformazione. Nel movimento delle donne così come in quello giovanile, la leadership erapiù legata al riconoscimento di capacità specifiche, «a termine», e su

zone limitate, mentre nessun gruppo veniva riconosciuto come rappresentante di interessi più complessivi (Diani e Donati 1984). Aggregazioni informali enfatizzavano le relazioni amicali come mezzoper attutire le tensioni legate alla divisione dei compiti. Insieme aiconflitti di natura strategica venne meno anche la necessità di dedicare energie e risorse alla elaborazione ideologica. I vecchi leader,abili manipolatori della ideologia, venivano quindi sostituiti conprofessionisti nella diffusione di informazioni, che però: «non prendono vere e proprie decisioni - dato che la decisione non è più legittima perchè spetta a ciascuno per sé - ma emettono indicazioni eopinioni, assicurando omogeneità e veicolando messaggi unificanti»(Donati e Mormino 1984: 371). Per quanto riguarda il coordinamento, esso era assicurato da diverse organizzazioni in diverse fasi:organizzazioni più strutturate offrivano risorse per la mobilitazione; organi di informazione alternativa, quali radio o riviste, permet

tevano la circolazione delle informazioni; comitati ad hoc elaboravano proposte. Il potere decisionale era distribuito fra molti e le decisioni venivano spesso rinviate per evitare contrasti.

Questo tipo di struttura organizzativa si estese a un movimentoche si sviluppò in quegli anni: il movimento ecologista. Anch’essoera composto infatti da gruppi eterogenei: aggregazioni di base autogestite con bassa struttura formale, ma anche cooperative e grup

pi professionali ben strutturati. In questi gruppi la divisione tecnicadei compiti avveniva sulla base di capacità, interessi, competenze, at

1 Fra i primi, le Acli, che daranno vita ai Comitati contro i mercanti di morte, e la F g c i , che promuoverà i Centri di iniziativa per la pace; fra i secondi, l’As-sociazione per la pace, nata nel febbraio del 1988 a Bari, con il proposito di realizzare un minimo di coordinamento fra i vari gruppi.

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titudini e preferenze dei singoli individui. Gli opinion leaders sostituirono gradualmente i leader politici, e i «punti di incontro» - spesso all’interno dei centri sociali di quartiere (Barone 1984) - assunsero le funzioni precedentemente svolte dalle strutture di coordina

mento.Una struttura decentrata assunsero anche quelle organizzazioni

del movimento ecologista che scelsero la formula partitica: le listeVerdi. Apparse nel 1980, le liste Verdi erano già una dozzina nel1983 e, due anni dopo, circa 150 alle elezioni locali e 12 alle elezioni regionali. Se nel 1985 esse ottennero 600 mila voti (il 2,1 per cento) e 142 consiglieri, due anni più tardi arrivarono a un milione di

voti alle elezioni politiche (il 2,4 per cento con 14 deputati e 2 senatori) (Diani 1988: 56-86)2. Rispetto a quella dei partiti tradizionali,la struttura delle liste Verdi rimase molto frammentata. Espressionepolitica di comitati creatisi su temi locali o promossi da «professionisti della politica» provenienti da precedenti esperienze, esse crebbero a partire dalla metà degli anni Ottanta, su tematiche quali la trasformazione del Piano energetico nazionale, la ristrutturazione ur

bana (parchi, trasporti pubblici, limitazione della circolazione automobilistica), il trasporto su rotaia, il disinquinamento delle acque, laregolamentazione più restrittiva di caccia e vivisezione, la limitazione nell’uso di sostanze chimiche, ma anche la difesa dello stato sociale, contro l’espansione delle spese militari, e la democrazia di base. Secondo un modello di collegamento flessibile, nel maggio 1985venne costituito un coordinamento delle liste Verdi, con due delegati per ogni lista regionale e uno per ogni lista locale; nel 1986 si

formò una federazione delle liste Verdi, con un gruppo di coordinamento composto da undici membri, con funzioni organizzative (adesempio della campagna elettorale), sotto la supervisione di un comitato dei garanti (personalità note dell’area ecologista) (Diani1988: 190). A seguito dei successi elettorali del 1987, alcuni attivistiproposero addirittura lo scioglimento della federazione, temendoche essa potesse rappresentare il preludio alla nascita di un nuovo

partito. Se l’assemblea di Ariccia, nel novembre dello stesso anno,

2 Significativamente, l’elettorato verde era concentrato nelle regioni centrosettentrionali (da dove proveniva la totalità dei parlamentari nel 1987 e 131 dei141 consiglieri locali) (Diani 1988: 185). A fronte del 2,5 per cento a livello nazionale, vi era un 3,4 al Nord. Forti flussi si ebbero soprattutto da Psi, Pr i, radicali edemoproletari (Biorcio 1988c).

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confermò la struttura federativa e le funzioni del gruppo di coordinamento, l’organizzazione restò al centro di infuocate discussioni - anche, ad esempio, sulla utilizzazione degli 11 miliardi del finanziamento pubblico ai partiti. Significativamente, venne garan

tita la piena autonomia dei parlamentari, facendo parlare di unasorta di partito di comitato in una situazione di politica di massa dove le liste erano integrate nel panorama ecologista ma non lo rappresentavano (ibid.). In conclusione, alla fine degli anni Ottanta,

La struttura dell’azione ecologista in Italia risulta dunque poco densa,centralizzata, parzialmente segmentata, e scarsamente influenzata da caratteri subculturali. D ’altro canto, sulle mobilitazioni a difesa dell’ambien

te converge una pluralità di attori, assai più eterogenei del pure variegatopanorama offerto dalle organizzazioni impegnate in primo luogo in campoecologista. (Diani 1988: 206)

Anche tralasciando la forma-partito, bisogna dire comunque cheaccanto alle strutture di base informali, i movimenti della sinistra libertaria crearono, nel corso degli anni Ottanta, una serie di associazioni, piccole ma formali. In modo simile, i movimenti della pace,delle donne, dei giovani ed ecologista svilupparono una duplicestruttura organizzativa: da un lato, piccoli nuclei che puntavano alla «coincidenza tra obiettivi collettivi e bisogni solidaristico-affetti-vi [...] organizzazione come luogo per la soddisfazione di bisogni,struttura espressiva fondata e centrata interamente su sé stessa»; dall’altra, organizzazioni più strutturate si basavano su una professio-nalizzazione alternativa, con produzione e trattazione di risorse

orientate alla «costruzione quotidiana del progetto» (Donati e Mor-mino 1984: 354-55). Prendendo, ad esempio, il movimento femminista, mentre si «destrutturavano» alcune organizzazioni che - come I’Udi e I’M ld - avevano, nel corso degli anni Settanta, supplitocon le proprie risorse alle carenze organizzative dei gruppi di base,i piccoli gruppi del femminismo autonomo si specializzarono e nacquero altre associazioni. Negli anni Ottanta emersero infatti i grup

pi più vari: dalle associazioni professionali femminili - come il Clubdelle donne, Donne in carriera e l’Associazione nazionale iniziativadonne - che organizzano corsi di formazione, seminari e dibattiti(Migaie 1985) al Comitato dei diritti civili delle prostitute, fondatonel 1982 a Pordenone (Staderini 1985); dai nuovi gruppi cattolici come Progetto donna (De Giorgio 1985) ai centri di iniziativa culturale, come il Centro culturale Virginia Woolf di Roma (Masi 1985)

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o l’Associazione nazionale Arci donna (Chiaromonte 1985); dallecooperative di donne (Fanelli e Ronci 1985) aU’associazionismo lesbico (Pomeranzi 1985).

In modo simile, l’espansione del movimento ecologista coincisecon quella di una serie di organizzazioni formali, professionali e centralizzate, anche se inclusive e non totalizzanti. Fra i gruppi del movimento ecologista, nuova linfa troveranno le tradizionali associazioni come Italia nostra e il Ww f  - con una capillare struttura formata rispettivamente da 190 e 180 sezioni alla metà degli anni Ottanta (Rovelli 1988: 76-77) - mentre un’altra associazione, la Legaper l’ambiente, nascerà all’inizio del decennio, offrendo risorse or

ganizzative ai nuclei di base. A partire dal 1981, l’Arcipelago verdefornirà un canale di coordinamento alle organizzazioni, piccole egrandi, attive sui temi dell’ambiente (Lodi 1988: 23-24). La mem-bership di queste organizzazioni tese infatti a crescere esponenzialmente nel corso degli anni Ottanta - ad esempio, il Wwf, passò da30 mila iscritti nel 1983 a 120 mila nel 1987; la Lega per l’ambiente,da 15 mila nel 1983 a 30 mila nel 1986. Caratteristica delle associa

zioni sarà la capacità di combinare, all’interno di una struttura articolata e parzialmente centralizzata, incentivi non solo simbolici maanche materiali (Rovelli 1988: 86 e sgg.).

La stessa aspirazione a una «professionalizzazione» della protesta e la concentrazione sul raggiungimento del risultato nel breve periodo la troviamo in varie altre associazioni, che emersero in questoperiodo - non sempre all’interno della famiglia della sinistra liber

taria ma in qualche modo da essa influenzate. Dal punto di vista organizzativo, gli anni Ottanta vedono infatti il proliferare su una serie di temi di gruppi con una struttura di tipo associativo su una serie di temi collegati allo sviluppo dello stato sociale. Prendiamo adesempio coloro che Gabriella Turnaturi (1991) ha definito «associati per amore» - le associazioni fondate da parenti di vittime di stragi o di soggetti deboli, come malati mentali o tossicodipendenti.Queste associazioni nacquero, in genere, nella società civile, dall’ag-gregarsi spontaneo di individui. Dopo le fasi iniziali, comunque,questi gruppi tesero a darsi degli statuti formali, definendo in maniera precisa i loro compiti e regolando le procedure di adesione equelle decisionali. Oltre che alla pressione sulle istituzioni, molte associazioni assolvevano anche a una funzione di self-help - distinguendosi così dai tradizionali gruppi di interesse. Nel corso dell’evoluzione dei movimenti della sinistra libertaria proliferarono, in

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fatti, associazioni di volontariato, rivolte sia all’esterno che all’interno: ai centri contro la violenza alle donne si sommarono i gruppi didifesa dell’ambiente; agli istituti per l’educazione alla legalità le comunità di aiuto ai tossicodipendenti.

Si può concludere che le organizzazioni dei movimenti della sinistra libertaria e di altri movimenti a essi vicini, erano, in questa fase, caratterizzate da una compresenza di una ricerca di forti solidarietà, ma anche da un modello di funzionamento vicino a quello deigruppi di interessi. A molte di esse si adatta la descrizione di unadoppia identità, con caratteristiche di gruppi primari e secondari,proposta da Gabriella Turnaturi a proposito delle associazioni dei

familiari di soggetti deboli:Dei gruppi primari producono e riproducono la coesione affettiva, la

solidarietà, i rapporti molto stretti fra i vari membri che li compongono. E,come nei gruppi primari, in queste associazioni l’affettività, il mondo emozionale sono nello stesso tempo risorsa e prodotto della loro azione collettiva. L’esperienza concreta, i percorsi personali di vita costituiscono labase su cui si fonda la loro identità collettiva, ma anche una risorsa messa

a disposizione del gruppo e che serve a rafforzarlo. Queste associazioni nonsono però chiuse in se stesse, perché condizione del loro formarsi ed esistere è proprio l’interferire con l’esterno, il voler farsi riconoscere e il voler farsi pubblico, e quindi agiscono anche come gruppi secondari in quanto scelgono ed organizzano modalità d ’intervento sul resto del corpo sociale. Queste associazioni infatti si comportano - a seconda dei casi - come gruppi di pressione; come gruppi d’opinione; come gruppi di cittadiniche vogliono interloquire con altri gruppi organizzati, con le istituzioni,con i rappresentanti dello Stato; o semplicemente come gruppi di cittadini per i quali manifestare pubblicamente la propria indignazione è imprescindibile dal loro far parte della società e dalla loro dignità. (Turnaturi1991: 86)

2. Ideologia: tra «single issue» e utopia

Le caratteristiche ideologiche e di identità dei movimenti deglianni Ottanta hanno fatto parlare di movimenti «egoistici». Questimovimenti sarebbero stati infatti incapaci di costruire utopie prefi-guratrici di grandi cambiamenti, esaltando i particolarismi locali rispetto all’universalismo totalizzante che aveva caratterizzato la mobilitazione nei decenni precedenti. Se i movimenti degli anni Settanta erano stati connotati da un’aspirazione alla totalità, i movi

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menti degli anni Ottanta avrebbero presentato un sistema di credenze di natura pragmatica, con «il passaggio da una visione pocoindividualizzata e altamente ritualizzata della militanza ad una versione invece in cui i rituali contano poco o nulla, mentre le appar

tenenze di gruppo si combinano in modo variabile a seconda deisingoli attivisti e contribuiscono quindi in modo significativo all’individuazione dei soggetti» (Diani 1992a: 216; cfr. anche 1989).Enfatizzando la propria competenza tecnico scientifica e il propriopatrimonio culturale, essi avrebbero rifiutato sia il riferimento a dottrine ideologiche preesistenti che modelli predeterminati di organizzazione sociale. Alle aspettative di salvezza nel lungo periodo,

avrebbero preferito un riformismo gradualista. Non focalizzandosisul potere, non avrebbero modellato la propria identità su quella delnemico. Insieme agli schieramenti tra destra e sinistra, avrebbero rifiutato anche l’idea di una presa del potere. Essi sarebbero stati«egoisti» perché «autosufficienti» nella loro ricerca di autonomiadal sistema e orientati all’«autovalorizzazione» come sfiducia nell’altro e autoreferenzialità (Manconi 1990: 125-31). Non avrebberoinfatti mirato a esercitare una funzione di supplenza rispetto ad altri strati, ma avrebbero rappresentato piuttosto la presa di parola digruppi emarginati. Eppure, questi movimenti si sarebbero rivoltinon a interessi di gruppo, ma a scopi universalistici: «I movimentiegoistici - ha osservato Luigi Manconi (1990: 129) - non rivendicano, in primo luogo, l’accesso a garanzie negate ad alcuni (rivendicazioni politiche) o a beni appannaggio di pochi (rivendicazioni economiche), bensì la salvaguardia di garanzie e beni da tutti possedu

ti, almeno virtualmente, e da tutti minacciati». Questi movimenti sarebbero stati inoltre di tipo essenzialmente reattivo: «La catastrofepossibile e la dissipazione certa inducono a una considerazione nonsuperficiale di ciò di cui si dispone: alla consapevolezza della suaestrema deperibilità, della sua nonfungibilità e non sostituibilità. Daqui l’interesse a partecipare a conflitti per ciò che c’è: e la persuasione che ciò che c’è non è poco» (Manconi 1990: 129).

Non solo in Italia, il linguaggio del movimento degli anni Ottanta è, infatti, un linguaggio concreto: si può dire che sugli ideologiprevalgono gli esperti. Una caratteristica che il movimento per la pace italiano ha condiviso con i corrispondenti movimenti in altre democrazie occidentali è stato, ad esempio, un alto grado di preparazione tecnica, in materia di bilanci militari e di armamenti, così come di meccanismi costituzionali. La leadership del movimento per

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la pace non era, infatti, di tipo ideologico: «Nel movimento per lapace - è stato osservato - il gruppo ideologico è costituito da tecnici che si riconoscono nella peace research community, fisici, medici,economisti, ecc.» (Battistelli et al. 1990: 41)3. Gli esperti sostituiva

no quindi gli ideologi: “Differentemente dagli attori degli anni 1960e 1970, quelli mobilitati nella campagna anti-missili non avevanoobiettivi di lungo periodo, e quindi neanche il bisogno di una fortecoesione ideologica» (Lodi 1991: 218). La mobilitazione sembraavere incoraggiato, invece, l’emergere di una leadership pluralisticae interscambiabile, strutturata attorno ad alcune funzioni e competenze tecniche.

È anche vero che molte delle mobilitazioni degli anni Ottanta sisono spesso concentrate su obiettivi limitati. Ad esempio, per il movimento per la pace, il tema dell’installazione dei missili a Comiso èstato un «minimo comune denominatore» su cui mobilitare gli attori più disparati - come osservava la segreteria del Cncp nell’autunno del 1984,

non è strano poi che temi tanto importanti e delicati (l’Est europeo, la so

lidarietà con i movimenti di liberazione [...], la difesa convenzionale, il servizio militare di leva) [...] abbiano rischiato periodicamente di far naufragare la fragile unità del coordinamento: la verità - prima ancora delle divergenze (sem pre possibili) - è che spes so l’unità è stata raggiunta senza d iscutere di nulla, o discuten do in mo do affrettato con l ’attenzione rivolta adaltre questioni (per lo più organizzative). (Battistelli et al. 1990: 101)

La mobilitazione single-issue è stata anche indicata come unadelle cause della crisi del movimento della pace dopo la ratifica parlamentare della decisione sull’installazione dei missili a Comiso e ilfallimento dei negoziati di Ginevra tra le superpotenze. Il movimento ecologista si è caratterizzato, dal canto suo, per la concentrazione dell’attenzione su aree limitate, su cui acquisire conoscenze approfondite e fare proposte dettagliate - «Pensare globalmente, agire localmente» era il significativo titolo del congresso della

Lega per l’ambiente a Urbino nel 1983 (Barone 1984). I nuclei delmovimento delle donne si sono specializzati su singole tematiche:dai nuclei professionali di donne in vari settori dell’informazione e

3 La costituzione di associazioni composte da esperti - quali l’Associazione deimedici per la prevenzione della guerra atomica; l’Archivio disarmo; il gruppo Insegnanti per la pace - testimonia di questa attenzione alle competenze tecniche.

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del sapere alle cooperative nell’area delle nuove professioni di servizio avanzate, e ai collettivi di autocoscienza «costruttiva», orientati alla elaborazione di una nuova cultura (Bianchi e Mormino1984:162). Nel movimento giovanile i centri sociali autogestiti - che

avevano avuto funzioni di supplenza rispetto a servizi sociali (scuole, asili, consultori) e attività culturale e ricreativa (teatri, cinefórum,scuole di musica, palestre e biblioteche) - andavano perdendo il carattere di progetti complessivi, focalizzandosi sull’attività, caratterizzata da un orientamento al risultato, di piccoli reticoli di amici.Anche molte delle già citate «associazioni per amore» sono concentrate su un singolo obiettivo: nello statuto dell’Associazione dei

familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, poi preso a modello anche dalle associazioni successive4, si affermava, adesempio, che lo scopo del gruppo era di raggiungere la verità e lagiustizia sulla strage, e che esso si sarebbe sciolto subito dopo il raggiungimento di questo obiettivo.

L’immagine di aggregazioni monotematiche coglie comunquesolo in parte le caratteristiche di movimenti che non hanno del tutto perduto la loro dimensione utopica. Ancora per quanto riguardail movimento della pace, si è ad esempio parlato dei «cento fiori delpacifismo» - criticando non la mancanza di iniziative su altri temiche non fossero i missili a testata nucleare, ma una logica «massima-lista» per la quale ogni nuovo gruppo inseriva una nuova rivendicazione. La mobilitazione contro i missili Cruise si è infatti allargata atematiche quali il ruolo dei blocchi militari, il disarmo unilaterale, lapromozione del dialogo tra i popoli, lo sviluppo di sistemi di difesa

alternativi e nonviolenti, i controlli sulla vendita delle armi, la smilitarizzazione del territorio e la solidarietà a movimenti indipendenti

4 Ad esempio, l’Associazione dei familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna si costituì nella primavera del 1981 (la strage era stata nell’agosto del 1980), dopo la sentenza di assoluzione degli imputati della strage di piazza Fontana. Le altre associazioni di familiari di vittime di stragi seguirono l’esempio: «sull’onda dell’attività dell’Associazione bolognese si costituiscono, per ef

fetto di imitazione, di incoraggiamento e di stimolo, anche le Associazioni dei familiari delle vittime della strage di piazza Fontana, di quelli delle vittime dell’Ita-licus e di quelli della strage di piazzale della Loggia [...] Da questa coscienza e daquesta voglia di far sentire la propria voce nasce, il 6 aprile 1983, l’Unione delleAssociazioni dei familiari delle vittime delle stragi, con sede a Milano e con unostatuto ricalcato su quello dell’Associazione di Bologna» (Turnaturi 1991:5). Poco dopo aderirà alla Unione anche l’Associazione familiari vittime del rapido 904,mentre ancora l’Associazione di Bologna interverrà nella fondazione, nel maggio1988, dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Ustica.

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sti (in particolare in Nicaragua, San Salvador, Polonia e Afganistan),contro la costruzione di uno scudo di protezione stellare, la produzione di armi batteriologiche e chimiche, l’intervento delle truppeitaliane nel contingente di pace, il bombardamento americano in L ibano e, nel 1988, la decisione italiana di accettare gli F16 della N a -

t o   rifiutati dalla Spagna. Campagne di sensibilizzazione sono statelanciate sulle guerre allora in corso, in particolare quelle tra Iran eIrak o tra Israele e Libano. Nel 1984 la mobilitazione si sposterà daComiso alle sedi N a t o   (in particolare Sigonella, Longara, CampDarby, Aviano e Ghedi) dove erano presenti ordigni nucleari. Allerichieste particolari, come l’introduzione di una tassa straordinaria

sul commercio delle armi e il divieto di compensare l’intermediazione nel mercato degli armamenti, si affiancheranno quelle più generali, come la creazione di un ministero per la Pace.

Bisogna aggiungere che la mobilitazione su obiettivi specifici sirealizzava attraverso un processo di «agganciamento» dell’obiettivopacifista alle visioni del mondo degli altri gruppi che si tentava dimobilitare. Così, il tema della pace è stato di volta in volta collegato

ai temi propri ad altri movimenti attivi o attivabili: le campagne sulnucleare civile hanno avvicinato al tema della pace i gruppi anti-nu-cleari; un modello di politica energetica fondato su risparmio e tecnologie dolci, gli ecologisti; la richiesta di intensificazione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo, i radicali e i gruppi cattolici; il discorsocontro il militarismo come espressione estrema del patriarcato - «unprogetto di morte [...] voluto dalla società maschilista» (Battistelli et 

al. 1990: 177) - le femministe; la proposta di riconversione dell’industria bellica, i sindacati; la riforma del servizio civile e la leva regionale di sei mesi con un intervento esclusivo sui temi della protezione civile, i giovani. Il tema della pace fu infatti inserito all’internodel discorso politico familiare ai differenti attori: «pace e benessereeconomico» per il Pei e i sindacati, «pace e aiuti al Terzo Mondo»per i radicali, «pace e coscienza individuale» per i gruppi religiosi,«pace e maternità» per le femministe, «pace e critica del mondo de

gli adulti» per il movimento giovanile, «pace e equilibrio naturale»per gli ecologisti, «pace e anti-imperialismo» per le frange più radicali (Lodi 1984:138-50). Le denunce degli interessi della criminalitàorganizzata nella costruzione della base di Comiso porranno le basiper lo sviluppo di un movimento contro la mafia.

Per il movimento per la pace come per altri movimenti, la mobilitazione sulla single-issue si è poi immediatamente ampliata a una

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tematica più generale: la meta-issue del diritto stesso di protestare.Tipicamente, i movimenti degli anni Ottanta, come avevano fatto iloro predecessori, hanno sviluppato una teoria della democrazia,sottolineando in particolare i limiti della democrazia parlamentare.

Per quanto riguarda il movimento della pace, il tema della democrazia è stato affrontato in particolare in relazione all’esproprio disovranità delle istituzioni rappresentative nazionali da parte di apparati militari sovranazionali (come la Nato) o addirittura dellegrandi potenze straniere (in particolare, Usa e Urss). Più in concreto, l’attenzione al tema della rappresentanza democratica è testimoniata, ancora per i gruppi pacifisti, dalla rivendicazione della trasparenza dei bilanci in materia di spese militari e di armamento mentre le richieste di referendum propositivi e di modifiche costituzionali per aumentare i controlli del governo e del Parlamento sullequestioni militari esprimeranno la richiesta di una maggiore partecipazione popolare. Un ruolo più attivo dell’Europa è stato auspicato come strumento di controllo democratico contro la logica deiblocchi militari che impongono le loro decisioni ai singoli Statimembri. Il movimento della pace è stato, in particolare, vicino al mo

vimento anti-nucleare nel denunciare l’aumento del controllo sui cittadini da parte di un apparato militare e poliziesco necessariamenteconnesso alla diffusione del nucleare sia civile che militare - contrapponendo a questa tendenza la richiesta di una struttura sociale eproduttiva decentrata e autogestita. Sin dall’inizio il movimento della pace si è, infine, proposto come un movimento culturale, ponendosi come obiettivo la costruzione di una cultura di pace basata sul

la partecipazione e la convivenza pacifica. Soprattutto secondo l’alaantimilitarista e nonviolenta, il movimento della pace doveva sviluppare un nuovo sistema di valori e una visione alternativa dei rapporti fra gli individui. Dopo le fasi iniziali della mobilitazione, il movimento ha insistito sulla necessità di profonde trasformazioni culturali. In un documento della segreteria nazionale del Cncp si legge:«L’unico errore è stato quello di credere ingenuamente che pochi

anni di lotte pacifiste sarebbero riusciti con qualche spallata ad invertire la spirale della guerra e degli armamenti che ha segnato permillenni la storia dell’umanità» (in Battistelli et al. 1990: 210).

Anche molte altre associazioni focalizzate su singoli temi si sonopresentate non come portavoce di interessi particolari, ma come difensori di un interesse generale. Sia per il movimento delle donneche per quello dei giovani, gli anni Ottanta hanno portato un inte

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resse per tematiche più generali, che andavano oltre lo specificofemminile o giovanile, mentre rivendicazioni anche specifiche sonostate spiegate utilizzando un linguaggio universalistico - di giustizia,diritti, e democrazia. Nei gruppi di mobilitazione dei familiari disoggetti deboli vi è stata ad esempio la richiesta di una partecipa

zione diretta dei cittadini alla gestione della cosa pubblica: i familiari dei tossicodipendenti hanno rivendicato il diritto di parteciparealla elaborazione di una legge sulle tossicodipendenze; le associazioni sulla salute mentale hanno chiesto di potere controllare le attività degli enti pubblici operanti su questi temi; le associazioni sul tema dei diritti dei minori hanno domandato di collaborare con gli organi della pubblica amministrazione (Turnaturi 1991). Dalle singo

le rivendicazioni si è quindi passati a una generalizzata richiesta dipartecipazione. Per fare un solo significativo esempio, nella tranquilla cittadina di Racconigi, che aveva visto la nascita del ComitatoSerena Cruz contro l’allontanamento di un minore dalla sua famigliaadottiva, la protesta si era presto allargata dal tema dell’affidamento della bambina alle più diverse occasioni di interazione tra i cittadini e lo Stato:

C ’è stata - dirà il sindaco - com e una crescita collettiva. Si è partiti dall’emotività, da una reazione spontanea e imm ediata e oggi si è arrivati a unamaggiore coscienza di sè. Tutti i problemi esistenti a Racconigi sono venuti alla luce in quest’ultimo anno. Il mugu gno è diventato protesta, si è trasformato in domande. D a allora siamo continuamente sollecitati da richieste di miglioramento dei servizi sociali, d’intervento, da contestazionicontro la burocrazia e l’inefficienza dell’amministrazione comunale. E lo

stesso rap po rto tra amministratori e cittadini si è fatto più d iretto. (Turnaturi 1991:76)

Lo stesso appello alla differenza può avere infine, a livello culturale e simbolico, un ruolo importante nella critica a società caratterizzate dalla spinta alla conformità e alla omologazione. Come ha osservato infatti, a proposito dei movimenti degli anni Ottanta in Ita

lia, Alberto Melucci (1984: 429):I conflitti trasmigrano dal sistema economico-industriale verso terreni

culturali: rigu ardano l’identità personale, il tem po e lo spazio di vita, la m otivazione e i codici dell’agire quotidiano. I conflitti mettono a nudo la logica che si sta affermando nei sistemi altamente differenziati. Questi distribuiscono risorse crescenti per fare degli individui centri autonomi d’a

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zione, ma d’altra parte chiedono sempre più integrazione. Devono estendere il controllo per sopravvivere, investendo la motivazione pro fonda dell’azione e intervenendo sui procesi di costruzione di senso.

3. Repertori:tra azione esemplare e pressione politica

Struttura organizzativa decentrata ma professionalizzata e ideologie pragmatiche hanno interagito con l’emergere e il consolidarsidi nuovi repertori. Dal punto di vista delle strategie d’azione, tre so

no le innovazioni introdotte dai movimenti degli anni Ottanta: l’assenza pressocché totale di forme d’azione violenta5, l’utilizzazionedell’azione diretta nonviolenta, e la combinazione delle forme piùvarie di azioni convenzionali e innovative. Il movimento della pacepermette di illustrare queste innovazioni.

In Italia come altrove, la strategia preferita dal movimento pacifista sono state le azioni dirette nonviolente, considerate come elemento culminante di un impegno individuale che passava attraverso l’intervento nelle istituzioni e la disobbedienza civile. Uno dei primi esempi di utilizzazione di tattiche dirette nonviolente si ebbe durante la campagna contro il dispiegamento dei missili, con le attivitàdi ostruzionismo all’ingresso della base di Comiso organizzate tra il7 agosto e il 1° settembre del 1983. Tipicamente, queste azioni consistevano in un blocco simbolico delle attività della base, con moltaattenzione però a evitare una escalation violenta - ad esempio, nel

corso degli interventi della polizia. Esse avvenivano spesso all’interno dei campi- intesi come presidio stabile di installazioni fisse - cheebbero per il movimento pacifista degli anni Ottanta una funzionesimile a quella che le occupazioni ebbero per il movimento studentesco degli anni Sessanta6. La nonviolenza permise, in primo luogo,

5 Rare eccezioni sono stati gli scontri tra i piccolissimi gruppi dell’Autonomia

e le forze dell’ordine - ad esempio il 5 giugno 1982, durante la visita di Ronald Rea-gan in Italia, o il 25 ottobre 1985 a una dimostrazione organizzata dal C n c p . Nellaseconda metà degli anni Ottanta un’ondata di «okkupazioni» di centri sociali fuseguita, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, da interventi coercitivi.

