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Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri Roma 28 novembre 2011 Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori EMBARGO fino al 28 novembre 2011

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Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro

Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri

Roma 28 novembre 2011

Il profilo nazionale degli immigrati imprenditori

EMBARGO fino al

28 novembre 2011

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Progetto di ricerca di rilevante interesse nazionale (PRIN 07), cofinanziato dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, dal CNEL e dalle Università di Milano, Pavia e Catania. Responsabile nazionale prof. Antonio M. Chiesi, Università degli Studi di Milano. Curatrice del rapporto Dr. Deborah De Luca Gruppo di ricerca: Unità di Milano : prof. Maurizio Ambrosini, dr. Ferruccio Biolcati Rinaldi, dr. Eleonora Castagnone, prof. Antonio M. Chiesi, dr. Deborah De Luca, Università degli Studi di Milano, dr. Maria Fabbri, Università degli Studi di Trento, Federica Santangelo, Università di Bologna. Unità di Pavia: prof. Antonio Mutti, Università degli Studi di Pavia, dr. Marco Rinaldini, Università di Modena e Reggio Emilia. Unità di Catania: Prof. Michelina Cortese, dr. Maurizio Avola, Università di Catania. Ha partecipato al coordinamento generale il dr. Elio Ciaccia, consigliere del CNEL. Contributi tecnici: dr. Giuseppe Bea, CNA, dr. Carlo Catena, Centro Studi CNA Nazionale, dr. Antonio Payar, Confartigianato, dr. Angela Fucilitti, INPS, dr. Francesco Di Maggio, già responsabile Direzione flussi migratori, INPS. La ricerca si è avvalsa della collaborazione di esperti, rappresentanti di associazioni imprenditoriali, dirigenti aziendali. Si ringrazia in particolare: Luca Galli, segretario generale Confartigianato di Prato, Alessandro Ligabue, dirigente Credito Emiliano, Antonietta Mundo, responsabile coordinamento generale statistico attuariale INPS.

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Indice 1. Premessa

Prima parte

2. Il ruolo degli imprenditori immigrati nello svil uppo della piccola impresa in Italia

3. I fattori di diffusione dell’imprenditorialità s traniera sul territorio italiano

Seconda parte

4. Commercianti cinesi a Catania: risorse competitive s strategie imprenditoriali

5. Imprenditori egiziani nel settore edile a Milano

6. Imprenditori nord africani nel settore metalmeccanico a Modena Reggio Emilia

7. Imprenditori cinesi nel settore delle confezioni e dell’abbigliamento a Prato

8. imprenditori marocchini nel settore del “food” a Torino

9. Imprenditori immigrati a Trento: trasporti ed ed ilizia a confronto

Terza parte

10. Percorsi e strategie imprenditoriali di fronte alla crisi

11. Considerazioni sugli imprenditori di successo

Riferimenti bibliografici

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1. Premessa

Questo volume riporta i risultati complessivi di un progetto di ricerca pluriennale, che ha impegnato le Università di Milano, Pavia e Catania e si è giovato della collaborazione operativa, nonché del cofinanziamento del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, attraverso l’Organismo Nazionale di Coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri. Il progetto ha coinvolto a livello locale anche le principali Associazioni di rappresentanza degli interessi degli artigiani e della piccola impresa, in particolare Confartigianato e CNA.

Nonostante la consolidata tradizione internazionale di studi e ricerche sulla diffusione e la specificità del comportamento imprenditoriale tra i membri di differenti gruppi etnici, in Italia questo ambito di indagine si è sviluppato grazie a ormai numerosi studi settoriali o locali, che tuttavia rimangono ancora a forte carattere esplorativo. La mancanza di sistematicità di questi studi impedisce comunque di delineare un profilo nazionale del fenomeno e dei soggetti protagonisti di uno sviluppo locale che non sembra risentire della crisi globale iniziata nella seconda metà del 2008.

Il progetto ha utilizzato criticamente le teorie specifiche sviluppate negli anni recenti in ambito europeo, che suggeriscono di combinare sia fattori di domanda (vacancy chain, ethnic enclave, ethnic economy) che di offerta (propensione al rischio e dotazione di capitale sociale, capitale umano e strategie di accumulazione ‘originaria’ del capitale economico). Inoltre, l’attenzione al ruolo giocato dal capitale sociale, alla costruzione dei rapporti fiduciari coetnici e interetnici e all’acquisizione della reputazione ha permesso di arricchire le interpretazioni teoriche sopra richiamate e di contribuire all’innovazione teorica nell’ambito della letteratura sull’imprenditorialità etnica.

Il progetto prevedeva diverse fasi. Una prima fase si è basata su diverse fonti istituzionali o associative (Unioncamere, INPS,

arcvhivio CNA-Caritas) allo scopo di analizzare l’andamento nel tempo per settore, per nazionalità del titolare e per provincia di insediamento, la tendenza alla specializzazione settoriale e alla crescita occupazionale. Questa fase è stata favorita anche dall’utilizzo sistematico di ricerche recenti promosse dal CNEL stesso, come quelle pubblicate annualmente sugli indici di integrazione degli immigrati in Italia.

In una seconda fase, accanto all’analisi delle imprese, condotta con un approccio quantitativo basato sul confronto tra le basi di dati disponibili, sono stati condotti studi di sfondo in sei aree locali, dove la presenza di imprese di immigrati è più diffusa e caratterizzata settorialmente.

La terza fase ha riguardato una campagna di interviste, realizzate tra marzo a settembre 2010, rivolte ad imprenditori immigrati nelle sei aree locali individuate, allo scopo di rilevare le principali caratteristiche dell’attività imprenditoriale, del contesto familiare, di selezionati atteggiamenti e del network delle relazioni interpersonali. L’approccio quantitativo ha rappresentato la base dell’analisi della dotazione di capitale sociale, umano ed economico e del rapporto tra queste risorse e la dinamica aziendale. Specifica attenzione è stata dedicata al prestigio e ad altre caratteristiche rilevanti dei contatti interpersonali che costituscono il capitale sociale dell’imprenditore.

La quarta fase è stata svolta con approccio qualitativo ed è stata rivolta ad un sotto-campione di imprenditori di successo, allo scopo di approfondire la storia aziendale e biografica del titolare, le strategie adottate, i rapporti con il paese di orgine, gli atteggiamenti rilevanti riguardanti l’attività di gestione dell’azienda e le sue prospettive, nonché gli aspetti motivazionali e valoriali. Il presente rapporto rappresenta la prima illustrazione complessiva e dettagliata dei risultati della ricerca.

Il volume è aperto da una riflessione di sintesi, scritta da Antonio Chiesi, sul ruolo dell’imprenditorialità immigrata nello sviluppo della piccola impresa in Italia. Segue un’analisi critica delle basi dati disponibili. I capitoli successivi sono dedicati ciascuno ad una delle sei aree

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territoriali emblematiche dello sviluppo imprenditoriale degli immigrati. In particolare il quarto capitolo, scritto da Maurizio Avola e Anna Cortese, analizza la realtà commerciale cinese a Catania, soffermandosi sulle strategie di adattamento locali e globali. Il quinto capitolo, scritto da Federica Santangelo, si focalizza sugli imprenditori egiziani che operano nel settore edile a Milano e aggiorna alla situazione di crisi attuale lo studio di un gruppo di imprenditori già da tempo oggetto di atenzione da parte dei ricercatori. Il sesto capitolo, scritto da Matteo Rinaldini, offre una panoramica dettagliata dell’evoluzione della presenza immigrata a Modena e Reggio Emilia, analizzandone il ruolo nell’ambito dell’economia locale, prima di focalizzarsi sul settore metalmeccanico. Il settimo capitolo, redatto da Maria Fabbri, si occupa di una realtà già oggetto di diversi studi, quella del settore tessile cinese a Prato. Il capitolo aggiorna l’analisi alla situazione attuale, valutando le prospettive future di una realtà estremamente dinamica. L’ottavo capitolo, scritto da Eleonora Castagnone, è dedicato al settore alimentare a Torino e si focalizza sull’esperienza dei marocchini. Il nono capitolo, scritto da Anita Da Col e Deborah De Luca, ha come oggetto l’imprenditorialità immigrata a Trento, confrontando la situazione dei due settori economici più rappresentativi della realtà locale, quello edile e quello dei trasporti, in cui le imprese di immigrati mostrano un notevole radicamento.

Il decimo capitolo, scritto da Deborah De Luca, propone infine un’analisi complessiva dei dati raccolti, soffermandosi su alcuni aspetti centrali dell’imprenditorialità immigrata e mettendo in luce le differenze tra i diversi gruppi etnici e tra i diversi settori di attività, nonché il ruolo chiave della dimensione di impresa.

L’Unidicesimo capitolo, scritto da Antonio Mutti, sviluppa alcune considerazioni nate dagli approfondimenti qualitativi suggeriti dalle esperienze di imprenditori di successo.

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2. Il ruolo degli imprenditori immigrati nello svil uppo della piccola impresa in Italia. Antonio M. Chiesi* 1. La piccola impresa in Europa

La sostanziale stagnazione dell’economia italiana dopo la grande crisi, ma anche il basso livello di sviluppo prima, appaiono in qualche modo come un paradosso, se si pensa che l’Italia è il paese con la maggiore diffusione assoluta di piccola imprenditorialità in Europa e che la Commissione Europea ha più volte sottolineato il ruolo propulsivo che la piccola impresa può giocare per lo sviluppo in Europa1. La definizione europea di SME è stabilita in meno di 250 addetti ovvero meno di € 50 milioni di fatturato, per imprese indipendenti, cioè non controllate da attori economici di maggiore dimensione.

Tab. 1 - Classificazione europea delle SME:

classe di dimensione n. dipendenti Media impresa 50-249 Piccola impresa 10-49 Micro impresa < 10 Imprese individuali 0

Fonte: Eurostat Le tabb. 2 e 3 mostrano che le SME in Europa sono 20,9 milioni, pari al 99,8% del totale delle imprese, con una relativa maggiore concentrazione nel settore della distribuzione. In particolare le micro-imprese rappresentano oltre il 90% del totale. Le SME danno occupazione a 90,6 milioni di lavoratori, compresi i titolari, cioè rappresentano il 66,7% del totale dei posti di lavoro. Il loro contributo alla creazione di ricchezza è stato pari a 3.617 miliardi nel 2008, pari al 58,6% del valore aggiunto totale prodotto dall’economia europea2, con una produttività pro-capite di € 39.900, contro 56.600 delle grandi imprese. La produttività del lavoro rimane correlata positivamente con la dimensione aziendale ed è alla base dell’attenzione delle Autorità europee, che riconoscono il grande contributo occupazionale delle SME, ma anche l’apparente difficoltà relativa soprattutto delle micro imprese. * Università Statale di Milano 1Nel giugno 2008 in ambito europeo è stata approvata la comunicazione Small Business Act (SBA) for Europe, che riconosce il ruolo centrale occupato dalle SME nell’economia europea e auspica un rafforzamento del ruolo da esse giocato, la promozione del loro ulteriore sviluppo e la relativa creazione di posti di lavoro, contribuendo alla soluzione di problemi che le affliggono, a prescindere dal Paese in cui operano, mediante: la semplificazione amministrativa e burocratica, l’accesso alle fonti di finanziamento, l’accesso a nuovi mercati di sbocco, la difesa delle condizioni per una corretta concorrenza, la formazione delle competenze e della capacità imprenditoriali, la protezione della proprietà intellettuale, l’incoraggiamento della ricerca e dello sviluppo, il sostegno a livello regionale e locale. Al di là della effettiva efficacia delle misure che a livello europeo potranno essere prese in questa direzione, è opportuno sottolineare come queste posizioni ricalchino ciò che da tanti anni viene predicato e talvolta perseguito in Italia. 2 Tutti i settori di attività, tranne le attività finanziarie.

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Tab. 2 – Le SME in Europa 27

Fonte: Eurostat, Size Class Analysis, 2011. L’Italia contribuisce a questo quadro generale con 3.947.000 SME3, di cui il 94,5% micro imprese, contro l’83,0% della Germania, e rientra in un modello “mediterraneo”, condiviso in parte da Spagna, Portogallo, Grecia e Cipro, caratterizzato da una accentuata atomizzazione delle dimensioni aziendali. L’Italia è il paese europeo in assoluto con il maggiore numero di imprese, che rappresentano quasi il 19% del totale Europa27, soprattutto per l’elevato peso delle imprese individuali (20,4% a livello nazionale). Tab. 3 – Il peso delle SME in Europa 27

Fonte: Eurostat, Size Class Analysis, 2011. Di fronte alla crisi le piccole imprese, in tutta Europa, hanno risposto mediamente con maggiore difficoltà, a causa della più bassa produttività del lavoro pro-capite. Tuttavia, come emerge dalla tab. 3, al loro interno si riscontrano importanti differenze di produttività ante-crisi. Infatti le imprese di medie dimensioni, pur mostrando livelli di produttività inferiori alle grandi,

3 Diverse fonti discordanti, ancorché ufficiali, riportano altrettante stime dalla consistenza delle SME in Italia. Qui preme ricordare che sono escluse dal computo le professioni e le attività finanziarie e che il criterio di computo è omogeneo per tutti i paesi europei, garantendo quindi una corretta comparazione internazionale.

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mantengono un notevole vantaggio rispetto alle micro. Queste ultime presentano livelli molto inferiori alla media anche perché, in tutti gli Stati, tendono a concentrarsi nei settori a minore produttività, a prescindere dalla dimensione aziendale4. Non sono disponibili dati sulla produttività delle imprese individuali, ma è plausibile pensare, estrapolando sulla base del rapporto dimensione/produttività, che il loro livello sia ancora più basso. Questo infatti giustifica la diminuzione assoluta delle imprese individuali registrato a seguito della crisi.

In mancanza di dati aggiornati post-crisi, provenienti da Eurostat a livello complessivo dell’Europa, per illustrare questo fenomeno passiamo ai soli dati italiani, fonte Unioncamere.

Come illustrato nel cap. 3, già a partire dalla fine del secolo scorso in Italia si assiste ad un aumento vistoso delle società di capitale tra le piccole imprese e ad una stabilità del numero delle imprese individuali. Queste ultime cominciano ad avere una dinamica negativa già prima dello scoppio della grande crisi. Questi andamenti possono essere interpretati come movimento di progressivo rafforzamento della popolazione delle SME, poiché il peso delle imprese meno produttive inizia a scendere e aumenta invece il peso di quelle di maggiore dimensione, come sono in genere le società di capitale.

I dati Unioncamere, integrati da Caritas/CNA per le imprese di immigrati e aggiornati a giugno 2010 ci dicono che il NI 1997=100 dei diversi tipi di impresa, a metà 2010 sale a 172,6 per le società di capitale, scende a 97,6 per le imprese individuali e scenderebbe addirittura a 90,8, senza l’apporto delle imprese di immigrati.

In sostanza, la resistenza delle micro imprese e delle imprese individuali allo shock della grande crisi è dovuto in parte alla progressiva sostituzione di imprenditori autoctoni con imprenditori immigrati.

Prima di affrontare questo aspetto, che è al cuore dell’indagine complessiva presentata in questa monografia, è però opportuno riprendere il dibattito sulle cause della persistenza della micro impresa in Italia. 2. La persistenza e diffusione delle micro-imprese in Italia5

Gli studiosi si sono a lungo interrogati sulla diffusione della micro impresa in Italia, che rappresenta una specificità unica nel panorama europeo. Le ragioni del persistente nanismo nell’epoca della globalizzazione sono state individuate nelle caratteristiche strutturali dell’economia italiana e nelle barriere istituzionali, che comportano costi crescenti di gestione al superamento di una certa soglia dimensionale. Il primo aspetto si inserisce a sua volta entro il filone interpretativo che sottolinea come, a seguito della fine del fordismo e della produzione di massa nell’ultimo quarto del secolo scorso, la tecnologia e i mutamenti del mercato abbiano favorito una diminuzione della dimensione media ottimale delle imprese nelle economie occidentali (Piore e Sabel 1984, Sengenberger et al. 1990). In questo processo globale l’Italia si sarebbe anzi giovata di una struttura industriale preesistente già orientata alla piccola impresa, rafforzata dalle economie di rete locale e propensa all’integrazione mediante controlli proprietari di scala più elevata. In sostanza già durante la fase fordista, quella italiana appariva come un’economia maggiormente caratterizzata da un’ampia offerta imprenditoriale, cui corrispondeva una struttura occupazionale che lasciava ampio spazio agli indipendenti.

La grande impresa manageriale ha avuto invece in Italia un ruolo storico relativamente modesto, con conseguente sottosviluppo dell’occupazione alle dipendenze. Diversi studiosi ritengono quindi che la struttura produttiva italiana sia maggiormente basata sul binomio mercato – imprenditori (piccoli) che sul binomio gerarchie – manager e che le imprese siano inserite in un contesto economico, sociale e istituzionale tale da indurle a strategie di buy piuttosto che di make, di

4 Ci riferiamo in particolare ai comparti della distribuzione, ristorazione, alberghiero e dei servizi alla persona. 5 Questo paragrafo riprende in buona parte le considerazioni svolte in Chiesi (2009).

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esternalizzazione piuttosto che di internalizzazione. Questa scelta a sua volta è stata favorita dalle economie esterne e dal capitale sociale che ha caratterizzato a lungo i distretti industriali6.

Questi aspetti aiutano a comprendere perché l’Italia, più di altri paesi Sud-europei è caratterizzata da un basso tasso di occupazione e da un’elevata percentuale di lavoratori indipendenti sul totale della popolazione attiva. I posti di lavoro dipendente offerti da imprese e istituzioni sono relativamente meno numerosi che negli altri paesi dell’area euro. In Italia nel 2005 il tasso di occupazione è del 57,6% contro il 65,2% di EU25 e il peso degli indipendenti sul totale degli occupati è del 26,7%, contro il 15,8%. Conseguentemente gli occupati dipendenti sul totale della popolazione in età di lavoro sono il 33,1% contro il 45,2%. E’ quindi evidente che tante imprese piccole o piccolissime, mettono a disposizione molti posti di lavoro autonomo, ma creano poca occupazione alle dipendenze. La loro struttura di gestione è fondata sull’occupazione familiare, più che sul ricorso al mercato del lavoro esterno e la loro gestione è affidata al proprietario, più che a un manager di professione.

Un altro filone interpretativo cerca di spiegare il nanismo delle imprese italiane – non tanto individuando gli equivalenti funzionali alla crescita dimensionale – ma piuttosto gli ostacoli immediati alla crescita, che sono consistiti a lungo in una serie di vincoli imposti dalla legge sulle aziende medie e grandi:

a) obbligo della giusta causa di licenziamento oltre i 15 addetti; b) obbligo di assunzione di soggetti tutelati dalla legge oltre i 15 addetti; c) riconoscimento delle rappresentanze sindacali oltre i 15 addetti; d) obbligo di applicazione di norme più complesse riguardanti la sicurezza oltre i 15 addetti; e) obbligo di conferimento all’INPS delle somme accantonate per il TFR in capo alle imprese

oltre i 50 addetti. Bisogna però ricordare che, in vari modi e in tempi diversi, i primi due vincoli sono stati attenuati e successivamente aboliti già a partire dagli anni ’90. Permane il terzo vincolo, in un contesto di relazioni industriali di progressiva diminuzione dell’influenza del sindacato sui luoghi di lavoro. Il quarto vincolo è stato invece introdotto nel 1994 e il quinto nel corso del 2006. In sostanza, benché mutevole, il sistema dei vincoli normativi costituisce un fattore che non può essere trascurato.

Alcuni studi hanno però mostrano che l’influenza esercitata da questa normativa sulle varie soglie dimensionali delle imprese non presenta chiare evidenze empiriche (Anastasia 1999), tranne che – in misura modesta e per lo meno fino agli anni ’90 – per la soglia dei 15 addetti (Accornero 1999). Le evidenze a disposizione complicano comunque il quadro interpretativo, perché in quest’ultimo studio fanno emergere anche soglie su dimensioni che non possono essere ricondotte alla normativa.

A parte i vincoli di legge, esistono importanti condizioni, derivanti dal funzionamento o dal mancato funzionamento delle istituzioni, che possono indurre le piccole imprese a non crescere. In proposito un tema ricorrente nel dibattito è rappresentato dal regime fiscale riservato alle piccole imprese, alla pratica dell’elusione fiscale e alla portata dell’evasione tout court. Se è vero che la situazione è molto mutata rispetto a quella studiata da Pizzorno (1974) con riferimento alle agevolazioni e alla protezione accordata per ragioni di consenso politico alla piccola impresa, espressione dei ceti medi, i dati sulle denunce dei redditi mostrano un persistente vantaggio fiscale dei lavoratori indipendenti, degli imprenditori e dei professionisti sugli occupati alle dipendenze. Nei decenni a cavallo dei due secoli il mix di inasprimenti fiscali accompagnati da scarsa efficacia dei controlli e i condoni a scadenza quasi prevedibile hanno probabilmente favorito la piccola impresa, più in grado di sfuggire ai vincoli normativi. Il risultato sulle statistiche fiscali è impressionante, poiché la povertà ufficiale si concentra tra gli imprenditori, i professionisti e gli agricoltori, che per il 26,3% hanno dichiarato al fisco nel 2004 meno di 6.000 euro, mentre oltre i 100.000 euro compaiono praticamente solo lavoratori dipendenti. Nel contempo però il prelievo IVA e IRAP tendeva ad aumentare ad un ritmo superiore al PIL7. 6 A loro volta le piccole imprese tendono a compensare la piccola dimensione con l’appartenenza ad un gruppo. 7 Si vedano in proposito i dati riportati nella pagina dedicata al fisco sul Sole 24 Ore del 14 agosto 2006.

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Un’altra importante ragione per non voler crescere può consistere nei differenziali retributivi a favore della piccola impresa, come dimostrano le ormai dtatate ricerche di Contini e Revelli (1992), confermate dal successivo studio di Anastasia (1999), che mostra retribuzioni costantemente inferiori dell’11% circa tra gli operai della piccola impresa rispetto alla media nazionale e addirittura del 26% tra gli impiegati. Questi risultati, basati su fonte Inps, si riferiscono tuttavia alle retribuzioni ufficiali, cui corrispondono i contributi previdenziali e non possono fare luce sui fuoribusta, la cui diffusione potrebbe compensare in tutto o in parte le differenze evidenziate.

Uno dei fattori che gioca invece tradizionalmente a sfavore della piccola impresa è la possibilità di accesso ai finanziamenti. Tuttavia è stato sottolineato che le piccole aziende sono molto restie a ricorrere a capitali esterni (Scanagatta 1999) e fanno affidamento sull’autofinanziamento soprattutto perché hanno paura di perdere il controllo o anche solo l’autonomia nella gestione, che vedrebbe l’interferenza di esterni finanziatori. La paura di interferenze esterne può portare a scegliere di non crescere.

Questo tipo di scelta, che sottostà ai meccanismi che stiamo discutendo, fa emergere la questione del ruolo giocato dalle preferenze dell’imprenditore. Queste vengono normalmente trascurate dalla letteratura economica, ma sono invece tradizionalmente presenti nell’approccio sociologico (Schumpeter 1912, Sargant Florence 1964, Storey 1994). Accornero (1999) fornisce dati a sostegno dell’ipotesi che la piccola dimensione aziendale sia tipica degli imprenditori che provengono dalla gavetta e che sono motivati da aspettative di promozione di ceto, che concepiscono l’impresa soprattutto come luogo di lavoro qualificato, che identificano l’impresa con la famiglia, il capitale investito con il patrimonio familiare, la proprietà con il controllo e l’affidamento a competenze manageriali esterne come un’intromissione e un pericolo per l’autonomia propria e della propria famialia.

Il discorso di Accornero è tuttavia rivolto al passato, spiega in modo convincente come è nata e quale è stato il ruolo della piccola impresa originata negli anni ’70 e ’80 da una classe di imprenditori cresciuti dal basso, in buona parte provenienti dalle fila degli operai nelle regioni industrializzate e dei mezzadri nelle regioni della Terza Italia non ancora industrializzata. Il profilo del piccolo imprenditore di prima generazione è quello di una persona accentratrice, con grande esperienza pratica, indefessa vocazione al lavoro prolungato e spirito di autonomia8, ma con basso titolo di studio e che teme il gap culturale che lo separa dal dirigente.

Questo profilo, in sostanza, sottolinea che, accanto alla volontà di sfruttare razionalmente le opportunità di mercato – come prevede la teoria economica delle preferenze date dell’imprenditore – esisterebbe anche la motivazione ad evitare interferenze esterne alla famiglia o addirittura il timore di perdere il controllo effettivo della propria attività.

Abbiamo discusso poco sopra che: a) i vincoli presi in considerazione dalla letteratura non producono effetti di soglia dimensionale

empiricamente consistenti; b) le motivazioni imprenditoriali non sono esclusivamente dettate dal desiderio di massimizzare

l’efficienza aziendale, come imporrebbero le aspettative di ruolo imprenditoriale, per dirla in termini sociologici. Esistono altre motivazioni dettate dal fatto che l’imprenditore è anche un membro familiare e pertanto è motivato da aspettative di ruolo che privilegiano gli interessi relativi allo status sociale e alla preservazione della sicurezza economica del nucleo nel lungo periodo.

Ciò che l’imprenditore decide di fare non implica necessariamente un’alternativa tra questi due obiettivi – perché non sono indipendenti tra loro9 – ma piuttosto una mediazione continuamente

8 Questi tratti rappresentano un profilo abbastanza costante dei pregi e dei limiti della piccola imprenditorialità italiana, come dimostrano i risultati raggiunti dalla pionieristica indagine condotta negli ani ’50 da Pizzorno a Rescaldina (Pizzorno 1960). 9 Diversi approfonditi studi storici sul rapporto tra impresa e famiglia hanno mostrato che fare prevalere gli interessi dell’azienda su quelli della famiglia, non solo viene giudicato riprovevole anche nelle fasi del capitalismo rampante, ma

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rivista e aggiustata a seconda, appunto, dei vincoli/opportunità esterni, ma anche interni all’organizzazione aziendale, alla demografia familiare e alla fase del corso di vita del nucleo di convivenza.

Per queste ragioni proponiamo un’ipotesi di lavoro che non nega né le ragioni istituzionali, né quelle relative agli aspetti motivazionali, ma assume che il legame tra azienda e famiglia svolge un ruolo positivo nella fase di fondazione e sviluppo dell’impresa, ma diventa un fattore di debolezza quando l’impresa deve crescere e competere a livello globale. E’ quindi un potente fattore che favorisce la nascita delle imprese, ma allo stesso tempo è destinato a frenarne lo sviluppo nel lungo periodo. Infatti il mutamento del rapporto tra impresa e famiglia determina anche un mutamento nelle preferenze degli imprenditori e quindi è alla base di strategie diverse, più difensive, avverse al rischio e maggiormente attratte dal rent seeking. Il fatto che il capitalismo italiano sia stato e sia tutt’ora eminentemente familiare rende questa ipotesi particolarmente rilevante.

In sostanza, date le caratteristiche morfologiche in termini di numeri, dimensioni e assetto proprietario familiare, gli immigrati hanno trovato in Italia terreno relativamente più fertile che in altri paesi europei, per attivare e sviluppare attività di micro-impresa e impresa individuale. 3. Il tessuto di micro imprese in Italia, terreno favorevole allo sviluppo dell’imprenditorialità immigrata

Anche se il problema della spiegazione della diffusione e della persistenza storica delle micro imprese nell’economia italiana rimane comunque aperto, di fatto questa diffusione ha rappresentato un terreno favorevole alla nascita e allo sviluppo dell’imprenditorialità immigrata, più che in altri paesi europei. I dati del capitolo 3 mostrano una significativa correlazione tra presenza di piccola impresa autoctona e diffusione dell’imprenditoria immigrata in quasi tutti i paesi europei e dove negli ultimi due decenni le piccole imprese autoctone hanno diminuito il loro peso sull’occupazione totale, così è stato anche per le imprese di immigrati, che hanno visto ridurre il loro contributo specifico all’occupazione degli immigrati (si vedano in particolare i casi della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo, come esempi più evidenti di questa tendenza, e dell’Italia, nonostante l’aumento assoluto delle imprese con titolare straniero). Rimandiamo al capitolo successivo per la discussione del problema della determinazione numerica delle imprese di immigrati, al di là dell’apparente precisione dei dati istituzionali pubblicati ormai regolarmente dagli organi di stampa. Abbiamo deciso di accantonare questo problema che dipende dall’eterogeneità delle fonti istituzionali, dai problemi del loro reale aggiornamento, dal fatto che queste fonti nascono da esigenze amministrative e fiscali, piuttosto che censuarie, dal problema della definizione di chi sia imprenditore, lavoratore autonomo, amministratore o altro. Confrontando di volta in volta diverse fonti, siamo arrivati alla conclusione che la diseguale presenza delle imprese di immigrati sul territorio nazionale dipenda principalmente da tre fattori: il livello di benessere economico provinciale, misurato attraverso il PIL locale pro-capite, il grado di integrazione locale degli immigrati, misurato attraverso l’indice di integrazione sociale pubblicato annualmente dal CNEL, e la dotazione locale di capitale sociale, misurato attraverso una serie di indicatori elaborati nel corso del Progetto ministeriale di rilevante interesse nazionale – PRIN (Chiesi 2005, 2008). E’ interessante segnalare che dei tre indicatori, due sono relativi alla sfera sociale (integrazione sociale e capitale sociale), uno soltanto è riconducibile alla sfera dell’economia locale (PIL pro-capite). Ma è ancor più interessante sottolineare che due di questi indicatori, in particolare la dotazione locale di capitale sociale e di capitale economico, sono ampiamente riconosciuti dalla

può comportare seri rischi anche per l’azienda stessa. I casi più diffusi vedono però prevalere gli interessi della famiglia su quelli dell’azienda, con esiti alla lunga esiziali per la prima (Romano 1985), o in cui l’attaccamento alla tradizione familiare porta l’impresa alla rovina (Levi 1984).

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letteratura come fattori di successo di qualsiasi tipo di attività imprenditoriale, autoctona o immigrata.

Peso delle imprese di immigrati sul totale delle imprese nelle provincie italiane Per rendere più concreto il nostro discorso, anticipiamo sopra la figura che verrà ampiamente presentata e commentata nel capitolo 3. Essa illustra il peso percentuale delle imprese di immigrati sul totale delle imprese, cioè il contributo che l’imprenditorialità immigrata fornisce alle economie provinciali e dimostra che la concentrazione è maggiore al Nord e nelle aree dei distretti industriali, con qualche attenuazione di questa regola per le provincie del Nord-Est. In conclusione, poiché esiste una correlazione significativa tra diffusione delle imprese di autoctoni e diffusione delle imprese di immigrati, possiamo concludere che le piccole imprese autoctone e quelle degli immigrati condividono in gran parte gli stessi fattori che ne spiegano la presenza. A livello aggregato, le une non sono alternative alle altre, bensì complementari10. Approfondiremo questo aspetto nel paragrafo 5, dopo avere illustrato in modo schematico il profilo e le risorse di cui gli imprenditori immigrati possono fare conto nella loro attività, con particolare riferimento alla dotazione delle tre forme di capitale: capitale economico, culturale e sociale. 4. Le risorse degli imprenditori immigrati e le tre forme di capitale

Come qualsiasi imprenditore, in qualsiasi mercato, anche gli imprenditori immigrati che operano in Italia possono giovarsi di un mix delle tre forme di capitale. La loro specificità consiste

10 Come si vedrà nei capitoli dedicati alle analisi specifiche di area e di settore, questo non significa che gli imprenditori immigrati non possano trovarsi nella posizione di fare diretta concorrenza agli imprenditori autoctoni. Si veda in particolare il caso della piccola distribuzione nel Catanese.

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tuttavia nel giovarsi di queste risorse attraverso meccanismi in gran parte differenti dagli imprenditori autoctoni. Specifichiamo anzitutto cosa debba intendersi per tre forme di capitale, cioè capitale economico, culturale e sociale.

Il capitale economico consiste nella disponibilità di risorse monetarie, che possono essere investite in impianti, macchinari, materie prime e semilavorate, prodotti finiti, acquisto di manodopera, prestazioni e consulenze, ecc…in linea di massima il capitale economico è fungibile, ma può essere immobilizzato ed è soggetto ad un progressivo consumo, che richiede operazioni di ammortamento per poter essere ricostituito.

Il capitale culturale consiste nel complesso delle conoscenze e delle esperienze che l’imprenditore ha acquisito mediante programmi di formazione formale o informale e mediante l’apprendimento delle pratiche decisionali e dei comportamenti appropriati per la soluzione di problemi riguardanti l’attività di tutti i giorni. In linea di principio, particolare rilevanza assume per gli imprenditori immigrati la conoscenza delle lingue e, secondo una consolidata letteratura, la socializzazione alle attività economicamente rilevanti avuta nell’ambito della famiglia di origine (Bagnasco 1977, Trigilia 1986). A differenza del capitale economico, che implica un utilizzo esclusivo, il capitale culturale è personale, ma anche condiviso, e tende ad aumentare attraverso la trasmissione delle informazioni e dei giudizi tra le persone.

Il capitale sociale è meno univocamente definito nella letteratura (Chiesi 2008). Ai nostri fini seguiamo tuttavia la definizione prevalente (Coleman 1990, Lin 2001, Mutti 2002, Flap 2002), che si riferisce alla dotazione individuale di relazioni sociali relativamente stabili e basate sulla reputazione, un grado di essere mobilitate dal soggetto per raggiungere i propri scopi. Poiché le relazioni interpersonali si basano sulla condivisione di elementi culturali, esiste una correlazione tra capitale culturale e capitale sociale (Bourdieu 1980), ma i due tipi di risorsa devono essere tenuti analiticamente distinti e rilevati empiricamente con strumenti diversi (Chiesi 2005).

Commentiamo ora i principali risultati emergenti dall’indagine condotta nel corso del 2010, relativa ad un campione di 200 immigrati imprenditori a livello nazionale. Dopo averne delineato alcuni tratti socio anagrafici essenziali ne discuteremo la loro capacità di accesso alle tre forme di capitale e le loro strategie per ottenerle. Tra gli studiosi dei fenomeni migratori sono ben note le difficoltà di campionamento di popolazioni di immigrati. La pratica di ricerca ormai consolidata anche in Italia ha sempre evitato la costruzione di campioni probabilistici, a causa della difficoltà a reperire elenchi completi delle popolazioni di riferimento, degli ostacoli nel reperimento dei soggetti, della difficoltà a motivarli nell’intervista11. Per questo, anche nel nostro caso, si è fatto ricorso ad una tecnica di campionamento misto, partendo dagli elenchi delle camere di commercio e degli iscritti alle maggiori associazioni artigiane e di piccola impresa e integrando le liste con la tecnica snow ball. Si tratta quindi di una campione non probabilistico, entro cui sono state garantite quote in grado di assicurare la presenza dei gruppi di nazionalità e dei settori più coinvolti dal fenomeno. La descrizione delle caratteristiche socio-anagrafiche dei soggetti campionati ha quindi più un valore di verifica della rappresentatività del campione che un valore descrittivo del fenomeno12. 4.1. Elementi essenziali del profilo socio-demografico Il nostro campione comprende imprenditori provenienti dalla sponda Sud del mediterraneo, dai paesi dell’Est europeo (quindi include anche paesi neo-comunitari come la Romania13), paesi

11 Nella nostra indagine quest’ultima difficoltà è stata affrontata anche con il ricorso di intervistatori co-etnici, meglio in grado di instaurare una relazione fiduciaria, necessaria premessa dell’intervista. 12 Come illustrato nel capitolo 10, il profilo emergente nella nostra indagine trova conferme parziali in diverse indagini pregresse a livello regionale. 13 Occorre ricordare che buona parte degli imprenditori romeni intervistati ha iniziato l’attività prima dell’entrata della Romania nella UE.

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dell’Africa sub-sahariana e paesi asiatici (essenzialmente la Cina e il sub-continente indiano), rispettando quindi le provenienze che maggiormente hanno espresso capacità imprenditoriali. Un aspetto caratterizzante della nostra indagine consiste principalmente nell’individuazione di imprenditori propriamente detti, cioè di titolari di imprese con dipendenti, accanto a un sottocampione di controllo di lavoratori autonomi, titolari di imprese individuali che dichiarano di non avere dipendenti14. I settori considerati sono quelli in cui la realtà dell’imprenditoria immigrata è più consolidata nel nostro paese, nell’ordine: edilizia, commercio, industria metalmeccanica, industria tessile e abbigliamento, servizi. Nel 10% dei casi si tratta di imprenditrici, concentrate soprattutto nella popolazione cinese, mentre nelle altre nazionalità il genere maschile comprende quasi tutti gli intervistati. L’età media è di 41 anni, l’arrivo in Italia risale in media a 18 anni fa15, gran parte sono inseriti in nuclei di convivenza (85% sposati) con figli (80%). Alcuni sono sposati con italiane, soprattutto gli egiziani, a conferma di precedenti indagini condotte a livello locale (Chiesi e Zucchetti 2003, Abbatecola 2004). L’origine sociale conferma i risultati di precedenti indagini condotte a livello locale: nel 37% dei casi gli intervistati provengono da famiglie di commercianti, dirigenti, piccoli imprenditori e professionisti, nel 18% dei casi l’occupazione paterna è tecnica o impiegatizia. La provenienza da ambienti sociali urbani (82%) e relativamente privilegiati è confermata dal fatto che il 91% degli intervistati dichiara di avere goduto di condizioni economiche originarie superiori alla media (34%) o in linea con la media. Le condizioni economiche originarie possono spiegare in parte le motivazioni all’emigrazione, poiché il 41% degli intervistati cita il desiderio di promozione. Tuttavia sono altrettanto presenti motivazioni dettate dalla necessità di reagire ad un peggioramento della situazione (si pensi alle vicende dei Paesi dell’Est nell’ultimo decennio del secolo scorso o a vicende familiari direttamente riferite nelle interviste), poiché un altro 43% dichiara di essere emigrato per risolvere problemi economici. In questi dati si intravedono pertanto sia condizioni potenzialmente favorevoli all’attività imprenditoriale (relativo benessere), sia risposte ad una perdita di status. Non si può sottovalutare tuttavia anche un terzo fattore (che interessa il 26% degli intervistati), che richiama direttamente la propensione al rischio e all’avventura e che, secondo la letteratura classica sull’imprenditorialità è alla base degli atteggiamenti tipici di un’elevata propensione al rischio (Schumpeter 1912). Semplificando e rimandando al capitolo 10 per l’illustrazione delle grandi differenze tra settori e nazionalità degli intervistati, possiamo così riassumere il percorso “medio” della carriera dei nostri imprenditori: studio nel paese di origine dove la maggior parte sviluppa anche esperienze lavorative alle dipendenze, in genere a livello qualificato, emigrazione in Italia all’età di 24 anni, lavoro generico alle dipendenze in Italia, avvio dell’attività imprenditoriale a 33 anni. Occorre sottolineare che il mettersi in proprio non rappresenta un’alternativa alla disoccupazione, solo una minoranza ridotta, al momento di fondare l’azienda era disoccupato (12%). Anche se un’altra minoranza è stata indotta a mettersi in proprio dal precedente datore di lavoro italiano, la maggior parte degli intervistati ha aperto un’attività per libera scelta, allo scopo di guadagnare di più, essere autonomo e non avere capi e valorizzare le proprie capacità e conoscenze nel settore. Il 77% degli intervistati ha fondato l’azienda, il 21% l’ha rilevata e il 2% l’ha ereditata.

Il profilo aziendale collettivo che emerge dall’indagine vede il 35,5% dei casi definibili come lavoratori autonomi, perché privi di personale alle dipendenze, e il restante 64,5% titolari di impresa con un occupazione media di 3,7 addetti, con un range che va da 1 a 28. Se al personale dipendente aggiungiamo le collaborazioni previste dall’ordinamento italiano (parasubordinati, consulenti, stagionali, ecc..) l’occupazione media sale di un addetto, con un range da 1 a 36. La tabella seguente mostra il contributo occupazionale delle imprese con addetti, suddiviso per tipo.

14 La presenza di lavori autonomi, piuttosto che di imprenditori è riscontrabile soprattutto nel settore della piccola distribuzione. 15 Questa lunga esperienza nel nostro paese è in parte conseguenza dei criteri di individuazione della popolazione di riferimento.