6 Importata a livello internazionale a seguito della First European Conventionon Peace and Desarmament (la prima convenzione europea organizzata a Bruxelles nel 1982), questa formula si svilupperà nel movimento pacifista italiano a Comiso, con l’Intemational Peace Camp e, in seguito, con l’International MeetingAgainst Cruise.

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un superamento degli aspetti più drammatici del passato, contribuendo a separare le azioni di protesta dalle immagini sanguinoseche avevano caratterizzato la fine degli anni Settanta. Come si osserva nel documento di costituzione dei Centri d ’iniziativa per la pa

ce, vicini alla Fgci:Il pac ifismo nasceva sulle ceneri della crisi delle ideologie e del rifiuto

della politica e non poteva aspirare a divenire un punto di riferimento credibile se non si poneva, già nel suo costituirsi, l’obiettivo di risponde re alla domanda di una politica e di una organizzazione nuova e diversa daglischemi tradizionali [...] Con l’adozione del metodo non violento il movimento pacifista ha saputo rom pere l’identificazione della lotta politica con

lo scontro violento. (Battistelli et al. 1990: 220)

Ma la nonviolenza è stata anche considerata dal movimento perla pace come l’unica forma d’azione adatta a opporsi a «logiche estrutture che producono militarizzazione, oppressione e guerra» (inBattistelli et al. 1990: 191).

Tra le tattiche proposte dai nonviolenti vi era inoltre la disobbedienza civile, che includeva la restituzione dei congedi militari, l’obiezione di coscienza e lo sciopero della fame. Ad esempio, i gruppi storici della nonviolenza - come la Lega per il disarmo unilaterale (Ldu), fondata dallo scrittore Carlo Cassola; il Movimento per lariconciliazione internazionale (Mir); la Lega obiettori di coscienza(Loc) - organizzarono l’invio al presidente della Repubblica deicongedi militari, respinti per protesta contro la crescita delle spesemilitari e la corsa agli armamenti. Gruppi cattolici quali Caritas,

Agesci, Azione cattolica e A cli furono particolarmente propensi all’utilizzazione di forme d’azione quali gli scioperi della fame (in particolare nelle proteste dei lavoratori delle industrie belliche) o l’obiezione fiscale alle spese militari.

Accanto alla nonviolenza e alla disobbedienza civile, si pongonouna serie di azioni orientate a dimostrare la forza numerica del movimento - tra esse, la più classica delle forme di protesta: la manife

stazione. Il movimento pacifista organizzò, infatti, numerose dimostrazioni di massa, soprattutto in occasione di scadenze internazionali. Nel primo grande corteo pacifista, il 24 ottobre 1981, si mobilitarono quasi mezzo milione di dimostranti. A Milano, ancora nell’autunno del 1981, una manifestazione vide una partecipazione dicirca centomila persone, mentre il doppio presero parte, nell’apriledel 1982, al corteo indetto dal Pei. A Roma, nel giugno 1982, 300

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mila persone dimostrarono contro la visita del presidente americano Ronald Reagan, e oltre mezzo milione il 22 ottobre 1983, giornointernazionale della pace. Nell’ottobre del 1986, il corteo nazionale del movimento attirerà ancora nella capitale centomila manife

stanti.Il «vecchio» repertorio delle manifestazioni venne comunqueinnovato in vari modi. Riprendendo dalla tradizione delle organizzazioni cattoliche - dal modello religioso del pellegrinaggio - vennero organizzate numerose marce, cioè dimostrazioni che percorrevano un lungo percorso. È il caso ad esempio delle tradizionali marce per la pace Perugia-Assisi, già in passato convocate annualmen

te da gruppi cattolici, antimilitaristi e radicali, ma che videro il numero dei partecipanti più che centuplicarsi dall’inizio degli anniOttanta7. Simile come forma d’azione era la Via Crucis spesso utilizzata da gruppi cattolici (ad esempio, a Comiso il Venerdì Santodel 1983), che introdussero nel movimento un loro repertorio diazioni, fatto anche di messe, vigilie e preghiere comuni. Oltre allemarce, anche altre forme d ’azione tesero a innovare, trasformandoil vecchio repertorio del corteo in un happening: così, mentre «m arce a stella» o «catene umane» congiungevano luoghi simbolica-mente rilevanti, nel 1983, la Ldu organizzò una «marcia ad esaurimento» attorno al Parlamento, e, nell’ottobre del 1984, i comitatiper la pace simularono durante un corteo le conseguenze di unaguerra nucleare.

Tra le forme d ’azione adatte a mettere in evidenza il consenso dicui si dispone, il movimento per la pace ha utilizzato anche modi piùconvenzionali di protesta come la raccolta di firme su petizioni e richieste di referendum. Per quanto riguarda le petizioni, a fine giugnodel 1982, venne infatti inviato a Palazzo Chigi un milione di firme di

7 II 27 settembre 1981 - poche settimane dopo la conferma, da parte del ministro socialista della Difesa, della decisione di installare 112 missili a testata nucleare a Comiso - circa 50 mila persone parteciparono all’annuale marcia Assisi-Perugia, che aveva visto fino ad allora l’adesione di poche centinaia di persone.Nel novembre 1982, in un momento di riflusso della protesta, un gruppo di intellettuali di varia provenienza organizzarono la marcia Milano-Comiso. Nellaprimavera del 1983 le A c l i convocarono una marcia Comiso-Ginevra (sede deinegoziati). Nel 1984, F l m , Lega per l’ambiente, A g l i e altri gruppi daranno vitaa una carovana della pace in Lombardia. Nel 1985 il vescovo di Nuoro appoggiòla marcia Alghero-Cagliari, mentre nonviolenti e antimilitaristi marciarono da Assisi a Comiso.

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cittadini per la sospensione dei lavori a Comiso8. Nel 1984 furonoraccolte 120 mila firme per indire un referendum popolare sui missili Cruise. Venne, inoltre, presentato un disegno di legge costituzionale per una consultazione popolare sull’installazione di missili

nucleari sul territorio italiano, e richiesti referendum sulle concentrazioni militari a La Maddalena, nel golfo di Napoli e nel golfo diTaranto. Nel 1984 e nel 1985 vari gruppi invitarono gli elettori a inviare cartoline ai candidati delle varie liste chiedendo un impegnosui temi della pace. Nella fase di declino della mobilitazione si moltiplicarono, inoltre, le iniziative di tipo legale - come i ricorsi controle servitù militari.

In modo simile al movimento della pace, anche gli altri movimenti della sinistra libertaria attivi in questa fase hanno combinatoforme d ’azione diretta nonviolenta e forme d’azione istituzionali. All’inizio degli anni Ottanta, le mobilitazioni antinucleari si esteseronella zona campana e laziale interessata dalla centrale del Gariglia-no, e nella zona di Caserta e Latina, contro la costruzione del reattore Cirene. Più volte, i cortei contro la costruzione di specifici impianti nucleari mobilitarono decine di migliaia di persone, mentre ilpicco più alto della partecipazione si raggiunse con i 150 mila in piazza a Roma il 10 maggio, dopo l’incidente a Chemobyl. Il repertoriodell’azione antinucleare si estese, inoltre, con l’uso di referendum(ad esempio, a Viadana nel 1984, 91 per cento contrari all’installazione), mentre si formavano liste civiche (ad Avetrana, in provinciadi Taranto, la lista civica contro il nucleare ottenne oltre il 50 per cento), fino a che, nel 1987, in tre referendum le posizioni antinucleari

ottennero tra il 70 e l’80 per cento dei suffragi, portando, nel 1988,all’accantonamento della decisione di costruire la centrale di Mon-talto di Castro e, nei fatti, a una moratoria sul tema del nucleare.

Il movimento ecologista ha affiancato le interazioni con pubblica amministrazione e enti locali a forme di azione diretta con valoreesemplare, maieutico ed educativo. Sebbene siano stati raggiunti deipunti alti di mobilitazione, soprattutto sul tema del nucleare, i gruppi ecologisti non sembravano essere, tuttavia, particolarmente interessati all’organizzazione di campagne nazionali. Le loro campagne

8 O ancora, nel marzo del 1982, il Coordinamento donne contro gli armamentie per la pace presentò 10 mila firme raccolte contro l’ipotesi di un servizio militare volontario femminile, mentre, nel 1984, 12 mila religiosi firmarono un documento dove dichiararono di volere vivere senza protezione nucleare, consegnandolo al presidente della Camera Nilde Jotti.

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sono state «difensive» (contro provvedimenti che danneggiavano ilpatrimonio artistico o naturale), ma anche «offensive» (come quelleper la realizzazione di zone pedonali nei centri storici). Il repertoriodelle azioni di protesta ha combinato le forme d’azione convenzionali (come petizioni e dibattiti), con forme innovative, come azioniesemplari (costruire un parco, ecc.) o «azioni dirette» (fare scappare gli animali all’apertura della caccia).

In generale, dunque, il repertorio dell’azione collettiva si è ampliato negli anni Ottanta quando i movimenti sono sembrati più capaci di utilizzare forme di pressione istituzionale, ma anche azioniinnovative dal punto di vista simbolico. La consapevolezza dei rischi

di una radicalizzazione dei conflitti ha portato a una presa di posizione decisa e quasi unanime per forme d’azione nonviolenta.

4. Fine dei movimenti o società di movimenti?

I movimenti della sinistra libertaria si sono quindi trasformatinegli anni Ottanta. Il cambiamento rispetto al decennio precedenteè stato enorme. Da piccoli nuclei isolati e chiusi in se stessi ad associazioni professionalizzate; dal fondamentalismo pessimista al pragmatismo; dalla violenza alla nonviolenza. Come spiegare questi cambiamenti? Innanzitutto, bisogna dire che molte delle trasformazionienumerate per il caso italiano rientrano in un più vasto trend evolu

tivo che ha caratterizzato gran parte delle democrazie occidentali(Della Porta, Kriesi e Rucht 1996). In questa parte del capitolo guarderemo inoltre ad alcuni elementi interni al nostro paese - sia allefratture sociali esistenti che al sistema politico, agli alleati e agli avversari dei movimenti - che hanno certamente contribuito all’evoluzione appena descritta.

4.1. Cleavages: individualismo postmoderno?

I movimenti della sinistra libertaria degli anni Ottanta, in Italiacome altrove, sono stati definiti come movimenti dei ceti medi, chesi rivolgono a un pubblico con un livello di istruzione medio-alto ereclutano in alcune professioni legate ai servizi. A mobilitarsi, in particolare, sarebbero stati «i gruppi centrali per certi aspetti (livelli di

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istruzione, collocazione territoriale, esposizione ai messaggi culturali), ma marginali per altri (collocazione sul mercato del lavoro, accesso al sistema politico, riconoscimento sociale)» (Grazioli e Lodi1984: 309). Insieme alla così detta classe media, le mobilitazioni sui

temi dell’ambiente avrebbero comunque coinvolto sia individui inposizione marginale sul mercato del lavoro che rappresentanti dellapiccola borghesia tradizionale (Melucci 1988: 10). Ad esempio, tragli ecologisti presenti al convegno nazionale promosso dalle listeVerdi a Pescara, nel 1986, solo il 6,4 per cento erano lavoratori manuali, mentre insegnanti, liberi professionisti e impiegati arrivavanoal 57,4 per cento (Biorcio 1988b: 122). Secondo due sondaggi Doxa

condotti nel 1985 e nel 1986, solo Fi per cento (nel 1985) e il 2 percento (nel 1986) dei lavoratori manuali dichiaravano di essere decisi a votare per le liste Verdi (Biorcio 1988c: 190)9.

Una definizione dei movimenti collettivi degli anni Ottanta intermini prevalentemente di ceti sociali sarebbe però fuorviarne. Inbuona misura essi erano infatti composti da individui e gruppi chesi mobilitavano sulla base di una convinzione piuttosto che di unacondizione:

Gli anni Ottanta delineano un contesto in cui i fini, se tornano a essere generali a fronte dalla settorialità-specificità del decennio precedente,non sono più definiti da criteri politico-ideologici. Sono fini che aggregano in base a scelte di natura etica, possiedono un forte potere evocativo,non dipen don o dalla condizione sociale dell’attore, ma dalle opzioni «c u lturali» che egli com pie come individuo. (G razioli e Lo di 1984: 287)

Essi non possono essere definiti, quindi, come espressione diuna classe sociale.

Ma quali convinzioni si mobilitano nei movimenti della sinistralibertaria? Da un lato, essi sono stati definiti come movimenti difensivi, di conservazione, una reazione alla frantumazione di unmondo a complessità crescente. Secondo Luigi Manconi (1990), imovimenti «egoisti» degli anni Ottanta, in particolare i «movimen

ti di libertà», rappresenterebbero la risposta alla crisi delle organizzazioni onnicomprensive di fronte al pluralismo sociale. Alla cre

9 Anche se bisogna aggiungere che, nel 1986, ben il 34,8 per cento dei lavoratori manuali dichiarava una disponibilità potenziale di voto per le liste Verdi (Biorcio 1988c: 190).

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scente paura di una possibile catastrofe si sommerebbe la crisi deiluoghi di elaborazione di identità collettive. La paura del nucleare èstata messa in collegamento con sentimenti irrazionali. In sintesi, inuovi movimenti rappresenterebbero un rifiuto della modernità.

Dall’altra parte, gli attivisti della sinistra libertaria sono stati descritti come portatori di valori post-materialistici. Come ha sottoli-nato Ronald Inglehart (1990: 48), «come risultato della prosperità,storicamente senza precedenti, e dell’assenza di guerre nei paesi occidentali, che ha prevalso dal 1945, la generazione del dopoguerrain questi paesi darà meno importanza alla sicurezza economica e fisica [...] Per contro, le giovani coorti di età daranno maggiore prio

rità a bisogni non materiali quali il senso della comunità e la qualitàdell’ambiente». Anche in Italia, gli attivisti dei movimenti della sinistra libertaria hanno mostrato atteggiamenti non pre- o anti-moderni, ma anzi prevalentemente post-moderni (ad esempio, sul movimento della pace, Battistelli et al. 1990). Al di là del sistema di valori tipico degli attivisti, la capacità di mobilitazione dei movimenticorrisponderebbe a una maggiore sensibilità dell’opinione pubblica

a temi post-materialistici, quali la preoccupazione per il degrado ambientale10.

Se il post-materialismo includerebbe valori quali il narcisismoe l’individualismo, che tendenzialmente ostacolano l’azione collettiva, proprio il nuovo sistema di valori, attribuendo un segno positivo a emozioni e bisogni individuali, può però favorire la mobilitazione come richiesta di partecipazione alle decisioni che influen

zano la propria vita. L’attenzione ai propri desideri, bisogni e diritti porterebbe al riconoscimento dei diritti fondamentali degli altri, la costruzione della propria persona al riconoscimento degli altri come persone: «È dall’attenzione a sé, ai propri bisogni, ai propri desideri che probabilmente nasce la coscienza di essere unamaglia della rete, di essere comunque insieme ad altri» (Turnaturi1991: 90).

10 Secondo una indagine dell’Eurisko, nel 1985 il 96,1 per cento degli italianisi dichiarava preoccupato per l’inquinamento ambientale, mentre tra il 1978 e il1986 la percentuale di individui contrari alle centrali nucleari passava dal 25,6 al72,5 per cento. In un sondaggio della Doxa sul consenso medio per istituzione, igruppi ecologisti arrivavano al terzo posto, dopo polizia e carabinieri, e prima della Chiesa (Biorcio 1988a: 30; 33; 40).

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4.2. Sistema di alleanze: cooperazione a termine

Se le caratteristiche del sistema dei valori hanno permesso la mobilitazione collettiva, le forme concrete che essa ha assunto possono

essere spiegate comunque soprattutto da un sistema delle opportunità politiche, caratterizzato in questa fase da una disponibilità all’alleanza, ma all’interno di un rapporto più «laico» tra movimenti epartiti di sinistra. In questa fase di deradicalizzazione dell’azionecollettiva, assistiamo infatti a una costante tensione fra la frequentecooperazione con i partiti della sinistra e la ricerca di autonomia daun sistema dei partiti percepito come delegittimato. I partiti politici

erano, ad esempio, presenti già dalle origini del movimento della pace, offrendo canali di accesso parlamentare e sostegno logistico. Nelcorso del decennio i gruppi ambientalisti hanno avuto rapporti molto stretti con il Pei, sia per la frequente sovrapposizione delle appartenenze organizzative dei loro attivisti e simpatizzanti che per lealleanze all’interno dei vari organi rappresentativi. Non a caso, queste interazioni sfocieranno nel progressivo abbandono da parte delPei delle posizioni pro-energia nucleare, difese nel corso degli anni

Settanta - abbandono che diventerà definitivo dopo l’incidente diChernobyl (Ceri 1987). In primo luogo, i partiti della «vecchia» enuova sinistra funzionarono spesso come «braccio parlamentare»dei movimenti. Durante la campagna contro l’installazione dei missili Cruise, il Pei si oppose, in Parlamento, alla double-track decision della N a t o , proponendo inoltre, nel 1988, un disegno di legge sullariconversione delle industrie militari11. Per quanto riguarda il mo

vimento ecologista, le liste Verdi sono state un canale privilegiato diaccesso alle istituzioni rappresentative e, talvolta, ai governi locali.I partiti della sinistra offriranno inoltre risorse per le campagne dimobilitazione dei movimenti. Ancora a proposito del movimentoper la pace, sin dalla costituzione del Comitato 24 ottobre, esponenti di Pdup , D p e Pei parteciparono alle varie iniziative control’installazione dei missili. Non è un caso che i Comitati per la pace

si siano sviluppati soprattutto nelle aree a forte radicamento subculturale - in particolare nel Centro-Nord (Toscana, Umbria e Veneto). In queste zone dove la cultura civica è diffusa (Putnam 1993),

11 Una funzione simile svolsero anche la Sinistra indipendente e Democraziaproletaria. «

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risorse organizzative sono venute in particolare da Ar c i , Lega perl’ambiente e, in alcuni momenti, dall’FLM.

Se i movimenti riconoscevano l’importanza del sostegno dei par

titi dal punto di vista della disponibilità di risorse materiali, essi nevedevano però anche i limiti in termini di riduzione dell’autonomiadel movimento. Significativamente, ad esempio, la segreteria delC n c p  osserverà nell’autunno del 1984 che

gli aspetti forse più drammatici delle nostre difficoltà organizzative li abbiamo riscontrati sul piano dell’autofinanziamento: un movimento «autonomo» non può reggersi sugli oboli della Sinistra indipendente o sul ricat

to querulo rivolto alle forze politiche. È sciocco e velleitario progettare autonome strutture funzionariali, decidere campagne e iniziative politiche, ribadire l’esigenza di uno strumento editoriale efficace, se poi l’unica strategia per il reperimento dei fondi che conosciamo è quella di bussare allaporta dei gruppi parlamentari [...] Non possiamo parlare con serietà di autonomia se, nei fatti, scegliamo la strada della dipendenza. (Battistelli et al. 1990: 301)

Indicativi della presenza allo stesso tempo di una insofferenzarispetto alla tutela dei partiti e di un riconoscimento del bisogno ditali risorse sono anche i risentimenti espressi da alcune organizzazioni del movimento pacifista quando i partiti presero le distanzedalla mobilitazione. Restando al movimento della pace, ad esempio,in un documento del settembre 1982, I’ I p c   lamentava le difficoltàdi mobilitazione «in una fase di quasi totale latitanza dei partiti po

litici [...] che in Italia rappresentano, è inutile chiudere gli occhi,una leva di mobilitazione e pressione fondamentale per qualunquemovimento d’opinione e di lotta nazionale» (Battistelli et al. 1990:161).

I rapporti dei movimenti con i loro potenziali alleati sono statidunque, in questa fase, aperti a frequenti cooperazioni su singoli temi. Pur accettando le risorse provenienti dalla sinistra, i movimenti

hanno teso comunque a sottolineare sempre più la loro indipendenza dal sistema politico. G ià una caratteristica del movimento pacifista è stata l’eterogeneità degli attori, con la convergenza di cattolicie marxisti, ma soprattutto il superamento della polarizzazione classica tra destra e sinistra. Come recita un documento approvato nel1984, «I comitati per la pace si organizzano autonomamente, non allineandosi con alcuna organizzazione, alcuna ideologia, alcun blocco politico-militare» (Battistelli et al. 1990: 190). Anche le associa

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zioni sui vari temi legati al Welfare State hanno rifiutato di collocarsi sull’asse destra-sinistra, così come hanno fatto anche molti gruppi ecologisti, i quali hanno cercato piuttosto di costituire coalizionipluripartite. Nonostante la presenza di diverse liste Verdi, uno stu

dio minuzioso della rete organizzativa dei gruppi ecologisti ha dimostrato il peso ridotto dei cleavages politici nelle strategie coalizio-nali delle singole organizzazioni di movimento (Diani 1990), mentrein molte occasioni i gruppi ecologisti hanno dato indicazione di votare per i candidati di vari partiti sensibili alle questioni ambientali.

Guardando ancora al sistema delle alleanze, gli anni Ottanta sono inoltre caratterizzati da una crescente indipendenza dai sindaca

ti: se gli anni Settanta avevano visto, nelle relazioni tra movimentooperaio e movimenti della sinistra libertaria, il passaggio da un atteggiamento di cooptazione a uno di competizione, gli anni Ottantavedranno una crescente reciproca autonomia, con alcuni momentidi cooperazione. Un maggiore distacco dalla politica caratterizzò infatti l’azione dei sindacati che, in questo periodo, vedevano venire alpettine una serie di nodi strategici. Già rispetto al movimento della

pace, la loro posizione era stata esitante. Se le organizzazioni sindacali promossero infatti una serie di iniziative sul tema della pace, solo raramente però esse parteciparono direttamente alle attività delmovimento12. Pur mobilitandosi su temi quali la denuncia dei rischidella bomba N, la necessità di eliminare gli squilibri Nord-Sud, la richiesta di un controllo pubblico e democratico sul commercio dellearmi e di una riconversione dell’industria bellica, il movimento sindacale, contrariamente ad altre componenti del movimento pacifi

sta, ribadirà spesso la sua fiducia nei negoziati di Ginevra, rifiutando l’ipotesi di un disarmo unilaterale, e criticherà come troppo tiepida la posizione del C n c p rispetto al colpo di stato in Polonia e all’aggressione militare sovietica in Afganistan.

Le esitazioni del sindacato possono essere collegate, tra l’altro, aun momento di crisi e trasformazione. Il dissenso tra C g i l , C i s l eUlL, già emerso sul Fondo di solidarietà e do poja sconfitta alla Fiat

nel 1980, si accelerò infatti nel 1984 con l’accordo separato con cui

>2Ad esempio, nel 1981, C g i l , C i s l  e UlL pubblicarono un documento sullapace e il disarmo, e indissero una manifestazione nazionale a Firenze con la partecipazione di circa 170 mila dimostranti; nel 1983 promossero una catena umanadal Consolato americano a quello sovietico e una manifestazione a Reggio Emiliaper chiedere la sospensione dei lavori alla base di Comiso.

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C i s l e U il accettarono un taglio di tre punti alla scala mobile e il decreto Craxi sulla scala mobile, fino allo scioglimento della federazione unitaria e alla sconfitta del referendum abrogativo dell’accor

do sulla scala mobile nel 1985. Nella seconda metà degli anni Ottanta, l’emergere in vari settori di Comitati di base ( Co b as ) , estremamente critici rispetto ai sindacati confederali, produrrà nuove divisioni. Nel corso del decennio entrerà inoltre in crisi quella che ArisAccornero (1992) ha definito come la determinante endogena dellaparabola del sindacato: l'egualitarismo salariale come caposaldoideologico e scelta di valore. Inizialmente fattore di unificazione, l’e

gualitarismo salariale si trasformerà in un elemento di divisione:«Svalorizzando i differenziali professionali e penalizzando il lavoroqualificato, l’egualitarismo salariale finì col mortificare le stratificazioni basate sul know-how, sull’esperienza, sul merito, sull’istruzione» (Accornero 1992:35). La sfida per il sindacato, di fronte alla trasformazione degli atteggiamenti rispetto al lavoro, sarà «lo spostamento del baricentro dell’azione sindacale verso obiettivi relativa

mente nuovi e poco sperimentati. Un sindacato che ha via via definito tutte le sue vittorie in termini di conquistata rigidità, si trova oggi a doversi muovere su un terreno diverso, e anzi opposto, quellodella flessibilità» (Giovannini 1993:259). Ancora in questo periodo,si cominciò a diffondere la consapevolezza della presenza, nel sindacato, di gravi carenze dal punto di vista della democrazia interna.La tradizionale tendenza al rifiuto delle regole interne cominciò adavere effetti tanto più gravi quanto più il sindacato acquistava posizioni di potere (e sottopotere) nelle istituzioni13. I collegamenti trasindacato e partiti hanno comportato, infine, il pericolo di ripercussione sui primi della crisi di legittimazione dei secondi (Giovannini

13 Come ha osservato ancora Accornero: «I sindacati si occupano di formazione degli albi professionali, di sedi per la concessione di licenze, di commissio

ni di disciplina per barbieri e parrucchieri, di commissioni d ’esame e di concorso,di biblioteche comunali, di assicurazioni sociali, di sorveglianza sui prezzi e sulletariffe; e poi sono dentro a consigli di amministrazione di ministeri, enti e banche;si occupano di teatri, aziende di soggiorno, aziende per il turismo, commissioniper la pesca. Nei consigli di amministrazione degli spacci aziendali e dei circoli ricreativi ci sono solamente sindacalisti e il giro d’affari è davvero ingente [...] Questa presenza caotica e approssimativa è basata sulla nomina dall’alto assai più chesull’investitura dal basso: migliaia di rappresentanti sono burocraticamente designati dall’organizzazione all’insaputa dei lavoratori e persino degli iscritti» (Accornero 1992: 203-204).

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1993: 264). Di fronte a queste difficoltà, il sindacato tendeva quindia rinunciare al ruolo «politico» che lo aveva caratterizzato in altri periodi.

Mentre i rapporti con i potenziali alleati divenivano più «nego

ziali», si costruivano comunque a poco a poco risorse politiche interne alla famiglia dei movimenti della sinistra libertaria. Nelle campagne di protesta venivano rimobilitate risorse preesistenti: nel movimento per la pace si riattivarono, ad esempio, i gruppi femministiaccanto alla Nuova sinistra, gli ecologisti accanto ai circoli giovanili14. Nella fase alta della mobilitazione, il raggio delle persone coinvolte si allargò ben al di là dei piccoli circoli che avevano permessol’emergere della protesta. Quando la mobilitazione declinò, sopravvissero reti organizzative spesso basate su relazioni amicali, offrendo poi risorse per nuove campagne. Per fare un solo esempio, quando un’ondata di occupazioni nelle scuole e università emergerà nel1985, le risorse per la mobilitazione saranno offerte dagli studentiche avevano partecipato alle mobilitazioni per la pace all’inizio degli anni Ottanta (e in particolare alle «occupazioni per la pace» nell’autunno del 1983). Grazie alla prevalenza di organizzazioni di mo

vimento che permettevano una partecipazione multipla, cominciò amanifestarsi così il consolidamento di un potenziale di mobilitazione per i movimenti della sinistra libertaria, relativamente facile da attivare in specifiche campagne - basti ricordare che ben il 77 per cento degli attivisti del movimento ecologista avevano avuto precedenti esperienze in altri movimenti e associazioni (ben il 54 per centonel movimento degli studenti)15.

Al di là dell’attivarsi periodico delle campagne di mobilitazione,il fenomeno dell’associazionismo esterno ai partiti mostra un aumento delle risorse disponibili per l’organizzazione di gruppi di interesse pubblico. Grazie alla moltiplicazione degli episodi di protesta si diffusero infatti le capacità tecniche per l’organizzazione delleazioni collettive. Da un lato, la presenza di individui dotati di esperienze dirette o capaci di accedere a informazioni sulla organizzazione della protesta permette rapidi processi di apprendimento.Dall’altro, dopo i primi stimoli iniziali, le capacità di organizzazione

14 Fra i gruppi di donne che parteciparono alla mobilitazione pacifista, vi furono il Gruppo 10 marzo o La ragnatela (Addis e Tiliacos 1985).

15 Si veda la già citata ricerca di Roberto Biorcio sui partecipanti all’assembleanazionale indetta dalle liste Verdi a Pescara (Biorcio 1988b: 125).

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dell’azione collettiva tendono inoltre a diffondersi - come è evidente, ad esempio, nel racconto di uno dei fondatori del Comitato Serena Cruz,

Da semplici cittadini, ferrovieri, pensionati, casalinghe ci siamo trovatiin questa situazione, senza conoscere in un primo momento la legge, senzasapere come gestire i mezzi di comunicazione, senza nessuna esperienza.Volevamo sensibilizzare l’opinione pu bblica ed eravamo convinti che si trattasse di un errore giudiziario che poteva essere corretto. Per questo d ap pr ima ci siamo mobilitati. Credevamo di essere ascoltati, che la nostra testimonianza e la nostra opinione fossero tenute in conto [...] D op o un mese acontatto con giudici, avvocati, giornalisti abbiamo imparato come si fa.

Adesso siamo in grado di organizzare una conferenza stampa, sapp iam o come trattare con quelli della televisione, come comportarci con gli avvocati,e conosciam o a m enadito la legge su ll’adozione. (Turnaturi 1991: 73)

I movimenti degli anni Ottanta usufruiscono quindi, spesso,delle risorse organizzative e di militanza formatesi nel corso di precedenti mobilitazioni, e continuano a ricrearle.