15

Occupazione media delle imprese con addetti (dipendenti e collaboratori per tipo)

media addetti composizione % familiari 1,11 30 connazionali 1,32 36 altri stranieri 0,79 21 italiani 0,49 13 Totale 3,71 100

Come per la piccola impresa autoctona, il ruolo della famiglia nella fondazione e soprattutto nella gestione dell’azienda è molto importante. Ben il 58% degli intervistati dichiara di avere un parente a sua volta titolare d’impresa, nel 19% dei casi familiari o parenti hanno contribuito a fornire il capitale iniziale. Un terzo degli imprenditori coinvolgono familiari o parenti nell’attività aziendale e il 30% dell’occupazione totale generata dal campione di imprese analizzate riguarda familiari.

L’indagine ha rilevato alcuni indicatori sintetici del grado di sviluppo tecnologico dell’azienda. Si tratta di indicatori elementari. Ormai diffusi anche nella piccola e nella micro impresa: soltanto nel 38,0% dei casi viene utilizzata la posta elettronica, la disponibilità di un sito internet si limita al 15,0%, il ricorso alla pubblicità interessa il 19,0% dei casi, l’utilizzo di un marchio che richiama la nazionalità del titolare il 16,5%. Gli imprenditori si differenziano ovviamente per un maggiore ricorso a tutti e tre questi strumenti, rispetto ai lavoratori autonomi, ma le differenze non sono enormi (posta elettronica 39,5% contro 35,2%, sito internet 18,6% contro 8,5%), tranne che per il ricorso alla pubblicità (24,8% contro 8,5%) e l’utilizzo di un marchio (24,0% contro 2,8%). 4.2. Le modalità di accesso al capitale economico Per quanto riguarda l’accesso al capitale economico, emerge anzitutto che i capitali necessari per l’avvio dell’attività non sono considerati dagli intervistati un aspetto di primaria importanza. Ciò dipende da una serie di fattori che possono variare da settore a settore e per area territoriale, ma che vedono sempre al primo posto l’elevata capacità di autofinanziamento, resa possibile da un periodo relativamente lungo di occupazione alle dipendenze, alla base di u a fase di “accumulazione originaria”. In questo modo il 66,8% degli intervistati non ha avuto bisogno di capitali di terzi e un restante 10,6% coinvolge familiari e parenti nel rischio di impresa.

Un altro risultato importante che emerge dall’indagine riguarda la capacità del sistema creditizio locale di sostenere gli investimenti di avvio. In sostanza gli imprenditori riescono ad ottenere prestiti dalle banche con una frequenza leggermente superiore a quella con cui li ottengono da familiari e parenti (9,0% contro 8,5%). Naturalmente la capacità di giovarsi di credito bancario è diversa a seconda della dimensione aziendale e l’importanza della disponibilità di capitale aumenta gradualmente con le dimensioni e raggiunge punteggi importanti oltre la soglia dei 5 addetti.

Un altro fattore che riduce l’importanza dell’accesso ai capitali può essere dovuto al fatto che molte attività avviate dagli immigrati non richiedono un’elevata dotazione di capitale iniziale (Ambrosini, 2005). Nel nostro campione, questo è certamente vero per il piccolo commercio, ma non per l’attività industriale metal-meccanica o dell’abbigliamento.

La domanda di capitale aumenta invece nel corso dello sviluppo aziendale, poiché il 69,5% degli intervistati dichiara di avere avuto bisogno di prestiti e nel 30,5% dei casi di essersi rivolto a banche o ad associazioni di categoria, facendo quindi emergere l’importanza di istituti come confidi e consorzi e canali agevolati o convenzionati, tipici del tessuto locale di piccola impresa. La disponibilità di credito bancario dipende ovviamente dal settore, ma soprattutto dall’area territoriale in cui operano le imprese: maggiore disponibilità in aree distrettuali come quella trentina e pratese,

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seguita dalla realtà milanese, ad un livello leggermente più basso nelle aree torinese e di Modena e Reggio, minima a Catania, dove è la metà della media complessiva. 4.3. L’acquisizione di capitale culturale Per quanto riguarda la dotazione e l’accesso al capitale culturale, facciamo riferimento ad un primo indicatore approssimativo, dato dal titolo di studio formale ottenuto, ma lo integriamo con l’anzianità dell’attività imprenditoriale, come indicatore dell’esperienza specifica e con la conoscenza delle lingue straniere, in particolare dell’italiano. La preparazione scolastica media dei soggetti è di 12,4 anni di studio, che ha permesso loro di ottenere un titolo prevalentemente conseguito nel paese di origine. Si deve notare che la percentuale di laureati (16%) è sensibilmente superiore a quella rilevata nell’indagine nazionale condotta all’inizio degli anni 2000 su un sotto-campione di piccoli imprenditori italiani del settore meccanico (Chiesi 2005). L’esperienza imprenditoriale, misurata sulla base dell’anzianità di funzione è di oltre 7 anni. La conoscenza delle lingue, soprattutto dell’italiano, rappresenta ovviamente un aspetto importante del bagaglio culturale degli intervistati, ma non riguarda tutti gli intervistati. Nella realtà imprenditoriale cinese di Prato emerge infatti la possibilità di esercitare l’attività imprenditoriale senza bisogno di sapere l’italiano, attraverso una serie di collaborazioni e di assunzioni di personale autoctono. La tabella seguente riassume i vari parametri di rilevazione del capitale culturale e mostra anche le profonde differenze che attraversano gli immigrati indagati, a seconda della nazionalità e a seconda che siano imprenditori o lavoratori autonomi. Parametri di dotazione del capitale culturale tra gli intervistati Totale Egitto Est Europa Senegal Marocco Cina autonomi imprenditori Anni studio 12,4 14,3 13,3 9,6 12,8 9,7 12,5 12,3 % laureati 16 39 18 16 14 0 18 16 % diplomati 56 89 64 47 60 8 68 52 Anni esperienza imprenditoriale

7,3

10,7

4,9

7,5

6,1

5,4

7,5

7,1

% conoscenza - lingua italiana

98

100

100

100

100

84

100

97

- terza lingua 76 76 79 90 89 20 80 74

Le disaggregazioni mostrano ampie differenze, che non sono giustificabili con il settore, ma che devono essere ricollegate al retroterra culturale di provenienza e alla composizione delle reti di rapporti interpersonali che gli intervistati instaurano, come vedremo nel paragrafo successivo. 4.4. la dotazione di capitale sociale Per quanto riguarda la dotazione e l’accesso al capitale sociale, facciamo riferimento alle informazioni ottenute in una serie di domande relative ai rapporti con collaboratori, clienti, fornitori, parenti, connazionali, ecc… I dati sulle relazioni interpersonali praticate nell’esercizio dell’attività, sono stati rilevati con la tecnica sociometrica cosiddetta name generator (Lin 2001), cioè chiedendo all’intervistato di indicare le persone cui fa ricorrentemente riferimento nello svolgimento di una serie di funzioni legate all’attività imprenditoriale16. Per ogni nome citato sono state chieste una serie di informazioni in grado di delinearne il profilo sociale (genere, occupazione, residenza), con particolare riferimento al grado di affinità culturale con l’intervistato (se parente, connazionale, italiano o straniero con altra nazionalità).

16 Le funzioni analizzate sono le seguenti: partnership, credito, informazioni riguardanti il reperimento di personale, rapporti di consulenza.

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I risultati complessivi mostrano che l’ampiezza del network di relazioni aumenta con la dimensione aziendale, è maggiore tra gli imprenditori piuttosto che tra i lavoratori autonomi, è leggermente maggiore tra le imprese che hanno meglio resistito alla crisi in termini di tenuta del fatturato. Tuttavia, i risultati più interessanti si ottengono analizzando la composizione per nazionalità della rete di relazioni interpersonali. La maggioranza relativa di appartenenti al network è italiana (39,6%), i familiari e parenti vengono al secondo posto (37,4%), i connazionali rappresentano solo il 18,9% e gli stranieri non connazionali sono trascurabili (4,1%). Per assicurare il successo negli affari, l’importanza di avere buoni rapporti con gli italiani è del resto esplicitamente dichiarata e giudicata più importante dei rapporti con i connazionali e addirittura con i familiari. Inoltre le relazioni interpersonali vengono giudicate più importanti dell’adesione formale a qualche associazione di categoria. Ciò nonostante gli imprenditori intervistati non trascurano l’associazionismo, soprattutto nelle aree distrettuali dove gli interessi economici sono maggiormente organizzati, come Modena, Reggio e Trento, ma comunque privilegiano le associazioni italiane di categoria, piuttosto che quelle tra connazionali. 5. I livelli di integrazione economica e sociale degli imprenditori immigrati

L’analisi dei livelli di integrazione economica e sociale degli imprenditori intervistati può essere distintamente condotta sui due livelli, ricordando che essi non sono indipendenti tra loro, come dimostrato di seguito nel cap.3.

L’integrazione economica ha a che fare con il grado di cooperazione/competizione negli affari, sia a livello orizzontale – con la concorrenza autoctona e multietnica – sia a livello verticale – analizzando i rapporti a monte con i fornitori e a valle con i clienti.

Il 66,5% dei casi i clienti sono soprattutto italiani. Nella metà dei casi il numero dei clienti non supera il 5. Gli imprenditori possono fare conto su un numero più elevato di clienti (39,9% oltre 10 clienti) e in questo modo rispondono meglio alla crisi, mentre i lavoratori autonomi subiscono più spesso una dipendenza idiosincratica da un solo cliente (35,2%)17. In sostanza i dati raccolti ci dicono che il tipo di integrazione economica degli intervistati rischia di essere subalterna e precaria.

Per quanto riguarda i fornitori, il legame funzionale con le imprese autoctone sembra ancora maggiore, poiché ben il 77,3% dei casi si rivolge a ditte italiane. La costruzione di reti co-etniche di subfornitura interessa solamente l’11,1% dei casi, soprattutto le imprese con dipendenti (15,7%), mentre la partecipazione dei lavoratori autonomi è trascurabile (2,8%). Naturalmente questa situazione complessiva nasconde differenze significative a seconda del settore di attività, poiché nel comparto della meccanica e dei trasporti il legame con fornitori italiani è elevatissimo, se non esclusivo, mentre si riduce sensibilmente nell’abbigliamento (produzione e vendita), che rispecchia l’organizzazione “cinese” della filiera e del commercio in generale. Un altro importante aspetto dell’integrazione economica passa attraverso le strategie di make or buy, relative alle funzioni contabili, amministrative e di applicazione della normativa. La figura sottostante mostra come tra le cinque funzioni analizzate, soltanto quella delle competenze informatiche sia prevalentemente internalizzata (in genere è il titolare stesso che se occupa), mentre tutte le altre tendono ad essere esternalizzate, con ricorso di gran lunga prevalente a consulenti italiani (soprattutto la consulenza fiscale e contabile). Questo dimostra che le imprese di immigrati alimentano un mercato delle consulenza aziendali di cui ancora si giovano soprattutto gli autoctoni, che riescono a instaurare rapporti fiduciari, al di là delle barriere etniche e talvolta della lingua18. La figura mette però in luce il fatto che molte imprese praticano strade alternative al ricorso al consulente privato e si rivolgono alle associazioni imprenditoriali locali, allo stesso modo delle

17 Infatti, circa un terzo di questi, al momento dell’intervista (seconda metà 2009), non ha lavoro e prende in considerazione l’idea di ritirarsi. 18 Come è emerso dalle interviste preliminari condotte nell’area di Prato, con riferimento alle imprese cinesi nel settore abbigliamento, molti commercialisti italiani si sono specializzati in modo esclusivo in nella consulenza “etnica”.

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imprese autoctone. In particolare, ad esempio, un’impresa di immigrati su tre si rivolge alli servizi delle associazioni di categoria per la consulenza in materia di sicurezza e igiene. Ancora una volta, i lavoratori autonomi mostrano comportamenti diversi dagli imprenditori. I primi sono più propensi ad internalizzare o a rivolgersi alle associazioni di categoria, i secondi ricorrono più sovente alla consulenza italiana e talvolta di coetnici. In sostanza l’integrazione economica degli immigrati imprenditori passa attraverso il rapporto con gli operatori italiani. I lavoratori autonomi subiscono maggiormente un’integrazione subalterna, ma tendono a reagire rivalutando il ruolo che le associazioni di categoria svolgono tradizionalmente anche per gli autoctoni. Da chi vengono svolte le seguenti funzioni aziendali?

5,0 2,9 1,0

54,8

14,7

65,5 64,4 69,4

34,2

47,9

3,53,4 3,1

8,0

3,2

26,0 29,3 26,5

2,7

34,2

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

contabilità paghe econtributi

consulenzafiscale

consulenzainformatica

normativa disicurezza

Associazione di categoria

Consulente coetnico

Consulente italiano

Azienda

L’integrazione sociale si rifà in gran parte al concetto già elaborato dal CNEL, anche se per ragioni di complessità non abbiamo potuto inserire nelle interviste individuali tutte le dimensioni del concetto stesso.

Abbiamo tuttavia raccolto una serie di varabili che possono delineare importanti aspetti dell’integrazione sociale degli intervistati. Un primo aspetto riguarda l’ottenimento della cittadinanza italiana, che riguarda il 14% degli intervistati e il 4,5% vive con un/una partner di nazionalità italiana19. Tra coloro che hanno famiglia, l’83,9% ha figli. Il numero dei figli è superiore a quello della famiglia media italiana, poiché quasi la metà (47,4%) ha almeno tre figli. Questi dati mostrano un buon livello di radicamento sociale, per immigrati che, ricordiamo, sono mediamente in Italia da 18 anni.

Un altro aspetto dell’integrazione sociale è la propensione ad assumere collaboratori italiani. Questa decisione dimostra sia l’importanza attribuita dagli imprenditori al ruolo di interfaccia che gli italiani spesso possono svolgere, sia alla mancanza di pregiudizio degli italiani a lavorare alle dipendenze di un immigrato. Il 6,6% delle imprese intervistate ha attualmente assunto dipendenti italiani e il 5,1% si avvale di rapporti di collaborazione con italiani. Se si considera l’intera vita aziendale, il 22,2% dei casi ha assunto personale italiano in passato. In totale gli italiani assunti nell’arco dell’esistenza delle 200 imprese è stato di 169.

19 Nell’89,4% dei casi il/la partner è della stessa nazionalità dell’intervistato.

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6. I problemi degli imprenditori italiani sono in buona parte condivisi anche dagli imprenditori immigrati

Come emerge dal cap.10: “Le iniziative più frequentemente suggerite riguardano informazioni e corsi che gli imprenditori immigrati ritengono utili per la propria attività (29 citazioni). Oltre ai corsi di italiano e di formazione per la gestione dell’attività, uno dei problemi più segnalati in questo ambito sono le diverse norme che bisogna conoscere. Al secondo posto, troviamo indicazioni relative a politiche da attuare, come la semplificazione amministrativa ed in particolare del permesso di soggiorno (28). Tuttavia, vengono suggeriti anche interventi più ‘attivi’, come la promozione di incontri tra imprenditori e la costituzione di reti tra imprese. Inoltre, vengono chiesti anche più diritti politici (possibilità di votare) e previdenziali (trattamento pensionistico fruibile anche tornando a vivere nel Paese di origine). Un'altra difficoltà segnalata da alcuni imprenditori è la diffidenza e le discriminazioni subite dagli italiani, sia dalle istituzioni che dai privati (26). Oltre a questi aspetti, più marcatamente peculiari del vissuto dell’imprenditore immigrato, numerosi sono anche gli imprenditori che, non diversamente dagli autoctoni, chiedono una riduzione delle tasse (20) e agevolazioni finanziarie e creditizie (22). Infine, meno frequenti ma sempre riconducibili a problemi comuni a tutti gli imprenditori, sono l’invocazione di maggiori controlli (11) per evitare comportamenti sleali (ma un paio di persone chiedono invece minori controlli, chiamando in causa di nuovo la discriminazione verso gli immigrati) e di un aiuto per recuperare i crediti e i pagamenti dei clienti che tardano ad arrivare (9). 7. Cosa possono fare (e cosa devono evitare di fare) gli immigrati per contribuire allo sviluppo economico dell’Italia

Integrati nell’economia nazionale, attivi sul mercato da molti anni, gli imprenditori immigrati condividono con i loro partner e concorrenti autoctoni una visione abbastanza precisa della loro collocazione sul mercato e dei punti di forza e di debolezza della loro azienda. Tra i punti di forza, al primo posto viene citata la reputazione sul mercato, presso clienti e fornitori. Quasi la metà degli intervistati concorda su questo aspetto, che ritroviamo anche in altre indagini svolte sulla piccola impresa italiana.

Opinioni sui punti di forza e di debolezza della propria azienda Punti di forza: Totale Imprenditori Autonomi Reputazione 48,0 48,8 46,5 Qualità prodotti/servizi 45,5 55,8 26,8 Prezzi bassi 38,0 41,9 31,0 Flessibilità 27,0 25,6 29,6 Costi bassi 12,6 7,8 21,4 Punti di debolezza: Concorrenza altre aziende immigrati 46,0 43,0 51,4 Dipendenza da pochi clienti 19,7 11,7 34,3 Concorrenza azienda italiane 19,7 16,4 25,7 Difficoltà accesso al credito 16,2 17,2 14,3 Scarsa conoscenza P.A. e norme 8,6 8,6 8,6 Diffidenza della società italiana 10,6 12,5 7,1 Scarse conoscenze professionali 1,0 0,0 2,9

In sostanza emerge che le piccole imprese di immigrati, al pari di quelle autoctone, considerano la reputazione l’asset più importante a disposizione e vogliono puntare sulla qualità piuttosto che sul prezzo, temono la concorrenza degli altri stranieri, più che degli italiani e la dipendenza da pochi clienti.

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Queste opinioni sono in parte differenti se si tengono distinti i piccoli imprenditori dai lavoratori autonomi. In sostanza questi ultimi appaiono strutturalmente più fragili, perché più esposti alla concorrenza tra stranieri e in parte anche degli italiani, per la maggiore dipendenza da pochi clienti, per il fatto che possono fare meno affidamento sulla qualità e devono quindi maggiormente utilizzare la leva della compressione dei costi. In compenso, anche se le percentuali di risposta sono basse, gli autonomi sembrano essere meno preoccupati dell’accesso al credito e della diffidenza della società italiana nei confronti degli stranieri. 8. Cosa possono fare i piccoli imprenditori immigrati in Italia per lo sviluppo dei paesi di emigrazione, con particolare riferimento all’area del Mediterraneo meridionale.

Pur essendo soprattutto coinvolto in relazione con partner italiani, il 16% degli intervistati mantiene rapporti d’affari con aziende del Paese d’origine. Questa percentuale non elevatissima riguarda soprattutto gli imprenditori e meno i lavoratori autonomi. Attraverso questi rapporti la maggior parte degli intervistati acquista beni o servizi, ma altri vendono anche prodotti e servizi ed altri fanno investimenti. Ad avere rapporti con il Paese di origine sono prevalentemente cinesi e senegalesi. L’aspetto transnazionale dell’attività imprenditoriale è più evidente per le attività commerciali non alimentari, mentre per gli altri settori o nazionalità, benché non manchino casi di interesse (ad esempio nell’edilizia), il fenomeno rimane marginale. Questa situazione si presta ad una considerazione di tipo congiunturale. Come segnalato, le interviste sono state condotte a cavallo tra 2009 e 2010, cioè nel periodo più acuto della crisi che ha colpito l’economia italiana, come il resto del mondo occidentale. Diversi paesi originari degli immigrati hanno risentito meno della crisi, come in Cina, mentre l’area del Sud Mediterraneo è stata interessata da movimenti di tipo politico sociale il cui esito è incerto, ma che hanno avuto come motivazione il desiderio di acquistare maggiore democrazia e libertà. Se in campo economico il processo di modernizzazione avrà come sbocco elementi di liberalizzazione dei mercati dei paesi che si affacciano a Sud del Mediterraneo, questo potrà comportare una crescita economica che aumenterà la concorrenza con le imprese italiane sui settori tecnologicamente meno avanzati, ma anche una riduzione dei differenziali negli standard di vita e nel reddito pro-capite, allentando in questo modo la pressione demografica e quindi la qualità dei flussi migratori. Con l’aumento dell’interscambio il problema degli aiuti si trasformerà sempre di più in un problema di partnership. Per questa ragione occorre che le imprese aumentino le dimensioni, per poter essere in grado di operare su scala internazionale. Questa sfida riguarda in modo diverso, ma con le stesse opportunità, le imprese di entrambe le sponde del Mediterraneo. 9. Conclusioni

Le piccole imprese di immigrati, pur presentando ritmi di sviluppo molto elevati, nonostante la crisi, si trovano di fronte, al pari di quelle autoctone, al dilemma della crescita, per poter competere in prospettiva globale, o della ricerca di nicchie e rapporti idiosincratici per poter sopravvivere nel breve periodo. Come abbiamo cercato di evidenziare, ambedue le strategie sono presenti nel nostro campione e passano in gran parte attraverso la dimensione aziendale. Si può quindi affermare che, in qualche misura, le imprese di immigrati, prepotentemente diffuse nell’ultimo ventennio in Italia, rappresentano uno specchio in cui sono visibili anche tanti problemi della piccola impresa autoctona: il problema dell’adeguatezza dimensionale di fronte alla crisi, il problema dell’emancipazione dal conto-terzismo, il problema della presenza all’estero. I comportamenti imprenditoriali che abbiamo visto, e che vengono meglio illustrati nel capitoli successivi, valorizzando le specificità locali come chiave di lettura dell’economia italiana in generale, comprendono strategie tipiche del processo di inserimento che la letteratura chiama vacancy chain e di cui la piccola distribuzione di prossimità è l’esempio più emblematico: i piccoli esercizi commerciali gestiti da famiglie italiane non hanno retto al ricambio generazionale, per

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scarsa motivazione dei figli, per scarsa incentivazione economica, poiché i guadagni sono decrescenti e impongono lunghi tempi di lavoro. In questa situazione gli immigrati si sono spesso sostituiti agli autoctoni, grazie alla grande voglia di lavorare, che deriva da un desiderio di riscatto sociale, più che economico, e alle più modeste aspettative reddituali, che derivano dai differenziali di potere d’acquisto tra Italia e paese di origine. E’ vero che molti imprenditori immigrati hanno saputo inserire elementi innovativi nella loro attività20, ma il vero elemento di successo è spesso costituito dall’offerta a basso prezzo21 su un mercato che rimane come sempre di quartiere. Allo stesso modo, soprattutto nell’edilizia e nei distretti della meccanica, abbiamo trovato imprenditori che si inseriscono nella filiera della subfornitura a partire dal livello più basso, in cui il lavoro autonomo, fatica a differenziarsi da un lavoro dipendente, sotto mentite spoglie. Da qui, però, alcuni hanno già cominciato a risalire la filiera con l’arma della qualità, dell’affidabilità del lavoro svolto e della reputazione. Tutti ingredienti che fanno venire in mente quello che succedeva in Lombardia negli anni di metà secolo scorso, quando i dipendenti più intraprendenti venivano spinti dal datore di lavoro a mettersi in proprio e a fondare un loro laboratorio o ad organizzare una loro squadra (Pizzorno 1960). Ma nella nostra indagine abbiamo trovato anche le reti lunghe di chi opera triangolazioni a livello globale, sfruttando gli andamenti dei prezzi differenziati e mutevoli su continenti diversi, come a Prato nel distretto del tessile abbigliamento (vedi cap. 7).

In sostanza, se si vuole che la piccola impresa contribuisca allo sviluppo economico, si deve chiedere agli imprenditori immigrati quello che va chiesto alle micro imprese autoctone: crescere. Altrimenti la presenza degli imprenditori immigrati rischia di innescare una competizione al ribasso, in cui scarsa innovazione e bassi costi/prezzi, portano ad una diminuzione della produttività del sistema. In conclusione. i risultati della ricerca mostrano che gran parte degli imprenditori intervistati ha conquistato la cittadinanza economica ed è stato incluso in modo irreversibile nel tessuto delle piccole imprese che operano in Italia, con l’auspicio che queste piccole imprese diventino progressivamente medie imprese.

Il percorso verso la cittadinanza sociale, a parte i pochi che godono della cittadinanza italiana, è più lungo e forse coinvolgerà la seconda generazione, quella dei figli nati in Italia, che parlano l’italiano, come prima o seconda lingua, che si preparano nelle scuole e tra poco nelle università, che rileveranno l’azienda, e come i figli dei piccoli imprenditori italiani riproporranno il problema della motivazione e trasmissione delle capacità imprenditoriali.

Per essi indugiare ulteriormente nel riconoscimento dei diritti politici nuocerebbe anzitutto a noi italiani. Per concludere questo capitolo di presentazione, torniamo alle indicazioni formulate dall’UE per lo sviluppo della SME e vediamo se, alla luce dei risultati della nostra indagine, esse sono applicabili anche alle piccole imprese di immigrati in Italia. La UE sottolinea l’importanza della semplificazione amministrativa e burocratica, l’accesso alle fonti di finanziamento, l’accesso a nuovi mercati di sbocco, la difesa delle condizioni per una corretta concorrenza, la formazione delle competenze e della capacità imprenditoriali, la protezione della proprietà intellettuale, l’incoraggiamento della ricerca e dello sviluppo, il sostegno a livello regionale e locale. La semplificazione amministrativa e burocratica viene citata tra le cose auspicabili da molti imprenditori intervistati. Questo tema è quindi comune al fare piccola impresa a prescindere dalla nazionalità del titolare.

Il problema dell’accesso alle fonti di finanziamento è forse più pressante per gli autoctoni che per gli immigrati. Questo aspetto non deve sembrare paradossale, se si pensa al fatto che le imprese di immigrati operano prevalentemente in settori a bassa intensità di capitale, che spesso gli

20 Basti pensare, ad esempio, al settore alimentare, dove l’offerta etnica ha saputo ibridarsi con successo, come avviene per le pizzerie-creperie-kebab (vedi cap.8). 21 Gli esempi più visibili nella grandi città sono, oltre ai ristoranti cinesi e giapponesi (gestiti da cinesi), i parrucchieri.

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immigrati utilizzano canali alternativi al credito bancario, sia basati sull’alta propensione al risparmio e quindi all’auto-finanziamento, sia basati sugli aiuti derivanti dall’attivazione di legami forti. Anche l’accesso a nuovi mercati di sbocco, riguarda maggiormente la piccola impresa autoctona, che si trova in una situazione più difensiva, piuttosto che le imprese di immigrati, che sono un fenomeno emergente e dimostrano di intuire e sfruttare le intersezioni e gli interstizi del mercato. Si tratta però prevalentemente di un mercato di prossimità, spesso giocato nelle opportunità offerte dai processi di vacancy chain, piuttosto che mercato di vasto respiro. Solo i cinesi di Prato mostrano di saper sfruttare le reti lunghe degli affari multinazionali, ma per loro vale più che per altri la questione del rispetto delle regole di una corretta concorrenza, come emerge dalla nostra indagine, ricorrentemente da altre condotte in precedenza a livello locale e dai documentati rapporti della Guardia di Finanza. La formazione delle competenze e delle capacità imprenditoriali viene ripetutamente sottolineata dai responsabili della politica economica europea, nazionale e locale. Nella nostra indagine l’amor proprio e il legittimo orgoglio degli intervistati è alla base di dichiarazioni che negano fabbisogni specifici a riguardo. Tuttavia il nostro campione è formato da imprenditori che in qualche modo “hanno sfondato”. Sarebbe utile sapere cosa pensino delle carenze di expertize tutti quelli che hanno assunto un rischio imprenditoriale e che non hanno avuto successo. La protezione della proprietà intellettuale sembra qualche cosa di estraneo alle strategie dei nostri imprenditori immigrati, sia perché la maggior parte è impegnato i in attività intellettualmente povere, sia perché – di nuovo occorre citare i cinesi di Prato – essi stessi sfidano i limiti della normativa sulla proprietà intellettuale.

Anche l’incoraggiamento della ricerca e dello sviluppo sembra qualcosa di molto distante dalle realtà analizzate. E’ evidente che questo tema – che in linea di principio, a causa della diversa distribuzione settoriale delle imprese, interessa maggiormente le piccole italiane, piuttosto che quelle di immigrati – non può essere affrontato in termini di aiuti o agevolazioni alla singola impresa, ma andrebbe affrontato “alla tedesca”22.

Infine, la questione del sostegno a livello regionale e locale dovrebbe essere affrontata coerentemente con il precedente obiettivo della difesa di corrette condizioni di concorrenza, evitando tentazioni protezionistiche e particolaristiche, quindi anzitutto evitando differenze tra imprese a seconda della nazionalità del titolare. Come abbiamo cercato di dimostrare all’inizio del capitolo, è però evidente che il sostegno locale deve essere rivolto alla crescita dimensionale delle imprese. Infatti la crescita può favorire un aumento della produttività e quindi rendere più competitive imprese che altrimenti rischiano di non reggere alla competizione globale, a prescindere dalla nazionalità del titolare.

22 Ci si riferisce in particolare alla rete degli istituti Fraunhofer, che sviluppano partnership tra pubblico e privato, coinvolgendo il territorio locale, per lo viluppo assistito di innovazione e applicazioni innovative nelle SME tedesche.

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3. I fattori di diffusione dell’imprenditorialità s traniera sul territorio italiano. Antonio M. Chiesi*

Secondo Infocamere, le persone nate all’estero, che dichiarano di ricoprire cariche in attività di imprese registrate presso le Camere di Commercio sono 351.674 all’inizio del 2010. Una recente ricerca della Fondazione Leone Moressa (2011) sostiene che gli imprenditori immigrati hanno raggiunto la ragguardevole cifra di 621.830 unità al 30 settembre 2010. Le elaborazioni periodicamente pubblicate da Caritas, con l’ausilio dell’Ufficio Studi CNA, ci danno invece una consistenza di 213.300 ditte individuali. Tutte queste fonti si caratterizzano per la loro apparente precisione, ma risultano fortemente divergenti.

Infatti, pur provenendo sempre da Infocamere, queste cifre presentano una serie di problemi riferibili: 1. alla necessità di escludere gli stranieri provenienti da paesi ad economia forte, che non possono essere assimilati agli immigrati23, 2. alla impossibilità di escludere una parte non stimabile di imprese che, pur risultando regolarmente iscritte, non sono più operative24, 3. alla probabilità che parte dell’attività imprenditoriale degli immigrati si svolga all’ombra dell’economia informale, 4. alla probabilità che – soprattutto a seguito delle modalità di regolarizzazione introdotte con la sanatoria del 2002 (cosiddetta legge “Bossi-Fini”) – una parte delle registrazioni non corrisponda ad attività imprenditoriali, ma solamente alla necessità di riconoscimento pro-forma. Riteniamo che la combinazione di questi fattori provochi di fatto una sovra-stima dei lavoratori autonomi e degli imprenditori immigrati, come in parte confermato dalle difficoltà di reperimento degli intervistati in tutte e sei le aree di approfondimento, che fanno parte di questo progetto.

In Italia, le imprese che svolgono una regolare attività sono iscritte ad almeno tre basi di dati obbligatorie: il registro delle imprese presso le Camere di Commercio, l’elenco dei soggetti di imposta presso il Ministero delle Finanze, l’elenco dei titolari di contribuzione sociale presso l’INPS. In questi ultimi due basi di dati gli elenchi si dividono in persone giuridiche, nel caso di società di capitale o in persone fisiche, nel caso di ditte individuali.

La possibilità di incrociare queste basi di dati darebbe la possibilità di controllare l’affidabilità delle diverse fonti. In realtà questo controllo non è stato fin ora possibile a causa delle diverse politiche di gestione e disponibilità del dato a terzi adottate dagli Enti. In particolare i dati provenienti da Unioncamere sono da tempo oggetto di analisi da parte degli studiosi, sia a livello aggregato, sia a livello di micro-dato, consentendo di arrivare a contattare il titolare d’impresa. Al contrario, la base di dati INPS è rimasta fin ora inaccessibile a terzi, anche per quanto riguarda informazioni riassuntive e aggregate, sulla base di una interpretazione molto ristretta della normativa sulla privacy, che non tiene neppure conto delle regole previste per l’accesso e il trattamento dei dati a fini scientifici.

Un altro aspetto che rende opache le apparentemente precise statistiche sulle imprese e sugli imprenditori immigrati riguarda la definizione stessa di imprenditore. I dati sui cui si è fin ora concentrata l’attenzione degli studiosi riguarda la ditte individuali, cioè i lavoratori autonomi. Minore attenzione è stata dedicata alla rilevazione e al conteggio dei titolari di imprese con almeno un addetto alle dipendenze.

* Università Statale di Milano 23Basti pensare ad esempio che a metà 2010, i dati Infocamere segnalano la presenza in Italia di oltre 130.000 imprese di questo tipo, su un totale di circa 366.000 riferibili a stranieri. 24 Nonostante l’introduzione nel 2005 delle cancellazioni d’ufficio, effettuate per le imprese non più operative, che non vengono cancellate dai titolari, l’esperienza di chi ha utilizzato i dati camerali per costruire campioni rappresentativi delle popolazioni di imprese, mostra un persistente divario tra imprese registrate e imprese operanti sul territorio. Questo divario è più o meno ampio a seconda della provincia.

24

La letteratura sull’imprenditorialità è concorde nel separare analiticamente la figura del lavoratore autonomo da quella dell’imprenditore, anche se la strada più comune per diventare imprenditore è quella di aprire un’attività in proprio. In particolare, come è noto, esistono diverse definizioni di imprenditore, a seconda della disciplina e della teoria di riferimento. Alcune di queste definizioni, come quelle che si riferiscono alle funzioni imprenditoriali come l’assunzione di rischio e lo sviluppo dell’innovazione, non possono essere utilizzate come base di partenza per l’identificazione di popolazioni rilevanti, perché non esistono informazioni già pronte e aggiornate sull’attribuzione di queste funzioni. Le definizioni che insistono sulla funzione di combinazione dei fattori produttivi implicano la disponibilità di capitale e lavoro e quindi dovrebbero escludere i lavoratori autonomi che non si avvalgono di lavoro alle dipendenze o che non impiegano capitale proprio o di terzi. Al contrario dell’esercizio della funzione innovativa e di assunzione di rischio, l’individuazione della funzione di combinazione dei fattori è empiricamente semplice da rilevare: basta individuare i titolari di imprese di capitale che si avvalgono di personale alle dipendenze.

Se si utilizzasse questa accezione più ristretta, alla luce delle fonti istituzionali comunemente utilizzate, il fenomeno dell’imprenditorialità immigrata apparirebbe ancora molto secondario, se non marginale25.

Al contrario, prendere in considerazione il complesso del “lavoro autonomo” significa attribuire una funzione imprenditoriale a una realtà molto eterogenea, fatta di collaborazioni coordinate e continuative che spesso mascherano rapporti di lavoro dipendente, che più raramente configurano casi di incipiente imprenditorialità e che talvolta rappresentano l’esito di scorciatoie burocratiche attivate per poter ottenere un regolare permesso di soggiorno, come suggerisce la distribuzione territoriale delle sanatorie in occasione dell’applicazione della cosiddetta legge Bossi-Fini nel 200226.

Nelle ricerche sull’imprenditorialità immigrata, la necessità di fare riferimento alle fonti istituzionali, impone di partire dalle definizioni giuridiche. Con riferimento al concetto di lavoratore in proprio, abbiamo a disposizione le ditte individuali, su cui si basa gran parte delle stime in oggetto. Con riferimento al concetto di imprenditore, abbiamo i dati sui titolari di impresa, il cui utilizzo è molto più recente, a causa di numerose incertezze definitorie, dovute al fatto che gli sportelli delle Camere di Commercio si limitano a registrare le dichiarazioni degli interessati.

Un’indagine esplorativa su queste dichiarazioni è stata fatta da Carlo Catena del Centro Studi CNA Nazionale, nell’ambito del nostro progetto. Il quadro emergente induce alla massima prudenza nel considerare il conteggio dei titolari di impresa. Dall’indagine emerge che a livello nazionale vengono utilizzate ben 333 differenti denominazioni per descrivere la posizione di responsabilità dei singoli immigrati nelle imprese. Di queste definizioni solo il 5,1% è riconducibile al titolare dell’impresa, il 17,7% agli amministratori, l’8,1% ai soci e il restante 69,1% ad “altre forme” non riconducibili a posizioni di titolarità imprenditoriale27.

Un ulteriore modo per mettere in dubbio la validità dei dati sull’imprenditorialità immigrata è quello di verificare il totale delle imprese italiane che emergono dalle stesse fonti. Se dovessimo dare credito al numero di persone immigrate che dichiarano di ricoprire cariche in attività di imprese registrate alle Camere di Commercio (n. 351.674 a inizio 2010), dovremmo a maggior ragione assumere come attendibile il numero totale per tutte le imprese che operano a livello

25 Un’elaborazione condotta per questo progetto dal Centro studi CNA Nazionale su dati CNA-Informatica al 10 marzo 2010, riferiti ai soli cittadini nati in paesi extra comunitari ad economia debole, al netto della stima degli italiani nati all’estero e rimpatriati, rileva, accanto a 198.696 ditte individuali, soltanto 171 imprese con forma giuridica diversa (società di capitale, società di persone, cooperative e altre forme). 26 Si veda più avanti per una stima quantitativa di questo fenomeno che riguarda il problema n. 4, prima citato. 27 A titolo di esempio si citano alcune denominazioni generiche che mostrano come spesso non si tratti di posizioni imprenditoriali, ma di coadiuvanti familiari a vario titolo (coniuge, tutore, erede, collaboratore familiare, usufruttuario, madre esercente la patria potestà), dipendenti (delegato, dipendente, direttore, dirigente, preposto, ispettore, gerente, tesoriere, capocantiere), figure previste nei fallimenti (commissario liquidatore, curatore fallimentare, custode di sequestro giudiziario, sequestratario) oppure denominazioni improprie (elettore, coltivatore diretto, fattore, capodelegazione).

25

nazionale, che è di 8.119.377. Questo numero, pur non considerando i titolari di imprese individuali, è molto superiore al totale dei lavoratori in proprio, rilevati dall’indagine sulle forze di lavoro (3.546.000), per non parlare di coloro che l’ISTAT definisce imprenditori (261.000)28.

Quindi, in definitiva, i dati sulle ditte individuali, pur mantenendo i limiti anzidetti, sono più affidabili, ma si riferiscono prevalentemente a lavoratori autonomi, non a imprenditori propriamente detti. I dati sui titolari di imprese, pur essendo più correttamente attribuibili a funzioni imprenditoriali, presentano gravi problemi di affidabilità.

Tenendo presenti questi limiti, consideriamo ora soltanto le ditte individuali di immigrati dei paesi extraeuropei a reddito basso e confrontiamo il loro andamento nel tempo con il totale delle imprese che operano in Italia. Dall’andamento esposto in fig. 1 emerge che a partire dalla fine del secolo scorso assistiamo ad un aumento del peso delle attività imprenditoriali vere e proprie, mentre il lavoro autonomo declina in assoluto.

Fig. 1 – Andamento delle imprese in Italia (NI 1997= 100)

80

90

100

110

120

130

140

150

160

170

1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

Società di capitale

Indiv - autoctoni

Indiv - immigrati

Fonte: elaborazioni su dati Movimprese

Questo declino sarebbe maggiore se non si fosse verificata una parziale sostituzione di ditte individuali autoctone con ditte di immigrati. In particolare fatto a 100 il totale delle imprese di capitale nel 1997, il totale delle ditte individuali e delle ditte individuali al netto di quelle con titolarità straniera, nel 2009 le prime crescono del 63,2%, le seconde diminuiscono del 2,7%, ma il calo raggiungerebbe il 7,9%, se non ci fosse un effetto di sostituzione generato dall’immigrazione. Viene quindi confermato anche in Italia l’effetto di rimpiazzo esercitato dal lavoro autonomo immigrato, rispetto a quello autoctono in progressivo declino storico (Chiesi e Zucchetti 2003, Light 1981, Aldrich et al. 1989).

Fig. 2 – Proporzione di lavoratori autonomi tra nativi e immigrati in diversi paesi

28 E’ quindi fuorviante dichiarare che i soli imprenditori immigrati sono in Italia oltre 600.000 (sole 24 Ore del 4 gennaio 2011), se l’Istat stima che il totale degli imprenditori che operano in Italia sia meno della metà, compresi gli autoctoni.