4.3. Assimilazione e pragmatismo

Nel corso degli anni Ottanta, anche i rapporti con le istituzionidivengono estremamente pragmatici - influenzati più dagli outputin termini di politiche pubbliche che da quelli in termini di ordinepubblico. Lo stile di controllo di polizia della protesta è, negli anni

Ottanta, cambiato ancora una volta, e in modo così significativo chesarebbe difficile da spiegare se non si tenesse conto dello shockprofondo prodotto dal terrorismo sia sui movimenti che sulle istituzioni. Mentre lo scioglimento dei gruppi più radicali rendeva superflue le misure di repressione più dura, il declino del terrorismoportò al moltiplicarsi degli appelli per una riconciliazione nazionale, e a una revisione della legislazione di emergenza. Nel 1981, una

riforma da lungo tempo richiesta all’interno stesso della polizia, smilitarizzò e professionalizzò il corpo, trasformandone pratiche e comportamenti. Questi cambiamenti si riflessero in un atteggiamentopiù tollerante verso il movimento della pace, all’inizio degli anni Ottanta, e verso gli altri movimenti, successivamente. Nel corso del decennio, quindi, il controllo della protesta da parte della polizia divenne più «morbido» e più selettivo (Della Porta 1995: cap. III).

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Quando gruppuscoli di autonomi prendevano parte alle grandi manifestazioni di massa, l’intervento della polizia era di solito orientato a tenere sotto controllo le azioni violente, senza mettere in peri

colo gli altri dimostranti. Le organizzazioni nonviolente talvolta col-laboravano, mediando tra autonomi e polizia, in modo da evitareescalazioni. Anche il controllo degli atti di disobbedienza civile edelle azioni dirette nonviolente divenne più tollerante e preventivo.Nel corso del pur aspro conflitto sul tema della pace, le occasioni discontro tra dimostranti e polizia furono limitate. Quando gli attivisti del movimento nonviolento incriminati per disturbo della quietepubblica criticarono i giudici, ciò non fu per protestare contro sen

tenze troppo dure ma piuttosto per denunciare che i magistrati erano troppo inclini al compromesso16.

Anche in questo periodo la reazione di polizia e magistratura alla protesta riflesse le caratteristiche del sistema politico. All’iniziodegli anni Ottanta, i primi governi con presidente del Consiglio nondemocristiano nella storia della Repubblica segnalarono alcuni mutamenti, sottolineando un’immagine di «efficienza». Nel 1979 l’ele

zione a presidente della Repubblica di Sandro Pertini, una delle figure più popolari della Resistenza, contribuì a una rilegittimazionedelle istituzioni democratiche, che erano apparse vacillare, sotto tentativi di colpi di stato e attacchi terroristici, nel decennio precedente. Nel 1981 l’incarico di formare il governo venne dato, per la prima volta nella storia della Repubblica, a un non-democristiano, illeader del Pr i Giovanni Spadolini. Nel 1983 il crollo della De alle

elezioni politiche (dal 38,3 al 32,9 per cento alla Camera) aprì la strada alla presidenza del governo al Psi (passato dal 9,8 all’ 11,4 per cento). In quell’anno, infatti, Bettino Craxi, segretario socialista dal1976, fu nominato presidente del Consiglio dei ministri e lo rimasefino al 1987 (quando il Psi balzò al 14,3 per cento). La rissosità all’interno della coalizione di governo impedì comunque l’avvio di serie riforme. Come emergerà con chiarezza all’inizio degli anni Novanta, «Craxi si è mostrato più abile come stratega per il suo partito che per il paese, e non ha saputo elaborare una vera strategiariformista» (Ginsborg 1989: 568). Nonostante l’immobilismo sostanziale del governo a presidenza socialista, la tendenza a continui

16 Ad esempio, un attivista pacifista ha lamentato il fatto di essere stato assolto per «non avere commesso il fatto», nonostante la sua piena confessione (L’Abate 1990).

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compromessi permise ai movimenti della sinistra libertaria di infiltrarsi in alcuni interstizi del sistema delle decisioni pubbliche, mentre la fine del terrorismo moltiplicava le spinte alla «pacificazione»(spinte recepite, tra l’altro, dall’attuazione della legge di riforma

carceraria).Le rivendicazioni sostenute dai movimenti della sinistra liberta

ria - in particolare la pace e l’ambiente - non polarizzarono né lastampa né l’opinione pubblica, e i repertori nonviolenti accrebberole simpatie per i movimenti17. Ma allo stesso tempo, gli anni Ottanta sono gli anni della più intensa corruzione politica, con una tendenziale rinuncia dei partiti a intervenire sul contenuto delle politi

che pubbliche se non nei casi in cui queste potevano essere remunerative in termini di finanziamento illecito della politica e dei politici (Della Porta 1992; Della Porta e Vannucci 1994). La debolezzadei partiti come propositori di politiche pubbliche ha probabilmente accentuato la tendenza dei movimenti della sinistra libertaria adagire come gruppo di pressione, cercando di influenzare diretta-mente i reticoli di policy-makers, dove venivano prese le decisioni

sulle politiche pubbliche.Anche i rapporti con gli enti locali sembrano essere stati improntati a un certo pragmatismo, con la tendenza di molti attori aspostarsi rapidamente dal campo delle «controparti» a quello deglialleati e viceversa. Se la ricerca di autonomia portava a una critica diquella che i francesi chiamano politique politicienne, i legami con leistituzioni non si interruppero, tutt’altro. È stato così osservato che:«Se in fasi precedenti l’azione collettiva era infatti o tutta interna otutta esterna alle istituzioni politiche, gli anni ’80 la vedono collo

17 I movimenti degli anni Ottanta non solo non trovarono una opposizione radicale nel sistema, ma sembrarono addirittura capaci di esercitare in vario modoinfluenza politica. Il movimento della pace, ad esempio, nonostante la sua sconfitta sul tema dell’installazione dei missili a testata nucleare, ha ampliato la consapevolezza su una serie di temi connessi alla pace. I sondaggi hanno dimostrato in

fatti un crescente sostegno al movimento per la pace nella opinione pubblica enella classe politica. Per quanto riguarda l’opinione pubblica, le simpatie per ilmovimento della pace sono salite dal 61 per cento nel 1982 all’87 nel 1984 (Batti-stelli et al. 1990). Per quanto riguarda la classe politica, secondo una ricerca suimembri delle commissioni difesa e esteri dei due rami del Parlamento, il movimento pacifista veniva giudicato positivamente dal 71 per cento degli intervistati(Battistelli et al. 1990). Secondo un sondaggio Doxa, tra il 1978 e il 1986 il numero di persone favorevoli all’abolizione delle centrali nucleari aumentò dal 25,6 al72,5 per cento (Biorcio 1987).

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carsi contemporaneamente dentro e fuori il sistema politico» (Lodi1984: 91). Gli enti locali hanno giocato, ad esempio, un ruolo importante sin dall’inizio della mobilitazione pacifista. Amministrazioni comunali, provinciali e regionali hanno aderito o addirittura con

vocato cortei contro l’armamento, oltre a finanziare iniziative culturali sui temi della pace18, mentre importante dal punto di vista simbolico è stata anche la dichiarazione dei comuni di adesione al movimento della pace e l ’autoproclamazione come zona denuclearizzata. Nella fase di riflusso della mobilitazione alcuni enti locali si faranno carico di iniziative - quali convegni, convenzioni e disegni dilegge - che contribuiranno a tenere in vita il discorso pacifista19.

Anche il movimento ecologista è stato caratterizzato da frequenti rapporti con gli enti locali. A livello locale, gli eletti nelle liste Verdi non hanno esitato a entrare in coalizioni di governo locale di varicolori, occupandovi spesso gli appena creati assessorati all’Ambien-te. Alleanze su singoli temi promossi dagli ecologisti (protezione degli animali, detersivi senza fosfati, benzina senza piombo) hanno visto insieme politici di diversi partiti, sia di governo che di opposizione (Diani 1990: 167-75). Soprattutto a partire dalla metà del decennio, numerose amministrazioni locali hanno formato Consulteper l’ambiente, mentre a livello nazionale veniva costituito, nel 1986,il Consiglio nazionale dell’Ambiente, dove, insieme ai rappresentanti delle forze politiche e sociali, sedevano esponenti dei gruppiecologisti (in quello nazionale, Italia Nostra, W w f , Lega per l’ambiente, Greenpeace, Lipu, tra gli altri). Nello stesso anno, in parallelo a quanto era già avvenuto a livello locale con gli assessorati al

18 Una delle prime iniziative che contribuì all’emergere del movimento pacifista fu il meeting intemazionale contro gli armamenti nucleari organizzato dal comune di Bologna nel 1980. Nel 1981 la Regione Umbria pubblicò un appello perla pace e diede il suo sostegno alla III Marcia per la pace Assisi-Perugia, mentrerappresentanti dell’amministrazione comunale e provinciale di Roma parteciparono a manifestazioni. Nel 1982 il comune di Venezia organizzò un convegno sultema della difesa popolare nonviolenta, e molti enti locali - inclusa la giunta pen-tapartita di Napoli - diedero il loro sostegno alla marcia Milano-Comiso.

19 Ad esempio, nel 1987,50 enti locali organizzarono una convenzione nazionale per la pace, cui seguì un convegno con la partecipazione di 400 comuni smilitarizzati; l’anno successivo, gli enti locali smilitarizzati indissero la marcia Ca-mucia-Cortona sui temi di pace, fame e disarmo, mentre la Regione Toscana si impegnò a non erogare finanziamenti alle industrie di armi se non per riconversionead altre produzioni. Nel 1988 il comune di Bari diede il suo patrocinio alla costituzione della Associazione per la pace.

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l’Ambiente, venne creato un ministero per l’Ambiente. Soprattuttoper i gruppi ambientalisti e ecologisti, il rapporto con le istituzioni èstato intenso:

I grup pi ecologisti svolgono spes so una funzione suppletiva dei pubblici poteri, tentando di ovviare ai gravi limiti dell’azione pu bb lica in fattodi tutela ambientale. A tal fine sviluppano attività di volontariato come lagestione di oasi naturalistiche, l’organizzazione di campi di lavoro in zoneesposte ai rischi di degrado, la gestione di ospizi per animali, la raccolta didocumentazione. Sempre in questa prospettiva si collocano le attività didattiche nelle scuole. D al canto suo l’istituzione offre - non sempre, ed ovviamente non nella misura che gli ecologisti riterrebbero adegua ta - risor

se organizzative e finanziarie: patro cina iniziative, finanzia corsi, mette a d ispos izione locali da utilizzare com e sedi, ecc. (Diani 1988: 169)

Significativamente, secondo una ricerca condotta a Milano,«L ’atteggiamento complessivo delle organizzazioni ecologiste versoil sistema politico è nettamente orientato a favore di una collaborazione con le istituzioni piuttosto che con i partiti» (Diani 1988:

167), mentre «gli enti locali e le assemblee elettive tendono ad essere assunti come interlocutori piuttosto che come avversari» (D iani 1988: 168). Anche sul nucleare, i movimenti sono riusciti ad allearsi con le istituzioni locali, allargando il conflitto al tema dei rapporti centro-periferia (Diani 1994).

Un atteggiamento pragmatico rispetto alle controparti è stato,inoltre, notato a proposito dei gruppi femministi. Negli anni Ottanta, infatti, si cominciò ad accettare il principio della delega e a criticare invece il separatismo; mentre si cercavano alleanze su obiettiviconcreti, si apprezzava il rapporto con le istituzioni, soprattutto conle amministrazioni locali. Come è stato osservato

O ggi ci siamo trasformate in coope rative, centri culturali, centri di do cumentazione, ci propon iam o di trovare udienza e sostegno nelle istituzioni, di com unicare con il resto della realtà femminile. [...] Il mon do fem minile di queste nuove aggregazioni è un mondo di donne pragmatiche, datem po inserite nei circuiti politici, che per la m aggior parte danno po ca im portanza al lato ideologico della contraddizione uomo-donna. Si dedicanocon ardore alla questione della subalternità femminile, ma l’oggetto dei loro entusiasm i non è tanto il regno della differenza e dell’identità quanto lareale costellazione dei rapporti di potere in situazioni e contesti dati. (D ’Amelia 1985: 124-28, passim)

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Lo stesso vale per i movimenti urbani, il cui atteggiamento rispetto alle istituzioni divenne, con l’eccezione di alcune organizzazioni, pragmatico e aperto al negoziato. Mentre la situazione politica si depolarizzava, i movimenti ritornavano, infatti, a un’azione

prevalentemente concentrata nella società. A livello locale si sonomoltiplicati, infatti, gruppi al confine tra associazione di volontariato e movimento politico (cfr. ad esempio, Ranci, De Ambrogio ePasquinelli 1991; Ramella 1994). Molte di queste associazioni hanno interagito con lo Stato, e ciò in almeno due modi. Il deficit di legittimazione di alcune istituzioni pubbliche, ma anche dei partiti,ha spinto a cercare nelle associazioni volontarie nuove risorse di

partecipazione, mentre la crisi del Welfare State portava a utilizzarle come un canale più economico per offrire alcuni servizi. Molte associazioni hanno cominciato, quindi, a prendere parte alle decisioni collettive e a ricevere contributi, talvolta ingenti, dalla amministrazione pubblica. Sembra valere dunque anche per l’Italiaquanto è stato osservato a proposito del caso tedesco;

I governi locali, forzati a trovare mo di nuovi e alternativi pe r far fron

te alle restrizioni fiscali impo ste da lle conseguenze di ristrutturazione economica, disoccupazione, e crescenti costi dei servizi sociali, iniziarono aguardare alle potenzialità innovative di associazioni comunitarie e organizzazioni alternative. Così, nel corso del decennio, si ebbe una transizione damovimenti sociali urbani che sfidavano lo stato a relazioni meno conflittuali tra “ gru pp i di interesse” e la buro crazia locale dello stato sociale, messa sem pre più di fronte ai pro pri limiti. (M ayer 1993: 158)

Si sono ridotte infine, fin quasi a scomparire, le occasioni di conflitto violento tra movimenti e contromovimenti. Nonostante alcuniterroristi neofascisti fossero sospettati di partecipazione alle duestragi che insanguinarono l’Italia nel corso di questo decennio - lastrage alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 (85 morti e oltre 200feriti) e quella sul rapido 904 il 23 dicembre 1984 (15 morti e 185 feriti) - i contromovimenti della destra neofascista, insieme ai gruppipiù radicali della sinistra, decimati dagli arresti, entrarono in una fa-

 j se di latenza. Gli anni Ottanta coincidono, inoltre, con una gradua-Ile inclusione del Msi nel sistema politico (Ignazi 1994b: 65-69)20.

20 Le principali tappe simboliche di questo processo di legittimazione sono,all’inizio del decennio, la partecipazione di esponenti radicali e socialisti a un convegno organizzato dal M si sulle riforme istituzionali e le dichiarazioni di non chiusura pregiudiziale verso la destra dell’allora presidente del consiglio Bettino Craxi.

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Dal canto suo, il Msi annunciò un’opposizione «costruttiva» - il significativo titolo del XIV congresso è Dalla protesta alla proposta -  mentre la visita di Almirante e Romualdi alla salma di Enrico Berlinguer sanciva un clima di deradicalizzazione.

Un altro gruppo che potrebbe essere definito come contromovimento, Comunione e liberazione ( C l ) , entrò solo raramente in inte-/razioni dirette con i movimenti della sinistra libertaria. Anche quando dalla organizzazione-madre si costituì il Movimento popolare(Mp) , con l’obiettivo di diffondere una visione integralista del cattolicesimo, il messianismo politico del gruppo non sfociò in azioni violente. Seppure forti di numerosi seguaci - si parla di alcune decine

di migliaia di aderenti negli anni Ottanta - C l e M p raramente adopereranno forme di protesta vere e proprie, entrando quindi in contatto con gli attivisti del fronte opposto più spesso nelle istituzioniche nelle piazze (Accattoli 1989). Se la loro mobilitazione ha probabilmente indebolito le chances di successo dei movimenti della sinistra libertaria su alcuni temi, essa non ha prodotto però quelle spirali di violenza che abbiamo osservato nel caso delle interazioni di

rette tra movimenti e contromovimenti negli anni Settanta.I residui segnali di conflitto radicale, almeno sul piano simboli

co, vennero dalle subculture giovanili. Soprattutto nelle metropolile bande spettacolari - mods, rockabillies, punks, heavy metal kids, skinheads - si svilupparono tra la fine degli anni Settanta e la metàanni Ottanta. In particolare a proposito dei punks è stato osservatoche: «la politicizzazione latente della subcultura è favorita dal con

testo e dalla tradizione politica italiana; che tale politicizzazione facilita il riemergere di tradizioni politiche passate (nel nostro casoaree dell’estremismo politico di sinistra); che le alleanze che possono risultare da tali intrecci tendono a paralizzare lo sviluppo innovativo della subcultura e a indirizzarla su binari di espressione giànoti e talora logorati» (Beccalli 1986: 13). Tuttavia, anche le subculture giovanili degli anni Ottanta sono descritte come caratterizzate

da realismo, pragmatismo, enfasi sul tempo libero, propensione all’innovazione (Calabrò 1986: 272-73). Se l’appartenenza a bandespettacolari era una identificazione negativa, essa era comunque unaidentificazione transitoria (Leccardi 1986: 215-21).

Concludendo, alla fase di radicalizzazione degli anni Settanta seguì una fase di istituzionalizzazione, caratterizzata dal proliferare diassociazioni di base, con una ideologia pragmatica. In questa fase l’a

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zione collettiva non scomparve, ma si trasformò notevolmente. Inprimo luogo, dal punto di vista organizzativo, la struttura relativamente centralizzata dei gruppi della Nuova sinistra cedette il passo

a una struttura reticolare, policéfala e multiforme. Centinaia di comitati, basati a livello di quartiere o luogo di lavoro, vennero costituiti su vari temi, e si coordinarono in maniera flessibile, spesso all’interno di strutture a ombrello, dotate di funzioni limitate all’organizzazione di singole campagne. Mentre le unità di base sperimentavano forme di aggregazione, sperando di trovare soluzioni chepermettessero di superare i limiti dell’assemblearismo senza rinun

ciare alla partecipazione, si costituirono anche associazioni formali,capaci di funzionare in maniera efficiente. All’interno di un modello prevalentemente laico e inclusivo, si sono comunque mantenute

'due formule organizzative: più formale ed elitaria la prima, piùinformale e partecipativa la seconda. Anche dal punto di vista ideologico, i movimenti della sinistra libertaria si sono mossi sul doppiobinario della utopia universalista e del perseguimento pragmatico di

«single issues», oscillando tra un ottimismo riformista e un pessimismo minimalista. Spesso definiti come «egoisti», autosufficienti eautoreferenziali, questi movimenti presentavano però rivendicazioni universalistiche, mobilitandosi per riaffermare diritti negati. Pragmatiche nel loro linguaggio, le organizzazioni dei movimenti collettivi degli anni Ottanta hanno affermato una novità importante: il diritto dei cittadini di intervenire, senza necessariamente la mediazione di partiti e gruppi di interesse, nelle decisioni pubbliche che riguardano la loro vita quotidiana e il loro futuro. Forme di pressionepiù tradizionali si sono combinate con i primi esempi di azione nonviolenta, ed ha avuto inizio un processo di de-escalation. La più grande innovazione nel repertorio della protesta è stata, infatti, la prevalenza di azioni nonviolente, con il diffondersi sia di forme di disobbedienza civile che di tattiche ad alto valore simbolico, capaci di attrarre l’attenzione dei media e di rafforzare la solidarietà tra i partecipanti. Seppure con diverse strategie, i partiti della sinistra hannoofferto al movimento dei canali di accesso nelle arene delle decisioni pubbliche. Fra gli alleati, il Pei, ancora una volta all’opposizione,era divenuto più ricettivo alle azioni di protesta, aprendosi a collaborazioni in diverse campagne. Più ancora che negli anni Sessanta,comunque, i movimenti della sinistra libertaria hanno dimostrato ditemere una cooptazione nella «vecchia» sinistra, cercando di man

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tenere, e sottolineare, la propria autonomia. Al contempo, le controparti dei movimenti assumevano un atteggiamento più aperto alnegoziato, con concessioni frequenti alle richieste dei movimenti,mentre scomparivano quasi le occasioni di interventi coercitivi del

la polizia nel controllo della protesta e di conflitti fisici fra movimenti e contromovimenti.

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MOVIMENTI E PROTESTA IN ITALIA.ALCUNI SCENARI PER GLI ANNI NOVANTA

Abbiamo notato nei precedenti capitoli che i decenni a cavallotra il 1960 e il 1990 hanno visto, in Italia, l’emergere e l’istituzionalizzazione di una «famiglia» di movimenti sociali: i movimenti dellasinistra libertaria. Nella storia dei movimenti sociali nel nostro paese, gli anni Sessanta sono stati anni di speranze di grandi trasformazioni, dentro un’utopia rivoluzionaria; gli anni Settanta vengono ri

cordati come il decennio della violenza, pessimista e radicale; gli anni Ottanta hanno visto le attività di movimenti pragmatici e moderati. In una sommaria comparazione con i movimenti della sinistralibertaria in altre democrazie occidentali, quelli italiani sono stati caratterizzati da una struttura organizzativa più formalizzata, da unaminore rottura ideologica con il discorso della sinistra tradizionalee da un maggiore radicalismo nelle forme d’azione (Della Porta

1995). Questi tratti peculiari hanno teso comunque a sfumare neglianni Ottanta, quando si sono sviluppati movimenti decentrati nellaloro struttura organizzativa, pragmatici nella loro ideologia e moderati nelle loro forme d ’azione.

Nei primi anni Novanta sono emersi movimenti collettivi su tematiche nuove e diverse rispetto a quelle che avevano caratterizzato i movimenti dei decenni precedenti. Il 5 dicembre 1989, daun’occupazione dell’università di Palermo, nascerà il movimentodella Pantera, che, a partire dal gennaio 1990, si estenderà su tuttoil territorio nazionale, prima di declinare con la fine delle occupazioni a metà marzo. All’inizio del decennio, giovani delle piccolecittà e delle metropoli occuperanno spazi in disuso per farne centrisociali autogestiti, luoghi di elaborazione di una controcultura giovanile. Nello stesso periodo, organizzazioni politiche di base sonosorte per rivendicare il federalismo o il ritorno della legalità demo

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cratica. A partire dal 1992, anno di stragi mafiose e di innumerevoli arresti per corruzione politica, uno dei temi principali dellaprotesta è la questione morale, con campagne di sostegno ai giudici di Milano che indagano sulla corruzione e la criminalità organizzata. In apparenza, dunque, stanno emergendo delle famiglie politiche «estranee» rispetto al cleavage destra-sinistra.

Quali sono le caratteristiche dei movimenti degli anni Novanta?Il processo di «istituzionalizzazione» che abbiamo descritto per glianni Ottanta continuerà ancora negli anni Novanta? Oppure questi ultimi testimoniano di una nuova svolta per quanto riguarda laprotesta e l’azione collettiva? Su queste questioni cercherò di ra

gionare nel corso di questo capitolo, guardando non solo ai movimenti della sinistra libertaria ma anche a quelli che sono stati talvolta definiti come nuovi movimenti «antisistema», perché esprimerebbero la delegittimazione di una classe politica sconvolta dagliscandali legati allo svelamento della corruzione politica e incapacedi far fronte alla congiuntura economica negativa. Nel far questo,guarderò all’evoluzione di alcuni movimenti collettivi nei primissi

mi anni del decennio, cercandovi degli indizi di future tendenze.Date le scarse conoscenze scientifiche sulla fase più recente dellastoria italiana, il mio obiettivo non è quello di fornire un’immagineesauriente della situazione dei movimenti sociali, ma piuttosto diproporre delle ipotesi interpretative e di argomentarle attraverso alcune illustrazioni.

1. Partitizzazione o dissoluzione?

La struttura organizzativa dei movimenti degli anni Novanta èapparsa, come nel decennio precedente, fluida, con una serie di associazioni prevalentemente autonome che convergono temporaneamente in alcune campagne. In confronto con gli anni Ottanta,comunque, la novità è rappresentata dall’emergere e dal rapidoconsolidamento di gruppi radicati a livello nazionale e centralizzati che, pur partecipando alle elezioni e alla gestione delle istituzioni, rifiutano di considerarsi partiti, rivendicando le loro origini nella «società civile».

Una struttura decentrata, con vari gruppi coordinati in campagne di protesta ha, ad esempio, il movimento antimafia, iniziato conle manifestazioni spontanee seguite all’assassinio del generale Car-

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10 Alberto Dalla Chiesa, della moglie e dell’autista. Nel gennaio1984 rappresentanti locali di partiti e sindacati avevano formato infatti il Coordinamento antimafia. Molto conflittuale all’interno per

via della sua conformazione di «intergruppo»1, il Coordinamento siera però ben presto dissolto, ricostituendosi attraverso adesioni rigorosamente individuali nel 1986. Alla fine degli anni Ottanta, questo secondo coordinamento - guidato dal figlio di una delle vittimedella mafia, Carmine Mancuso - aveva circa 300 firmatari e migliaiadi seguaci. Esso sarà però lungi dal rappresentare tutti i gruppi divaria natura che agiranno nel movimento: dal centro sociale di San

Severio, costruito attorno a un gruppo di volontari cattolici, al piccolo nucleo di intellettuali, organizzati attorno al Centro di ricercasulla mafia Giuseppe Impastato, o al «Comitato dei lenzuoli», natodalle iniziative spontanee di tre sorelle e delle loro figlie. Avvalendosi di alcune risorse organizzative preesistenti - dalle reti di ex-militanti delle lotte contadine degli anni Cinquanta e Sessanta a quelle degli attivisti del movimento della pace, dagli studenti della Pantera alle donne del movimento femminista - il movimento si co

struirà come reticolo denso di rapporti. Queste risorse preesistentivengono filtrate attraverso un incontro concretizzatosi spesso nelleuniversità: gli antropologi americani Jane e Peter Schneider (1994:24) hanno notato, infatti, la «preponderanza di una intelligentia educata all’università - gente con carriere o aspirazione a carrierenel lavoro sociale, insegnamento, legge, governo, giornalismo, sanità, e il clero - con densi reticoli, composti in particolare da ex

compagni di scuola».In modo simile, nelle università, il movimento della Pantera haadottato forme organizzative di tipo partecipativo: l’assemblea erala sede decisionale, le commissioni (su temi che andavano dalla d idattica alle barriere architettoniche, dal diritto allo studio all’azione creativa) il luogo dove elaborare i «contenuti» del movimento.11 coordinamento veniva garantito, oltre che dalle due assemblee

nazionali di fine gennaio a Palermo e fine febbraio a Firenze, da unarete telematica che metteva in comunicazione via fax le facoltà occupate. Se il modello organizzativo assomigliava a quello delle precedenti ondate di protesta nelle università, vi era comunque anche

1 Nel Coordinamento antimafia vi erano, ad esempio, organizzazioni cattoliche quali le A c l i , Pax Christi, i Beati costruttori di pace e la Rosa bianca, accanto al Comitato promotore referendum del 9 giugno e alla Cg i l .

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una consapevolezza, maggiore che nei movimenti studenteschi delpassato, dei rischi della democrazia partecipativa: non a caso, all’assemblea nazionale di Firenze si discuteva sul ruolo dei portavoce delle 179 facoltà in agitazione, da alcuni considerati come dele

gati con capacità di decidere, secondo altri mero «canale informativo». Si cercava, inoltre, di affrontare il problema della rappresentatività attraverso la ricerca dell’unanimità e la fissazione di un numero legale per il funzionamento delle assemblee, mentre l’elezione di un presidente e due vice-presidenti di assemblea esprimeva laricerca di garanzie di eguali possibilità di espressione per tutti.

Estremamente decentrata è anche la struttura dei centri sociali

autogestiti, molti dei quali emergono proprio negli anni Novanta,rispecchiando le insoddisfazioni delle giovanissime generazioni peril sistema sociale e la cultura dominante. Pur costituendo un fenomeno diffuso - una recente inchiesta ne ha contati oltre cento - icentri sociali autogestiti sono dotati di scarsissimi momenti di coordinamento, tra i quali le riviste «Autonomen» (più politica) e «Virus» (di controcultura punk), cui si può sommare il circuito della

«autoproduzione» musicale (come l’associazione Lega dei furiosi)(Adinolfi 1994; Moroni 1994). All’interno di ciascun centro, le decisioni vengono prese dall’assemblea. Come è stato osservato di recente: «la forma politica da loro scelta trova le sue origini nella Comune di Parigi, piuttosto che in rissosi e inutili comitati centrali»(Vecchi 1994: 9). Il modello organizzativo teorizzato è infatti la rete «costituita da “nodi” tra loro indipendenti ma connessi da unaragnatela di conoscenza, e cioè l’appartenenza a uno stesso gruppo

con medesime finalità politiche» (Vecchi 1994: 9).Una struttura organizzativa decentrata ha adottato perfino una

organizzazione che ha assunto poi la forma partito: il Movimentoper la democrazia-La Rete. Nata a Palermo nel 1989 attorno al popolarissimo ex-sindaco democristiano Leoluca Orlando, protagonista di una stagione di mobilitazione contro la mafia, conosciutacome «primavera di Palermo»2, la Rete si aprirà presto anche a non

cattolici e si presenterà come movimento e come lista elettorale.Come il movimento pacifista, anche la Rete sottolinea il principiodella responsabilizzazione individuale degli aderenti: «L’atto diadesione ad esso - si legge nel manifesto costitutivo del gruppo -

2 Per la storia della Rete rinvio a Mastropaolo 1992; Pellizzari 1992; Totaro1994.

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implica l’assunzione di un impegno personale attraverso una firmae una sottoscrizione, comporta il rifiuto di ogni logica o pratica cor-rentizia e non viene da alcuna tessera di iscrizione» (Manifesto costitutivo del Movimento per la democrazia - La Rete, 1991).