26

Fonte: elaborazioni su dati Eurostat fino al 2002 e OECD nel 2009

E’ già stato sottolineato come la presenza di imprenditorialità immigrata dipenda anche da fattori istituzionali, legati alle politiche economiche e del lavoro che in ogni paese possono influenzare la presenza del lavoro autonomo in generale (Chiesi e Zucchetti 2003). La fig. 2 confronta il tasso di occupazione in proprio sul totale dei paesi analizzati e il tasso specifico degli stranieri. L’indice di correlazione tra i due tassi è significativo e raggiunge il valore di 0,723 (18 paesi su 36 osservazioni). In sostanza, dove il lavoro autonomo è più diffuso, anche gli stranieri si giovano di questa opportunità occupazionale e viceversa, dove è meno presente. La figura mostra anche consistenti variazioni nel tempo dei tassi. In particolare in paesi come la Gran Bretagna, il Canada, la Spagna e il Portogallo, il peso dei lavoratori autonomi aumenta nell’intervallo di tempo considerato, mentre diminuisce considerevolmente negli Stati Uniti, in Svezia e in Irlanda e moderatamente in Germania, Danimarca e in Italia. Inoltre, in Italia, come in Grecia, in Irlanda e in Portogallo, al contrario della Gran Bretagna, gli immigrati risultano discriminati, rispetto agli autoctoni, nelle opportunità di lavoro autonomo.

Un altro aspetto importante, che i dati sulle ditte individuali pongono in evidenza e che gli ormai numerosi studi a livello locale tendono ancora a trascurare, è l’estrema differenziazione della presenza delle imprese di immigrati sul territorio nazionale. La diffusione locale non è solamente correlata con la presenza di attività economiche, perché si adatta alle ben note disparità territoriali della penisola, ma ne amplifica gli effetti. Il peso delle ditte individuali di immigrati sul totale raggiunge infatti il valore massimo in provincia di Prato (13,93%) e il valore minimo in provincia di Potenza (0,03%), con una media del 2,54% nel 2008 e una deviazione standard molto elevata (2,04)29. I restanti valori intermedi, espressi in quintili, sono illustrati in fig. 3. La mappa mostra a colpo d’occhio una maggiore concentrazione delle ditte individuali nelle grandi aree urbanizzate del Nord e del Centro e soprattutto nelle aree distrettuali.

Fig. 3 – Peso % delle imprese di immigrati sul totale (30.06.08)

29 Il peso di tutte le ditte individuali, comprese quelle di italiani sul totale dell’occupazione provinciale presenta invece una distribuzione molto meno disuguale. Infatti pur andando da un massimo del 18,5% ad un minimo del 7,8%, con una media del 10,6%, presenta una deviazione standard molto più contenuta dell’1,65%.

27

Fonte: elaborazioni su dati CNA - Infocamere Se, invece delle ditte individuali, utilizziamo i dati sui titolari di imprese di nazionalità extra-comunitaria o neo-comunitaria, otteniamo valori mediamente più elevati, ma che confermano una distribuzione territoriale altamente disuguale. Il peso dei titolari di azienda stranieri sul totale delle imprese sale infatti in provincia di Prato al 27,16%, confermando il primo posto di questa provincia, mentre il valore minimo viene raggiunto in provincia di Taranto (2,97%), con una media del 9,51% e una deviazione standard che rimane molto elevata (3,71)30.

Per spiegare una distribuzione territoriale così disuguale dei lavoratori autonomi immigrati e delle cariche sociali ricoperte da immigrati, utilizziamo una base di dati a livello provinciale, che ci permette di analizzare le relazioni tra le due distribuzioni studiate (ditte individuali e cariche sociali) e una serie di variabili indipendenti relative a tre dimensioni che rappresentano altrettante ipotesi esplicative. Il confronto tra due variabili dipendenti ci permette, al contempo, di valutare la bontà dei due indicatori di imprenditorialità immigrata.

Una prima ipotesi riguarda il rapporto con l’economia locale e assume che le ditte individuali di immigrati trovino maggiori opportunità di sviluppo dove più elevato è il livello di reddito del territorio (PIL pro-capite a livello provinciale nel 2007). Una seconda ipotesi riguarda la capacità di integrazione sociale che il territorio è in grado di garantire agli immigrati in generale

30 I due tassi di imprenditorialità sono positivamente correlati tra loro (0,699), ma il tasso di correlazione presenta una covarianza che non arriva neppure al 50%, suffragando il sospetto che i due indicatori siano inquinati da altre dimensioni che non hanno a che fare con l’imprenditorialità immigrata. Il fatto che in alcune recenti ricerche i due dati vengano sommati, significa solo che il risultato ingloba la somma degli errori.

28

(indice di integrazione degli immigrati nelle provincie italiane elaborato dal Cnel nel 200931). Una terza ipotesi riguarda il ruolo giocato dalla disponibilità di capitale sociale sul territorio (indice di dotazione di capitale sociale32 delle provincie italiane (Chiesi 2005). E’ importante sottolineare come di queste tre variabili, soltanto una abbia una valenza prettamente economica, mentre le altre due riguardano più direttamente sia la bontà delle relazioni sociali tra autoctoni e immigrati sia l’attenzione al benessere comune e la solidarietà tra gli italiani. Il risultato del modello di regressione lineare, che spiega il 49,6% della varianza, è illustrato nella prima parte della tab. 1. Il peso delle ditte individuali di immigrati sul totale delle imprese dipende soprattutto da fattori sociali, anche se la dimensione economica, catturata sommariamente dal Pil pro capite, svolge un ruolo significativo, ma non prioritario, come dimostra il valore relativamente più basso del coefficiente β. La variabile più importante è rappresentata dalla dotazione di capitale sociale a livello locale, mentre un ruolo esplicativo importante viene giocato anche dalla capacità di integrazione degli immigrati in generale nel territorio. La seconda parte della tab. 1 mostra il risultato dell’applicazione dello stesso modello al tasso relativo alle cariche sociali. La varianza spiegata è leggermente superiore (53,4%), ma viene significativamente modificata l’importanza delle variabili indipendenti. In particolare l’indicatore di integrazione degli immigrati non è più significativo, la dotazione di capitale sociale rimane significativa, ma riduce il proprio potere esplicativo, mentre acquista importanza centrale il benessere economico locale con un coefficiente β quasi raddoppiato.

Tab. 1 – Determinanti del peso delle ditte individuali e dei titolari di impresa immigrati sul totale delle imprese a livello provinciale

Variabile dipendente: Ditte individuali/tot. imprese Titolari/tot. imprese Ditte individuali/totale imprese β t Sig. β t Sig. PIL provinciale pro-capite (2007) .259 2.105 .038 .488 4.134 .000 Indice Cnel di integrazione immigrati (2009) .275 3.126 .002 .119 1.406 .163 Dotazione locale di capitale sociale (2000) .308 2.700 .008 .218 1.987 .050

Il modello sopra illustrato, applicato separatamente alle ditte individuali e ai titolari di cariche in società ci permette di giungere alle seguenti conclusioni:

a) la distribuzione dell’imprenditorialità immigrata sul territorio nazionale appare in generale più diseguale della già forte disuguaglianza dell’imprenditorialità autoctona e contribuisce quindi ad accentuare la ben nota contrapposizione del tessuto economico, che vede da una parte le aree sviluppate del centro-nord e dall’altra quelle meridionali, le aree urbane caratterizzate dallo sviluppo dai servizi alla persona e dall’altra i piccoli centri, le aree distrettuali e quelle che sono state sempre escluse dai processi di industrializzazione;

b) questa diseguale distribuzione dipende ovviamente da fattori economici, poiché, come tutte le imprese, anche quelle degli immigrati, non fanno eccezione alla legge per cui la loro sopravvivenza dipende dalle condizioni di mercato e dai livelli della domanda. Questo spiega perché come tutti gli operatori economici, anche gli immigrati prosperano dove i redditi pro-capite sono superiori;

31 L’indice è ricavato annualmente per il Cnel da un’equipe del Dossier Statistico Immigrazione di Caritas/Migrantes, ed è basato sulla combinazione di tre indicatori multidimensionali relativi al grado di attrattività territoriale, di inserimento sociale e di inserimento occupazionale (Cnel 2010). 32 L’indice di dotazione di capitale sociale è calcolato su base provinciale combinando quattro diversi indicatori mediante l’analisi delle componenti principali. I quattro indicatori riguardano la densità delle associazioni culturali e del tempo libero, il tempo dedicato al volontariato e alle attività a favore della comunità, la diffusione dei quotidiani e il tasso di partecipazione al referendum costituzionale del 2001. Questi quattro indicatori mostrano una elevata covarianza (67%), che permette di estrarre un unico componente principale (Chiesi 2007).

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c) tuttavia anche fattori prettamente sociali giocano un ruolo primario. In particolare appare evidente l’influenza positiva esercitata dalla dotazione di capitale sociale a livello locale, ma anche il livello di integrazione degli immigrati in generale e delle loro famiglie, non solo e specificamente degli imprenditori o dei lavoratori in proprio.

d) in particolare emerge l’importanza della dotazione di capitale sociale, che è stata misurato sulla base di indicatori che si rifanno all’impostazione suggerita da Putnam (1993), che definisce il capitale come un bene pubblico presente a livello locale, che implica coesione sociale, solidarietà e senso civico;

e) un ruolo minore, ma non trascurabile, è giocato dalla qualità dell’integrazione sociale degli immigrati nella comunità locale, in termini di accesso al lavoro e alla cittadinanza, densità demografica, frequenza di matrimoni e ricostituzione dei nuclei di convivenza attraverso i ricongiungimenti, presenza di immigrati nelle scuole locali. In sostanza questo indicatore può incoraggiare la formazione di imprenditorialità grazie alla creazione di un ambiente favorevole all’insediamento di immigrati e alla creazione di una domanda di beni e servizi a loro destinati, che può raggiungere la massa critica di quella che in altri paesi a più antica immigrazione è stata denominata economia etnica (Bonacich e Modell 1980);

f) dai dati emerge chiaramente che la combinazione di fattori sociali ed economici gioca in modo diverso a seconda delle ditte individuali e delle imprese più strutturate. Per diffondersi, le prime si basano maggiormente sulla dimensione sociale della coesione e dell’integrazione, le seconde sono prevalentemente legate alle condizioni economiche locali;

g) un altro importante risultato dell’indagine emerge comparando il comportamento delle imprese in generale con quelle degli immigrati in particolare. La diffusione delle imprese in generale non è correlata con il PIL pro-capite, quindi non dipende dal livello di sviluppo economico locale (0,044, sig. .688), mentre il peso delle imprese di immigrati sul totale è correlato in modo significativo con il livello di sviluppo locale (rispettivamente 0,537 per le ditte individuali e 0,662 per i titolari di impresa, entrambi con sig. .000).

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4. Commercianti cinesi a Catania: risorse competitive e strategie imprenditoriali∗ Maurizio Avola e Anna Cortese** 1. L’imprenditorialità degli immigrati cinesi in Italia fra sfide globali e inserimento locale

L’analisi dell’imprenditorialità33 degli immigrati negli ultimi decenni si è andata progressivamente arricchendo sia sul piano della riflessione teorica che su quello dell’indagine empirica, approdando a modelli interpretativi sempre più articolati che guardano alle modalità di interazione fra fattori da domanda e fattori da offerta per individuare su entrambi i versanti mix virtuosi di condizioni facilitatrici e sinergie positive fra la struttura delle opportunità offerte dalla società ospitante e il bagaglio di risorse individuali e collettive attivabili dagli immigrati. Le classiche impostazioni supply side, che interpretano l’imprenditorialità alla luce sia del ruolo delle risorse culturali, etniche e di classe di cui gli immigrati dispongono (teorie culturaliste e delle middleman minorities, teoria delle reti etniche e dell’economia di enclave), sia della posizione che essi occupano all’interno della struttura occupazionale della società ricevente (teoria dello svantaggio e della mobilità bloccata), sono state integrate con quelle demand side, che hanno cercato di leggere il fenomeno a partire dagli stimoli derivanti dalle trasformazioni delle economie avanzate e dei sistemi di regolazione politica delle attività economiche, dall’emersione di nuovi stili di vita e di consumo, dai processi di segmentazione del mercato del lavoro e dalle strategie di mobilità occupazionale dei lavoratori autoctoni34. Gli esempi più noti di tale tentativo di integrazione sono riconducibili al modello interattivo proposto da Waldinger, Aldrich e Ward (1990) e all’approccio della mixed embeddedness che ha ispirato i programmi di ricerca di Kloosterman e Rath (2001)35.

Abbandonando la prospettiva spesso monocausale che ha caratterizzato gli approcci originari e superando visioni ipersocializzate o iposocializzate degli attori, questi tentativi di sintesi si rivelano potenzialmente molto utili per rendere conto della pluralizzazione dei modelli di imprenditorialità immigrata osservabili nei diversi contesti nazionali e locali (Martinelli, 2003). In particolare, è l’approccio della mixed embeddedness ad apparire più fecondo da questo punto di vista, poiché rispetto al modello di Waldinger, appiattito sulla dimensione etnica dell’imprenditorialità (sia sul versante dell’offerta che su quello della domanda), presta maggiore attenzione alla definizione della struttura delle opportunità con la quale gli immigrati si trovano ad interagire nelle società ospitanti: dalle caratteristiche dei mercati (settore, dimensioni, grado di apertura, potenzialità di sviluppo, modelli di istituzionalizzazione, ecc.), alla loro accessibilità, legata indissolubilmente alla regolazione politica che stabilisce sovente vincoli o limiti al libero esercizio dell’attività economica sulla base della cittadinanza (Codagnone, 2003). L’incorporazione differenziata delle attività degli

∗ Una versione più sintetica di questo saggio si trova nel n. 2/2011 della rivista Mondi Migranti. ** Università di Catania. Sebbene questo lavoro sia frutto di una riflessione comune, a Maurizio Avola sono attribuibili i paragrafi 1, 2 e 3, mentre ad Anna Cortese i paragrafi 4, 5 e 6. Alla ricerca hanno altresì partecipato Davide Arcidiacono, Antonella Barone, Maria Covato e Anna Orofino. A loro vanno i più sentiti ringraziamenti. 33 D’ora in avanti si utilizzeranno indistintamente i termini imprenditore, lavoratore autonomo o indipendente. Sul piano analitico si tratta di figure diverse, tuttavia, dal punto di vista empirico è tutt’altro che semplice ricondurre a tale distinzione una pluralità di situazioni di confine. Si veda in merito il capitolo precedente, redatto da Antonio Chiesi. 34 Per una rassegna puntale della letteratura sul tema si rimanda ad Ambrosini (2005). 35 In effetti, anche l’ipotesi della successione ecologica, tradizionalmente accomunata agli approcci supply side, deve essere interpretata alla luce delle dinamiche di interazione tra fattori da offerta (la presenza di immigrati orientati al lavoro autonomo) e da domanda (i mutamenti strutturali delle economie avanzate che creano opportunità di inserimento negli interstizi abbandonati dagli autoctoni) (cfr. Ambrosini, 2005).

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immigrati imprenditori nei mercati nazionali, regionali e locali viene quindi interpretata come il risultato di processi di radicamento nei quali gli immigrati sfruttano le proprie risorse, in particolare etniche, per attivare le opportunità che via via l’ambiente offre loro, adattandovisi o contribuendo a modificarlo creando opportunità prima inesistenti o latenti (Klosterman, Rath, 2003). Tuttavia, come è stato sottolineato, questa prospettiva dualistica, proprio per la sua complessità stenta a tradursi in specifici programmi di ricerca: il contributo di Klosterman e Rath resta una mera proposizione teorica (Ambrosini, 2005; Codagnone, 2003) e così pure la promettente interazione tra paradigma dell’azione e della struttura (Barberis, 2008; Storti, 2009). Pur con queste difficoltà l’approccio della mixed embededness potrebbe rivelarsi utile per l’analisi del caso italiano.

Indubbiamente, il venir meno nel 1998 dei vincoli normativi che regolavano l’accesso al lavoro autonomo degli immigrati nel nostro paese ha rappresentato un impulso decisivo per lo sviluppo diffuso dell’imprenditorialità immigrata in Italia36 sottolineando la rilevanza dei fattori istituzionali; tuttavia, solo lo sguardo incrociato sulla domanda a livello territoriale e settoriale e sull’offerta, sul piano dei tassi d’imprenditorialità dei diversi gruppi nazionali di immigrati, ha permesso di ricostruire un’immagine articolata dei modelli di incorporazione delle attività autonome degli immigrati nei sistemi locali, come già da tempo evidenziato per il lavoro dipendente (Ambrosini, 1999; Avola, 2009; Reyneri, 2005).

Un caso particolarmente interessante, in tal senso, è rappresentato dalle dinamiche dell’imprenditoria cinese in Italia. La sterminata letteratura sull’emigrazione cinese ha sempre sottolineato il ruolo giocato dagli orientamenti culturali e dall’appartenenza etnica come risorse individuali e collettive decisive per spiegare il successo imprenditoriale dei chinese overseas soprattutto nel Sud-Est asiatico e in certa misura nel Nord America e in Europa, tanto da arrivare a parlare di capitalismo confuciano (Redding, 1993; Yao, 2002), familismo imprenditoriale (Chang, Chiang, 1996; Wong, 1985), guanxi37 economy (Gold, Guthrie, Wank, 2002; Yang, 1994). Inoltre, la comune origine dei flussi che caratterizzano buona parte dell’immigrazione cinese nel nostro paese, l’area di Wenzhou nella provincia orientale dello Zhejiang, ha contribuito ad accrescere ulteriormente l’enfasi sul background culturale e relazionale che sosterrebbe lo sviluppo delle attività autonome gestite dai cinesi in Italia.

I numerosi studi sull’imprenditoria cinese in Italia condotti a livello locale, tanto nelle aree metropolitane, quanto in quelle distrettuali, sebbene abbiano sempre enfatizzato la rilevanza della dimensione culturale e delle relazioni etniche nell’orientare i modelli di imprenditorialità dei cinesi, hanno altresì messo in evidenza come questi siano “negoziati” nel tempo con il contesto socioeconomico di inserimento che struttura dinamicamente opportunità e vincoli, via via ridefiniti dalla presenza degli immigrati.

In un’area storica di insediamento come la periferia fiorentina, ad esempio, l’accesso come terzisti nella pelletteria è avvenuto in continuità con la struttura produttiva preesistente, ma il processo sostituzione degli autoctoni si è progressivamente arrestato quando sia il mercato, sia “l’ospitalità” della comunità locale, hanno raggiunto un certo livello di saturazione (Tassinari, Tomba, 1996; Tomba, 1999). A Prato, invece, l’arrivo dei cinesi negli anni novanta è stato funzionale ai mutamenti in atto nel distretto: offrendo flessibilità, rapidità di consegna e bassi prezzi, le micro-imprese cinesi si sono moltiplicate in pochi anni e hanno accompagnato la diversificazione della produzione e lo sviluppo del pronto moda (Ceccagno, 2003; Colombi, 2002). Anche qui, però, nel corso del tempo diverse cose sono cambiate, poiché l’elevata concorrenza ha comportato una continua rincorsa sui prezzi e un abbattimento della redditività, inducendo un mutamento delle strategie imprenditoriali: alcuni hanno puntato sulla diversificazione dell’attività passando dalla subfornitura monofase a quella plurifase per tentare di “fidelizzare” la clientela; altri hanno cambiato comparto o settore o sono usciti dal distretto; infine, per i dipendenti aspiranti 36 I dati Infocamere e quelli Istat rilevano rispettivamente che il numero di titolari di impresa e quello di lavoratori indipendenti stranieri cresce costantemente dalla fine degli anni novanta fino ad oggi. Tuttavia, nello stesso periodo, considerata la consistente crescita del numero di immigrati presenti in Italia, sia l’incidenza dei titolari di impresa sulla popolazione straniera che quella dei lavoratori indipendenti sul totale degli stranieri occupati diminuisce lievemente (quest’ultima tendenza riguarda anche gli autoctoni). 37 Guanxi in cinese significa relazioni sociali.

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laoban (padroni) i progetti imprenditoriali sono diventati meno fluidi e certi rispetto a quelli vissuti dai pionieri (Ceccagno, 1998; Ceccagno, Rastrelli, 2008).

Anche una ricerca comparata nei distretti tessili modenesi e vicentini ha messo in evidenza l’importanza dell’interazione reciproca tra contesto e imprenditorialità immigrata. Mentre nel vicentino i processi di delocalizzazione all’estero decisi dalle grandi aziende locali hanno di fatto anticipato l’arrivo delle imprese cinesi, limitandone l’inserimento, nel carpigiano i terzisti della Repubblica Popolare hanno permesso di rilocalizzare nell’area distrettuale fasi di produzione che in precedenza erano state dirottate verso le aree meridionali e, come a Prato, hanno sostenuto “la competitività nel cambiamento dei mercati globali, assorbendo i rischi distrettuali delle trasformazioni in atto e a loro volta socializzandoli all’interno di reti etnicizzate” (Barberis, 2008: 221).

Tra le aree metropolitane quella milanese vanta la storia più antica di inserimento nel lavoro autonomo dei cinesi e, come Prato, una tradizione di ricerca importante (Chiesi, Zucchetti, 2003; Cologna, 2000; 2002; Cologna, Mauri, 2004; Farina et al., 1997). Se oggi il loro inserimento è decisamente meno concentrato dal punto di vista settoriale e più diversificato per modelli di impresa rispetto ai casi distrettuali analizzati, ciò è legato non solo alle specificità socio-economiche della città, ma anche ad un processo di adattamento progressivo ad una realtà che è profondamente mutata nel tempo. I laboratori di confezioni e pelletteria, alcuni dei quali attivi sin dal secondo dopoguerra al servizio di committenti italiani, sono stati affiancati da imprese etniche e/o esotiche con mercati in espansione in un contesto dove l’immigrazione ha raggiunto una massa critica importante e i gusti dei consumatori si sono orientati prima che altrove alla ricerca di nuovi sapori ed esperienze (i ristoranti tipici rappresentano il principale esempio in tal senso, in secondo luogo gli esercizi alimentari). Una rilevanza crescente hanno assunto anche le attività commerciali e i pubblici esercizi “aperti senza connotazioni etniche di prodotto e di mercato (Ambrosini, 2005), che hanno alimentato un processo di diversificazione rispetto all’imprenditoria autoctona dalle valenze non univoche: sostituzione, complementarietà, concorrenza.

Sebbene il fenomeno dell’imprenditorialità cinese sia più recente e meno importante sul piano quantitativo, un panorama simile in termini di differenziazione della penetrazione nell’economia locale ed evoluzione nel tempo si rileva anche a Torino (Berzano et al., 2010). Coerentemente con la struttura produttiva locale, la manifattura tessile non ha mai assunto una grande rilevanza ed è stata così la ristorazione a giocare un ruolo di traino rispetto al settore alimentare e al commercio al dettaglio che si sono diffusi negli ultimi anni in ogni angolo e mercato della città (Genova, 2010). Altro tipico esempio di specializzazione urbana è quella romana. Qui è stata innanzitutto la vocazione turistica internazionale della città a fare dei ristoranti tipici l’avanguardia dell’imprenditoria cinese. Tuttavia, oggi è il commercio ad occupare la stragrande maggioranza dei cinesi, soprattutto all’ingrosso: data la sua posizione strategica, per molti commercianti cinesi che operano in diverse aree del nostro paese Roma è diventata, infatti, uno dei più importanti centri di approvvigionamento di svariati prodotti (abbigliamento, calzature, pelletteria, oggettistica per la casa, ecc.) che giungono in Italia dalla Cina passando soprattutto dal porto di Napoli38 (Cristaldi, Lucchini, 2007).

In definitiva, le ricerche sul tema ci offrono uno spaccato profondamente differenziato che si presta ad uno schema interpretativo complesso, come quello proposto dalla mixed embeddedness, che privilegia l’interazione della dimensione culturale ed etnica dell’imprenditorialità con le specificità socioeconomiche dei contesti territoriali e con i mutamenti del mercato e della società d’accoglienza (stili di vita, di consumo, di lavoro, processi di mobilità sociale, ecc.). Semmai, in uno scenario sempre più condizionato dai processi di globalizzazione, occorrerebbe indirizzare l’analisi anche al di là dello spazio sociale ed economico definito dai confini istituzionali e normativi delle società d’accoglienza. In quasi tutti i contesti considerati, infatti, emerge come l’ossessiva ricerca dell’autonomia e del successo che guida quella che potremmo definire la

38 Non a caso la dislocazione spaziale degli esercizi all’ingrosso si concentra prevalentemente in prossimità del G.R.A., facilitando così il collegamento con il porto partenopeo.

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business migration dei cinesi si sia sempre più orientata a sfruttare le relazioni con una madrepatria che cambia e che è diventata una tra le più importanti potenze industriali del mondo.

Un passo avanti, da questo punta di vista, può essere offerto dal filone di studi sul transnazionalismo. Si tratta di un approccio variegato ispirato originariamente da alcune ricerche antropologiche (Glick Schiller, Basch e Blanc-Szanton, 1992) che enfatizza, sul piano culturale, politico ed economico (Portes, Guarnizo e Landolt, 1999), la doppia appartenenza dei migranti alle aree di origine e a quelle di destinazione. Pur nei limiti che sono stati sottolineati (Waldinger e Fitzgerald, 2004; Waldinger, 2010), il transnazionalismo può rappresentare una chiave di lettura complementare (Boccagni, 2007) per l’analisi di alcuni aspetti che caratterizzano le migrazioni contemporanee, a partire proprio dall’imprenditorialità. Al riguardo, è stato sottolineato il crescente attivismo di alcuni immigrati che, sfruttando le risorse relazionali e di mediazione tra “qua” e “là” di cui dispongono e che l’esperienza migratoria può contribuire ad ampliare, si pongono come intermediari nello scambio di beni e servizi tra paesi di origine e di accoglienza, operando in mercati etnici, esotici o totalmente aperti (Ambrosini, 2008; 2009; Portes, Haller, Guarnizo, 2002; Peraldi, 2002; Storti, 2009). Se solo una minima parte delle attività autonome gestite dagli immigrati si configura come transnazionale, d’altra parte l’attivismo di alcuni gruppi di immigrati come intermediari commerciali tra due mondi è antica quanto le migrazioni, come ci insegnano l’ampia letteratura sulle diaspore e l’approccio delle middleman minorities di Bonacich (1973; cfr. Ambrosini, 2009; Boccagni, 2009). Tuttavia, è evidente che rispetto al passato la globalizzazione ha rivoluzionato sotto molteplici punti di vista le relazioni tra “qua” e là”: non si tratta solo di un ampliamento quantitativo degli scambi di merci, servizi, simboli, esperienze, ecc., veicolati dall’apertura dei mercati, dalle nuove tecnologie dell’informazione e della telecomunicazione, dalle migrazioni internazionali (Appadurai, 1996; Cohen, 1997), ma piuttosto di un mutamento della natura stessa delle relazioni che può intaccare gli assetti di potere consolidati fra aree di esodo e paesi di arrivo. È quello che sta per certi aspetti avvenendo nello scenario dei rapporti tra Italia e Cina: le attività di import-export, che rappresentano l’ultima e più redditizia frontiera dell’imprenditoria cinese in molte realtà della penisola (Berzano et al., 2010; Ceccagno, Rastrelli, 2008; De Luca, 2003), stanno contribuendo a cambiare tanto il profilo della bilancia commerciale fra i due paesi, quanto i rapporti competitivi fra commercianti cinesi ed autoctoni.

Da questo punto di vista, non si tratta più solo della capacità di aspiranti laoban di insinuarsi negli interstizi del mercato locale come sostituti funzionali di modelli imprenditoriali che gli autoctoni hanno difficoltà a riprodurre o come interpreti di nuove domande etniche e/o esotiche emerse in una società che cambia. Piuttosto, la repentina espansione di imprese commerciali cinesi, che sono diventate più numerose di quelle manifatturiere e vendono all’ingrosso e al dettaglio prodotti made in China, rimette in discussione i modelli interpretativi sinora prevalenti. Soprattutto se si considera quanto tale crescita sia stata importante in molte realtà meridionali ed in particolare in Sicilia (Ceccagno, Rastrelli, 2008) dove il commercio rappresenta un vero e proprio core business. Se, da un lato, queste dinamiche recenti rimandano alla nota funzione specchio dell’immigrazione di cui i Wenzhouren (cinesi originari dell’area di Wenzhou), con la loro capacità di adattamento, sono stati protagonisti in ogni angolo della penisola, dall’altro, se si considera che in ambiti come la commercializzazione di capi e accessori di abbigliamento le imprese cinesi sono riuscite ad imporre la loro concorrenza a quelle autoctone fino ad estrometterle dal mercato, impone una riflessione sulle specifiche risorse con cui si gioca una competizione che supera lo spazio socioeconomico definito dalle società di accoglienza.

La nostra ipotesi è che le relazioni dirette o indirette, in buona misura esclusive ed escludenti che i commercianti cinesi residenti all’estero riescono ad intrattenere con gli industriali della madrepatria e con i connazionali che operano nei distretti italiani, rafforzino un modello imprenditoriale “nazionale” che sfrutta la sinergia positiva fra capacità di produzione e di distribuzione chiudendo la filiera da monte a valle. Un modello competitivo fondato sulla flessibilità, sull’isomorfismo mimetico e sulla compressione del costo del lavoro che i cinesi riescono a riproporre in realtà e contesti territoriali assai distanti e che spiazza sia i migranti

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imprenditori di più antico insediamento che non possono contare su una filiera transnazionale, sia gli autoctoni che scontano il doppio svantaggio delle difficoltà di attivare reti lunghe per cogliere le opportunità della globalizzazione e dell’essere ancorati a modelli di impresa comunque più “evoluti” e costosi.

Seguendo questa prospettiva ci è sembrato di particolare interesse affrontare l’analisi dell’imprenditorialità cinese in una città come Catania dove l’espansione di aziende commerciali all’ingrosso e al dettaglio gestite da immigrati della Repubblica Popolare ha assunto proporzioni assai rilevanti. A tal fine, da un lato, abbiamo ricostruito l’evoluzione della presenza e dell’imprenditorialità degli immigrati cinesi in provincia di Catania, utilizzando dati istituzionali; dall’altro, abbiamo cercato di definire tanto i profili degli imprenditori, quanto i modelli organizzativi e le strategie competitive delle imprese catanesi del made in China attraverso interviste semistrutturate che hanno coinvolto 20 cinesi titolari di imprese commerciali all’ingrosso e al dettaglio39 e 14 testimoni privilegiati40.

2. Il successo del commercio made in China a Catania Abbandonata definitivamente l’aspirazione a diventare la Milano del Sud ed esauritosi il boom

edilizio dei decenni post-bellici, quella catanese è oggi un’area metropolitana che, nonostante abbia conosciuto di recente una fase di intenso sviluppo di importanti realtà produttive high tech (Buttà, Schillaci, 2003), mostra una spiccata vocazione terziaria, in particolare commerciale (Palidda, 2009). Come molte altre aree del Mezzogiorno è caratterizzata da un’elevata parcellizzazione del sistema produttivo e da gravi squilibri occupazionali, con preoccupanti livelli di disoccupazione e di diffusione del lavoro irregolare e/o instabile che coinvolgono soprattutto donne e giovani. In questo contesto, l’immigrazione è cresciuta più lentamente che nel resto del paese, ma ha comunque raggiunto livelli significativi41. A partire dagli anni ottanta la provincia etnea ha accolto prevalentemente migranti provenienti dall’area maghrebina, dalle Mauritius, dallo Sri Lanka e dal Senegal; negli anni novanta la presenza di questi gruppi nazionali è ulteriormente cresciuta (soprattutto mauriziani e sri lankesi), ma si è fatta importante anche la presenza degli albanesi. Nell’ultimo decennio, invece, il panorama dell’immigrazione catanese è profondamente mutato: i gruppi storici registrano una presenza ormai stabile o addirittura in declino (mauriziani e senegalesi), mentre accanto al vero e proprio boom di immigrati rumeni si segnala una crescita consistente dei cinesi. Gli immigrati dalla Repubblica Popolare alla fine degli anni novanta erano poco più di un centinaio, ma nel 2009 rappresentano il quarto gruppo nazionale della provincia, con quasi 1.500 residenti: nel 1999 la loro incidenza sul totale degli stranieri non raggiungeva la metà della media nazionale, oggi la supera abbondantemente (6,3 contro 4,4%), facendo salire Catania dall’ultimo al primo quartile nella graduatoria delle province italiane (Fig. 1).

L’inserimento occupazionale dei lavoratori extra-comunitari che appartengono ai gruppi nazionali tradizionalmente più numerosi (mauriziani e sri lankesi)42 si è realizzato con l’ingresso nel mercato delle collaborazioni domestiche che si è progressivamente trasformato in una nicchia etnicizzata che ha protetto questi lavoratori dai rischi di disoccupazione, ma generalmente ha frenato la loro mobilità occupazionale e i passaggi al lavoro autonomo (Avola, Cortese, Palidda, 2003; 2005), lasciandoli ai margini del rapido sviluppo di imprenditorialità immigrata degli anni duemila. Già alla fine degli anni novanta gli immigrati senegalesi, invece, mettevano a frutto le

39 L’unità di Catania, pur mantenendo la struttura originaria, ha integrato con specifici approfondimenti qualitativi i questionari utilizzati per l’indagine nazionale. 40 Si tratta sia di testimoni istituzionali (rappresentanti associazioni datoriali, camera di commercio, forze dell’ordine, autorità portuale), sia di testimoni che operano in modo specifico con imprenditori cinesi (imprenditori autoctoni clienti e fornitori di ditte cinesi, avvocati, commercialisti, intermediari immobiliari). 41 Al 31 dicembre 2009 si contano in provincia di Catania 23.411 stranieri residenti (circa il doppio rispetto all’inizio degli anni duemila e il triplo rispetto ai primi anni novanta) , pari al 2,2% della popolazione totale, lontano dalla media nazionale del 7,0% e comunque al di sotto del dato regionale 2,5% e di quello del Mezzogiorno (2,7%). 42 Considerando tutti gli stranieri, i rumeni rappresentano dal 2007 il primo gruppo nazionale della provincia, anche se nell’area metropolitana prevalgono ancora i mauriziani e gli sri lankesi.

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risorse di capitale sociale tratte dall’inserimento in comunità coese (Scidà, 1993) per sostituirsi ai marocchini nell’esercizio di attività commerciali e costruire percorsi di mobilità occupazionale dall’ambulantato “di rifugio” irregolare al commercio su suolo pubblico con regolare licenza, per approdare in alcuni casi all’avvio di esercizi commerciali per la vendita al dettaglio e all’ingrosso di prodotti etnici (Avola, Giorlando, 2004; Covato, 2007).

Fig. 1 – Incidenza immigrati cinesi su totale stranieri (valori %)

Fonte: elaborazioni su dati Istat.

Solo negli anni duemila i dati camerali registrano, però, un rapido sviluppo della microimprenditorialità a Catania che offre agli stranieri nuove opportunità di competere in mercati ambiti dall’imprenditoria autoctona: l’incidenza del commercio ambulante sulle attività autonome degli immigrati resta predominante, ma si profila una crescita considerevole di attività imprenditoriali più strutturate nel commercio al dettaglio e all’ingrosso e nei servizi “metropolitani” e una progressiva articolazione delle tipologie di imprese.

Fig. 2 – Ditte individuali con titolare nato in Cina. Provincia di Catania

Fonte: elaborazioni su dati Infocamere.

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I protagonisti assoluti di questa nuova fase sono gli immigrati cinesi. Da poche unità registrate alla fine degli anni novanta, le ditte individuali con titolare nato in Cina43 hanno raggiunto quota 561 nel 2010, con una crescita costante nel corso degli anni ben superiore rispetto a quella comunque importante fatta registrare da ditte con titolari nati in paesi extra-comunitari, cosicché l’incidenza delle prime rispetto alle seconde è aumentata progressivamente passando dall’1,1 al 21,4% (fig. 2)44.

Se l’aumento di ditte con titolare extracomunitario e soprattutto di quelle cinesi non si arresta nemmeno negli anni della crisi economica, le ditte con titolare nato in Italia, invece, fanno segnare un continuo calo a partire dal 2007, con la scomparsa nel giro di quattro anni di quasi 9.000 unità (-12,6%).

La rilevanza dell’imprenditorialità cinese a Catania assume un significato straordinario se si osserva il fenomeno in ottica comparata con il resto del territorio regionale e nazionale. Come mostra la tab. 1 la quota di ditte individuali con titolare nato in un paese extra-UE sul totale delle ditte individuali a Catania è più bassa sia della media regionale che soprattutto di quella nazionale. Considerando solo i cinesi, invece, il dato catanese non solo è più elevato di quello siciliano, ma anche non molto distante da quello del resto del paese. Tuttavia, informazioni ancor più rilevanti si ottengono analizzando i settori di attività. I cinesi, infatti, sono titolari del 2,5% delle ditte individuali registrate nel commercio a Catania, mentre nell’intero territorio nazionale si fermano all’1,9%. La specificità del loro inserimento è altresì confermata da una graduatoria di fatto inversa considerando la totalità degli extra-comunitari.

Tab. 1 – Incidenza delle ditte individuali sul totale per paese di nascita del titolare, settore di attività e area territoriale. Anno 2010 Extra-UE

Totale Cina Totale

Extra-UE Commercioa

Cina Commercio

Catania 4,1 0,9 9,4 2,5 Sicilia 4,8 0,7 12,3 2,3 Italia 7,9 1,1 12,5 1,9

Fonte: elaborazioni su dati Infocamere. a) La classificazione dei dati camerali suddivide il settore in “commercio al dettaglio”, “commercio all’ingrosso” e “commercio, manutenzione e

riparazione di autoveicoli e motocicli”. Quest’ultima voce è stata esclusa dal nostro conteggio.

Come ricordato nel paragrafo precedente, l’inserimento degli immigrati cinesi in Italia è stato caratterizzato per lungo tempo dall’avviamento di micro-imprese nel settore manifatturiero, prevalentemente nelle confezioni e nella pelletteria. Dal 2005, però, le ditte individuali cinesi attive nel commercio in Italia hanno superato quelle manifatturiere e rappresentano oggi il 46,6% del totale (contro il 42,7%). Si tratta di un fenomeno complesso ed eterogeneo, che spazia dal commercio ambulante su aree pubbliche a veri e propri centri commerciali al dettaglio e all’ingrosso interamente made in China, la cui espansione è frutto di un duplice processo: da un lato, la diversificazione delle attività nelle aree di più antico insediamento del Centro-Nord; dall’altro, l’evoluzione territoriale della presenza cinese, che negli ultimi anni ha coinvolto anche le regioni meridionali. A differenza di quanto avvenuto nel resto del paese, al Sud la struttura delle

43 In questo studio si è deciso di lavorare esclusivamente con i dati dei titolari di ditte individuali piuttosto che con quelli che fanno riferimento alle persone che occupano una qualche carica “imprenditoriale” in senso lato (rappresentanti legali, soci e altre cariche in imprese di capitali, società di persone diverse dalle ditte individuali, cooperative, ecc.). Tale scelta è stata dettata sia dai maggiori dubbi che ruotano attorno all’equiparazione di tali altre cariche con posizioni imprenditoriali in senso stretto rispetto alla titolarità di una ditta individuale (di nuovo si rimanda al capitolo precedente), sia dalla considerazione che tra i cinesi “imprenditori” in senso lato a Catania i titolari di ditte individuali rappresentano comunque il 90,9% del totale. 44 Purtroppo, tra i limiti dei dati camerali uno dei più rilevanti è proprio il criterio attraverso il quale si definisce la nazionalità, basato sul luogo di nascita e non sulla cittadinanza. In questo modo vengono conteggiati coloro che, nati all’estero, sono di fatto italiani (immigrati di ritorno). Correggere i dati è molto complicato e implica comunque procedure arbitrarie. Sulla base di precedenti stime effettuate su file di dati individuali, la quota di immigrati di ritorno nati in paesi extra-Ue tra i titolari di ditte individuali a Catania è piuttosto elevata (circa il 40%) (Covato, 2007). Considerato ciò, l’incidenza dei cinesi sarebbe ben più elevata di quella qui riportata.