All’assemblea nazionale a Roma, nel novembre 1991, i 355 delegati dei 15 mila firmatari del manifesto di fondazione del grupposceglieranno una struttura organizzativa decentrata. La Rete è strutturata in organismi cittadini autonomi sul piano politico e organizzativo, dotati di unità di lavoro e coordinati nell’assemblea di cittàsecondo lo statuto, infatti, «il livello fondamentale della Rete è lacittà» (art. 10). A coordinamento regionale, comitato nazionale, ga

ranti e coordinatori nazionali e regionali vengono riconosciute solo funzioni di controllo, rappresentanza ed elaborazione delle lineegenerali del programma. Basato sull’attività volontaria, il gruppocerca di mantenere una «organizzazione leggera e flessibile»: su 350gruppi locali esistenti nel gennaio 1994, solo 100 dispongono di unasede propria; le pubblicazioni hanno diffusione prevalentementelocale (circa 60 a febbraio 1994); il compito di coordinamento è as

segnato a «Retefax», inviato via fax a tutte le sedi locali e agli abbonati (Totaro 1994:74). Ancora indicativo della ricerca di un nuovo modello organizzativo è Pinclusività della partecipazione: secondo gli articoli 3 e 4 dello statuto, si possono iscrivere alla Reteanche i membri di altri partiti e associazioni pubbliche, purché nonvi ricoprano incarichi direttivi. L’autofinanziamento dovrebbe essere favorito dalla regola secondo la quale ciascun aderente devecontribuire con almeno il 5 per mille del proprio reddito. Il ruoloimportante assegnato alle assemblee, locali e nazionali, testimoniadell’attenzione alla partecipazione dal basso, mentre una serie di regole (obbligo di rinnovo frequente degli organi direttivi, fissazionedi un minimo di partecipanti per la formazione delle strutture dibase, ecc.) dovrebbe garantire dai pericoli di manipolazione da parte dei leader. Il fatto che le assemblee siano sempre pubbliche dovrebbe favorire la trasparenza; l’apertura delle unità di lavoro an

che ai non aderenti evitare la chiusura all’esterno.Come per il movimento pacifista, comunque, anche per la Rete

questi principi organizzativi non saranno facili da mettere in pratica. Già durante la seconda assemblea nazionale, tenutasi a Perugiail 20 novembre 1992, sul tema L’Italia delle città, l’Europa delle regioni, nel gruppo - che contava adesso 25 mila aderenti, con 250delegati e un coordinamento nazionale con 30 membri - emersero

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contrasti tra i «nostalgici del partito» e i sostenitori del modello«leggero». Nonostante le dichiarazioni in senso contrario, le vittorie elettorali rafforzavano infatti la strutturazione partitica e la fun

zione della leadership, che si identificava spesso con gli eletti neglienti locali e in Parlamento. Man mano che il gruppo si radicava nelle istituzioni acquistavano peso anche le risorse umane e culturaliprovenienti dai partiti3. Nonostante queste tendenze, comunque, lastoria più recente della Rete, con la fuoriuscita di alcuni dei suoi leader più conosciuti, non sembra certo sfociare in un modello di partito di massa, ma piuttosto in un’aggregazione di dirigenti locali eopinion leader.

Ancora più marcato nel senso della centralizzazione è il percorso dell’altro protagonista della scena politica dei primi anni N ovanta, la cui storia - seppure certamente non assimilabile alla sinistra libertaria - può dare alcune indicazioni sulle traiettorie evolutive dei movimenti negli anni Novanta: la Lega Nord. Nate nei primi anni Ottanta su rivendicazioni federaliste e di difesa delle identità regionali in Veneto, Lombardia o Piemonte, le varie Leghe si

unificheranno all’inizio degli anni Novanta nella Lega Nord. Dalpunto di vista organizzativo, all’inizio della loro storia, le Legheavevano una struttura organizzativa debole, costituita prevalentemente da associazioni culturali. Il nucleo iniziale della Liga Venetaera, ad esempio, rappresentato da membri della Società filologicaveneta, un’associazione per la difesa di «cultura, storia e lingua veneta». Il grado di formalizzazione, come è stato osservato per i

gruppi veneti, era basso: «non vi sono procedure precise e ricorrenti nel processo decisionale, né tanto meno sono previste e codificate le carriere interne» (Diamanti 1992: 237). La Unione nord-occidentale lombarda per l’autonomia ( U n o p l a ) , fondata da Umberto Bossi, seguiva, all’inizio, «percorsi organizzativi difficilmente distinguibili dalle sue reti amicali, parentali e di vicinato» (DeLuna 1994: 45)4. La struttura della Lega Nord, che seguirà allaU n o p l a , sarà di tipo carismatico, con il potere effettivo nelle mani

3 Se prendiamo, ad esempio, i primi quindici parlamentari della Rete, ne troviamo molti con esperienze di tipo associazionistico in vari gruppi sia della sinistra marxista che del volontariato cattolico, ma anche sette con precedenti esperienze come politici di professione (tre nella De, due nel Pei, due in Dp e Verdi).

4 Lo statuto della Lega lombarda verrà sottoscritto da cinque soci fondatori: Bossi, la sua amica Morone, il cognato Brivio e gli amici Leoni e Moroni.

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dei soci ordinari (127, di cui otto donne, tutti scelti dal fondatore).Tquaclri delle Leghe insistevano sul senso di dedizione e di appartenenza, contrapponendolo al modello cinico del professionista politico. Soprattutto nella fase iniziale - come del resto per tutti i mo

vimenti - le scelte di adesione sono maturate dentro gruppi amicali (Diamanti 1993: 81). Questa pratica organizzativa viene teorizzata nei due programmi della Lega lombarda del 1982 e del 1983, dove si trova una esaltazione delle piccole comunità come elemento diautogoverno e sistema di valori. Dopo i primi successi elettorali, come nella Rete, anche nella Lega vi sarà un rifiuto di definire la propria formazione come partito, preferendo invece il termine di «m ovimento». Slogan e messaggi insistono sullo stile «diverso» rispettoa quello burocratizzato dei partiti. Riutilizzando una formula elaborata in Germania dai Grünen, la Lega Nord si proporrà comepartito anti-partito, legato jdla società civile. L’associazionismo haavuto infatti un ruolo importante non solo alle origini delle Leghe,ma anche nella loro successiva evoluzione, in particolare nella formazione di un milieu di reclutamento. Molti quadri dell’organizzazione vengono, come ha osservato Diamanti, «dalle fila dell’asso

ciazionismo locale cresciuto tra gli anni Settanta e Ottanta; dalladiffusa rete di gruppi operanti nell’ambito del tempo libero, delleattività culturali, dello sport, luogo di formazione di un’offerta diimpegno fortemente pragmatica e lontana dalle culture politichetradizionali: quella democristiana e quella di sinistra, anche perchéda queste sostanzialmente ignorata» (Diamanti 1993: 66; cfr. anche1992).

La struttura delle risorse organizzative del partito si è però trasformata con l’ingresso nelle istituzioni. Negli anni Novanta, soprattutto dopo i successi elettorali che hanno trasformato la Legain partito di governo, anche il modello organizzativo viene rielaborato. Il 22 novembre 1989 si costituì la Lega Nord, dove confluirono Lega lombarda, Lega emiliano-romagnola, Alleanza toscana,Union ligure, Liga veneta e Piemont autonomista. All’inizio deglianni Novanta, sotto la spinta della crisi dei partiti tradizionali, il leader della Lega lombarda Umberto Bossi propose la «unione di piùmovimenti in un’unico strumento politico capace di vincere» - unprogetto che si attuerà attraverso il riassorbimento nella Lega N ord(al congresso del febbraio 1991) di varie formazioni autonomistecon lunga esperienza alle spalle (come il Movimento del Friuli). D opo le elezioni amministrative del 1990 si completò, inoltre, il pas

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saggio dalla «spontaneità organizzativa» al modello di partito dimassa, dotato di centri di coordinamento, commissioni studio, sezioni comunali e provinciali, e un giornale, «Lombardia autonomista», dotato di numerose redazioni locali. Accanto alla organizza

zione orizzontale, era prevista una struttura verticale distinta percomparti produttivi: Sindacato autonomista lavoratori (Sal), A ssociazione lombarda agricoltori (Ala), fino ad arrivare, nell’aprile1992, alla Unione culturale leghe italiane sportive (U c l i s ). Nacquero inoltre associazioni parallele, formalmente autonome, come ilSindacato autonomo lombardo e la Associazione di liberi imprenditori autonomisti o la Associazione lombarda agricoltori. L’ingres

so nelle istituzioni ha inoltre portato alla Lega Nord molti fuoriusciti dai vecchi partiti: sia dalle fila della De, oltre che dai seguaci diPino Rauti scontenti della segreteria Fini, che, in misura minore,dalla sinistra (per alcuni esempi, Pajetta 1994: capp. 2 e 3). Si è cominciato così a parlare di una nuova casta «dei sindaci e degli assessori, invitati di diritto a congressi e assemblee» (Pajetta 1994: 94).

Nonostante questi cambiamenti, comunque, la Lega Nord non

riuscirà a elaborare una struttura centralizzata. La presenza, tra icandidati delle Leghe, di esponenti di professioni caratterizzate daun forte legame con il territorio (artigiani, commercianti ma ancheprofessionisti) portò il rischio di una notabilizzazione (Segatti1992). Dal punto di vista organizzativo ciò ostacolò il processo dicentralizzazione, che del resto era già reso difficile dalla costituzione della Lega Nord attraverso l’inglobamento di realtà locali. Poche delle strutture di massa previste dagli statuti sembrano inoltre

avere avuto successo. Il seguito di massa alle manifestazioni è, inoltre, limitato. Come è stato osservato, «Certo nella Lega sopravvive,anzi rivive la militanza appassionata, ma dietro la schiera degli attivisti, invece dei classici simpatizzanti, appaiono direttamente glielettori» (Pajetta 1994: 94). Anche in questo caso, dunque, il mo-dello organizzativo del partito di massa, pur auspicato, non sembraavere funzionato nella pratica.

2. Nuove famiglie di movimenti sociali?

All’inizio degli anni Novanta, troviamo dei movimenti che, almeno stando alle loro dichiarazioni esplicite, rifiutano di farsi assimilare alla sinistra così come alla destra. A proposito del movimen

t ò

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to antimafia è stato notato, ad esempio, che, se negli anni immediatamente successivi alla guerra la mafia era stata considerata comeuno strumento per lo sfruttamento sociale dei contadini senza terra, il movimento antimafia contemporaneo non adopera invece unlinguaggio di classe. Negli anni Novanta, infatti, la mobilitazionecontro la mafia viene presentata come un impegno morale e civile,prima ancora che politico - «il pulito contro il corrotto» (J. e P.Schneider 1994). Il movimento insiste a definirsi come un’associazione di «liberi cittadini», non-confessionale e anti-dogmatica. Nona caso, il Coordinamento antimafia ha preferito riunirsi in sedi diclub sportivi invece che nelle sezioni del Pei, nonostante la maggior

parte dei suoi membri fosse vicino a quel partito. Come hanno rilevato due sociologi americani: «Nell’enfatizzare la loro indipendenza dai “sistemi di appartenenza”, gli attivisti dell’antimafia sonoespliciti nell’affermare che la lotta contro la mafia non esprime piùle politiche secolari e anticlericali dell’antagonismo di classe, comeal tempo della riforma terriera. Piuttosto che appellarsi alla solidarietà di classe, i leader dicono di rappresentare delle comunità» (J. e

P. Schneider 1994: 28). Anche i conflitti all’interno del movimentoantimafia non sono articolati sulle tematiche tradizionalmente collegate al continuum politico tra destra e sinistra, ma piuttosto alla «definizione dei confini tra bene e male», alla distinzione tra «puristi» enon. Il movimento antimafia ha infatti un accentuato carattere culturale, criticando quei valori che - come l’onore e l’omertà - essoconsidera come incentivi allo sviluppo di poteri esterni allo Stato5.

Anche le rivendicazioni del movimento degli studenti degli anni Novanta sono state definite «ambigue» dal punto di vista politico. Secondo un osservatore:

la richiesta degli studenti è, da una parte, rivolta all’autorealizzazione di sésul piano del sapere e quindi alla ricerca di una partecipazione al processoformativo in modo da non essere soltanto destinatari di informazioni maattori dell’autoformazione di se stessi [...] Ma, dall’altra parte, si pongonoanche richieste di tipo adattivo, di carriera, di specializzazione, di competenze, che rientrano nella «log ica del su ccesso ». (Barcellona 1991 :207-208 )

’ L’attenzione alle trasformazioni culturali è testimoniata, per fare un soloesempio, dalla pubblicazione, da parte del «Comitato dei lenzuoli», di Nove consigli scomodi al cittadino che vuole combattere la mafia, un documento in cui si insiste sulla necessità che i cittadini imparino a rivendicare i loro diritti contro loStato invece di chiedere favori, a educare i figli alla democrazia e al rispetto dellalegge, a denunciare le irregolarità sul lavoro e nei servizi alle autorità costituite.

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Il rapido declino della mobilitazione sarebbe derivato da un eccesso di pragmatismo: «il ’90 non fu troppo riformista, ma semmaipoco riformista - nel senso del proliferare delle proposte - in quanto gli mancava uno sguardo d’insieme» (Barcellona 1991: 209)6.

Persino i centri sociali giovanili, strumento di una controculturache troverà ampi spazi nel mercato soprattutto musicale, sarannodescritti come movimenti di «defezione», «irrappresentabili nelleforme date della politica» (Bascetta 1994: 17-19). Non a caso, molti dei militanti dei centri si dichiarano fortemente critici rispetto atutte le espressioni della sinistra, vecchia e nuova, accusata di tendenze alla normalizzazione, mentre uno degli slogan più gridati nei

cortei dei centri è «contro la mafia dei partiti, spazi sociali autogestiti».Un ulteriore esempio di un rifiuto di schierarsi lungo le tradi

zionali divisioni politiche si può trovare nella Rete che, sin dalla suafondazione, si è dichiarata «fuori e oltre» la distinzione tra destra esinistra. Nella sua prima uscita pubblica, il gruppo denuncerà:

Uno Stato costruito su antagonismi non più attuali. U no Sta to costrui

to sull’antifascismo in una realtà dove i pericoli di fascism o hanno, semprepiù, facce diverse da quelle tradizionalmente indicate come fasciste e sull’anticomunismo in una realtà dove il com unism o in crisi di identità non sipresenta più con un volto irriducibilmente alternativo. La vecchia centralità e i vecchi estremismi, le stesse collocazioni a destra e sinistra dello schieramento politico sui quali si è fondato il sistema politico di questo Stato perdono il loro significato: perdono quindi legittimazione le rendite di posizione fondate su antagonismi politici non più attuali. (Docum ento presentato il 27

agosto 1990 a un convegno dell’associazione cattolica «La Rosa Bianca»,corsivo mio)

Il «trasversalismo» del movimento verrà sottolineato in seguitonel manifesto costitutivo del gruppo, datato 24 gennaio 1991, dovela crisi della divisione sinistra-destra verrà esplicitamente ricollegata alla mutata situazione internazionale:

6 Dai «fratelli maggiori» il movimento degli studenti è stato, infatti, accusato di avere rinunciato a ogni prospettiva di «contestazione globale», limitandosi«ad esprimere, talora confusamente, una sorta di “bisogno di esistenza” [...] deltutto minimale e privo di prospettive politiche» (Curi 1991: 228-30), e di incapacità a «delineare un’analisi dei rapporti di produzione che vanno a sostituire lacentralità della fabbrica e l’organizzazione taylorista» (Colombo 1991: 220).

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Questa complessiva situazione si realizza nel contesto di rapporti internazionali profondamente mutati, che pongono all’ordine del giorno intutta Eu rop a il tema storico della dem ocrazia e che non giustificano più alcuna impunità politica in nome della vera o presunta difesa dal nemico

esterno. E si realizza nel quadro di un mutamento culturale che porta milioni di cittadini ad avvertire in profondità i limiti non più tollerabili imposti a ciascuno dal sistema delle appartenenze partitiche e la decadenzadei tradizionali schemi di divisione tra conservatori e progre ssisti7.

Ne consegue il tentativo di ricostruire la politica al di là di schieramenti considerati come precostituiti.

Un simile rifiuto di collocarsi nell’asse destra-sinistra è stato osservato, infine, anche in un altro movimento, emerso invece nelleregioni settentrionali del paese, la cui espressione politica più diretta sono state le Leghe. Proprio questi gruppi hanno infatti attaccato tutti i partiti, accusandoli di volere dividere artificiosamente ilpopolo del Nord (Biorcio 1991: 79). La Lega lombarda si è infattipresentata come diversa e alternativa alla politica tradizionale. Come è stato osservato, «Il “pubblico” della Lega lombarda si compone di persone provenienti da tutti i settori dello schieramento politico. Questo è ovviamente l’effetto della collocazione “trasversale” della Lega rispetto alla dimensione sinistra-destra, che le permette di attirare consensi da posizioni anche assai diverse e lontane» (Mannheimer 1991: 135-36). Questo trasversalismo coltivato èstato, infatti, per molto tempo una strategia vincente per ampliareil raggio del potenziale disponibile per la mobilitazione8.

Sia per la Rete che per la Lega la nuova discriminaríte politica,appunto trasversale rispetto alla destra e alla sinistra, è la divisionetra «onesti» e «disonesti». La Rete definisce i suoi principali obiet

7 Anche in seguito, il leader della Rete, Orlando, dirà: «Poco più di tre annifa - e sembra un secolo - è caduto il muro a Berlino. E ’ finito un mondo, il mondo di Yalta, il mondo dei blocchi contrapposti e delle appartenenze sterili. Il mon

do delle speranze congelate, delle ideologie ossificate, dei chiusi serragli di partito, di sindacato, di categoria» (Canteri 1993: 5).

8 Appaiono interessanti i seguenti dati. Tra coloro che simpatizzano per laLega, ma non hanno ancora deciso di votarla, il 9 per cento si autocolloca fra cen-tro-destra e destra, il 39 a sinistra, il 52 al centro; fra gli elettori, il 22 per cento siautocolloca fra centro-destra e destra, il 35 a sinistra, il 43 al centro (secondo unsondaggio condotto a Milano nel 1990); fra i militanti, il 48 per cento si colloca acentro-destra, il 21 a sinistra, il 31 al centro (secondo un sondaggio condotto inaprile-giugno 1989) (cit. in Mannheimer 1991: 136).

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tivi come il «recupero di condizioni di ordinaria legalità» e la costruzione di una «democrazia degli onesti». Nel manifesto di costituzione del movimento si legge, infatti:

Questo sistema, espressione nel dopoguerra delle libertà riconquistate, è diventato oggi una cap pa soffocante per le fondamentali libertà dei cittadini. È in atto al suo interno una combinazione di spinte antidemocratiche provenienti da oligarchie partitiche, da presenze crescenti di economia illegale e, in forme più brutali, dai poteri occulti e criminali mafiosi, che assaltano pressocché indisturbati lo Stato di diritto  [...] con rischi concreti di una suatrasformazione in vero e pro prio «regim e della corruzione» passan do per i

consecutivi gradini di un’unica scala di sopraffazione (dalla tangente allelobbies illegali al dominio mafioso). (Manifesto costitutivo del Movimentoper la democrazia - La Rete, corsivo mio)

Come scriverà il leader del gruppo, Leoluca Orlando, la Rete sicompone di

perso ne che lottano, hanno lottato, si impegnano a lottare per i diritti civi

li, per i diritti politici sociali, per i diritti politici traditi, a cominciare daquelli della partecipazione e della responsabilità di ognuno. Persone che sisono incontrate venendo da strade diverse e hanno deciso di percorrere insieme un tratto di cammino, con la consapevolezza che si pu ò e si deve costruire il futuro nel rispetto dei valori e nel segno della solidarietà, della p ace e dell’onestà. (Canteri 1993: 6)9

La Rete sottolinea, infatti, la necessità di trasformazioni nella

cultura, che possano incidere sulle caratteristiche della stessa democrazia. Uno dei suoi leader, Diego Novelli, dice a esempio delsuo gruppo: «Vogliamo mettere insieme idee e iniziative in modotrasversale, rompere le paratie stagne che separavano finora uomini con sentimenti e aspirazioni comuni. Ci misureremo sulle riforme istituzionali, a partire dall’opposizione al presidenzialismo; sui

9 In Parlamento, le proposte di riforma hanno rispecchiato questa aspirazione a fissare regole che possano contribuire alla trasparenza e al buongoverno, andando dall’abolizione della immunità parlamentare all’autonomia della magistratura, dalla riduzione del numero dei parlamentari alla più corta durata dellalegislatura, dalla limitazione del numero dei mandati alla revisione del bicameralismo, dal sistema di rappresentanza proporzionale articolato in piccoli collegiuninominali (per garantire un maggiore controllo degli elettori) alla elezione diretta dell’esecutivo, dall’autonomia impositiva al rafforzamento delle autonomieregionali.

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problemi della giustizia, del fisco, degli enti locali, dell’informazione. Al centro poniamo i valor^ dell’uomo» (in Canteri 1993: 48, corsivo mio).

Su questi temi la Rete si trova a competere proprio con la Lega.

Come riconosce lo stesso Orlando: «Non si può liquidare il fenomeno leghista con una battuta. Ci sono tantissimi elettori leghistiche stanno nella Lega sostanzialmente per le stesse ragioni per cuiè nata la Rete: questione morale, lotta alla partitocrazia, battagliaper il cambiamento» (in Canteri 1993: 89). Anche nel caso della Lega, infatti, il tema della emergenza morale ha soppiantato, all’iniziodegli anni Novanta, alcune tematiche inizialmente preferite, come

lo stesso federalismo - su cui il gruppo si era costituito - oltre chel’antimeridionalismo e il controllo della immigrazione - su cui essoera cresciuto alla fine degli anni Ottanta. I risultati di un sondaggiocondotto nel 1990 tra gli elettori della Lega sulle ragioni del voto algruppo indicano infatti che se il 26,3 per cento pensa che essa difenda la Lombardia da troppi immigrati e stranieri e il 21,9 definisce il Sud come un peso allo sviluppo della nostra economia, un benN--più alto 46,5 spiega il voto alla Lega come una protesta contro i politici e i partiti e l’80,7 lo considera principalmente uno strumentoper opporsi all’inefficienza e alla burocrazia di Roma (Mannheimer1991: 144). In uno studio sui percorsi di avvicinamento alla Lega èstato, inoltre, osservato che uno dei pochi punti in comune riscontrati nei profili multipli e disomogenei dei simpatizzanti è la sfiducia nei confronti delle istituzioni politiche e di governo (Diamanti1991).

Tornando alla nostra domanda iniziale, si potrebbe essere tentati di concludere che l’emergere di un tema trasversale, comune adiversi gruppi politici, indichi il costituirsi di nuove famiglie di movimenti sociali. Se si va però più a fondo nell’articolazione propriodel tema trasversale della lotta contro la corruzione e il malgoverno, e si confrontano i gruppi che abbiamo fin qui menzionato,emergono indizi della sopravvivenza della divisione destra-sinistra

anche per i movimenti degli anni Novanta. Il nuovo tema dell’emergenza morale è stato infatti declinato all’interno di discorsi piùcomplessivi, talvolta di «sinistra» e talaltra di «destra». Guardandodi nuovo alla Rete, si può rilevare che nel suo discorso sono frequentissimi gli esempi di collegamento negli schemi di riferimento- quello che il sociologo americano David Snow ha definito frame bridging (Snow et al. 1986) - fra il tema della democrazia degli one-

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sti e i temi più classici della sinistra, vecchia e nuova. Nel presentarsi ai suoi elettori, la Rete ha coniugato il bisogno di legalità conla difesa e attuazione dei principi e valori di pace, democrazia, li

bertà, uguaglianza e solidarietà, e anche con la protezione del diritto al lavoro, allo studio, alla salute, alla casa, alla qualità della vita.Soprattutto a partire dall’estate del 1993, la collocazione «a sinistra» della Rete diverrà sempre più esplicita: non a caso, sarà proprio la Rete a convocare, insieme ai Verdi, la prima riunione del «tavolo delle sinistre» nel gennaio 1994. Il questa fase la Rete si definirà, infatti, come «lievito culturale» di un polo progressista che do

veva candidarsi a governare sulla base di valori quali pace, ambiente, solidarietà, legalità, responsabilità. Come spiega Orlando, la Rete si colloca all’interno della «sinistra dei valori»:

Una presenza a termine; oggi è chiaro. Non più un tempo misurato inanni, ma un tempo misurato dall’obbiettivo della costituzione di un soggetto politico progressista, di quella sinistra dei valori che è altra cosa, addirittura alternativa rispetto ad angustie ideologiche e recinti d’apparato.

(Intervento introduttivo di Orlando alla terza assemblea nazionale; cit. inTotaro 1994: 280)

' Parallelamente, a proposito della Pantera, si può osservare che,nonostante la continua ricerca di un minimo comune denominato-re nell’opposizione alla riforma del ministro Ruberti, la mobilitazione si estenderà anche ad altri temi quali la legge Russo-Jervoli-

no sulla tossicodipendenza, il diritto di sciopero, il razzismo. Glistudenti stessi inquadreranno le loro rivendicazioni in un discorsopiù amplio di difesa dello stato sociale, del diritto allo studio e delle libertà democratiche (in particolare attraverso la richiesta di unmaggiore potere della componente studentesca e non docente nella gestione dell’università). Come hanno spiegato gli studenti in undocumento approvato dall’assemblea della facoltà di Statistica aRoma:

Un m ese di occupazione ha significato in primo luo go partecipazione,discussione e confronto, produzione di cultura, socializzazione. [...] Per laprima volta, forse, nella nostra facoltà si è parlato di problemi sociali, dell’arbitrarietà espressa dal governo nell’app ogg io alla cosidde tta legge Jer-volino-Vassalli, di speculazione edilizia, dei problemi economici che investono noi giovani in quanto privi di qualsiasi forma di salario, e degli enormi problem i vissuti dai fuorisede. (Taviani e Vedovati 1991: 237)

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È inoltre significativo il fatto che, se gli studenti avevano rifiutato inizialmente di schierarsi, difendendo la loro indipendenza daipartiti politici, essi si erano comunque ben presto trovati a fianco

come alleati i giovani comunisti della Fgci e si erano dovuti invecescontrare con l’opposizione dei cattolici del Movimento popolare(Segatti 1992a). Anche dopo l’ondata di occupazioni nelle università, gli studenti della Pantera si rimobiliteranno, infatti, all’internodi uno schieramento di sinistra in occasione sia dello scandalo Gladio che della Guerra del Golfo. Perfino i centri sociali, spesso mobilitati accanto agli studenti della Pantera, si richiameranno nei mo

menti critici all’alleanza della sinistra.Se questi movimenti possono essere considerati come parte della famiglia della sinistra libertaria, diversa è apparsa invece, sin dall’inizio, la potenziale collocazione della Lega. Sin dal loro emergere - e seppure con variazioni rilevanti - le Leghe hanno elaboratouna identità etnica. In Veneto, la Liga ha adottato un’idea di territorio di tipo etno-regionale e ascrittivo, presentando il Veneto come una «nazione europea», e rivendicando l’autonomia se non l’indipendenza. La Lega lombarda ha proposto invece una definizionedi identità dove il territorio viene presentato non come nazione, macome base di comuni interessi contro l’inefficienza dello Stato centralista, della «Roma ladrona»: la Lombardia dei produttori e deilavoratori contro lo Stato dissipatore e il Sud assistito. Mentre perle Leghe veneta e piemontese la definizione delle etnie era ascritti-va, per la Lega lombarda invece essa era inclusiva ed elettiva: sin

dalla bozza programmatica del 1983 si affermava, infatti, che «vanno considerati lombardi a tutti gli effetti coloro che risiedono nellaregione da almeno cinque anni» (Diamanti 1993: 60). In entrambii casi, si è prestata attenzione all’elemento culturale: ad esempio, valori come religiosità, laboriosità e volontariato sono stati definiti come parte di un patrimonio genetico del «popolo veneto» così comedella «cultura lombarda del lavoro».

Man mano che l’organizzazione si è consolidata, anche le proposte sono divenute, comunque, più politiche. Nel 1989, il primocongresso della Lega Nord ha sanzionato l’abbandono definitivodella valorizzazione del dialetto, con l’allargamento del riferimentodal popolo lombardo al popolo delle regioni padano-alpine, definite come «comunità multiregionali della stessa cultura» (De Luna1994:55). Lo stesso federalismo viene definito come una scelta nonideologica: «Il federalismo non è un’ideologia. L’ideologia, infatti

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[...] propone il paradiso per il futuro [...]. Il federalismo si basa suuna filosofia antiideologica» («Lega Nord», in Donegà 1994: 89).Le rivendicazioni concrete rispecchiavano infatti le insoddisfazionidella popolazione locale. All’inizio della sua storia, tra il 1981 e il1983, la Liga veneta aveva lanciato iniziative contro il confino, i disservizi della pubblica amministrazione, per la tutela del lavoro edell’impresa nella regione. Gli slogan destinati a rinfocolare lo spirito di comunità contro l’esterno si concentravano sulla necessità diautodifesa e autotutela del Veneto; il rifiuto di distribuire «soldi veneti a chi non vuole lavorare», la richiesta di rinnovare l’amministrazione con personale veneto, l’introduzione di un marchio vene

to d’origine controllata (da «Mondo Veneto», in Diamanti 1993:53). Dalla Lega lombarda l’autonomia era presentata soprattuttocome mezzo per affrontare i problemi concreti: «Autonomia regionale significa anche: Lombardia zona franca, servizio di leva in regione, precedenza dei lombardi nei concorsi pubblici in Lombardia, tasse gestite dalla regione, pensionamento su base regionale»(Diamanti 1993: 58). Nel programma del 1990 si parla di Stato fe

derale e autogoverno della Lombardia, aggiungendo rivendicazioni specifiche come il pensionamento su base regionale, la tassazione uguale per tutte le regioni, tasse lombarde controllate dalla Lom bardia, scuola e pubblica amministrazione in mano ai lombardi,precedenza ai lombardi in assistenza, casa, lavoro ecc. La stessaproposta leghista delle tre macro-regioni sarà giustificata pragmáticamente come necessità di delineare territori capaci di autoammi-

nistrarsi.Se la sua principale identità è di tipo etnico e federalista, la L ega è stata comunque considerata, per diverse ragioni, come un movimento di destra. In primo luogo, molti hanno sottolineato l’utilizzazione, almeno per una lunga fase, di un discorso fondamentalmente razzista contro gli immigrati extra-comunitari. La già descritta struttura organizzativa del movimento, ruotante attorno allaleadership «carismatica» di Umberto Bossi, è sembrata inoltre innetto contrasto con quella tipica dei movimenti della sinistra libertaria e più simile, invece, a quella delle loro controparti alla destradello schieramento politico. A fare pensare alla Lega come nuovoattore di destra, c’è infine la sua immagine - e autoimmagine - come forza neoliberista, che difende il mercato dallo Stato corruttoreed «esattore scriteriato». Dopo avere dato il proprio sostegno alleinchieste giudiziarie come ai referendum istituzionali, una volta en

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trata nel governo nazionale, nella primavera del 1994, la Lega si èpresentata come partito del rinnovamento, accentuando i toni neoliberisti, la propensione verso l’intervento privato e il parallelo rifiuto dell’intervento pubblico. Non a caso, essa ha proposto una se

parazione tra sfera individuale (e religiosa) e sfera politica, criticando il sostegno dato alla De dalla «Chiesa secolare». Dai rappresentanti eletti nelle liste della Lega sono venute proposte quali laprivatizzazione di ospedali, asili e scuole; l ’abolizione dell’lNPS, unita a un taglio ai contributi per permettere la stipula di polizze private; il blocco degli investimenti «clientelari» al Sud e il taglio di unmilione di addetti nell’impiego pubblico. Al welfare state si è con

trapposta la welfare society, «strano comunitarismo di base, fatto diasili nido, di caseggiato, ospedalizzazione domiciliare [...]» (Pajet-ta 1994: 87). Lo slogan che unisce neoliberismo e lotta alla corruzione, indicando l’obiettivo del ritorno allo «Stato minimo», è «p oco Stato e poche risorse da fare amministrare a politici disonesti»(De Luna 1994: 53).

Da un certo punto di vista, si potrebbe quindi pensare che l’evoluzione delle nuove forme di protesta non sarà il superamentodella vecchia frattura tra sinistra e destra, ma piuttosto la creazione, nel settore dei movimenti sociali, di una nuova «nuova sinistra»e di nuova «nuova destra». Questo scenario appare anche più probabile se si guarda alla struttura della cultura politica più in generale. Se un temporaneo indebolimento delle identificazioni sull’asse destra-sinistra è un inevitabile riflesso a Ovest delle rivoluzionidell’89 a Est, sia la sinistra che la destra si mostrano però ben at

trezzate per sopravvivere a questa crisi. Non solo infatti il sistemadei partiti crmtinua a essere strutturato principalmente lungo la divisione destra-sinistra, ma anche l’opinione pubblica sembra trovare quelle''identificazioni come piuttosto congeniali (Fuchs e Klin-gemann 1990). Per quanto riguarda alcuni movimenti sociali emergenti, si può dunque pensare che il rifiuto di allinearsi sia una scelta temporanea e tattica, legata alla delegittimazione del sistema dei

partiti. In primo luogo, alcuni temi sollevati sembrano legati aemergenze temporali - così la stessa Rete ha fatto presente, già nelsuo manifesto costitutivo, che «Il movimento si propone comeesperienza valida per il tempo necessario alla risoluzione della gravissima crisi politica, istituzionale e morale che pesa sul futuro delpaese» (corsivo mio). In secondo luogo, si può ricordare che moltidi quei movimenti che si erano inizialmente presentati come apoli

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tici, siano poi stati «forzati» a collocarsi sull’asse destra-sinistra dalbisogno di trovare degli alleati che potevano offrire loro sia risorsemateriali necessarie alla mobilitazione che canali di accesso alle istituzioni. Più complesso è invece il discorso per quanto riguarda lacollocazione delle formazioni a base etnica. Bisogna infatti dire che,seppure in una fase la sua partecipazione nel governo nazionale insieme a Forza Italia e Alleanza nazionale abbia potuto favorire unasua evoluzione «a destra», la Lega si è mostrata però come moltoflessibile - un «grande camaleonte» - e pronta ad alleanze di tipodiverso. Se le scelte amministrative nei 127 comuni (tra cui città dinotevoli dimensioni come Vercelli, Novara, Alessandria, Pavia, Va

rese, Lecco e Monza, oltre naturalmente a Milano) nei quali, all’inizio del 1994, la Lega era al governo sono state varie, non sonomancati, inoltre, i riferimenti ai temi dei movimenti della sinistra libertaria, in particolare alla difesa dell’ambiente. Non è quindiescluso che anche la Lega possa temporaneamente allearsi con lavecchia sinistra e con i nuovi movimenti collettivi, come il ruolo attivo della organizzazione nella caduta del governo di destra sembra

testimoniare.

3. Ancora un decennio di violenze?

A prescindere dal numero e dal tipo di famiglie politiche che siaffermeranno nel corso degli anni, un’ulteriore questione riguarda

le forme di protesta che esse adotteranno e, in particolare, le probabilità di nuove spirali di violenza. Più di una volta, infatti, i resoconti giornalistici su recenti episodi di protesta hanno rievocato laviolenza degli anni Settanta, mentre alcune condizioni che avevanoin passato favorito la radicalizzazione sembrano ripresentarsi a distanza di venti anni.

A favore di un’ipotesi del riprodursi della violenza si potrebbero citare vari fenomeni di tipo ciclico. Per definizione «dirompente», la protesta si basa su forme d ’azione spesso illegali, seppure nonnecessariamente violente. Inventate nel corso di cicli di protesta, diverse forme di azione collettiva si sono a poco a poco istituzionalizzate, entrando a fare parte del repertorio dell’azione collettiva.Prima di istituzionalizzarsi, però, i nuovi repertori hanno spesso incontrato reazioni «dure», che hanno avviato processi di radicalizzazione. Ma non solo questo: i sistemi politici tendono a essere ini

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zialmente chiusi rispetto ai nuovi attori, rappresentanti di interessiemergenti e non ancora riconosciuti. A questo proposito, si potrebbe citare il fatto che, soprattutto nei tempi più recenti, la Legaè stata infatti rappresentata come il «villano» della politica italiana,ruolo un tempo riservato ai movimenti della sinistra libertaria. Forme di protesta utilizzate dalla Lega - in passato, l’invito al boicottaggio dei Buoni ordinari del tesoro o l’organizzazione di consultazioni elettorali «parallele» in alcune città; più di recente la convocazione di un «parlamento del Nord» - sono state definite come pericolosi attacchi alla democrazia. Da una stampa, in Italia come altrove, alla ricerca di notizie scandalistiche, alcuni momenti di ten

sione tra gli attivisti della Lega e rappresentanti di altri partiti sonostati accostati alla violenza degli anni Settanta10.

Ancora una dinamica ciclica che potrebbe portare a nuove spirali di violenza è quella legata alle periodiche crisi economiche. Iperiodi di crisi economica sono stati spesso associati a manifestazioni di violenza, come disperata difesa di alcuni vantaggi materiali ottenuti nei periodi di benessere. In queste fasi, se atteggiamenti

negoziali da parte del governo possono deradicalizzare i conflitti, lascorciatoia della repressione produce invece - come si è visto neglianni Settanta in Italia - violenza, con risultati che possono diventare esplosivi se i militanti dei gruppi radicali trovano dei seguaci frai ceti impoveriti da una difficile congiuntura. Si può a questo proposito ricordare che gli anni Novanta si aprono, come già gli anniSettanta, con una crisi economica: non a caso - ancora restando alle immagini presentate dalla stampa - il fantasma degli anni Settanta è stato evocato anche in occasione di/una ondata di scioperiche ha seguito i provvedimenti dei governi presieduti da GiulianoAmato e Carlo Azeglio Ciampi, volti a ridurre il deficit pubblico ea fronteggiare la crisi economica. Per fare un esempio, a propositodi una manifestazione tenutasi a Roma il 2 ottobre 1992, il quotidiano «L a Repubblica» titolava in prima pagina: «Battaglia a Roma.Gli “autonomi” assaltano il corteo del sindacato. Sessanta feriti,

. 110 Più o meno il ritornò del fantasma degli anni del terrorismo ha rappre

sentato, nella cronaca dei giornali, il morso del cane di un attivista leghista a unconsigliere comunale milanese durante un raduno di protesta organizzato dallaLega nel 1992, o, nel 1995, i fischi e le monetine tirati da attivisti di Lega e Rifondazione comunista contro esponenti di Forza Italia che cercavano di entrare nelcorteo di commemorazione del 25 aprile a Milano.

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cento “fermati”». Nello stesso numero del giornale si leggeva anche: «Stavolta non è più una metafora, ma una battaglia vera, conferiti che si contano a decine, sette arrestati e un centinaio di fermati, e gente che alla fine piange non per i lacrimogeni ma perchènon sa più a quali bandiere affidarsi [...]. Sono i tanto temuti eredideU’Autonomia operaia che avvelenò gli anni di piombo?» (p. 2).Simili reazioni hanno prodotto, inoltre, alcune manifestazioni deicentri sociali. Tra il 1987 e il 1988 un’ondata di «okkupazioni», come le definivano i protagonisti, fu seguita da denunce e perquisizioni, spesso presentate dalla stampa come un «ritorno dell’Auto-nomia». La stessa forma d’azione principale del movimento giova

nile, l’occupazione di spazi in disuso da trasformare in «zone temporaneamente autonome», ha portato i giovani dei centri ad alcuniscontri con le autorità e la polizia, inviata a eseguire mandati disgombero (come è avvenuto nella famosa vicenda del Leoncavallodi Milano, evacuato nel 1989 e poi nel 1994).

Se si sono dunque innescate delle dinamiche di conflitto quasirituale, ciò non ha portato però che a sporadici episodi di violenza,

che non bastano per accomunare gli anni Novanta agli anni Settanta. Le dinamiche cicliche vanno infatti combinate con dinamiche ditrend, che in Italia indicano l’apprendimento di meccanismi di deescalation sia da parte dei movimenti che da parte delle istituzioni.Nel corso del ciclo di protesta iniziato negli anni Sessanta, l’esperienza storica ancora recente con il regime fascista si rispecchiò inuna limitata fiducia nel rispetto delle regole democratiche sia da

parte dei movimenti che da parte dei partiti al governo, dando luogo così a spirali di repressione e violenza. Durante l’evoluzione deimovimenti della famiglia della sinistra libertaria, però, si è avuto inItalia un progressivo consolidamento della democrazia. Alla spirale di radicalizzazione è così seguito un benefico processo di apprendimento, sfociato nella diffusione di forme d’azione nonviolenta e di un controllo tollerante della protesta. Negli anni Ottanta, quindi, nuove tattiche sembrano essere entrate nel normale repertorio di azione collettiva - utilizzato non più solo dai «rivoluzionari» ma anche dai «norm ali» cittadini. Se guardiamo alle formedi protesta prevalenti nei primi anni Novanta, possiamo trovarvimolti indizi che sembrano confermare - nonostante le già esaminate eccezioni - questa tendenza verso la moderazione strategica. Unodegli elementi più importanti dei repertori degli anni Novanta è stata, infatti, la nonviolenza, invocata da tutti i movimenti della sini

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stra. Se la Rete considera tra i suoi compiti l’educazione alla pace ealla nonviolenza, a proposito del movimento della Pantera è statoosservato che: «Vuoi per convinzione vuoi per opportunità, tutte lesue componenti, anche le più radicali [...] non hanno mai fatto venire meno il carattere pacifico e nonviolento della mobilitazione»(Taviani e Vedovati 1991: 254). Assolutamente pacifiche sono stateanche le numerose campagne, da quella contro la mafia a quellacontro l’intervento armato in Irak.

Il «potenziale di notiziabilità», che in passato era legato-soprat-tutto all’uso di repertori violenti, viene adesso mantenuto attraverso l’alta teatralità e una frequente innovazione nei repertori sim bo

lici. I movimenti degli anni Novanta, infatti, come movimenti in unasocietà fortemente mediatica, investono molto sulle relazioni con imezzi di comunicazione di massa. Per citare un caso per tutti, alla«piccola» Pantera, definita come movimento «contro» gli anni Ottanta, è stata riconosciuta una grande «dimestichezza con i media el’alta tecnologia, padronanza dei linguaggi delle comunicazioni dimassa, in primo luogo quello pubblicitario, capacità di fungere da

modello di precipitazione per tutte le sottoculture giovanili» (Colombo 1991: 223-24). I movimenti degli anni Novanta hanno infatti ampliato l’uso di repertori altamente simbolici che affidano il loro effetto a innovazione, capacità di generare solidarietà o potenziale emotivo. Mentre mezzo e fine tendono ad avvicinarsi, vengono elaborati moduli di protesta che devono servire al contempo asensibilizzare e informare, ma anche dimostrare una partecipazio

ne intensa, «praticando» l’obiettivo da raggiungere. Prendiamo come illustrazione di questi nuovi elementi il movimento antimafia.Nel corso del 1992 la mobilitazione contro la mafia si è espressa inbuona misura attraverso azioni dimostrative con un’alta capacità dirappresentare simbolicamente l’obiettivo da raggiungere, come, adesempio, i falò di armi giocattolo. Altre azioni, quali le lenzuolabianche appese alle finestre delle case, hanno avuto un valore di testimonianza, il cui peso simbolico è accresciuto, nell’esempio cita

to, dall’importanza del lenzuolo, parte del corredo della sposa, nella cultura locale. Reazioni emotivamente intense producono le fiaccolate (come l’annuale dimostrazione a lume di candela nell’anniversario dell’uccisione del generale Dalla Chiesa); le catene umane(come quella che, formata da diecimila cittadini, ha unito l’appartamento del giudice Giovanni Falcone al Palazzo di giustizia, a unmese dalla strage di Capaci); o ancora le veglie con gli attivisti che

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portano al collo cartelli con i nomi degli uccisi dalla mafia, o i presepi costruiti con i ritratti di altre vittime della criminalità organizzata. Funzioni di denuncia e, al contempo, di rafforzamento dellasolidarietà, assumono simboli come l’albero piantato davanti alla

casa del giudice Falcone, dove i cittadini appendono bigliettinicontenenti riflessioni e proteste. In tutte queste azioni, l’espressione di coinvolgimento individuale è prioritaria rispetto alla manifestazione di forza che prevale invece in forme d’azione basate sulgrande numero.

Non a caso, per prendere un esempio diverso, anche per quanto riguarda la Lega, è stato spesso sottolineato l’uso abbondante di

azioni simboliche, su cui costruire una identità lombarda di per sédebole (Ruzza e Schmidtke 1992). A creare un senso di appartenenza etnico (e organizzativo) servivano, ad esempio, l ’elaborazione di un particolare linguaggio (le espressioni «rudi», opposte al«politichese») o le iniziative all’apparenza folkloristiche come ilgiuramento di Pontida11. Una simile funzione aveva avuto, già perla Liga veneta la

propaganda «informale» o «semiformale» svolta attraverso manifesti e volantini scritti in dialetto, con il pennarello; il contatto diretto, il quale avviene durante una m olteplicità di iniziative di poch e pretese, centrate su temi molto specifici, legati a prob lemi molto sentiti dalla popo lazion e e pres-socché rim ossi dal dibattito nelle sedi ufficiali: la presenza di m alavitosi inconfino; il crescente prelievo fiscale dello S tato; l’inefficienza della pub blica amministrazione ecc. (Diamanti 1992: 234)

Oltre che con le azioni simboliche, l ’attenzione dei media vienecomunque conquistata anche attraverso forme d’azione più tradizionali, dalla pressione sull’amministrazione alla partecipazione alle elezioni. La crisi dei partiti, di cui si è già detto, ha infatti favorito le affermazioni elettorali dei partiti nati nei movimenti, sia della

11 È stato osservato che, con azioni come il giuramento di Pontida, la Legaha anche accresciuto il suo potenziale di notiziabilità. Come ha scritto Mazzoleni: «Certamente l’affidare ad organi esterni il compito di informare e di formarel’opinione pubblica e il potenziale elettorato sulle proprie idealità comporta il rischio della distorsione se non addirittura l’interpretazione ostile delle stesse. È unrischio che possono benissimo sostenere movimenti e formazioni politiche ancora nella fase “carismatica” , che si accompagna necessariamente a forte emotività, \ a confrontazioni drammatiche con altre forze e gli stessi media, all’irriducibilitàdelle posizioni o alle esasperazioni linguistiche» (Mazzoleni 1992: 302).

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Rete sia della Lega. Al culmine del suo successo, alle elezioni regionali del 1991 la Rete ottenne complessivamente il 7,3 per cento(e ben il 25,8 a Palermo); alle elezioni politiche dell’anno successi

vo, 728.661 voti alla camera (solo 1’ 1,9 a livello nazionale, ma un alto 9,9 in Sicilia), conquistando dodici seggi alla Camera e tre al Senato. A livello locale, i risultati del 1991 furono migliorati ancoranelle elezioni del novembre 1993, quando la Rete ottenne a Palermo il 32,6 per cento dei suffragi e Orlando venne eletto sindaco conun plebiscitario 75,2 per cento. Nelle elezioni politiche del marzo1994, la Rete manterrà il suo 1,9 per cento, conquistando nove seg

gi alla Camera e sei al Senato.Per quanto riguarda le Leghe, sin dall’inizio degli anni Ottantale liste autonomiste avevano tentato la strada elettorale. Su pressione del leader storico della Union valdotaine (Uv), Bruno Salvadori,la Società filologica veneta aveva presentato un proprio candidatoalle elezioni europee del 1979 nelle liste di quel partito, ottenendo8 mila preferenze. Nel gennaio 1980, la Società filologica diede vita alla Liga veneta che partecipò alle elezioni regionali dello stesso

anno, ottenendo 14 mila voti. Sarà comunque dopo qualche annoche la strategia elettorale riscuoterà maggiori successi: il 4,2 percento dei voti in Veneto nel 1983 (con la elezione di un deputato eun senatore), un deputato e un senatore eletti dalla Lega lombardanelle elezioni del 1987, un 4 per cento (diviso fra due liste) in Piemonte alle stesse elezioni. Alle elezioni politiche del 1992, la LegaNord ha ottenuto ben l’8,8 per cento a livello nazionale (e addirit

tura il 23 in Lombardia, divenendo primo o secondo partito in molte grandi città del Nord) guadagnando 80 seggi in Parlamento. Successivamente, questo risultato è stato confermato alle politiche delmarzo 1994, dove la Lega ha ricevuto l’8,4 per cento dei voti di lista alla Camera dei deputati e il 6 per cento dei seggi proporzionali al Senato, conquistando 117 seggi alla Camera e 60 al Senato.Concludendo, una straordinaria «apertura» del sistema delle op

portunità politiche - di fronte al terremoto elettorale iniziato nel1992 - ha quindi rafforzato la tendenza di alcune organizzazioni nate aH’interno di movimenti collettivi a trasformarsi in partiti semprepiù «tradizionali».

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4. La protesta nelle istituzioni? Una spiegazione

Fin qui abbiamo presentato alcuni scenari possibili, argomentando a favore di alcune ipotesi. Proporremo adesso delle spiega

zioni per le caratteristiche osservate guardando, come abbiamo fatto in precedenza, sia alle trasformazioni sociali che a quelle di tipopiù prettamente politico.

4 .1 . Nuovi cleavages?

Se guardiamo alle caratteristiche della società, negli anni Novanta come in precedenza, vi sono state tendenze contrapposte aconsiderare il fenomeno dei movimenti collettivi come, di volta involta, espressione di residui del passato o anticipazione del futuro.Permane, innanzitutto, una spiegazione in termini di squilibri legati al mutamento sociale ed economico. Secondo alcuni osservatori,ad esempio, la principale caratteristica della Lega è il suo populismo-.

Il successo della Le ga come nuovo attore politico popolare-subcultu-rale - ha scritto Rob erto Biorcio (1991: 70-71) - pu ò essere letto in questaprospettiva come la versione italiana di quella che è stata definita la «rinascita del po pu lism o» in Eu rop a. U na serie di movimenti politici emersi nell’ultimo decennio - e legati alle figure di Slobo dan M ilosevic, Bo ris Eltsin,Jean-M arie Le Pen e (negli ultimi anni) Lech Walesa - sembrano p resentare al di là delle grandi differenze delle situazioni nazionali, una serie di

tratti in comune: la rottura dei co dici simbolici tipici delle ideo logie e delle forme p olitiche tradizionali, l’appello al «sen so com une» co ntro politici f e intellettuali, il ritorno alle tradizioni comunitarie «autentiche» e il riferimento a personalità carismatiche. Q uesto tipo di fenomeno sembra emergere in relazione a una situazione in cui esistono, da un lato, una serie diinquietudini, incertezze e paure diffuse a livello sociale, dall’altro una crisi profonda delle forme di rappresentanza politica esistenti. Nella Legalom barda si ritrovano tutti i caratteri tipici dei movimenti po pulisti classi

ci. Questi rappre sentano infatti formazioni politiche in cui mancano in genere una elaborazione teorica organica e che fanno semplicemente riferimento al «popolo» come unità sociale omogenea e sede esclusiva di valoripositivi e permanenti.

Dopo una fase caratterizzata da una logica di tipo etno-nazio-nalista - con il tentativo di costruire una identità collettiva fondata

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sul riferimento alla cultura lombarda - si sarebbe avviata infatti unafase connotata invece da antistatalismo e antimeridionalismo, finoa giungere a una logica d’azione populista che «contrappone infat

ti il ‘popolo lom bardo’ (laddove in questo caso prevale nettamenteil primo termine rispetto al secondo) alle classi dirigenti globalmente intese, e globalmente individuate come responsabili dellosfascio del sistema e delle vessazioni operate ai danni dei ceti medio-bassi» (Melucci e Diani 1992: 170)12.

11 fenomeno delle Leghe è stato, comunque, collegato anche alrafforzamento della posizione sociale ed economica di nuovi cetiproduttivi. Già nella storia della Liga Veneta era stato osservato ilsuo radicamento in comuni di medie dimensioni delle aree industrializzate a forte subcultura bianca, soprattutto nelle zone caratterizzate da «base industriale molto estesa sotto il profilo degli addetti, diffusa sotto il profilo del tessuto aziendale, redditiva e in crescita dal punto di vista del mercato» (Diamanti 1993:38). Non è uncaso, si osserva, se il seguito elettorale delle Leghe è particolarmente consistente - al punto da fare parlare di una nuova subcul

tura territoriale - nelle aree a economia periferica della «terza Italia», fra un elettorato di operai e piccoli imprenditori. Le originidella Lega sono state infatti collocate nella frustrazione di cetiemergenti, che vedevano accrescere il proprio status ma non il proprio potere politico. La crisi economica e fiscale avrebbe aggravatoil sentimento di privazione relativa diffuso in questi strati. In Veneto, lo scontento sarebbe stato accentuato dalla presenza di trasferi

menti fiscali dello Stato inferiori rispetto ad altre regioni del Centro-Nord. All’inizio degli anni Novanta, la maggiore pressione fiscale conseguente ai tentativi di frenare la crescita del debito pubblico avrebbe provocato la protesta di quei gruppi sociali che erano abituati a un prelievo limitato. Il successo delle Leghe sarebbe,quindi, venuto dalla loro capacità dLtappresentare le nuove figuresociali dell’economia diffusa, cioè quegli strati sociali rafforzatisinegli anni Ottanta all’esterno del modello solidaristico ed egualitario che aveva prevalso negli anni Settanta. Esse avrebbero organizzato l’insoddisfazione di aree e gruppi economicamente e socialmente centrali, ma politicamente periferici. Come ha osservato Ilvo Diamanti (1993: 12): «La secolarizzazione, la crisi delle ideolo-

\

12 II neopopulismo si sarebbe dimostrato, infatti, una strategia retorica piùvantaggiosa dell’etno-nazionalismo (Diani 1995).

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gie e delle organizzazioni ispirate ad esse, erodono i tradizionali sistemi di riconoscimento e di solidarietà e provocano l’allentamento delle tradizionali ‘fedeltà partitiche’ che ancora negli anni Ottanta caratterizzavano la maggior parte dei cittadini italiani». Il lo

calismo enfatizzato nei discorsi delle Leghe è stato visto come un’espressione, peraltro non solo italiana, di crisi dello Stato nazionale,di fronte alla globalizzazione dei mercati. In questo senso, il leghismo avrebbe rappresentato la ostilità verso un pilastro dello sviluppo della società europea moderna: la dialettica nazione-classe.

Anche per quanto riguarda la Rete, la crescita del gruppo potrebbe essere interpretata come una resistenza a fenomeni di tra

sformazione sociale - dal processo di laicizzazione alla crisi economica - oltre che come reazione difensiva del Mezzogiorno rispettoalle rivendicazioni autonomiste delle Leghe. Similitudini tra i percorsi di Rete e Lega sono state spesso osservate: sia la Lega che laRete rappresenterebbero la mobilitazione della periferia, in un’azione etico-simbolica, attraverso l’appello ai sentimenti popolari, ela personalizzazione del movimento e del suo avversario (Manconi

1990b); entrambe esprimerebbero inoltre la tradizione religiosa locale «dal cattolicesimo con venature anti-Stato tipico del Nord aquello dei santi taumaturghi proprio del Meridione» (Magister1993: 57). Come le Leghe, comunque, anche la Rete potrebbe essere analizzata, in termini non di reazione di ceti tradizionali, ma di diffusione di valori post-moderni. L’enfasi sulla comunità contro il mercato e la ricerca di conquiste spirituali invece che materiali sono infatti, come abbiamo già osservato, caratteristiche di un nuovo siste

ma di valori, tipico di una generazione che non ha vissuto le privazioni materiali delle grandi depressioni economiche e della guerra.

Le spiegazioni in termini di classi sociali o generazioni non sono però pienamente soddisfacenti. Si può osservare, infatti, che neimovimenti collettivi degli anni Novanta vari gruppi sociali sonocompresenti, talvolta con conflitti interni. Se i nuovi movimenti dovrebbero rappresentare le classi medie in ascesa - in particolare, le

classi medie dei servizi - un movimento come quello contro la mafia presenta più volti: dagli intellettuali ai marginali. La presenza deiceti emergenti non è inoltre sufficiente a sostenere l’ipotesi dei movimenti come espressione di valori post-materialisti. A propositodella Lega si è anzi parlato di valori neo-materialisti - sottolineando l’attenzione agli aspetti economici.

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4.2. 7 movimenti e la crisi della prima repubblica

Per comprendere i connotati e le strategie dei movimenti socia

li degli anni Novanta, dobbiamo partire dalle trasformazioni intervenute nel sistema politico all’inizio del decennio. La generale crisi del sistema dei partiti, seguita agli avvenimenti che sono simbolicamente sintetizzati nel crollo del muro di Berlino, ha avuto unaparticolare drammaticità nel caso italiano, caratterizzato da elevatilivelli di malgoverno e corruzione politica (Della Porta 1992; DellaPorta e Mèny 1995). Venute meno le coperture ideologiche che ser

vivano a giustificare l’occupazione partitica della società, i partititradizionali in Italia sono letteralmente crollati, «aprendo» opportunità politiche per i movimenti. La (relativa) quiete degli anni Ottanta precedeva infatti una tempesta, che si sarebbe sviluppata soprattutto a partire dal 1992 (per una analisi di questo periodo,Braun 1995). Nel 1989 era stata suggellata un’alleanza - destinata apassare alla storia con il nome di « C a f » - tra Bettino Craxi, segretario del Psi, Giulio Andreotti, nuovo presidente del Consiglio, e

Arnaldo Forlani, neoeletto segretario della De. Questa alleanza doveva avviare una fase di «pacifica convivenza» tra Psi e De, dopo ifrequenti conflitti tra i due partiti durante la segreteria di CiriacoDe Mita. Mentre il crollo dei regimi del «socialismo reale» accelerava ulteriormente, a partire dal 1989, la crisi del Pei, un patto traPsi e De sembrò concludersi a partire dal reciproco riconoscimento di un ruolo «centrale» nel governo, e di una spartizione, ancora

più spregiudicata che in passatoi, dei posti di sottogoverno. La politica «decisionista» dei due governi Andreotti, che si susseguironotra il 1989 e il 1992, si manifestò nella rinuncia alla prassi passatadella ricerca di ampi accordi con l ’opposizione (rinuncia visibile, adesempio, nella formulazione della legge Mammì sulle telecomunicazioni, e della legge Martelli-Jervolino sulla droga). Il potere delC a f , rafforzato dal controllo di almeno due reti televisive pubbli

che su tre e dal sostegno dei tre network nazionali di proprietà diSilvio Berlusconi, sembrava all’inizio degli anni Ottanta ben saldo.A rafforzarlo ulteriormente contribuì, almeno apparentemente, lascissione, all’inizio del 1991, della minoranza comunista che nonaveva voluto seguire la maggioranza del Pei nella sua trasformazione in Partito democratico della sinistra (P d s ). Nel giro di poco tempo, comunque, l’immagine di onnipotenza che la coalizione di governo aveva voluto coltivare sfumò. Le polemiche politiche si ac

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centuarono dopo che, nell’autunno del 1989, era stato ritrovato, inun covo delle B r  , il memoriale scritto da Aldo Moro durante il suosequestro. Le rivelazioni lì contenute portarono, infatti, all’ammis

sione della esistenza, a partire dagli anni Cinquanta, di una formazione armata, chiamata Gladio, che addestrava militari e civili (fraloro, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga) a unaeventuale guerra civile. Al contempo, venivano al pettine i nodi diuno sviluppo che non aveva saputo risolvere alcuni problemi strutturali di una economia basata sulla conversione di materie primeimportate in prodotti da esportazione, con una scarsa presenza diindustrie ad alta tecnologia e un sistema finanziario debole. Mentrel’utilizzazione di risorse pubbliche a fini di mobilitazione del consenso continuava a far aumentare la spesa pubblica, il deficit pubblico portava a un continuo indebitamento. La gravità di questa situazione era resa più evidente dagli accordi di Maastricht, che fissavano per i paesi dell’Unione europea dei limiti massimi per il deficit pubblico (che non doveva superare il 60 per cento del prodotto interno lordo, mentre in Italia era addirittura superiore al 100

per cento) e per l’indebitamento annuo netto (che non avrebbe dovuto superare il 3 per cento, mentre in Italia andava oltre il 10 percento). La restrizione della spesa pubblica e l’inasprimento dellapressione fiscale, necessari per far fronte alla situazione, rischiavano però di ridurre ulteriormente le limitate risorse di sostegno dicui godeva il governo. Questa strada, intrapresa dai governi di Giuliano Amato e di Carlo Azeglio Ciampi, tra la metà del 1992 e l ’ini

zio del 1994, non riuscì inoltre a evitare la continua svalutazionedella lira e l’uscita della nostra moneta dallo Sme.