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opportunità non ha mai favorito un radicamento manifatturiero dell’imprenditoria immigrata sul modello distrettuale, così l’inserimento dei cinesi è più recente e sperimenta un’accelerazione negli anni in cui il commercio diventa un’alternativa strategica sia per molti laoban che vedono continuamente diminuire la redditività dei loro laboratori di fronte ad una concorrenza divenuta esasperata, sia per i lavoratori dipendenti che per le stesse ragioni vedono minacciati i loro progetti di mobilità attraverso il passaggio al lavoro autonomo nel settore manifatturiero (Ceccagno, Rastrelli, 2008). In questo modo, inizia un processo migratorio all’inverso, che dal Centro-Nord spinge molti cinesi a cercare opportunità in nuovi mercati come quelli meridionali, cui nel tempo si aggiungono flussi in entrata direttamente dalla madrepatria. Il risultato è che oggi anche il più remoto dei comuni meridionali ha il suo esercizio commerciale cinese e la Sicilia è la regione protagonista di questo sviluppo, registrando il più alto numero di ditte individuali nel settore dopo la Lombardia.

Le imprese commerciali rappresentano in Sicilia ben il 98,4% delle ditte individuali con titolare nato in Cina (il 97,7% a Catania). Tale concentrazione settoriale riguarda anche gli immigrati di altre nazionalità, seppur in misura più contenuta (tre ditte su quattro sia a Catania che in Sicilia), ma assume un significato diverso. Così come a Catania, anche nel resto dell’isola per molti degli immigrati appartenenti ai gruppi nazionali più attivi nel lavoro indipendente, sia di immigrazione più antica (marocchini e senegalesi) che più recente (bengalesi), l’inserimento in questo settore passa dall’ambulantato, che si configura come un vero e proprio “rifugio etnicizzato”. Solo in pochi, tuttavia, riescono ad approdare ad attività più strutturate con l’apertura di esercizi commerciali al dettaglio e/o all’ingrosso, comunque quasi esclusivamente nelle città più grandi, le uniche realtà dove riescono a trovare spazi di mercato per una clientela autoctona, attratta da prodotti dell’artigianato etnico, o immigrata, in particolare ambulanti che rivendono prodotti etnici o merci di scadente fattura (anche contraffatte) nei mercati cittadini o nelle spiagge più affollate nel periodo estivo. Per i cinesi, invece, il percorso appare diverso. Sin dall’inizio, infatti, il loro arrivo coincide con l’avvio di attività commerciali strutturate in segmenti di mercato, soprattutto la vendita di capi e accessori di abbigliamento, ancora importanti per gli autoctoni e in cui gli altri immigrati non hanno mai trovato spazi significativi.

In questo processo di rapida penetrazione nel mercato siciliano Catania ha una sua specificità. La vocazione commerciale della provincia etnea nel panorama regionale è nota sia per il peso che il settore assume nell’economia locale (in termini tanto di attività che di occupati), sia per il ruolo strategico di hub che rifornisce grossisti e dettaglianti di buona parte dell’isola. I cinesi si sono inseriti nell’economia del territorio sfruttandone appieno le opportunità e hanno fatto di Catania il quinto polo nazionale, dopo quelli storci di Milano e Firenze-Prato e quelli più recenti di Napoli e Roma, della distribuzione made in China in Italia. Questo ruolo strategico assunto dalla provincia etnea è confermato non solo dal numero complessivo di esercizi commerciali, il più alto dell’isola e tra i più elevati a livello nazionale, in crescita costante da più di dieci anni a fronte della crisi attraversata dal settore in provincia45, ma soprattutto dal peso assunto dalle attività all’ingrosso. A Catania, infatti, si trovano 169 esercizi cinesi di questo tipo, l’85,8% di quelli registrati sull’intero territorio regionale, che riforniscono non solo dettaglianti connazionali e extra-comunitari in genere, ma anche autoctoni, tanto della provincia quanto del resto della regione. Il progressivo ampliamento dei mercati di sbocco ribalta di fatto i tradizionali rapporti distributivi che hanno caratterizzato a partire dagli anni ottanta l’inserimento nel commercio da rifugio degli immigrati e che trovavano nei grossisti locali o comunque nazionali i loro fornitori esclusivi di beni non etnicamente connotati46.

45 Dal 2006 al 2010 si registra una contrazione di oltre 3.000 ditte individuale pari al 13,2%, che sale al 16,1% considerando solo quelle con titolare nato in Italia. 46 Appare molto interessante, in tal senso, l’iniziativa di una famiglia di imprenditori cinesi del settore che ha promosso di recente l’avviamento di un imponente centro commerciale all’ingrosso per operatori no food denominato “Cinamercato” che con i suoi oltre 15.000mq potrà ospitare fino a 150 box esclusivamente destinati al made in China. Oltre ad essere il più importante progetto imprenditoriale finora realizzato nella città etnea, l’iniziativa è rilevante per il suo elevato valore simbolico, poiché sorge all’interno della nuova area commerciale all’ingrosso della città, la più grande area di distribuzione del Mezzogiorno.

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Tale specializzazione dell’imprenditoria cinese a Catania è ben evidenziabile dai dati riportati nella tab. 2: mentre una ditta individuale su tre registrata nel commercio nella provincia etnea opera nell’ambito della distribuzione all’ingrosso, tale rapporto scende a una su dieci in Sicilia (escludendo Catania ciò avviene nella misura dell’1,9%) e una su cinque nell’intero territorio nazionale. Inoltre, a Catania il peso specifico dell’ingrosso è addirittura superiore rispetto a quanto avviene per le ditte con titolare italiano.

L’analisi dei dati istituzionali, in definitiva, evidenzia un modello di inserimento che ricalca la vocazione del territorio nell’ambito regionale, mettendo ancora una volta in luce la funzione specchio dell’immigrazione e in particolare la grande adattabilità dell’imprenditoria cinese al contesto. Tuttavia, almeno due questioni restano ancora aperte. Innanzitutto, quali sono i fattori che hanno permesso agli immigrati cinesi una colonizzazione senza conflitto di alcuni spazi di mercato in un contesto difficile. In secondo luogo, come sono riusciti nel tempo a ribaltare i rapporti di forza con l’imprenditoria autoctona affermandosi come protagonisti della distribuzione low cost.

Tab. 2 – Incidenza dell’ingrosso sul totale delle ditte individuali commerciali per paese di nascita del titolare e area territoriale. Anno 2010 Cinesi Extra-Ue Italiani Totale Catania 33,6 13,7 31,3 29,6 Sicilia 10,0 4,9 25,2 22,6 Italia 19,9 14,4 34,3 31,7

Fonte: elaborazioni su dati Infocamere.

Per cercare di dare una risposta agli interrogativi sollevati, un primo passaggio necessario è

quello di ricostruire il profilo degli imprenditori cinesi operanti nel territorio catanese.

3. Profili di commercianti cinesi: biografie deboli, progetti forti, carriere mobili Nel corso della nostra ricerca abbiamo intervistato un campione non rappresentativo di 20 cinesi

titolari di attività commerciali al dettaglio e all’ingrosso di capi e accessori di abbigliamento. Il primo obiettivo dell’indagine è stato quello di ricostruire il profilo degli imprenditori e l’evoluzione delle loro carriere, nel tentativo di trarre indicazioni in merito al ruolo giocato dalle risorse (umane, relazionali, economiche, motivazionali, ecc.) individuali, familiari ed etniche, nel sostenere il percorso migratorio e l’accesso al lavoro indipendente. L’avvio di attività autonome da parte degli immigrati, così come l’accesso al lavoro qualificato, infatti, viene spesso concepito come l’esito di un percorso promozionale per cui risulta fondamentale il possesso di determinate credenziali educative e professionali, l’accumulazione di risorse finanziarie, l’integrazione sociale, culturale ed economica nel contesto di accoglienza (conoscenza della lingua, delle leggi, dei mercati, sviluppo di un capitale relazionale non esclusivamente etnico, ecc.)47 (Bagaglini, 2010, Reyneri, 2007).

Tuttavia, le numerose ricerche sugli immigrati cinesi hanno smentito la validità di molti degli assunti suddetti. La nostra indagine conferma che siamo di fronte a delle biografie che possiamo considerare particolarmente deboli. In primo luogo, tutti gli intervistati, 11 uomini e 9 donne di età compresa tra i 25 e i 57 anni, provengono da famiglie di basso status sociale, di origine contadina o operaia, fatta eccezione per due soli uomini i cui genitori erano piccoli commercianti ed un altro il cui padre era un impiegato pubblico. Inoltre, nessuno è in possesso di particolari credenziali educative e/o professionali: solo in sei sono arrivati all’equivalente italiano del diploma, mentre gli altri si sono fermati alle medie inferiori o hanno concluso solo il ciclo della scuola primaria; sul versante lavorativo, invece, tra coloro che hanno iniziato a lavorare nella madrepatria solo due intervistati possono vantare esperienze di lavoro autonomo, mentre tra chi ha lavorato alle dipendenze nessuno si è spinto al di là di mansioni operaie (condizioni che sono rimaste tali anche in Italia prima dell’avvio della prima attività indipendente). Infine, sul versante dell’integrazione socioculturale, il nostro campione conferma quanto consolidato nella letteratura sui cinesi in Italia e

47 Ragion per cui l’anzianità della presenza nel contesto di accoglienza è una variabile spesso decisiva.

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recentemente misurato da una ricerca comparata a livello nazionale (Cesareo, Blangiardo, 2009): scarsa conoscenza della lingua italiana, relazionalità confinata all’interno delle reti etniche, partecipazione associativa inesistente.

A fronte di tale debolezza delle biografie, i percorsi migratori degli imprenditori intervistati sono sorretti da progetti forti e strategie mirate, dove l’avvio di attività indipendenti rappresenta l’obiettivo ultimo verso il quale sono finalizzati tutti gli sforzi individuali e familiari. Su questo versante, appare interessante la condivisione di una comune origine territoriale che come sostenuto da un’ampia letteratura assume un significato tutt’altro che secondario, configurandosi come un orientamento normativo che sostiene l’azione dei singoli. Tutti gli intervistati provengono, infatti, dal Sud-Est dello Zhejiang, in particolare dalla prefettura di Wenzhou, un’area a vocazione artigianale e commerciale, dove la resistenza alla collettivizzazione dimostrata dai suoi abitanti e gli scarsi investimenti statali nell’economia locale (Cologna, 2000), nonché l’isolamento geografico, avrebbero di fatto favorito lo sviluppo di forme di gestione autonoma delle attività già prima delle riforme promosse da Deng Xiaoping (Tomba, 1999; Zocchi, 2002). Tali condizioni sarebbero alla base di una sorta di vantaggio competitivo che i Wenzhouren valorizzano dopo il 1979, soprattutto durante il nuovo corso di apertura al mercato e di ripresa delle migrazioni internazionali dopo il 1979: è il “modello di Wenzhou” (Liu, 1992; Parris, 1993; Pieke, Mallee, 1999), definito da elevata propensione agli affari, mobilità, flessibilità e intensità del lavoro, ecc., che questi “ebrei cinesi” (Berzano et al., 2010) avrebbero rapidamente esportato sia all’interno che all’esterno della madrepatria attivando le reti di guanxi, familiari e di tongxiang48 (Tomba, Tassinari, 1996). Il progetto migratorio di ogni Wenzhouren, quindi, sarebbe chiaro sin dalle origini, scandito da una successione lineare di fasi che partono dalla programmazione familiare del viaggio sino all’avvio dell’impresa, passando attraverso un inserimento nel paese ospitante alle dipendenze di un’impresa di un parente o di un compaesano, che consentirebbe di scontare il debito contratto per l’emigrazione e iniziare ad accumulare risorse economiche e cognitive necessarie per l’avvio di un’attività autonoma. Rispetto a questo progetto, tornare a casa senza essere diventato laoban sarebbe un fallimento, poiché per i tongxiang “questo solo è ritenuto lo status simbolico al quale è associata e che sanziona […] la mobilità sociale ascendente alla quale tutti aspirano” (Hassoun, 1996: 25-26).

In effetti, i percorsi migratori che abbiamo ricostruito ricalcano fedelmente questo modello, anche se emerge una distinzione iniziale tra chi ha deciso autonomamente di uscire dalla Cina per soddisfare il desiderio di mobilità sociale e di miglioramento delle proprie condizioni economiche e chi invece lo ha fatto per ricongiungersi con i genitori che si trovavano già in Italia (generalmente gli intervistati più giovani). Anche i primi, tuttavia, arrivano nel nostro paese perché è già presente un parente e in questo modo l’inserimento occupazionale è immediato e comunque confinato all’interno di imprese gestite da parenti o da tongxiang. C’è quasi da stupirsi nello scoprire che Luciano49, quarantaduenne commerciante all’ingrosso di calzature che era stato a lungo in Germania, venga chiamato dalla sorella in Italia per andare a lavorare presso la bancarella di un amico catanese, oppure che Monica, 32 anni e titolare da cinque di un ingrosso di scarpe, dopo qualche anno in Italia, abbia avuto un’esperienza come cameriera in un pub gestito da italiani fra le tante alle dipendenze di connazionali. Ad eccezione di questi due casi i percorsi occupazionali sono sempre scanditi da passaggi tutti interni alla rete parentale o di connazionali: chi raggiunge i parenti nell’area di Firenze-Prato (1 su 2), sperimenta un inserimento come operaio nei laboratori di pelletteria o di confezionamento di articoli di abbigliamento; chi arriva invece a Napoli o in altre città della penisola, inizia il percorso occupazionale nelle cucine dei ristoranti cinesi o direttamente come addetto alle vendite in esercizi commerciali made in China. Il primo impiego assolve una funzione decisiva per pagare gli eventuali debiti di viaggio e accumulare parte delle risorse

48 Il termine fa riferimento a coloro che provengono dallo stesso villaggio/città (Ceccagno, 1998). Tra i nostri intervistati si rilevano sostanzialmente due gruppi di tongxiang: quelli provenienti dalla città di Wenzhou e dintorni e quelli originari della contea di Wencheng, un’area più interna poco distante dal principale centro della prefettura. 49 È curioso notare che tutti gli intervistati si facciano chiamare con nomi italiani.

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necessarie per avviare un’attività in proprio. Tuttavia, il passaggio al lavoro autonomo appare piuttosto rapito e accessibile, considerato che 3 su 4 avviano la propria impresa entro cinque anni dall’arrivo in Italia e solo 1 su 5 dopo aver svolto più di un di lavoro alle dipendenze.

L’avvio della prima attività autonoma rappresenta un momento cruciale dell’esperienza migratoria. A seconda dei casi, questo passaggio può comportare un salto doppio o triplo, poiché la mobilità occupazionale verticale è affiancata da quella settoriale e/o geografica. Solo due intervistati, infatti, ripercorrono il tradizionale percorso da operaio a laoban terzista compiuto da quella generazione di migranti cinesi in Italia che tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta si è insediata nei distretti del tessile. Per gli altri, quasi tutti arrivati in Italia tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni duemila, il passaggio al lavoro indipendente avviene con l’avvio di una qualche attività commerciale: bancarelle nei mercati cittadini, negozi al dettaglio, piccoli ingrossi. La logica della continua compressione dei costi imposta dalle dinamiche produttive globali e il sovraffollamento e la competizione esasperata dei connazionali, ha ridotto nel tempo la redditività delle aziende cinese, inducendo molti a seguire vie diverse, più rapide e meno faticose per raggiungere l’unico vero obiettivo, quello di avviare la propria impresa, diventando autonomi e accrescendo le opportunità di guadagno nel minor tempo possibile. Le motivazioni sono forti e talvolta sopperiscono alle risorse scarse: si ricorre così ai prestiti dei parenti, a quelli degli amici, con formule che nel tempo possono generare vantaggi anche per il creditore, come ci spiega Leo, 25 anni, che gestisce con il padre un ingrosso di abbigliamento:

Siamo sempre stati aiutati da amico di Roma. Mio padre con questo amico già si conosceva quando era piccolo in Cina, lui dato opportunità mio padre di venire qua, poi ha dato una mano per fare iniziare lavoro qua a Catania. Ha prestato un po’ di soldi, anche con la merce, perché lui ha ingrosso, noi andiamo da lui e lui per inizio attività sempre fare sospeso, manda 10 colli, tu cominci a vendere, quello che si vende loro ti mandano se tu lavori bene paghi, se non lavori bene ti manda un altro tipo di merce.

Catania diventa per molti la meta ideale per intraprendere il nuovo percorso, un avamposto di

imprenditorialità senza radicamento in quel Mezzogiorno ancora poco esplorato. Infatti, 4 su 5 si trasferiscono nella provincia etnea per aprire direttamente la propria attività e quasi per tutti si tratta della prima esperienza di lavoro autonomo. Ad esclusione di Marco che impiega sei anni dal suo arrivo per avviare il suo ingrosso di calzature (arriva però a Catania appena ventenne), di Leo che subentra nell’attività avviata dal padre dopo otto anni che si era trasferito in città con i genitori e di Antonella che avvia un ingrosso di abbigliamento con il marito dopo aver lavorato come commessa per un connazionale, tutti gli altri nel giro di qualche mese inaugurano i propri esercizi commerciali. Non si tratta, però, di iniziative del tutto azzardate. Ancora una volta, la rete parentale e di tongxiang assume un ruolo decisivo per ridurre l’incertezza che accompagna tale fase. Alcune di queste attività rappresentano una forma di diversificazione degli investimenti di familiari già presenti, in altri casi, invece, la propria rete fornisce informazioni dirette o indirette sulla possibilità di sfruttare un mercato in espansione:

Io chiamato amici, qua zona buona, sono perfetto… come tu se vuoi un lavoro chiami amici. Anche i genitori chiedono se questo lavoro buono, come va, se si sta bene… informazione (Paolo, 28 anni, titolare di un negozio di abbigliamento).

Abbiamo provato in Germania e a Roma ma è stato difficile trovare un negozio adatto alle nostre esigenze. A Roma ne avevamo trovato uno che poteva andare bene, ma chiedevano una buona uscita troppo alta, non era conveniente. Così abbiamo deciso di venire a Catania. [...] Noi siamo stati i primi a venire qui, dai clienti della fabbrica avevamo sentito dire che in Sicilia c’era possibilità di lavoro con le borse, a Catania abbiamo subito trovato questo negozio che andava bene (Elisa, 44 anni, gestisce con il marito un ingrosso di pelletteria).

La ricerca quasi ossessiva del successo spinge questi imprenditori a esplorare, a valutare vincoli

ed opportunità economiche delle loro scelte, a non arrendersi di fronte alle avversità. Un idealtipo di homo œconomicus per il quale il mercato diventa il principale se non l’unico riferimento che guida il progetto migratorio e una carriera che per definizione diviene mobile. Ieri Prato, oggi Catania,

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domani chissà. L’importante è non fermarsi e non cedere alle “tentazioni” che potrebbero far perdere di vista il vero obiettivo di ogni Wenzhouren:

Questo tipo di lavoro, all’ingrosso, è di passaggio, quando noi guadagniamo soldi facciamo un investimento in Cina sempre su commercio, comprare immobili in Cina, poi dopo tot anni lo vendiamo, poi compriamo altri e vendiamo, in mezzo guadagniamo la differenza. Se c’è un posto dove posso guadagnare di più cambio subito (Leo, 25 anni, gestisce un ingrosso di capi di abbigliamento con il padre). Forse aprire altro negozio. Dove non si sa, ancora devo scegliere, anche fuori: Milano, Roma, dove c’è posto buono. Qua lascio qualcuno e faccio avanti e indietro (Alessandro, 24 anni, titolare di un negozio di abbigliamento). Penso di aprire un nuovo negozio, in un altro paese sempre in Italia, però ancora non lo sappiamo dove, vediamo dove è buono, andiamo a vedere, dobbiamo girare (Luigi, 47 anni, titolare di un negozio di abbigliamento). [Dopo quelli nella nostra regione abbiamo intenzione di] aprire altri ingrossi a Pechino, Shangai, Hong Kong. Sì ci vuole, però piano, piano perché è difficile (Mimì, 57 anni, titolare di ingrosso di abbigliamento che da qualche anno esporta vini siciliani nello Zhejiang). 4. Colonizzazione senza conflitti

Come in altre realtà territoriali anche a Catania solidarietà parentali, orientamenti acquisitivi, flessibilità e mobilità hanno rappresentato le principali risorse socioculturali che hanno favorito la transizione al lavoro autonomo degli immigrati cinesi. Tuttavia, i fattori che hanno agito dal lato dell’offerta, proprio perché comuni e trasversali rispetto ad esperienze e fasi migratorie diverse, non riescono a spiegare la specificità della crescita esplosiva dell’imprenditoria cinese nel capoluogo etneo, né il progressivo ribaltamento dei suoi rapporti competitivi con i commercianti autoctoni. I “meccanismi sociali” (Bianco, 2001; Elster, 1983) che hanno regolato questi processi di mutamento, senza generare conflitti manifesti ed attivando “capacità individuali” in una dimensione collettiva, mettono in gioco, piuttosto, relazioni inedite, definite nello spazio e nel tempo, fra variabili di contesto, dinamiche istituzionali e strategie degli attori economici che configurano un processo emblematico di costruzione sociale di imprenditoria immigrata mixed embedded (Kloosterman, Rath, 2001).