L’insoddisfazione dei cittadini rispetto al funzionamento delleistituzioni divenne visibile soprattutto con il referendum del giugnodel 1991 sul numero di preferenze esprimibili per i singoli candidati. Nonostante Psi e De si fossero espressi contro il quesito referendario, invitando i cittadini a non andare alle urne (in modo da

non raggiungere il quorum del 50 per cento necessario perché unaconsultazione referendaria sia considerata valida), il 62,5 per centodei cittadini si recò a votare nelle elezioni, e la riduzione delle preferenze da tre a una venne approvata con un plebiscitario 95,7 percento dei suffragi. Le elezioni politiche del 1992 confermarono l’indebolimento sia della De (che perse il 4,6 per cento) che del P si (cheaveva sperato di superare il P d s , e perse invece lo 0,7 dei suoi elettori). Sono state comunque le elezioni del marzo del 1994 a sancire

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0 crollo dei due partiti: mentre il Psi non superò il 2,2 per cento deisuffragi, il Partito popolare (Pp), nato dalle ceneri della De, si attestò all’11,1. Nel frattempo, nell’aprile del 1993, gli elettori si erano

espressi su nuovi quesiti referendari, abrogando tra l’altro i vincoliall’applicazione del sistema maggioritario alle elezioni per il Senato(con l’82,7 per cento) e il finanziamento pubblico ai partiti (con il90,3).

Il crollo elettorale dei vecchi partiti ha coinciso con lo scompaginamento organizzativo seguito alle indagini giudiziarie. Dal 1992in poi, infatti, un’ondata di scandali politici senza precedenti, in cui

sono stati coinvolti i maggiori partiti sia di maggioranza che di opposizione, ha fatto parlare di una inarrestabile «crisi di regime». Apartire da una serie di indagini su episodi di corruzione e concussione legati a numerosi organi del governo locale a Milano, un pooldi giudici milanesi era riuscito a poco a poco a svelare i meccanismidi un sistema basato su scambi occulti di tangenti per accesso privilegiato alle decisioni pubbliche. In seguito a una catena di confessioni di imprenditori e amministratori, le indagini si erano ben

presto ampliate al di là della regione lombarda, fino a investire il governo nazionale. Nel giugno del 1992, il neoeletto presidente dellaRepubblica Oscar Luigi Scalfaro, la cui immagine di rigore moraledoveva aiutare a rilegittimare le istituzioni già scosse dall’inizio delle indagini, aveva affidato l’incarico di formare il governo al socialista Giuliano Amato, il quale avrebbe dovuto impegnarsi in un programma di risanamento. Nell’aprile del 1993, Amato era però co

stretto alle dimissioni dopo che, coinvolti nelle indagini, avevano rinunciato alla loro carica i ministri Carlo Martelli, Giovanni Goria,Francesco De Lorenzo e Giorgio La Malfa. Le investigazioni giudiziarie non risparmiarono i leader dei partiti politici di governo, daBettino Craxi a Giulio Andreotti, da Gianni De Michelis ad Arnaldo Forlani.

Da questo punto di vista, si può dire che le mobilitazioni degli

anni Novanta rispecchiano l’acuirsi di quella insoddisfazione rispetto alla occupazione partitica della società civile che aveva, giànei decenni precedenti, spinto i movimenti a trovare spazi o nellasocietà o nel rapporto diretto con l’amministrazione pubblica -agendo come associazioni volontarie nel primo caso, come gruppidi pressione nel secondo. Gli anni Novanta rappresentano comunque anche un cambiamento rispetto al decennio precedente. Se negli anni Ottanta i movimenti avevano cercato di sottrarsi alla tutela

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dei sempre meno legittimati partiti, negli anni Novanta essi trovano gli spazi istituzionali aperti da una profonda crisi di legittimazione. Dal punto di vista del sistema delle opportunità politiche, siassiste cioè a un de-allineamento, che si rispecchia in un terremotoelettorale, i cui indizi si trovavano già nelle tre tornate elettorali del1989, e che diventerà poi inarrestabile a partire dalle elezioni politiche del 1992.

L’esitazione dei movimenti collettivi degli anni Novanta nel collocarsi sull’asse destra-sinistra può essere meglio spiegata a partiredalle trasformazioni nel sistema politico, più esattamente dal maturare di una tendenza in atto da un certo numero di anni. Se la poli

tica italiana nel secondo dopoguerra è stata caratterizzata da unaforte polarizzazione ideologica fra cattolici e comunisti, questa«anomalia» si è però progressivamente ridotta a partire dagli anniSettanta. Come mostrano gli studi elettorali, un indicatore della laicizzazione di entrambe le subculture - sia la cattolica che la comunista - è il progressivo ridursi, nel corso degli anni Ottanta, del peso di quello che è stato chiamato «voto di appartenenza», cioè del

voto per affiliazione ideologica (Sani e Segatti 1991). Come era stato previsto da alcuni osservatori (in particolare, Dahrendorf 1990),il crollo dei regimi del socialismo «reale» all’Est si è rispecchiato al-l’Ovest nella crisi del sistema dei partiti, che ha investito non solola sinistra, ma anche la destra.

Arriviamo così a una interpretazione più politica dei movimenti collettivi degli anni Novanta - interpretazione che potrebbe spie

gare meglio se non il loro emergere, almeno le loro scelte strategiche. Tornando ancora al leghismo, non si può dimenticare che essoè stato analizzato prevalentemente come effetto di una crisi dellasubcultura bianca. Da più parti le Leghe vengono definite come unfenomeno post-industriale, che segnala la crisi delle solidarietà politiche tradizionali fondate su fratture di classe o di religione. Nona caso, è stato osservato, la Lega lombarda ha mietuto i suoi primisuccessi elettorali nelle aree tradizionalmente bianche (Varese, Como, Sondrio, Bergamo), drenando dalla De la maggior parte deisuoi voti. Come ha notato Diamanti (1993), la piccola proprietàcontadina e la piccola impresa con struttura territoriale diffusa erastata sostenuta grazie a un’opera di mediazione (di servizi, regolazione ecc.) da parte della Chiesa, che aveva anche offerto legittimazione alla De. La secolarizzazione (con la riduzione della partecipazione associazionistica cattolica) aveva messo in crisi questo si

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stema di legittimazione, spingendo una parte della De a cercare disostituire al modello di integrazione^cattolica il doroteismo, cometutela particolaristica di interessi locali, presentandosi come me

diatore tra centro e periferia. Mentre entrano in crisi i valori tradizionali,7 \

lo stemperarsi dell’identità religiosa fa sì che orientamenti di valore tradizionalmente radicati, in queste aree, quali il localismo, il particolarismo fa-milista e individualista, la sfiducia verso lo Stato, riemergano in una formaautonoma, non più legata alla mediazione della Chiesa [...] La subcultura territoriale, in altri termini, tende a scindersi da quella cattolica e a per

dere, così, la connotazione «bianca». (Diamanti 1993: 46-47)

In maniera simile nel caso della Rete, le origini del gruppo all’interno del mondo cattolico potrebbero riflettere la crisi della gerarchia ecclesiastica e, in particolare, dell’unità politica dei cattolici, una strategia che tenderà a sfumare fino a scomparire nel corsodella prima metà degli anni Novanta con gli stravolgimenti legati alla dissoluzione della De. In una situazione di blocco del ricambio

generazionale della leadership partitica, i movimenti sembrano rappresentare anche un canale di rinnovamento dei quadri dirigenti.Non a caso, si è osservata la giovane età sia dei parlamentari dellaLega che dei suoi eletti nelle amministrazioni locali - con ben il 30per cento al di sotto dei 30 anni, dato superiore addirittura a quello dei Verdi. Ancora una volta in modo simile, l’età di attivisti edeletti della Rete riflette l’affermarsi di una nuova generazione.

4.3. La violenza razzista come contromovimento

Si può aggiungere che i movimenti degli anni Novanta si sonotrovati di fronte a un sistema politico delegittimato, ma aperto. Lereazioni ai movimenti sociali emergenti sono state infatti moderate.Anche se - come si è già detto - all’inizio la Lega aveva incontratouna stigmatizzazione dall’esterno, ciò aveva più che altro aiutato lacostruzione dell’identità del gruppo. La radicalizzazione era statacomunque solo verbale, e anche le proposte più estreme - come ilboicottaggio dei titoli di Stato o l ’obiezione fiscàle - non solo erano di tipo nonviolento, ma non vennero neanche attuate. Così, nonostante i suoi sindaci abbiano spesso lamentato il boicottaggio daparte della burocrazia e dei mass media, la Lega è riuscita a entra

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re nel governo nazionale, occupandovi ministeri importanti. Se piùviolenta è stata invece la reazione contro il movimento antimafia, icui attivisti hanno subito continue intimidazioni13, anche qui comunque la cultura non violenta del movimento è apparsa tanto ra

dicata da impedire una escalation, mentre il rapporto di fiducia conalmeno una parte della magistratura legittimava le istituzioni agliocchi degli attivisti, facendoli propendere per la collaborazione conle istituzioni piuttosto che per «il farsi giustizia da sé».

Per quanto riguarda le forze di polizia e magistratura, gli interventi repressivi riguarderanno prevalentemente i centri sociali autogestiti. In alcune situazioni l’intervento di polizia e carabinieri per

rendere esecutive ordinanze di sfratto sfocierà in scontri che benpresto assumeranno dinamiche quasi rituali. Se prendiamo adesempio il caso che ha avuto maggiore eco sulla stampa nazionale einternazionale, quello del centro sociale Leoncavallo di Milano, occupato dal 1976, vediamo che le scaramucce con le forze di poliziaescaleranno fino allo sgombro - eseguito con un massiccio intervento coercitivo - nel 1989. In quell’occasione accuse di brutalità

si incroceranno da entrambe le parti. Anche in questo caso, si puòcomunque osservare che entrambe le parti impareranno successivamente a evitare scontri violenti. Nonostante ancora momenti diescalation, in particolare nell’estate del 1994, il nuovo sgombro avverrà in maniera pacifica, e il lavoro di molti mediatori - inclusoPArcivescovado - sfocierà nell’assegnazione al centro sociale dinuovi locali. Già nel corso del processo contro gli occupanti «evacuati» nel 1989, del resto, erano chiaramente visibili gli indicatori

di un clima profondamente mutato rispetto al decennio dell’emergenza. Basti ricordare che il processo si concluse con alcune assoluzioni, richieste dallo stesso pubblico ministero, e con il riconoscimento agli imputati, da parte del collegio giudicante, della «circostanza attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valoremorale e sociale». Dopo che il presidente della Corte aveva chiestoe ottenuto di visitare i locali del Leoncavallo per rendersi conto di

persona delle attività che vi si svolgevano, i giudici riconobberol’importanza sociale dei centri:

13 Ad esempio, nel 1988, in una manifestazione di dipendenti comunali diPalermo in sciopero, vennero portate due bare vuote con scritto «sindaco» (mentre si gridava «la mafia da lavoro»); nel 1994 si è allungata la lista degli attentaticontro i sindaci impegnati nel movimento.

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L’interrogatorio degli imputati e il sopralluogo al c.s. [centro sociale]- si legge nella sentenza - sono stati molto utili al Collegio per avere unavisione realistica e diretta di una fascia sociale diversa in senso lato da quella borghese, dai cui ranghi in buona parte proviene la magistratura [...] ap

pare evidente la necessità e l’utilità di apprestare dei centri dove i giovanisi sentano a proprio agio [...] il sopralluogo ha consentito al Collegio diavere un’idea delle attività culturali e ricreative che nel centro si svolgonoe la cui utilità sociale giustificherebbe una concreta attività di sostegno economico e morale da parte delle autorità, (in Ibba 1995: 121-22)

La stessa conclusione della vicenda, con l’assegnazione al cen

tro sociale di una nuova sede in uso gratuito, dopo un lungo braccio di ferro durante il quale prefettura e questura si opponevano aun intervento di forza, insieme alla scelta degli occupanti di utilizzare metodi di resistenza nonviolenta, testimoniano di una praticadi de-escalation.

Possibili spirali di radicalizzazione potrebbero essere innescate, invece, dalla destra neofascista, anche in Italia infiltrata negliambienti dell’hooliganismo calcistico e della subcultura giovanile

degli skinheads. L’ondata di xenofobia e razzismo manifesto che siè sviluppata nel paese proprio all’inizio degli anni Novanta è statainfatti accompagnata da un crescente numero di azioni di violenza:dalle aggressioni, talvolta mortali, a immigrati e altri emarginati, agliattentati a luoghi di culto ebraico o a proprietà di cittadini italianidi religione ebraica, agli scontri con i giovani dei centri sociali o coni punks. La maggior parte di questi crimini sono stati perpetrati da

bande di skinheads di destra, i così detti « naziskins», emersi allametà degli anni Ottanta14. Dalle poche informazioni disponibili,

14 La politicizzazione inizierà con il Veneto front skinhead e si svilupperà anche negli ambienti ultra, con gruppi quali i Boys S a n   (Squadre armate neroazzurre) nella tifoseria interista, i Vikings della Lazio, e Opposta fazione romanista(Marchi 1994: 166-67), spesso coinvolti anche in attacchi contro attivisti di sini

stra, insulti a giocatori di colore o ebrei, cori e striscioni razzisti. Ancora alla metàdegli anni Ottanta sorsero gruppi quali Base autonoma, con due o tremila adepti; Meridiano zero con due o trecento. La componente giovanile di Base autonoma, disciolta nel 1993 a seguito della legge Mancino, era un punto di riferimento per Skinhead d’Italia, fondato nel febbraio 1990 da Veneto front skinhead,Azione skinhead di Milano, Movimento politico di Roma, Sp q t  di Roma e Azione Skinhead-Colli Albani (Marchi 1994: 170). All’interno di quest’area, ha cercato di reclutare il gruppo politico Movimento politico occidentale, che ha fra isuo leader il figlio di un dirigente di Ordine Nuovo. Almeno fino al 1992 il gruppo aveva contatti con il Msi, partecipando ad alcune delle sue manifestazioni.

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sembra che i naziskins combinino alcuni tratti della destra neofascista degli anni Settanta con altre caratteristiche simili a quelle deiloro omonimi in altri paesi europei. Come i neofascisti del passato,

i naziskins italiani definiscono «il pugno e l’usura» - comunisti edebrei - come i loro principali «nemici», acclamano Mussolini edHitler come eroi, e i terroristi di destra degli anni Settanta come degli esempi di veri rivoluzionari. Diversamente dai neofascisti dellagenerazione precedente, i naziskins si identificano però più con lamusica heavy-metal che con la destra tradizionale; hanno i loro luoghi d’azione più negli stadi che nelle scuole e nelle università; provengono in maggioranza dai ^quartieri popolari delle grandi città esono molto giovani (Gallucci 1992). Il loro livello di elaborazionepolitica è inoltre primitivo. A proposito dei loro «bollettini deifans» (fanzine) è stato osservato che:

In sintonia con il livello di istruzione della base, il contenuto di questimateriali non è propriamente raffinato sul piano ideologico o concettuale,consistendo esso prevalentemente nel resoconto entusiastico di incontricon gruppi di amici, grandi bevute di birra, scontri con bande rivali, messaggi di insulti o solidarietà, esaltazione di episodi di violenza. Manca visibilmente ogni cognizione elitaria, «differenziata» dell’impegno politico,per non dire dei principi metapolitici. Insomma, fra lo «spirito legionario»del soldato politico e le risse delle bande skinhead sembra che la distanzasia considerevole. (Ferraresi 1994: 150)

La potenzialità di reclutamento della destra radicale in queste

aree sarebbe infatti legata più alla presenza di un sistema di valoricaratterizzato da «machismo» e brutalità, che a una elaborazioneideologica:

Questo fenomeno dai toni tribali si manifesta come una sorta di movimento xenofobo spontaneo, impolitico, che sembra coinvolgere a vari livelli decine di migliaia di giovani. Vi sono stadi in cui intere curve intonano cori xenofobi ed antisemiti, ed in cui la simbologia nazista tracima oltre

ogni soglia di tolleranza. L’aggressione contro l’omosessuale, il pestaggiodel lavavetri, la battaglia tra ultras, l’assalto all’ostello divengono parte diun codice ludico sempre pronto a manifestarsi, cadenzato dalle festivitàsettimanali. (Marchi 1994: 157-58)

La convivenza tra anima politica e anima teppista, tra «pestaggio del sabato sera» e volantinaggio appare comunque - come avviene a sinistra nell’Autonomia - precaria e burrascosa, mentre si

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sviluppano conflitti interni sul tema dell’immigrazione, tra Orion eAvanguardia, pro-islam, e i così detti «bonehead» con il loro razzismo anti-immigrati (Marchi 1993; 1994). Atteggiamenti e compor

tamenti appaiono così caratterizzati da elementi spesso contraddittori: «il bonehead condanna gli stupefacenti che spesso assume,stigmatizza la violenza hooligan che pratica abitualmente, si propone come momento di impegno praticato nelle forme e con i ritmi del disimpegno» (Marchi 1993: 161). La fragilità organizzativadegli skinheads rende inoltre poco probabile un loro coordinamento a livello internazionale (Castellani 1994: 14).

Il fatto che i naziskins si presentino con connotati più subculturali che chiaramente politici non vuol dire che essi siano meno pericolosi dal punto di vista di un potenziale di violenza che si è anzigià, come abbiamo osservato, più volte manifestato. Improbabile èperò l’innescarsi delle spirali di violenza che avevano drammatica-mente caratterizzato gli anni Settanta. Non solo l’identità politicadi questi gruppi subculturali resiste difficilmente alle tentazioni dicommercializzazione, ma i loro potenziali avversari politici, soprattutto i movimenti giovanili della sinistra, non sembrano tentati adabbandonare le pratiche di azione nonviolenta. Nonostante moltirituali degli ultrà abbiano radici nel radicalismo politico degli anniSettanta? e nel modello di controllo «massiccio» dell’ordine pubblico diffusosi in quegli anni (Dal Lago e De Biasi 1994), l’ambiente degli hooligans sembra restio a una duratura politicizzazione.Così,

la germinazione dell’estrema destra nelle curve sembra più frutto di unaadesione sempre maggiore ai temi più deteriori dello stile sessista, violento e xenofobo che spesso contraddistingue i giovani ultras che agli effettivi successi della propaganda neofascista, e nella maggioranza dei casi nonporta ad un conseguente impegno politico. Si conferma insomma quellatendenza, già osservata in Inghilterra, e che vede l 'Hooligan in molti casisensibile ai temi propagandati dalla destra radicale, ma quasi mai disponi

bile al tanto richiesto salto di qualità. In questa area di spontaneismo xenofobo si manifestano tutte le caratteristiche più deteriori della sottocultura hooligan: «rasato» o no che sia, l’ultras xenofobo è violento, sessista,dichiaratamente razzista, ma anche poco disponibile ad ogni forma di organizzazione o di attività politica. (Marchi 1994: 168-69)

Il potenziale di espansione della destra radicale dipenderà probabilmente soprattutto dagli appoggi politici che i naziskin riusci

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ranno a trovare. Per il momento è stato osservato che la politicizzazione delle aggressioni razziste è stata in Italia minore che in altripaesi. Per varie ragioni infatti, il principale partito della estrema destra italiana, il Msi, è stato molto titubante a imboccare la strada

della violenza razzista. Eletto segretario nazionale del partito nel1990, Pino Rauti propose un insieme di elementi derivanti dalla tradizione del fascismo-movimento insieme a elementi della nuova destra, cercando di attrarre almeno una parte dell’elettorato di un Peiin crisi attraverso la «ricollocazione» fuori dalla destra del suo partito, con slogan anti-occidentali e anticapitalisti, ma anche con

elementi inediti (e non conciliabili con la tradizione culturale missina) quali la tolleranza e il diritto al dissenso, la plausibilità delle differenze e la difesa dell’ambiente [...] Grazie a queste acquisizioni culturali il Msi, contrariamente agli altri partiti della estrema destra europea, rifiuta decisamenteil razzismo (anche se alcune frange giovanili indulgono ad atteggiamenti ambigui soprattutto nei confronti degli ebrei più che verso gli immigrati di colore). (Ignazi 1994a: 183)

Almeno per quanto riguarda quest’ultimo punto, la segreteriaFini non tornerà indietro rispetto a un approccio non xenofobo.

Ci sono comunque, in questo campo, segnali contrastanti. Se ricerche sociologiche hanno dimostrato che la partecipazione agli organismi rappresentativi ha un effetto di moderazione sull’identitàdegli attivisti del principale partito della destra, il suo bacino di reclutamento sembra essere stato però soprattutto in aree profonda

mente anti-democratiche. Nel 1990, ad esempio, circa il 20 per cento dei delegati al XVI Congresso del Msi si dichiarava d’accordocon l’uso di forme estreme di protesta come gli scontri con gli altridimostranti e la polizia; il 46 per cento approvava l’affermazioneche «ci sono razze superiori e inferiori»; il 44 sosteneva che «il potere finanziario è nelle mani degli ebrei» (Ignazi 1994b: 82-84). Nel1991 un terzo dei militanti del Fronte della gioventù era d’accordo

con l’uso della lotta armata e due terzi riteneva che «fare a botte»fosse un mezzo adeguato per fare valere le proprie ragioni; mentresolo il 13 per cento degli intervistati si definiva democratico, unquarto si dichiarava antisemita (Ignazi 1994b: 88-89). Come ha osservato Piero Ignazi, «il reclutamento giovanile avviene sulla basedi temi come l’ostilità alla democrazia, all’eguaglianza, alla tolleranza, alla diversità: questo è il punto di partenza, il cemento iden-

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titario» (1994b: 89)15. Non ci sono, per il momento, indicazioni chela trasformazione del Msi in Avanguardia nazionale abbia mutato lastruttura dei valori degli attivisti del partito, anche se è possibile chel’esperienza, pur breve, di partecipazione al governo presieduto da

Silvio Berlusconi possa avere rafforzato le componenti più pragmatiche del partito.

Riassumendo, negli anni Novanta i movimenti collettivi mantengono, in generale, una struttura organizzativa flessibile e decentrata,con una miriade di piccoli gruppi, raramente coordinati in comuni

campagne di protesta. Organizzazioni meglio strutturate offrono alcuni servizi, facilitando soprattutto lo scambio di informazioni. L’estrema apertura della struttura delle opportunità politiche facilita anche la trasformazione di alcuni di questi gruppi in partiti politici, conuna «forzata» centralizzazione dei processi decisionali. A propositodella natura dei movimenti collettivi emergenti, si è osservata la mobilitazione, in una situazione di grave crisi di legittimazione dei par

titi politici, di movimenti e campagne di protesta su temi «trasversali» rispetto alla tradizionale frattura destra-sinistra - quale la «dem ocrazia degli onesti» contro il malgoverno e la malamministrazione. Siè comunque argomentato che queste nuove tematiche non sembrano soppiantare la divisione in destra-sinistra ma piuttosto, tendenzialmente, vi si sovrappongono. A proposito delle forme di protesta,nonostante la presenza di gruppi radicali nelle subculture giovanilisoprattutto di destra, sembra molto improbabile che si avviino spira

li di violenza paragonabili a quelle degli anni Settanta. Il compimento del processo di consolidamento democratico ha infatti portato auna maggiore tolleranza istituzionale per forme di azione politica nonconvenzionali, aiutando in questo modo il prevalere delle tendenzeponviolente fra i movimenti sociali della sinistra libertaria, e al contempo sottratto potenti alleati all’estrema destra. I continui terremotielettorali hanno, inoltre, facilitato l’accesso alle istituzioni, stimolan

do anche gli attori meno ricchi di risorse di potere ad ampliare il proprio repertorio fino a includere le strategie più istituzionali. Episodidi violenza all’interno delle subculture giovanili, soprattutto di destra, non sembrancy potere invertire questa tendenza.

15 Si può ricordare, del resto, che ancora nel 1992, il Msi ha festeggiato il 70°anniversario della marcia su Roma con una manifestazione con inni fascisti e saluti romani.

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PROTESTA E MOVIMENTI SOCIALI:ALCUNE CONCLUSIONI

 VI

Abbiamo fin qui ricostruito l’evoluzione della famiglia dei movimenti della sinistra libertaria in Italia, dagli anni Sessanta agli anni Novanta guardando anche, all’interno di ciascun periodo, ai mutamenti sociali e alle interazioni con alleati e oppositori. In questaparte conclusiva, proverò a riassumere alcuni risultati del nostro excursus storico, collocando il caso italiano in una prospettiva comparata. Come vedremo, caratteristiche del caso italiano sembranoessere la maggiore durata e intensità del ciclo di protesta tra la finedegli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta; il maggiore radi-’calismo degli anni Settanta con predominio di un discorso fondamentalista; la minore visibilità e il maggiore pragmatismo dei movimenti nei decenni successivi. Queste peculiarità possono essere inparte spiegate a partire dalle risorse esistenti per i movimenti, sia alloro interno che al loro esterno. Per quanto riguarda le risorse in

terne, guarderemo in particolare all’evoluzione della famiglia deimovimenti della sinistra libertaria e al potenziale di mobilitazionedi volta in volta disponibile. Per quanto riguarda le risorse esterne,accenneremo alle risorse provenienti dal sistema internazionale,concentrandoci poi su quelle che sono state definite, nel capitolointroduttivo, come caratteristiche stabili della struttura delle opportunità politiche, cioè quegli elementi delle istituzioni e della cul

tura che più incidono sulla struttura del conflitto sociale.

1. Protesta e movimenti:il caso italiano in prospettiva comparata

*In Italia come in altri paesi, il periodo che va dalla metà degli

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anni Sessanta agli anni Novanta ha visto lo sviluppo di una serie dimovimenti sociali. Una prima fase, che va fino all’inizio degli anniSettanta, è stata caratterizzata da un livello piuttosto alto di mobi

litazione in diversi settori della società - quello che Tarrow (1990)ha definito come un ciclo di protesta. La mobilitazione è declinatanel corso degli anni Settanta, lasciando dietro di sé movimenti,piccoli e radicalizzati. Senza che la protesta raggiungesse i picchi didrammaticità e visibilità del decennio precedente, gli anni Ottantahanno visto la crescita e la «istituzionalizzazione» dei nuovi movimenti sociali. Negli anni Novanta, in una situazione di grande aper

tura della struttura delle opportunità politiche, nuove mobilitazioni hanno preso a oggetto il tema della moralità pubblica.Se confrontiamo l’Italia con altre democrazie occidentali, possia

mo innanzitutto osservare notevoli somiglianze nello sviluppo complessivo dei movimenti della sinistra libertaria.  In Italia come in Germania o in Francia il primo movimento ad apparire sulla scena fu ilmovimento degli studenti, che raggiunse l’apice nel 1968, sopravvivendo più a lungo in Italia che in altri paesi. Interagendo con i movi

menti studenteschi di altri paesi, il movimento studentesco italianoimportò tecniche di protesta inventate durante la mobilitazione peri diritti civili negli Stati Uniti. Il movimento delle donne seguì a quello degli studenti, raggiungendo - in Italia come anche in Germania oin Francia - la massima visibilità alla metà degli anni Settanta con lecampagne per la liberalizzazione dell’aborto. L’evoluzione nei repertori d’azione procedette dall’uso della disobbedienza civile nella pri

ma metà degli anni Settanta alla creazione di gruppi di auto-coscienza nella fase del «ritorno al privato», nella seconda metà del decennio. Le proteste anti-nucleari si svilupparono alla fine degli anni Settanta - sebbene con una minore intensità che in Francia o in Germania - favorendo l’emergere di un movimento ecologista. Fra il 1981 eil 1983 il movimento per la pace, in Italia così come in Germania e inOlanda, si mobilitò in azioni prevalentemente nonviolente di sensibi

lizzazione e in alcune grosse manifestazioni nazionali contro l’installazione dei missili Cruise. Nella seconda metà degli anni Ottanta, ilmovimento ecologista si sviluppò in Italia come in altri paesi, insiemea una serie di associazioni sui temi più vari, dal diritto alla casa all’assistenza ai gruppi emarginati. I movimenti degli anni Ottanta furonoinfatti caratterizzati da un ampio numero di azioni a livello locale, chemiravano ad attrarre l’attenzione del pubblico con creatività e fantasia, piuttosto che attraverso un alto livello di radicalismo.

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Per quanto riguarda i comportamenti prevalenti nei movimenti della sinistra libertaria,  il movimento studentesco fu caratterizzatoda un atteggiamento antagonista, con frequenti episodi di violenza di massa. I conflitti erano inseriti in una prospettiva «rivoluzionaria», con un’immagine ottimista del futuro e speranze di radicalimutamenti politici. Negli anni Settanta prevalse un comportamento di scontro frontale. Sebbene una prospettiva ottimista ed eman-cipatoria fosse ancora dominante all’inizio del decennio, le formed’azione gradualmente escalarono nella violenza. Nella secondametà degli anni Settanta, comportamenti radicali di scontro prevalsero, con atteggiamenti crescentemente pessimistici. All’inizio de

gli anni Ottanta, il movimento per la pace contribuì a deradicaliz-zare i conflitti con la scelta di forme d’azione nonviolente. Nel corso di questo decennio e di quello successivo i comportamenti divennero più moderati, la nuova sinistra perse di influenza, e si presentarono sulla scena nuovi movimenti sociali, che spesso rifiutarono di allinearsi lungo il tradizionale asse destra-sinistra.

Riprendendo le tipologie elaborate nel capitolo introduttivo,

possiamo dire che nella fase di emergenza  della famiglia della sinistra libertaria, la struttura organizzativa del movimento studentescoera di tipo spontaneo - si enfatizzavano gli aspetti informali, il decentramento e la partecipazione - ma anche totalizzante, con unaadesione fortemente emotiva ed esclusiva. L’ideologia era ottimistae rivoluzionaria, impregnata di utopie di trasformazioni radicali. Leforme d ’azione erano perturbative ma, all’inizio, pacifiche, mentre

la violenza emerse nel corso di una escalation non pianificata.La fase della radicalizzazione portò con sé trasformazioni in parte contraddittorie. Dal punto di vista della struttura organizzativa,i movimenti degli anni Settanta furono caratterizzati da una evoluzione in due diverse direzioni: dal processo di decentramento deimolti gruppi informali del movimento femminista e giovanile allastrutturazione crescente della Nuova sinistra, ma anche dei piccolinuclei semimilitari e delle formazioni terroriste. L’ideologia continuava a essere massimalista nelle richieste, ma anche pessimista sulle possibilità di raggiungere i mutamenti desiderati. Dal punto di vista delle strategie d’azione abbiamo la prevalenza delle azioni ràdi-cali a livello di azione visibile, insieme a un riflusso nelle strategiedi rivolta a livello di controcultura.

Gli anni Ottanta coincisero con processi di istituzionalizzazione nella famiglia della sinistra libertaria. A livello organizzativo si

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diffuse una combinazione di associazioni strutturate e centralizzate e di gruppi autonomi, basati sul principio della responsabilità individuale; in entrambi i casi, il principale mutamento rispetto allafase della radicalizzazione fu un approccio di tipo «laico» - inclusivo e non-totalizzante. Un’ideologia riformatrice univa una sceltaminimalista di rivendicazióni concrete con la fiducia nella possibilità di incidere sulla realtà esterna. Per quanto riguarda i repertoridella protesta, le campagne di mobilitazione combinavano azioni dimassa e azioni ad alta intensità simbolica, azioni istituzionali e azioni dirette - rifiutando comunque ogni tattica violenta.

Sintetizzando, si è avuto un passaggio da domande di cambia

menti radicali, a una separazione fondamentalista, a mutamenti ditipo riformista. La struttura organizzativa si è evoluta da struttureformali, centralizzate, ampie ed esclusive, a piccoli gruppi informali, decentralizzati e non coordinati, fino a giungere a una strutturadifferenziata con piccoli gruppi informali, decentralizzati e inclusivi, con coordinamenti ad hoc, e organizzazioni professionali (siagruppi di pressione che cooperative di produzione). L’ideologia si

è trasformata dal radicalismo offensivo coniugato con ottimismo rivoluzionario, a un pessimismo fondamentalista difensivo, e quindia un riformismo pragmatico. Il repertorio della protesta si è sviluppato da una combinazione di forme non convenzionali e convenzionali, a forme non convenzionali e violente, e, infine a forme convenzionali e nonviolente.

Gli anni Novanta si sono aperti con una specializzazione del settore dei movimenti sociali. Associazioni strutturate e partiti convivono con piccoli gruppi organizzati a livello locale e quasi privi distrutture di coordinamento. Nuove categorie ideologiche si sovrappongono alle vecchie, in un discorso che enfatizza valori qualila legalità e l’onestà. Le strategie d’azione combinano aspetti simbolici e pressioni istituzionali.

2. Le risorse interne ai movimenti collettivi

Cosa spiega le caratteristiche assunte dai movimenti della sinistra libertaria? Possiamo iniziare con l’osservare come le risorse organizzative presenti nel settore dei movimenti sociali abbiano influenzato l’evoluzione dei singoli movimenti e delle forme di protesta più in generale. Nel corso dei tre ultimi decenni vari movi

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menti sociali sono succeduti l ’uno all’altro o hanno convissuto, influenzandosi reciprocamente. Ogni movimento ha fornito risorseorganizzative per le mobilitazioni successive, contribuendo a defi

nirne le strategie. Organizzazioni di movimento sociale nate nelcorso di una fase di mobilitazione hanno prodotto risorse per le mobilitazioni future - influenzando quindi, o almeno cercando di influenzare, le caratteristiche dei successivi cicli di protesta. In Italiacome in altri paesi, le prime risorse organizzative per il movimentodegli studenti vennero dai «partitini» presenti negli organi di autogoverno studentesco nelle università, e da gruppi marxisti, con prevalenti attività di elaborazione teorica. Ciò portò a una continuitàtra organizzazioni della «vecchia» sinistra e organizzazioni di movimento. Con lo sviluppo della mobilitazione, gli attivisti cercarono quindi formule organizzative che potessero aiutarli a coordinare le attività di protesta nelle varie università. I nuclei universitarilocali confluirono così con gruppi operaisti attivi nelle fabbriche,fondando le organizzazioni della Nuova sinistra - organizzazionicaratterizzate da una struttura organizzativa ancora precaria, da un

forte dogmatismo e da un’attenzione rivolta prevalentemente all’esterno dell’università. Queste caratteristiche possono, ancora unavolta, spiegare il radicalismo ideologico dei gruppi italiani, ma anche la loro maggiore vicinanza ai temi della vecchia sinistra. La protesta fu guidata da organizzazioni con una ideologia di sinistra chefornirono al movimento studentesco visioni utopiche di grandi trasformazioni sociali e politiche. Si può aggiungere, inoltre, che, nel

la fase di espansione del movimento, questi gruppi cominciarono amettere in pratica le loro teorizzazioni sulla legittimità della violenza come difesa rispetto agli attacchi delle forze capitalistiche.

Cambiamenti organizzativi avvennero anche dopo il declinodella mobilitazione studentesca, quando molti gruppi sparirono ealtri cercarono invece di «esportare» la protesta in altri settori sociali. In molti paesi gli attivisti andarono in parte a ingrossare le fi

la di altre organizzazioni politiche o sindacali, si sparpagliarono inpiccoli gruppi locali, o si aggregarono in organizzazioni più strutturate. Anche in Italia, le organizzazioni di movimento sociale chesopravvissero alla disgregazione del movimento studentesco subirono un processo di «istituzionalizzazione». Le organizzazioni delmovimento degli studenti erano state, al loro inizio, inclusive, cioèesse avevano confini flessibili, la membership era definita più dasentimenti comuni che dal possesso di una tessera, le identità col

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lettive erano basate sul movimento piuttosto che sulla singola organizzazione e la partecipazione in più di una organizzazione era nonsolo permessa ma anche incoraggiata. Mentre le formazioni più inclusive non sopravvissero alla crisi della mobilitazione, alcune di

quelle esclusive cominciarono a sviluppare precise identità organizzative. Con alcune eccezioni, i confini organizzativi divenneropiù chiaramente definiti, la partecipazione in una organizzazionecominciò a escludere quella in altre e i militanti tesero a identificarsipiù strettamente con la loro organizzazione che con il movimentonel suo insieme. Quando la protesta si diffuse ad altri settori, strutturandosi - nuovamente in modo decentrato - in vari collettivi e co

mitati, furono le organizzazioni della Nuova sinistra a fornire unaparte delle risorse organizzative ai movimenti che seguirono, occupando un posto rilevante in molti comitati di base e centri sociali, ediffondendovi un’ideologia e pratiche radicali.

Le organizzazioni radicali sopravvissute alle precedenti fasi diescalation del conflitto non solo «insegnarono» alle nuove generazioni di militanti l’uso della violenza, ma contribuirono anche allapolarizzazione politica e a un clima repressivo che favorì poi, a suavolta, lo sviluppo della violenza. Se fin qui abbiamo considerai leorganizzazioni come soggetti razionali capaci di influenzare il Jproambiente, quest’ultima osservazione sposta invece l’attenzione ai risultati imprevisti di scelte strategiche compiute da diversi attori, siaistituzionali che di movimento. Come abbiamo osservato, i processi di radicalizzazione derivarono da una serie di decisioni strategiche sul tema della violenza e produssero continue scissioni all’in

terno delle organizzazioni di movimento fino - in alcuni casi - alla«autonomizzazione» dei settori più militanti. Se le varie scelte derivavano in parte dalle risorse organizzative e ambientali esistenti, iloro effetti non erano comunque del tutto prevedibili. La crescitadella violenza fu così, in parte, una conseguenza imprevista di sperimentazioni, organizzative, e seguì dinamiche interne non programmate. Specialmente quando la mobilitazione declinò, le orga

nizzazioni dei movimenti sociali sperimentarono varie formule organizzative e varie strategie, con contemporanei processi di radicalizzazione e di istituzionalizzazione.

Per capire l’evoluzione della violenza politica occorre, quindi,tenere conto innanzitutto di un fenomeno di competizione all’interno dei movimenti collettivi, che contribuisce a differenziare lestrategie delle organizzazioni dei movimenti. Come hanno osserva-

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to i sociologi americani Mayer N. Zald e John McCarthy (1980: 6),«la competizione tra le organizzazioni esclusive di una industriaprende la forma di una limitata differenziazione dei prodotti (cioèdi offerta di beni parzialmente diversi) e, soprattutto, di differenziazione tattica». Anche dalla nostra descrizione è emerso che lacompetizione interna tra le varie organizzazioni del movimentoprodusse, attraverso un processo di adattamento differenziato almutevole ambiente esterno, contemporaneamente la istituzionalizzazione di alcune di esse e la radicalizzazione di altre. Si può aggiungere che la storia dei gruppi radicali dei movimenti collettiviconferma anche un’altra ipotesi già avanzata da McCarthy e Zald:

che, cioè, la competizione tende a crescere durante i periodi di smobilitazione. Fu infatti durante la fase declinante della mobilitazionestudentesca che organizzazioni di movimento, divenute più esclusive, accentuarono la loro competizione per risorse scarse. Per definire le loro aree di reclutamento, o nicchie nell’ambiente in cui esse potevano meglio competere, le varie organizzazioni sottolinearono le loro caratteristiche più distintive, formulando elementi

ideologici e adottando prassi lievemente differenti. Nella loro ricerca di una specifica identità politica, gruppi diversi sperimentarono varie strategie: quei gruppi che possedevano più «competenze tecniche» per l’uso della violenza - e che mancavano, invece, dialtre risorse - radicalizzarono il loro repertorio e «compartimenta-rono» le loro strutture (Tarrow 1990; Della Porta 1990; Della Porta 1995). Eventi precipitanti, spesso imprevisti, portarono alcuni

gruppi a praticare forme d’azione sempre più violente, fino all’ingresso in clandestinità, considerato come una soluzione che permetteva di sottrarsi, almeno nell’immediato, a denunce e arresti.

Possiamo concludere, quindi, che il processo di radicalizzazione - che pure richiese una serie di risorse org'anizzative e ambientali - si evolse attraverso una serie di «circoli viziosi», cioè spirali difeedbacks negativi dai risultati non previsti. La violenza ha prodotto isolamento e repressione, e l’isolamento e la repressione hanno

prodotto violenza. Alcune organizzazioni radicali sono rimaste così intrappolate nel modello adottato che le ha portate alla dissoluzione o alla clandestinità. Come è stato suggerito in una ricerca sulla formazione della Rote Armee Fraktion in Germania (Neidhardt1981), l’emergenza dei gruppi più radicali deriva da processi «assurdi» nel corso dei quali le parti coinvolte - manifestanti e poliziain particolare - interagiscono l’uqo con l’altro, facendo radicalizza-

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re il conflitto in una serie di circoli autosostenuti. In queste situazioni i vari partecipanti agiscono sulla base di una immagine autocostruita della realtà, «scommettendo» sui risultati delle loro scelte. Conseguentemente, le loro azioni sono il prodotto di calcoli sbagliati. Questo circolo di azioni e reazioni forma delle routine, finoa che un evento più o meno casuale non produce un salto qualitativo nei livelli di violenza. Confrontate con le conseguenze critichedell’evento precipitante, alcune organizzazioni di movimento si dividono allora sulle possibili scelte^ indirizzandosi ora verso unamaggiore moderazione e ora verso una maggiore «militanza», finoalla clandestinità. Seppure la decisione di andare in clandestinità ri

duce i rischi per i militanti di essere arrestati, essa limita comunqueenormemente le loro possibilità d’azione. I gruppi clandestini tendono infatti a divenire dei sistemi chiusi, privi di contatti e mediazioni con il mondo esterno. I loro membri hanno sempre meno possibilità di uscita, così che le loro scelte prendono una vita propria,indipendentemente dai loro motivi iniziali. È così che organizzazioni che nascono all’interno di movimenti sociali si trasformano in

sette criminali. Anche quest’ultima tappa del processo di radicaliz-zazione organizzativa è stata osservata in Italia, con la costituzionedelle organizzazioni clandestine - la cui stessa esistenza contribuiràpoi a riavvitare il circolo di violenza e repressione.

Se fin qui abbiamo guardato alla radicalizzazione dei comportamenti, uno sguardo alle variabili interne ai movimenti può aiutarci a spiegare anche la successiva moderazione. Guardando alle

interazioni tra i diversi movimenti, sembra infatti di potere individuare dei cicli di vita ricorrenti, che portano gradualmente a un accumulo delle risorse disponibili per l’azione non istituzionale. Amaggiori risorse corrisponde poi una maggiore disponibilità al negoziato, sia da parte dei movimenti che da parte delle loro controparti.

Nel corso della nostra descrizione abbiamo osservato che, nella fase aurorale dei movimenti, il tema destinato a essere messo al

centro di vaste campagne di mobilitazione viene tenuto in vita all’interno di piccoli circoli intellettuali, culturali più che politici. Laissue conflittuale è ancora in una fase prepolitica, discussa prevalentemente come oggetto etico, culturale o artistico. I gruppi sonopiccoli ed eterogenei, e funzionano piuttosto come forum di di- vscussione - un ruolo ricoperto, come abbiamo visto, dal Grimauper il movimento delle donne, o da Pax Christi e dalla Lega obiet-

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tori di coscienza per il movimento della pace. Questi nuclei organizzativi criticano la cultura dominante, ma non riescono ad attrarre l’attenzione dei media o del pubblico. Si può dire che, in questafase iniziale, i movimenti appaiono preoccupati soprattutto di crea

re una identità collettiva.In seguito, le nuove identità collettive si rafforzano nelle mo

bilitazioni di massa e nello scontro con la controparte, che tende all’inizio a reagire in modo conflittuale alle domande emergenti. Nella fase di formazione di un movimento collettivo si mobilitano quelle risorse necessarie a mettere uno specifico tema al centro del dibattito politico. Fattori precipitanti - quali ad esempio il referen

dum sul divorzio o la decisione sullo stanziamento dei missili nucleari in Europa - possono produrre una suddenly imposed grie- vance (Walsh 1981), cioè una insoddisfazione imposta all’improvviso. Alla base della mobilitazione, accanto ai fattori reattivi, vi sono comunque anche meno visibili, ma forse più importanti fattoriproattivi. La protesta si sviluppa quando si costituiscono le risorsenecessarie al passaggio da una proposizione etico-culturale (prepolitica) alla elaborazione socio-politica di un tema. In un primo mo

mento, comunque, l’identità del movimento è ancora in formazione: esso privilegia dunque domande non negoziabili e strategieespressive, finalizzate più alla «presentazione» della propria identità che alla trasformazione nelle politiche pubbliche. I piccoligruppi costituitisi nelle fasi «pre-politiche» in genere tendono agiocare un ruolo rilevante all’inizio, ma a perdere a poco a poco presa sulla mobilitazione - rimanendo semmai come coscienza critica

del movimento. Più ampie organizzazioni sono create, o precedentiorganizzazioni entrano all’interno di coordinamenti ad hoc per fornire le risorse necessarie alla mobilitazione.

In una terza fase il movimento ha definito la sua identità. Conil passare del tempo si ha un aggiustamento reciproco tra movimenti e loro ambiente: nuovi canali di accesso al sistema politico siaprono, mentre si rarefanno le espressioni più aspre di conflitto.Peiv varie ragioni le campagne di mobilitazione declinano, ma lasc iane un residuo importante: una nuova identità di movimento,composta da un sistema di valori, materializzato in associazioni e reticoli di relazioni1. La forza delle identità collettive può variare: al

1 In termini generali, si può dire che un’identità collettiva è ciò che fornisceuna base di riconoscimento agli individui nella collettività. Su questo tema cfr.Pizzorno 1977; 1988.

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cune sembrano più pregnanti (come nel movimento delle donne),altre più deboli (come nel movimento giovanile); alcune sono piùvisibili (come nel movimento ecologico), altre più nascoste (comenel movimento della pace); alcune sono presenti anche a livello nazionale (come nel movimento anti-nucleare), altre solo a livello locale (come in alcuni movimenti territoriali); alcune sono più politiche (come nel movimento federalista), altre più culturali (come neicentri sociali autogestiti). Raramente, comunque, un movimentoscompare senza lasciare tracce culturali e organizzative dietro di sé.Le organizzazioni del movimento possono essere a questo puntopartiti, imprese economiche, gruppi culturali, associazioni volonta

rie - o insiemi variabili delle quattro forme. Questi gruppi, che indiverse arene continuano la loro azione sul tema centrale del movimento, possono in ogni momento rimobilitarsi attraverso la protesta. Come risultato del riconoscimento della fase precedente, si puòavere anche la costituzione di policy arenas e policy networks, cioèdi luoghi e comunità che decidono su alcune aree di politiche pu bbliche - si pensi ai giovani, alle donne o all’ambiente.

Le identità di movimento vengono quindi spesso rimobilitate inmodo reattivo, in genere in seguito a progetti di legge che minanole risorse o le conquiste del movimento; o in modo proattivo, all’interno di più generali campagne di protesta. Durante le fasi di rimobilitazione, alcune frange possono radicalizzarsL Nel lungo periodo, comunque,-^'movimenti tendono ad assumere atteggiamentipiù pragmatici e di cooperazione. Mentre la campagna iniziale ave

va infatti il compito di formare l’identità, le campagne successivesono, generalmente, più strumentali, e quindi più orientate al negoziato. Se all’inizio bisognava accumulare risorse, in seguito risorse già esistenti possono essere investite nell’arena politica.

Come abbiamo infatti notato, diversi movimenti si sono sviluppati in una direzione simile: dalla formazione dell’identità collettiva all’utilizzazione dell’identità collettiva sul mercato politico. Durante questo processo la strategia si è evoluta verso il negoziato, sfociando nella coesistenza di gruppi di interesse pubblico (dal momento che nuovi canali di accesso sono stati creati) e di gruppi cheelaborano una nuova cultura (dato che nuovi codici culturali sonocreati e tenuti in vita dai reticoli di movimento). Questo processo,che può essere spiegato a partire dai diversi passaggi necessari allaformazione di un movimento, ha effetti importanti sulla famiglia dimovimenti sociali. Oscillando tra fasi di visibilità e fasi di latenza

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(Melucci 1992), la maggior parte dei movimenti sopravvive all’interno di una più grande famiglia di movimenti, contribuendo aespanderne le infrastrutture organizzative e il potenziale di mobili

tazione. In conclusione, le risorse per i movimenti sociali aumentano nel tempo e si istituzionalizzano, si costituiscono canali di accesso ai policy makers, e si stabilizzano le alleanze. Tutto ciò contribuisce alla deradicalizzazione della protesta.

Si può dire quindi che, attraverso questa continuità organizzativa, le esperienze dei movimenti precedenti si presentano come risorse e vincoli per quelli successivi. Processi di imitazione e differenziazione, di coazione a ripetere e di apprendimento sono all’opera contemporaneamente. Gli attivisti della fase di mobilitazionesuccessiva ereditano strutture e modelli dai loro predecessori, manello stesso tempo essi imparano dagli errori di coloro che li hannopreceduti, cercando di superarli. È probabile che tanto più numerosi sono i nuovi attivisti e tanto meno successo ha avuto un movimento, tanto minori saranno i processi di imitazione. Questo potrebbe aiutare a capire la cesura tra la fine degli anni Settanta e l ’i

nizio degli anni Ottanta, quando la drammaticità degli errori cheavevano portato al terrorismo e l’allontanamento forzato di una generazione dalla politica spinsero a innovare rispetto al passato. Ilfatto che le organizzazioni della Nuova sinistra fossero presenti ebene organizzate può spiegarne invece l’influenza penetrante anchenegli anni Settanta.

Questo trend verso la istituzionalizzazione e la diffusione di mo

vimenti sociali come forma di organizzazione e mediazione di interessi può essere spiegato dalla diffusione delle capacità necessarieall’azione collettiva a ogni successiva ondata di mobilitazione. Lamobilitazione è facilitata infatti dal riaggregarsi di precedenti movimenti su tematiche nuove, naturalmente «compatibili» con l’identità iniziale. Si può dunque concludere che l’importanza dei movimenti collettivi tende a crescere nel senso che sempre più risorse- culturali e materiali - sono disponibili per l ’azione collettiva.

3. Risorse esterne e mobilitazione della protesta

Se dunque le se lite strategiche dei movimenti sono influenzatedalle loro risorse interne, l’evoluzione è comunque influenzata anche dalla presenza di risorse al loro esterno. Pressioni internazio

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nali, struttura dei conflitti politici, caratteristiche delle istituzioni edella cultura politica, strategie di alleati e oppositori sono tutti elementi che hanno - si è visto - influenzato lo sviluppo dei movimentidella sinistra libertaria, contribuendo ai processi di radicalizzazio-ne così come a quelli di deradicalizzazione.

In primo luogo, abbiamo ripetutamente notato che la presenzadi una famiglia di movimenti della sinistra libertaria era lungi dalrappresentare un fenomeno esclusivamente italiano. I paralleli nello sviluppo dei movimenti in vari paesi sono in parte spiegabili daprocessi ed eventi di tipo internazionale e da fenomeni di diffusione cross-nazionale.  Il flusso costante di informazioni attraverso mezzi

di comunicazione che sorpassano i confini tra gli Stati ha infatti"contribuito a ridurre le specificità nazionali, favorendo la diffusione internazionale di repertori d’azione e discorsi politici. Anche la"comunicazione diretta tra movimenti sociali di numerosi paesi - attraverso rapporti organizzativi sovranazionali o amicizie personali- ha fatto crescere le somiglianze tra le ondate di mobilitazione a livello internazionale.

Oltre al processo di imitazione, comunque, la somiglianza deriva anche dal fatto che i diversi movimenti hanno reagito a cambiamenti simili nella sfera produttiva e nella congiuntura economica.  Ilmovimento studentesco si è sviluppato, in vari paesi, in una fase dipassaggio da una università di élite a una università di massa. L’istruzione di massa ha mutato la condizione della donna sul mercato del lavoro, contribuendo allo sviluppo dei movimenti femministi. La crisi economica della metà degli anni Settanta ha prodottonon solo disoccupazione giovanile, ma anche investimenti in progetti nucleari: movimenti giovanili e antinucleari si sono sviluppatiin reazione ai due fenomeni. All'inizio degli anni Ottanta i movimenti pacifisti si sono mobilitati contro le conseguenze della dou- ble-track decision della Nato .

Rispetto alle caratteristiche dei movimenti, comparazioni crossnazionali hanno sottolineato la sensibilità degli attori collettivi al

l’andamento ciclico della congiuntura economica internazionale,filtrata attraverso i cicli culturali, con la prevalenza di un clima fon-damentalistico pessimista nelle fase di declino economico (in particolare, negli anni Settanta), di ottimismo riformista nelle fasi diascesa (negli anni Sessanta e Ottanta) (Brand 1990). Da questo punto di vista sembra confermata l’esistenza di differenze tra movimenti di periodi di «affluenza» e movimenti di periodi di «crisi»:

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con i primi caratterizzati da strumentalismo e ottimismo; i secondida espressivismo e pessimismo (Kerbo 1982).

Ma se le dinamiche cicliche spiegano alcune trasformazionicongiunturali, esse non ci aiutano però a comprendere né i feno

meni di trend - come l’evoluzione verso una crescente moderazione dei repertori d ’azione - né le differenze cross-nazionali e crosstemporali nelle caratteristiche dei movimenti in fasi simili del cicloeconomico o culturale. Se la negativa congiuntura economica e ilconseguente pessimismo culturale possono contribuire a spiegare,ad esempio, il radicalismo degli anni Settanta, essi non ci diconoperò come mai negli anni Settanta il pessimismo produce nuclei ra-dicalizzati, mentre negli anni Novanta si formano nuovi partiti; di

\  converso, se il benessere economico tende a produrre moderazione, non sappiamo però perché mentre gli anni Sessanta sono statidefiniti come anni «rivoluzionari», gli anni Ottanta sono caratterizzati dal loro «pragmatismo».

Nel corso dei capitoli precendenti abbiamo spiegato alcune trasformazioni cicliche nei repertori dei movimenti collettivi così come la tendenza verso una complessiva deradicalizzazione delle for

me d’azione con gli atteggiamenti e i comportamenti dei potenziali avversari e oppositori dei movimenti. Questo assunto non è nuovo nella letteratura. Mentre l’evoluzione delle forme d ’azione è stata collegata alle strategie di controllo delle loro controparti (peresempio, Tilly 1978: 98-115), la disponibilità di potenziali alleati èuna variabile già presente nelle prime definizioni della struttura delle opportunità politiche (Tarrow 1983: 28).

Per quanto riguarda il ruolo degli oppositori dei movimenti, unalto livello di repressione è stato di solito associato con comportamenti radicali da parte degli sfidanti. Un’analisi comparata sull’Eu ropa del XIX secolo ha concluso che «quei paesi che erano coerentemente,più repressivi, brutali e ostinati nell’affrontare le conseguenze dejla modernizzazione e la crescita del dissenso operaiohanno raccolto i frutti del loro comportamento, producendo

un’opposizióne che fera esattamente altrettanto rigida, brutale eostinata» (Goldstein \^83: 340). I risultati empirici in qualche modo contraddittori - che indicando, come conseguenza della repressione, talvolta una radicalizzazione dei gruppi più esposti alla violenza della polizia, e in altri casi, invece, la rinuncia alle forme d’azione meno convenzionali (Wilson 1976) - hanno spinto a concludere che la relazione tra violenza della protesta e repressione da

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parte delle autorità è probabilmente di tipo curvilineare, cioè chel’escalation sia prodotta sia da livelli troppo alti che da livelli troppo bassi di repressione (Neidhardt 1989).

La nostra analisi del caso italiano conferma l’alto grado di sen

sibilità dei movimenti collettivi alle strategie dei loro oppositori. Ilradicalismo nei comportamenti e negli atteggiamenti dei movimenti collettivi può essere spiegato, almeno in parte, dal fatto che in Italia il controllo della protesta è stato più duro che in altre democrazie avanzate. Non solo l’uso della forza ha prevalso per lungo tempo rispetto alla prevenzione, ma le strategie repressile sono statepoco)selettive mentre gli apparati dello Stato sono stati accusati di

avere fatto ricorso a tattiche «sporche», come l’usq di agents provocatemi o la protezione della destra neofascista. In un confrontotra i diversi periodi abbiamo infatti notato che questi modelli repressivi furono particolarmente presenti negli anni Settanta, conquasi un ritorno alla tradizione degli anni Quaranta e Cinquantadopo l’inversione di tendenza del decennio precedente. Solo neglianni Ottanta il controllo di polizia della protesta cominciò a foca

lizzarsi sui gruppi violenti, e a sperimentare tattiche di de-escala-tion.I momenti di maggiore repressione hanno coinciso con la pola

rizzazione del sistema politico e lo spostamento a destra dei gover- 1ni, cui è seguita una radicalizzazione dei movimenti. Dopo la crisidel centro-sinistra, livelli più alti di repressione hanno portato a unrestringimento della base politica della protesta, aiutando indirettamente il prevalere delle frange più radicali. Un ritorno verso ilcentro dei partiti di governo non ha comunque moderato automaticamente i comportamenti degli attori della protesta. Infatti, nellaseconda metà degli anni Settanta i governi di unità nazionale - aperti all’appoggio del Pei - non ebbero, in un ambiente politico già ra-dicalizzato, effetti di moderazione. Dopo le parziali aperture deglianni Sessanta e la polarizzazione degli anni Settanta, una inversione di tendenza si ebbe negli anni Ottanta: essa non fu però inserita

all’interno- di un programma riformatore, ma piuttosto caratterizzata dall’abbandono da parte dei partiti politici di molte arene dove venivano decise le politiche pubbliche. L’effetto sui movimenti 'fu l’allontanamento dalle zone visibili della politica, attraverso lasopravvivenza nella controcultura o la trasformazione in gruppi dipressione. Negli anni Novanta, nonostante la negativa congiunturaeconomica, la dissoluzione del partito di maggioranza relativa non

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ha portato una radicalizzazione dei repertori, ma un’accentuata attenzione dei movimenti per l’arena elettorale e le istituzioni rappresentative.

Ancora guardando agli oppositori della_sinistra libertaria, la ra-

>dicalizzazione dei comportamenti dei movimenti negli anni Settanta e la loro successiva moderazione può essere collegata alle caratteristiche di quelli che abbiamo chiamato contromovimenti. La relazione tra movimenti e contromovimenti è stata definita come unconflitto loosely coupled, dove le due parti raramente si incontrano(Zald e Useem 1987). Riferendosi alla tipologia di Rapoport (1960),si può dire che le interazioni conflittuali tra movimenti e contro-

movimenti assomigliano in genere a dibattiti, nella misura in cui esse si basano sulla persuasione per convincere gli oppositori e le autorità, e a giochi, nella misura in cui le parti utilizzano un calcolorazionale di costi e benefici. In Italia comunque, per una lunga fase, queste interazioni hanno assomigliato piuttosto a battaglie, dove l’obiettivo era la distruzione del nemico. Se la presenza di contromovimenti non violenti ha influenza soprattutto sulle chance disuccesso dei movimenti, la presenza di contromovimenti violenti hainvece favorito la radicalizzazione delle forme d’azione.

Un’altra variabile può contribuire a spiegare l’alto livello di violenza degli anni Settanta e la successiva moderazione: la posizione dei (potenziali) alleati. Rispetto alla sinistra istituzionale, alcuni autori hanno sottolineato Vimpatto dei «cleavages» ideologici nel sistema dei partiti stillo sviluppo dei movimenti sociali, ipotizzando cheun allineamento sull’asse destra-sinistra ritardi l’evoluzione dei

nuovi movimenti sociali (Brand 1985: 319), e che una divisione nella sinistra tra socialdemocratici e comunisti ostacoli la crescita deinuovi movimenti (Kriesi 1991: 18)2. Per contro, c’è stato chi ha enfatizzato il ruqlo di stimolo ai movimenti che i partiti comunisti (piùa sinistra e più aperti alla protesta) possono giocare. Ad esempio,Tarrow (1990aT 254) ha argomentato che il Pei ha agito come un«suggeritore, creativcS^nche se fuori campo, rispetto alle origini, le

dinamiche, e la finale istituzionalizzazione dei nuovi movimenti».L’analisi del caso italiano conferma innanzitutto il ruolo importante svolto dalla sinistra tradizionale - in particolare dal Pei e dal mo

2 Aumentando la rilevanza del voto operaio, e quindi l’uso del discorso diclasse e della terminologia marxista, la divisione nella sinistra allontanerebbe i ceti medi, che rappresentano la base dei nuovi movimenti (Kriesi 1991).

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vimento operaio - come alleato dei movimenti. Come effetto diquesta alleanza, i movimenti si sono trovati in una coalizione ampia, seppure minoritaria. Un forte partito comunista ha aumentatole risorse di mobilitazione dehmovimenti, ma anche li ha attirati nel

la propria orbita, con una tendenza alla cooptazione delle campagne di protesta. Gli effetti di queste alleanze sono stati contraddittori: se da un lato i movimenti non si sentivano isolati, dall’altroperò essi tendevano a essere identificati con una sinistra minorita-

-* ria e ancora non pienamente legittimata.Un’altra osservazione può essere fatta a questo proposito: la si

nistra tradizionale non sempre appoggia i movimenti della sinistra

libertaria. Come è stato già notato nella letteratura sulla protesta, irapporti tra la «vecchia» sinistra e i movimenti della sinistra libertaria oscillano tra la cooperazione e-la competizione. Cosa influenza la posizione della sinistra tradizionale rispetto ai movimenti della sinistra libertaria? Fra coloro che hanno prestato attenzione allerelazioni fra i partiti di sinistra e la protesta, Hanspeter Kriesi hasuggerito che

se i socialdemocratici sono all’opposizione, essi approfittano delle sfide deiNms  [Nuovi movimenti sociali, N.d.A.] dirette al governo. [...] Se al governo, i socialdemocratici non solo si trovano di fronte a vincoli elettorali, maoperano anche sotto i vincoli della politica istituzionale e sotto le pressionidelle forze sociali dominanti [...] Per massimizzare le loro possibilità di essere rieletti, essi cercheranno di realizzare compromessi che favoriscono laparte centrale del loro elettorato. (Kriesi 1991: 19; cfr. anche 1989: 296-97)

Il caso italiano aiuta a specificare queste previsioni: nella seconda metà degli anni Settanta, infatti, il Pei, nonostante non fosse algoverno, esprimeva una forte .diffidenza rispetto ai movimenti. Imovimenti della sinistra libertaria erano così privi di canali di accesso al sistema decisionale, e ciò ha favorito sia la radicalizzazioneche il riflusso. Viceversa, quando il Pei - e in seguito il P d s  - si sono dimostrati nuovamente disponibili verso gli attori emergenti, ab

bracciando programmi di riforme, le forme di protesta sono nuovamente divenute più moderate. f 

Una conclusione deriva dal nostro discorso su oppositori e alleati. Nonostante i movimenti collettivi contribuiscano all’emerge-re di tematiche nuove, trasversali rispetto ai partiti, essi tendono alcontempo ad allinearsi sull’asse destra-sinistra. Tra i movimenti della sinistra libertaria e i partiti tradizionali della sinistra si realizza

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una sorta di divisione del lavoro, dove la sinistra tradizionale offrecanali di accesso al sistema politico mentre i movimenti contribuiscono con il loro stimolo a ricreare risorse di militanza per la «vecchia» sinistra/Mentre l’alleanza con i partiti serve ai movimenti a

ovviare alla loro povertà di nsorse istituzionali, l’alleanza con i movimenti porta ai partiti delle iniezioni di entusiasmo (e di attivisti).Ciò vuol dire che non si può parlare di una vera e propria competizione tra partiti e movimenti, dal momento che essi hanno bisogno di risorse diverse e giocano ruoli differenti. Si può aggiungerecomunque che, in alcune circostanze, questo tipo di divisione dei

 /compiti può indebolirsi e i movimenti possono svolgere effettiva-

' mente un ruolo di supplenza rispetto ai partiti, cercando canali autonomi di accesso ai centri decisionali e penetrando le istituzionirappresentative.

Il processo di autonomizzazione dei movimenti collettivi puòessere spiegato in Italia da due processi, entrambi divenuti particolarmente visibili negli anni Novanta. Da un lato, il sistema dei partiti è entrato in crisi di fronte agli scandali legati alla esposizione diuna corruzione generalizzata che l’opposizione aveva in qualche

modo tollerata. In secondo luogo, negli anni Novanta si sono consolidati cariali di accesso diretto al sistema politico. In altre parole,come effetto dell’azione degli stessi movimenti della sinistra libertaria si sono trasformate ánche le opportunità politiche tendenzialmente più stabili. Se guardiamo in prospettiva storico comparata,le caratteristiche istituzionali del sistema politico nei primi decennidella Repubblica italiana identificavano una struttura delle oppor

tunità di tipo chiuso, in cui l’accesso alle arene delle decisioni pubbliche èra reso difficile dalla struttura centralizzata del nostro paese. Mentre, inoltre, la "divisione funzionale dei poteri era piuttosto

- accentuata.il ruolo pervasivo dei partiti tendeva a ridurre nei fattil’indipendenza reciproca di potere legislativo, esecutivo e giudiziario. A livello della struttura^stituzionale, è stato osservato nel casoitaliano un «assetto istituzionMe contraddittorio, caratterizzato da

una Costituzione avanzata ma soltanto in parte attuata e nello stesso tempo da una legislazione ordinaria formulata nel ventennio fascista o addirittura nell’Italia pre-fascista ed essenzialmente autoritaria soprattutto nel rapporto tra Stato e cittadini» (Tranfaglia1991:329) .

Le reazioni alle proteste sono state inoltre caratterizzate da strategie di esclusione, riflessesi in una legislazione che ha definito i po-

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teri e le strutture delle forze di polizia considerando come loro compito prioritario l’ordine pubblico, e come nei fatti secondaria la lotta alla criminalità. Non a caso, molte delle leggi che regolavano l’ordine pubblico e i diritti di manifestazione - tra cui lo stesso Testo

unico di pubblica sicurezza - erano un pesante residuo della storiapre-repubblicana. Una polizia militarizzata e addestrata alla repressione dura delle manifesta^joni di massa non aveva molti strumenti per opporsi ai processi di radicalizzazione della protesta. Laconcezione tradizionale della polizia come longa manus del potereesecutivo sopravvisse inoltre anche dopo la seconda guerra mondiale. Come ha giustamente sottolineato uno studioso inglese:

Nel 1949, il rifiuto dei ministri democristiani di smilitarizzare la polizia riflesse l’immagine che la principale funzione della polizia era la sicurezza interna dello stato - il mantenimento dell’ordine pubblico - piuttosto che la prevenzione e la lotta contro il crimine. E in questi ultimi duecampi il corpo di polizia (Corpo delle guardie di pubblica sicurezza) è rimasto a lungo sottosviluppato, mancando sia di esperienza che di equipaggiamento. (Furlong 1981: 81)

Un sistema istituzionale tendenzialmente chiuso si intrecciòcon una concezione dei diritti di manifestazione come subordinatiall’ordine pubblico. In una immagine machiavellica dello Stato, ilfine del mantenimento dello status quo giustificava l’uso di mezzianche illeciti - quasi da «sporca guerra». La polarizzazione ideologica serviva a giustificare politiche selettive di accesso alle istituzioni. L a «conventium ad escludendum» nei confronti del Partito co

munista si riflesse in strategie di esclusione anche nei confronti deisindacati, portando alla spaccatura della confederazione e rinviando fino al 1969 ogni riconoscimento del sindacato come attore legittimo del sistema delle relazioni industriali. In queste condizioni,la radicalizzazione dello scontro è risultata da un intreccio di sospetti reciproci tra i principali attori sulla «affidabilità» democratica dell’awersario. Così, le istituzioni percepirono la protesta come

un grave pericolo per la sopravvivenza della democrazia, mentre gliattivisti dei movimenti si convincevano che il sentiero delle riformesarebbe stato ineluttabilmente interrotto da un colpo di stato delladestra, appoggiato dalla C ia .

Guardando al processo di evoluzione dagli anni Sessanta aglianni Novanta, abbiamo comunque potuto osservare delle trasformazioni profonde anche in quegli aspetti delle istituzioni e della

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cultura che definiscono le opportunità politiche per un movimento. Se le strategie tradizionali sjjlproducono attraverso i processi disocializzazione e la creazione di istituzioni, eventi traumatici pos

sono comunque mettere in discussione regole interiorizzate e le istituzioni si possono trasformare in maniera anche profonda. Così inItalia, mentre vari attori politici sfruttavano le pressioni provenienti dai movimenti per avviare processi di riforme, l’esperienza traumatica del terrorismo accelerava il ripensamento sulle tattiche dicontrollo della protesta.

I movimenti della sinistra libertaria hanno infattèlfontribuito aprodurre rilevanti mutamenti sia in termini legislativi che in termini culturali. Guardando alle domande specifiche avanzate dai movimenti collettivi, gli esiti della protesta sono stati spesso giudicatiinsoddisfacenti/una riforma organica dell’università ancora aspetta di vedere la luce; le donne continuano a essere discriminate, senon formalmente nei fatti, sul mercato del lavoro; i servizi urbanisono sempre più carenti; i missili nucleari sono stati installati a Co-miso; i problemi dell’ambiente si aggravano. Le pur importanti

riforme in relazione a famiglia, lavoro, aborto, carcere, malattiamentale, sanità e casa hànno avuto una difficilissima implementa-zione'lMelle fasi di bassa congiuntura economica, le donne e i giovani hanno continuato a pagare per primi in termini di disoccupazione e sottoccupazione. Tuttavia, i movimenti sono riusciti a produrre importanti riforme in termini di accesso al sistema delle decisioni. Mentre lo Statuto dei lavoratori portava al riconoscimento

della presenza sindacale in fabbrica, altre leggi hanno trasformatola struttura-delle;.opportuhità politiche per i nuovi attori collettivi.Nuovi canali d’accesso sono stati aperti attraverso l’implementa-zione - seppure parziale', in assenza di autonomia tributaria - dell’ordinamento regionale; il decentramentoNwqjrninistrativo (con l’elezione di consigli scolastici e di quartiere); l’introduzione del referendum; la progressiva autonomizzazione della magistratura dal

potere politico (in particolare con l’ampliamento del ruolo delConsiglio superiore della magistratura e gli automatismi nella carriera).

Ma oltre all’apertura formale del sistema delle opportunità istituzionali, si è avuta una trasformazione culturale, con una tendenza a sostituire le strategie esclusive con strategie integrative. Il Sessantotto ha prodotto, nel lungo periodo, un ampliamento dei confini della politica. Come ha osservato Pasquino (1991: 352), a par

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tire dal movimento degli studenti si è avuto un cambiamento neimodi di fare politica dei cittadini:

Tecnicamente si deve sostenere che si è ampliato e differenziato il repertorio degli strumenti di partecipazione politica e di comunicazione politica. Dalla politica convenzionale, che si dipanava quasi tutta dentro leistituzioni e in rapporti interorganizzativi, si è passati a una politica che ètalvolta extra-istituzionale, talvolta anti-istituzionale, ma soprattutto che faricorso a forme di espressione eterodosse (che non significa necessariamente violente) e a forme di comunicazione che saltano spessissimo la mediazione politica e sindacale.

Per quanto riguarda la concezione della protesta, abbiamo assistito, in particolare, a un processo di «normalizzazione» di molte forme di azione collettiva, insieme a una contemporanea crescente critica delle forme di azione più radicali. Mentre la protesta pacifica è stata legittimata come forma di pressione politica, i repertori violentitendono ad essere sempre più stigmatizzati come criminali.

4. Osservazioni conclusive

Tra gli obiettivi di questo saggio vi è stata l’elaborazione di unmodello esplicativo dell’evoluzione dei comportamenti delle famiglie di movimenti sociali, attraverso l ’identificazione di variabili indipendenti (quali i fattori interni e il contesto strutturale) e di uninsieme di variabili intervenienti. Queste ultime sono state concet-

tualizate come i comportamenti del sistema di alleanza e del sistema di conflitto interagenti con una famiglia di movimenti sociali.Senza potere valutare il peso relativo di questo complesso di variabili sui movimenti libertari di sinistra, abbiamo tuttavia propostoalcune ipotesi, argomentandole sulla base dell’analisi dello sviluppo dei movimenti della sinistra libertaria in Italia.

Per quanto riguarda il contesto strutturale, abbiamo rilevato

che i comportamenti dei movimenti divengono più moderati manmano che migliorano le possibilità di accesso al sistema politico daparte degli «sfidanti» e si attenua il conflitto di classe. Variabili interne, come le risorse organizzative e culturali disponibili per i movimenti, sembrano favorire la tendenza dei movimenti a sopravvivere anche in condizioni esterne sfavorevoli e, nel lungo periodo,spingono ad atteggiamenti e forme di protesta più moderate. G uar

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dando ancora al contesto esterno, la tendenza al maggiore pragmatismo nei comportamenti dei movimenti e dei loro interlocutori ap pare accentuata da trasformazioni istituzionali e culturali di lungoperiodo. I^a diffusione dei movimenti può essere una risposta alla

complessita\:rescente delle democrazie, dove partiti e gruppi dipressione non offrono forme di rappresentanza sufficienti. La presenza di canali di accesso al potere politico e la istituzionalizzazione del conflitto di classe, con lo sviluppo del welfare state, sembrano avere moderato i comportamenti dei movimenti sociali.

La nastra attenzione si è concentrata, cofnunque, sul ruolo deisistemi di alleanza e di conflitto sui comportamenti delle famiglie di

movimenti sociali. L’analisi di un ^ n g o arco di tempo ha permessodi andaié oltre quelle interpretazioni che attribuiscono caratteristiche tendenzialmente stabili - complessivamente moderate o complessivamente radicali - alle famiglie nazionali di movimenti collettivi (ad esempio, Kitschelt 1986). I cambiamenti osservati nel tempo devino essere invece, ovviamente, spiegati attraverso fattori che,anch’essi, mutano nel tempo. L a nostra analisi sembra indicare chetra le variabili che più influenzano le scelte strategiche dei movimenti della sinistra libertaria vi è l’atteggiamento del maggiore partito della sinistra verso le riforme e verso la protesta, prescindendodal fatto che questo partito sia aT governo o all’opposizione. Più èostile il suo atteggiamento rispetto ai movimenti della sinistra libertaria, più questi ultimi tendono a radicalizzarsi. Per quanto riguarda il sistema di conflitto, i movimenti contemporanei - così comeper quelli del passato - tendono a reagire ad un aumento della tol

leranza per le azioni di protesta con comportamenti più moderati.Ma soprattutto, abbiamo osservato la nascita di una società di

movimenti. In quanto nuovo attore della rappresentanza, i movimenti sociali si sono rafforzati strutturalmente e hanno conquistato canali autonomi di accesso al sistema delle decisioni. In un mondo sempre più complesso, i movimenti sono apparsi come una formula indispensabile per la difesa di beni pubblici. In questo senso,

l’analisi del caso italiano insegna che essi non sono una reazione sistemica a patologie passeggere, ma una nuova forma di espressionedi domande collettive. Al di là delle forme congiunturali che i movimenti hanno acquisito e acquisiranno nel tempo, il diffondersidelle risorse e competenze necessarie alla protesta fa sperare in unrafforzamento della nostra democrazia, nonostante i pericoli che altre trasformazioni sociali e tecnologiche portano con sé^

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INDICE DEI NOMI

Accattoli, Luigi, 125.Accornero, Aris, 42, 83, 84n, 117 e n.Addis, Elisabetta, 118n.Adinolfi, Francesco, 132.Almirante, Giorgio, 125.Amato, Giuliano, 147, 156-7.Andreotti, Giulio, 81, 84-5, 155, 157.

Balducci, padre, 39.Barbagallo, Francesco, 31.Barbagli, Marzio, 26 e n.Barcellona, Pietro, 137-8.Barone, Cinzia, 97, 102.Bascetta, Marco, 138.Battistelli, Fabrizio, 93-4, 102, 104-5,

108, 113, 115, 121n.Beccalli, Bianca, 80, 125.

Beckwith, Karen, 81.Benford, Robert D., 10.Berlinguer, Enrico, 125.Berlusconi, Silvio, 4, 155, 165.Bernocchi, Piero, 78.Bianchi, Marina, 103.Bianconi, Giovanni, 68.Biorcio, Roberto, 97n, 112 e n, 113n,

118n, 121n, 139, 152.Bobbio, Luigi, 25-6, 58, 60.Boccia, Maria Luisa, 54, 64.Bongiovanni, Bruno, 38.Boschi, 67.Bossi, Umberto, 134 e n, 135, 144.Boucher, David, 63.Brand, Karl-Werner, 6, 10, 13, 178,

181.Braun, Michael, 155.Brivio, 134n.

Calabrò, Anna Rita, 125.Canosa, Romano, 45-6, 86.Canteri, Raffaello, 139n, 140-1.Capanna, Mario, 73.Caselli, Giancarlo, 59.Cassola, Carlo, 108.Castellani, Alessandra, 163.Castellano, Luciano, 61.

Castells, Manuel, 65.Ceri, Paolo, 114.Chiaromonte, Franca, 99.Ciampi, Carlo Azeglio, 147, 156.Ciuffreda, Giuseppina, 55, 72.Colombo, Andrea, 138n, 149.Corbetta, Piergiorgio, 26 e n.Cossiga, Francesco, 156.Craxi, Bettino, 11^7, 120, 124n, 155,

157.Curi, Umberto, 138n.

D’Amelia, Marina, 123.Dahrendorf, Ralph, 158.Dal Lago, Alessandro, 163.DiHp Chiesa, Carlo Alberto, 131, 149.De Ambrogio, Ugo, 124.De Biasi, Rocco, 163.De Giorgio, Michela, 192.

De Lorenzo, Francesco, 157.De Lorenzo, generale, 48n.De Luna, Giovanni, 31, 35, 46, 134,

143, 145.De Lutiis, Giuseppe, 48n.De Michelis, Gianni, 157.De Mita, Ciriaco, 155.Della Porta, Donatella, 5n, 6-7, 12-3,

14n, 15, 20n, 36-7, 47, 59-60, 74,

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77,88,111,119,121,129,155,173.Della Seta, 70n.Dente, Bruno, 81.Diamanti, Ilvo, 134-5, 141, 143-4,

150, 153, 158-9.

Diani, Mario, Vn-Vill, 4, 5n, 73, 82,96, 97 e n, 98, 101, 116, 122-3, 153e n.

Donati, Pierpaolo R., 96, 98.Donegà, Claudio, 144.

Eisinger, Peter, 13.Eltsin, Boris, 152.Ergas, Yasmine, 63n, 64, 73.

Falcone, Giovanni, 149-50.Fanelli, Costanza, 99.Fanfani, Amintore, 21.Farro, Antimo, 73.Ferraresi, Franco, 48n, 87n, 162.Fiasco, Maurizio, 69.Fillieule, Olivier, 5n.Fini, Gianfranco, 136, 164.Flamigni, Sergio, 87.

Forlani, Arnaldo, 155, 157.Frabotta, Biancamaria, 55,72.Fraser, Ronald, 43-4.Fuchs, Dieter, 145.Furlong, Paul, 184.

Gallucci, Carlo, 162.Gamson, Bill, Vili.Garner, Roberta, 6, 14n.Gerlach, Luther P., 9.

Ginsborg, Paul, 21, 86, 120.Giovannini, Paolo, 117.Goldstein, Robert J., 179.Goria, Giovanni, 157.Grazioli, Marco, 56, 65, 71, 78, 112.Grevi, Vittorio, 47.Grispigni, Marco, 30, 48.Guarnieri, F., 55.

Hellman, Judith, 81.Hitler, Adolf, 162.Hunt, S.A., 10.

Ibba, Alberto, 161.Ignazi, Piero, 124, 164.Impastato, Giuseppe, 131.Inglehart, Ronald, 113.Irvin, Cynthia, 26, 81.

Jervolino, 142, 155.Jotti, Nilde, llOn.

Kennedy, John F., 21.Kerbo, H.R., 179.

Kitschelt, Herbert, 7, 13, 187.Klandermans, Bert G., Vili, 13-4.Klingemann, Hanns-Dieter, 145.Kriesi, Hanspeter, Vii, 6, 9, 13-4, 111,

181 e n ,182.

L’Abate, Alberto, 120n.La Malfa, Giorgio, 157.La Pira, Giorgio, 39.Lama, Luciano, 86.Lange, Peter, 26, 81.Le Pen, Jean-Marie, 152.Leccardi, Carmen, 125.Leoni, 134n.Leoni, Diego, 33 e n.Lo Russo, Francesco, 88.Lodi, Giovanni, 56, 65, 71, 78, 93-5,

99, 102, 104, 112, 122.Lumley, Robert, 30.

Magister, Sandro, 154.Mammì, 155.Mancino, 161n.Manconi, Luigi, 44, 80, 101, 112, 154.Mancuso, Carmine, 131.Manghi, Bruno, 41.Mannheimer, Renato, 139 e n, 141.Marchi, Valerio, 161n, 162-3.Martelli, Carlo, 155, 157.Marx, Gary T., 15.Masi, Giorgiana, 88.Masi, Paola, 98.Mastropaolo, Alfio, 132n.Mattei, Stefano, 60n.Mattei, Virgilio, 60n.Mayer, Margit, 124.Mazzi, don, 56.Mazzolari, Primo, don, 39.

Mazzoleni, Gianpietro, 150n.McAdam, Doug, Vili, 5n, 12-3.McCarthy, John, Vm, 5n, 9, 14n, 173.Melucci, Alberto, Vili, 8, 38, 47, 70,

106, 112, 153, 177.Mèny, Yves, 155.Miccichè, 67.Migaie, Lia, 98.Migone, Gian Giacomo, 45.

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Milani, don, 39.Milosevic, Slobodan, 152.Monicelli, Mino, 26.Mormino, Maria, 55, 96, 98, 103.Moro, Aldo, 21,52, 76, 84, 87, 156.

Morone, 134n.Moroni, 134n.Moroni, Primo, 132. #Moscovici, Serge, 11.Muller, Lothar, 37n.Mussolini, Benito, 162.

Neidhardt, Friedhelm, Vii-Vm, 5n,173, 180.

Novelli, Diego, 67-9, 140.

Orlando, Leoluca, 132, 139n, 140-2,151.

Ortoleva, Giuseppe, 22, 28, 33, 43.

Pagano, Alessandro, 81.Pajetta, Giovanna, 136, 145.Palombarini, Giovanni, 61.Paolo VI, papa, 40.

Pasquinelli, Sergio, 124.Pasquino, Gianfranco, Vii , 77, 88,185.

Passerini, Luisa, 43, 63n.Pellizzari, Tommaso, 132n.Pertini, Sandro, 120.Pisetta, Enrico, 59, 68-9, 76.Pizzorno, Alessandro, Vili, 51, 175n.Pomeranzi, Bianca, 99.Putnam, Robert D., 114.

Ramella, Francesco, 124.Ranci, Costanzo, 124.Rapoport, Anatol, 181.Rauti, Pino, 136, 164.Reagan, Ronald, 107, 109.Regini, Marino, 75.Regonini, Gloria, 81.Reiter, Herbert, Vili.

Revelli, Marco, 29, 35, 87n.Romualdi, Pino, 125.Ronci, Donatella, 99.Rootes, Chris, 37n.Rovelli, Cesare, 99.Ruberti, 142.Rucht, Dieter, Vii , 5n, 6-7, 10, 12-3,

14n, 111.Rumor, Mariano, 84.

Russo, 142.Ruzza, Carlo E., 150.

Salvadori, Bruno, 151.Sani, Giacomo, 158.

Sartori, Giovanni, 8.Scalfaro, Oscar Luigi, 157.Schmidtke, Oliver, 150.Schmitter, Philippe, Vili.Schneider, Jane, 131, 136.Schneider, Peter, 131, 136.Segatti, Paolo, 136, 143, 158.Seidelman, Raymond, 81-2.Smelser, Neil J., 10.Snow, David A., Vili, 10, 141.

Sorlini, Claudia, 73.Spadaccia, 72n.Spadolini, Giovanni, 120.Staderini, Michi, 98.Statera, Gianni, 23.

Tambroni, Fernando, 21.Tarrow, Sidney, ViiViii, 4, 6, 10, 13,

23,24n, 25-6,31-2,34,36-7,40,49,56, 57 e n, 74, 81, 168, 173, 179,181.

Taviani, Ermanno, 142, 149.Teodori, Massimo, 26.Tiliacos, Nicoletta, 118n.Tilly, Charles, 11, 14, 179.Torres, Camillo, 40.Totaro, Lorenzo, 132n, 133, 142.Touraine, Alain, Vii-Vm, 38.Tranfaglia, Nicola, 67-9, 183.

Turnaturi, Gabriella, 99-100, 103n,106, 113, 119^

Useem, Bert, 181.

Vannucci, Alberto, 121.Vassalli, 142.Vecchi, Benedetto, 132.Vedovati, Claudio, 142, 149.Verucci, Guido, 40.

Walesa, Lech, 152.Walsh, E.J., 175.Wieviorka, Michel, Vm.Wilson, John, 179.

Zald, Mayer N„ Vm, 5n, 6, 9, 14, 173,181.

Zibecchi, 67.

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INDICE DEL VOLUME

Premessa

Movimenti della sinistra libertaria e protesta. Una introduzione

1. Cosa sono i movimenti sociali e perché ce ne occupiamo,p. 4 - 2. Cosa spiega l’evoluzione dei movimenti: dove guar

dare, p. 11 - 3 . 1 temi affrontati in questo libro, p. 16.

II. La protesta studentesca e l’emergere di nuovi movimenti sociali negli anni Sessanta

1. Le strutture organizzative: dall’assemblearismo alla Nuovasinistra, p. 22 - 2. L’ideologia: dal rivendicazionismo studentesco alla rivoluzione proletaria, p. 26 - 3. Le forme d ’azione:

dalla resistenza passiva alla violenza difensiva, p. 32 - 4. Ambiente esterno ed emergere di una nuova famiglia di movimenti sociali, p. 37 - 4.1. Sintomo di crisi o nuovo movimento sociale?, p. 37 - 4.2. Il movimento studentesco e la «vecchia» sinistra, p. 39 - 4.3. Il movimento studentesco e lo Stato, p. 44.

III. Movimenti collettivi e violenza politica: la radicalizza-

zione della protesta1. La struttura organizzativa: frammentazione e settarismo,p. 53 - 2. Ideologia: fondamentalismo e riflusso, p. 62 Q ) Ciclidi protesta e violenza politica, p. 70 - 4. Marginalità o margina-lizzazione? Alcune spiegazioni della violenza politica, p. 77 -

( Ì O L a «seconda società», p. 77 - 4.2. Isolamento e radica-lizzazione, p. 80 - 4.3. Repressione e radicalizzazione, p. 84.

&

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IV. Un decennio pragmatico? I movimenti collettivi neglianni Ottanta 91

1. Organizzazione: tra gruppi di base e associazionismo, p. 92 -

2. Ideologia: tra «single issue» e utopia, p. 100 - 3. Repertori:tra azione esemplare e pressione politica, p. 107 \i)Fine deimovimenti o società di movimenti?, p. I l i - 4.1. Cleavages:individualismo postmoderno?, p. I l i - 4.2. Sistema di alleanze: cooperazione a term ine^T lT?)- 4.3. Assimilazione epragmatismo, p. 119. ^ —

V. Movimenti e protesta in Italia. Alcuni scenari per gli

anni Novantaanni Novanta 1291. Partitizzazione o dissoluzione?, p. 130 - 2. Nuove famiglie