Sul versante della domanda, il sistema di opportunità che si offrono all’imprenditoria cinese a Catania negli anni duemila nel settore della distribuzione è strutturato da sincronismi e connessioni che travalicano i confini locali mettendo in comunicazione spazi sociali assai distanti. La forte propensione alla mobilità che abbiamo rilevato anche fra i nostri intervistati stabilisce intersezioni variabili fra i mercati globali, regionali e locali con cui si misurano gli imprenditori cinesi nell’evoluzione delle loro carriere lavorative e nell’esercizio delle loro attività. Come abbiamo già rilevato, quasi tutti gli intervistati raggiungono l’Italia tra la fine degli anni novanta e l’inizio del decennio successivo e si trasferiscono a Catania entro la prima metà degli anni duemila. Le loro scelte migratorie e imprenditoriali si inquadrano, pertanto, in uno scenario economico definito dall’intreccio fra tre differenti processi di cui sono stati partecipi: in primo luogo, lasciano il paese di origine muovendosi nel solco degli ingenti flussi di popolazione e di merci che dalla Cina si dirigono verso l’Europa grazie al successo del modello di sviluppo trainato dalla domanda dei paesi occidentali e sostenuto “dal basso” dall’imprenditorialità reticolare (Hamilton, 2006; Trigilia, 2009); il secondo processo che gli intervistati sperimentano all’arrivo nel nostro paese riguarda, invece, la progressiva saturazione di tradizionali “nicchie etnicizzate” colonizzate dai cinesi nelle aree metropolitane (De Luca, 2003; Cologna, Mauri, 2004; Cologna et al., 2005; Cristaldi, Lucchini, 2007) e nei distretti industriali (Ceccagno, Rastrelli, 2008); infine, a Catania gli immigrati cinesi si misurano con la destabilizzazione degli assetti economici e di potere consolidati e si avvantaggiano della vulnerabilità dell’imprenditoria commerciale tradizionale, sottoposta per tutti gli anni novanta al fuoco incrociato della crisi occupazionale “lunga”, che comprime i redditi delle famiglie, e della penetrazione tardiva e massiccia della grande distribuzione nel territorio etneo. Si tratta di processi strutturalmente interrelati poiché l’aggressività del capitalismo cinese ha

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accelerato la trasformazione dei modelli tradizionali di integrazione degli immigrati nelle economie locali50, consolidando nei territori a più alta concentrazione di popolazione cinese un funzionamento “a fisarmonica” del mercato del lavoro che continua ad attrarre ingenti flussi di manodopera dalla Repubblica Popolare e a garantire all’imprenditorialità immigrata nuovi spazi in settori in espansione, ma “libera” al contempo un’offerta di lavoro autonomo che si trasferisce nelle regioni meridionali senza creare disoccupazione, né conflitti, perché veicolata e sostenuta tanto dalle solidarietà forti delle reti parentali, che garantiscono risorse finanziarie e alimentano nuove catene migratorie, quanto dai legami deboli delle reti professionali di clienti e imprenditori, costruite nelle aree di primo insediamento, che hanno contato di più per i “pionieri”51.

Tuttavia, ancora a metà degli anni novanta nel Mezzogiorno la ricettività delle economie locali per le imprese cinesi non appariva scontata anche per attività a bassa soglia di accesso come quelle commerciali, in particolare a Catania, dove la crisi economica e la disoccupazione assumevano durata e dimensioni assai più drammatiche che nel resto del paese per l’inattesa sinergia fra vincoli economici e fattori politico-istituzionali52, che prosciugava i tradizionali polmoni occupazionali dell’economia locale, travolgeva i vertici dell’imprenditoria e destabilizzava il tradizionale modello di sviluppo basato sul gonfiamento di settori speculativi e sulla spartizione clientelare delle risorse pubbliche (Palidda, 2008).

Ricostruendo la fase di arrivo degli immigrati cinesi a Catania, tutti gli operatori economici locali che abbiamo intervistato riferiscono delle difficoltà delle imprese commerciali e di un calo delle vendite di articoli di abbigliamento che si traduce per dettaglianti e grossisti in una straordinaria crisi di liquidità che trascina i più deboli nei circuiti dell’usura:

La presenza di commercianti immigrati si consolida soprattutto negli anni novanta con la crisi del commercio tradizionale, accelerata anche dall’apertura dei primi centri commerciali. Molte nostre piccole imprese in quel periodo erano enormemente indebitate e hanno trovato conveniente cedere le proprie attività agli immigrati [cinesi] che si sono presentati direttamente con le valigette di denaro e hanno comprato le attività e l’autorizzazione (funzionario di Confcommercio).

Anche alla fine del decennio allorché si profilano i primi segnali di inversione della congiuntura negativa, la struttura delle opportunità che si offrono agli immigrati nel commercio resta ambivalente, poiché la possibilità di sostituire operatori locali in attività in declino si coniuga con prospettive oltremodo incerte di espandere gli spazi di mercato al di fuori della grande distribuzione, ma soprattutto con le poderose barriere di accesso imposte dalla segmentazione etnica che tradizionalmente aveva confinato gli immigrati nelle nicchie marginali del commercio itinerante e dell’ambulantato di rifugio, riservando ai catanesi le attività più stabili e redditizie del commercio low cost, esercitate con regolare licenza su suolo pubblico o nei negozi al dettaglio e all’ingrosso che si addensavano attorno all’area di attrazione del mercato cittadino di piazza Carlo Alberto. Qui lo strutturale squilibrio fra la numerosità di competitori locali esperti del settore e la saturazione degli spazi logistici era regolamentata da un sistema consolidato e legittimato di controlli capillari formali e informali in cui si insinuavano pratiche collusive dei commercianti con alcuni segmenti delle istituzioni di controllo pubblico e con le organizzazioni criminali che gestiscono il racket delle estorsioni.

50 Le ricerche locali hanno rilevato tanto nei distretti, quanto nelle aree metropolitane difficoltà per le imprese cinesi, imputabili non solo al sovraffollamento dei mercati di nicchia e alla concorrenza esacerbata fra connazionali, ma altresì all’intensificarsi dei flussi di importazione diretta di manufatti dalla Cina (Cristaldi, Lucchini, 2007; Ceccagno, Rastrelli, 2008) che l’Unione Europea ha cercato di arginare con l’accordo di Shanghai (2005). 51Le testimonianze dei nostri intervistati lasciano ipotizzare che le reti professionali di connazionali e non abbiano contato di più per i “pionieri” dell’immigrazione cinese a Catania. Ad esempio, una commerciante all’ingrosso di accessori in pelle, giunta a Catania negli anni novanta dopo aver gestito un laboratorio di pelletteria in Toscana e principale artefice del radicamento nel capoluogo etneo di una rete di imprese familiari, dichiara di essere stata informata da un cliente abituale delle opportunità di investimento a Catania. 52 In questa fase a Catania gli effetti della congiuntura sfavorevole si cumulavano con quelli delle politiche di risanamento finanziario e con la fine dell’intervento straordinario, ma la svolta decisiva era segnata dal blocco degli appalti pubblici e dalla paralisi dell’edilizia e del suo indotto, causate dalla campagna di moralizzazione della vita politica nazionale (tangentopoli) e dall’inasprirsi delle azioni di contrasto alla criminalità mafiosa dopo gli attentati ai giudici Falcone e Borsellino.

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Per aprire una breccia in queste poderose barriere sociali e istituzionali gli immigrati cinesi mettono in campo le risorse finanziarie risparmiate nella fase di primo insediamento e integrate da prestiti familiari, ma soprattutto pratiche di transazione monetaria rigorose e puntuali con pagamenti di ammontare elevato e solo in contante, ma del tutto inusuali e particolarmente appetibili in un mercato radicato nell’economia sommersa e afflitto da una grave crisi di liquidità. Così i nuovi arrivati si conquistano la “benevolenza” dei commercianti locali e il “riconoscimento” delle organizzazioni che controllano il territorio, poiché l’acquisizione a prezzi elevati delle licenze comporta anche la loro protezione. È il primo tassello per spiegare l’inserimento non conflittuale dei cinesi nelle attività commerciali della città: Loro vengono qua già con i soldi altrimenti non potrebbero neppure entrare. […] Pagano con i soldi, assegni poco o niente, anche perché nel loro lavoro fanno molto nero, allora con i soldi contanti chiudono il tutto. Hanno comunque un conto corrente in banca, ma per pagarsi solo la merce fatturata, poi il nero… Sono pagatori puntuali, puntualissimi. Se il catanese sa che lo devono pagare il 10 ci va il 9 e loro lo pagano (mediatore immobiliare). Io escludo che i cinesi paghino il pizzo. Se tale taglieggiamento c’è, c’è sulla bancarella, ma sotto forma di intermediazione. Ovvero io che ho la bancarella alla fiera non la vendo, ma la cedo al cinese sotto pagamento di una quota che in qualche modo comprende anche altre forme di tutela, quindi anche il pizzo (avvocato P.).

Tutti i testimoni privilegiati che abbiamo interpellato sottolineano come sin dall’inizio la partita fra commercianti catanesi e cinesi si giochi intorno all’acquisizione di immobili in locazione e licenze per l’esercizio del commercio su suolo pubblico nell’area del mercato cittadino:

Per i cinesi è facile insediarsi, perché arrivano qui, danno anche centomila euro per una bottega che a loro piace, il catanese si fa due conti, si dice “io ora sto lavorando poco, non faccio niente” e se ne esce e, se la bottega è la sua, si piglia anche una bella mensilità e campa cent’anni. È così che si sono conquistati il mercato, a suon di soldi (mediatore immobiliare).

La disponibilità finanziaria dei cinesi e la tenacia con cui perseguono i loro obbiettivi diventano proverbiali e sollecitano la cupidigia dei venditori, fino ad alimentare nella zona della fiera cittadina una vera e propria “bolla immobiliare” e la lievitazione abnorme dei prezzi delle licenze. Lo testimonia anche un ex commerciante che all’inizio degli anni novanta ha ceduto il suo esercizio a una coppia di cinesi, ricavandone un buon guadagno, ma soprattutto la possibilità di inventarsi una nuova e lucrosa professione “sommersa” di intermediario nelle transazioni con i cinesi: Io ho iniziato venti anni fa [l’attività di mediatore immobiliare] quando ho dato il primo locale ai cinesi, diciamo che ho iniziato per caso, anzi per sbaglio, non è che era il mio lavoro, sono stati loro a portarmi a farlo. […] Io dal mio negozio in piazza Carlo Alberto avevo notato che c’erano due cinesi che avevano aperto un negozietto vicino l’Odeon, quindi fuori zona [della fiera]. La moglie di questo cinese faceva avanti indietro nel mio locale per andare in bagno. Ogni giorno passava e mi diceva: “Senti io ti do trenta milioni, tu te ne vai?”. Questa tanto ha fatto che alla fine ci è riuscita perché ogni giorno mi rompeva le scatole, ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno. […] Mi hanno dato una buona uscita per comprare l’attività e io così ho ceduto il locale, poi ogni giorno incominciano ad arrivare due cinesi, facevano sosta in questo negozio perché si appoggiavano lì, e due cinesi alla volta, due cinesi alla volta, non conoscendo nessuno, si sono rivolti a me e mi dicevano: “Parla con quello, ci interessa quel locale”. […] Pagano di più, perché il catanese pensa: “Chissi i soldi l’hanu, ne buscano ‘na marea” e perciò gli fa un prezzo più alto. Infatti, ca non si pò cattari [acquistare] più nenti cu sti cinisi, è aumentato tutto (intermediario commerciale). L’italiano ha fatto un business con i cinesi, ha lucrato tantissimo. Se io qualche anno fa avessi comprato un posteggio alla fiera più di tre, quattro mila euro non valeva. Loro lo hanno venduto settanta, ottantamila euro, anche centomila. […] Erano stamberghe, alcune persino stalle, gli edifici che popolavano la piazza Carlo Alberto e ora sono diventati dei negozi a spese dell’imprenditore cinese che ha rilevato e ristrutturato quegli immobili (commercialista A.).

D’altra parte, questa inattesa immissione di liquidità nell’economia catanese fa crescere nell’opinione pubblica la diffidenza rispetto all’origine dei capitali cinesi, soprattutto fra chi non ha sperimentato direttamente transazioni o rapporti professionali con i nuovi arrivati o si sente

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minacciato dalla loro “concorrenza sleale”53; una diffidenza ingigantita anche da un errore prospettico, poiché molti non sanno che quegli stranieri che al loro arrivo avviano con tanta rapidità un’attività commerciale hanno accantonato i loro risparmi lavorando duramente in altre aree del paese e sono giunti a Catania solo dopo aver maturato un progetto realistico per fare impresa, generalmente sostenuto da finanziamenti concessi dall’intera rete parentale. Un funzionario di Confcommercio esclude categoricamente che i commercianti cinesi possano ricavare le loro risorse finanziarie da risparmi personali e prestiti familiari e li etichetta ripetutamente nel corso dell’intervista con l’appellativo di “soldati” al servizio di fantomatiche organizzazioni localizzate in Italia, ma manovrate dal governo della madrepatria:

Un’organizzazione ha gestito il loro ingresso in Italia. […] Sono soldati inviati di un’organizzazione molto grande che è installata in Toscana, a Prato, o a Roma o a Milano, perché è lì che la merce viene prodotta, e che si è occupata di creare una distribuzione capillare della loro merce distribuendo risorse umane.[…] Si tratta di un processo organizzato che parte dalla loro nazione, installandosi e costruendo realtà significative che hanno messo in crisi il settore del tessile italiano in alcune aree che ora in gran parte sono in mano loro. […] Il resto del paese è diventato la rete distributiva di questi prodotti.

Accuse ben più gravi di corruzione di pubblici ufficiali, di riciclaggio di capitali illeciti e di

collusione mafiosa avanza un grossista catanese di tappeti che teme di dover subire in futuro la concorrenza dei cinesi nel suo settore di attività:

I cinesi sono molto chiusi e ciò nonostante riescono ad ottenere qualsiasi permesso, qualsiasi autorizzazione, qualsiasi bottega che a loro interessa. Questo potere gli deriva non tanto dalle relazioni, ma dalla corruzione che riescono a sviluppare tramite il denaro. […] I loro soldi hanno una provenienza che non è certo quella delle banche. […] A loro fare fatturato non interessa, i loro veri interessi sono legati al riciclaggio di denaro illecito proveniente dalla malavita. Poi non ti so dire se è malavita cinese, malavita catanese o tutte e due. Ma la realtà secondo me è quella. Basta guardare la fiera di Catania, oggi è tutta in mano ai cinesi, questo è un grosso segnale perché ci fa capire che la mafia cinese è molto più potente della nostra.

Accuse fermamente smentite da un giovane avvocato che assiste molti imprenditori cinesi:

Tutti questi capitali sono frutto essenzialmente del loro lavoro, e lavorano tanto, e delle ristrettezze in cui riescono a vivere e quindi riescono a risparmiare enormi quantità di denaro. Poi tra di loro si aiutano e si prestano i soldi. Loro hanno uno spirito di solidarietà reciproca che gli italiani non hanno. Se io ti chiedo dei soldi perché mi voglio aprire un’attività ci penso due volte prima di darteli. Loro invece lo fanno. […] Io escludo che ci sia la “mafia cinese”, . […] se ci fosse, non ci sarebbero tentati furti o scippi davanti ai negozi dei cinesi come invece accade. Non se ne sa niente perché loro non denunciano (avvocato P.).

Rispetto a questo quadro di vincoli strutturali e pregiudizi etnici, non si può ipotizzare che il successo dell’insediamento degli imprenditori cinesi a Catania sia riconducibile all’apertura della società di accoglienza, né solo alla mappa delle opportunità di contesto o alle risorse individuali messe in campo dai nuovi arrivati; piuttosto, un tale successo si costruisce nell’interazione fra commercianti catanesi e cinesi che si confrontano sul mercato esprimendo culture e strategie imprenditoriali diverse. Inizialmente, le risorse competitive degli immigrati si misurano con l’avidità e i pregiudizi degli attori locali che sottovalutano le capacità imprenditoriali dei nuovi arrivati e non sono disposti in alcun modo a riconoscerli come loro competitori, ma solo come acquirenti sprovveduti che possono essere facilmente gabbati. Muovendosi in una prospettiva a breve termine, i commercianti catanesi cercano nelle transazioni con i cinesi una fonte di rendita o 53 Fra i nostri testimoni privilegiati i funzionari pubblici, gli esponenti delle Forze dell’ordine (dalla Questura alla Guardia di finanza, all’Autorità portuale) e i rappresentanti delle associazioni di categoria (da Confcommercio alla CNA) sono quelli che ci hanno fornito le informazioni più generiche e stereotipate sui cinesi a Catania. Clamorosamente alcuni esponenti delle Forze dell’ordine (fra i più impegnati nelle azioni di contrasto di traffici illeciti e di merci contraffatte che hanno coinvolto cinesi) non sospettavano nemmeno l’esistenza di flussi migratori di cinesi dal Nord al Sud. Secondo i responsabili degli “sportelli immigrati”, attivi presso la Confcommercio, la CNA e la Camera di Commercio di Catania, i cinesi rappresentano una quota assai minoritaria della loro utenza. Come riscontrato in altri contesti (De Luca, 2003; Colombi, 2002), sono i consulenti (legali, contabili, immobiliari), invece, i più informati sull’imprenditoria cinese. Si tratta generalmente di giovani professionisti che si sono conquistata la fiducia di una clientela quasi esclusivamente cinese poiché ne difendono i diritti con grande impegno ed entusiasmo.

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capitali freschi per l’ipotetico avvio di un nuovo esercizio in altre zone della città, ma non riescono nemmeno a ipotizzare l’inserimento di “stranieri” nei segmenti più redditizi del commercio. Al riguardo, la testimonianza di un consulente che vanta un’ampia clientela di imprese cinesi prefigura la contrapposizione fra due diversi modelli imprenditoriali, quello “predatorio” dei commercianti catanesi, quello “acquisitivo” dei loro interlocutori cinesi: C’è stato il fenomeno della vendita del posto o dell’attività. All’epoca l’italiano ha pensato bene di incamerare i soldi, invece di continuare la sua attività e magari investirci sopra. Quindi, non è che sono stati costretti o qualcuno li ha indotti, ma sono loro stessi che hanno ceduto spazi. […] Il loro interesse è stato tutto riversato nel prendere quei soldi, mentre per il cinese quello è stato un investimento che poi col prodotto giusto gli ha permesso di realizzare enormi guadagni, perché loro comprano ad un centesimo e vendono a cinque (commercialista A.).

Pertanto, i commercianti locali commettono un errore di previsione clamoroso, ma ben presto sono costretti a fare i conti con la “colonizzazione cinese” di tutta l’area commerciale che gravita attorno a piazza Carlo Alberto, una concentrazione spaziale degli esercizi che rapidamente evolve verso un tendenziale monopolio delle attività, soprattutto nel commercio all’ingrosso di accessori e capi di abbigliamento low cost: La presenza cinese come grossisti è rilevante sul territorio, non fosse altro che per aver colonizzato l’area del mercato. […] E’ una realtà oggi che Piazza Carlo Alberto è popolata solo da una sparuta minoranza di commercianti italiani che mantengono fino a che possono, ma che non sono più competitivi (commercialista A.) È abbastanza triste andare alla fiera di Catania è accorgersi che è tutta in mano ai cinesi. […] Mentre prima c’era sui banchi molto prodotto italiano. Ora di prodotto italiano non c’è più niente. Si vende solo prodotto cinese (fornitore di cinesi).

Matura, così, con un avvio in sordina ed un’evoluzione galoppante, una competizione che si rivelerà del tutto asimmetrica e vantaggiosa per i cinesi che volgeranno a loro favore i pregiudizi etnici e le aspettative di ruolo ingenerose dei loro antagonisti, come suggerisce la ricostruzione icastica di un intermediario commerciale locale: All’inizio i commercianti locali quando io ci andavo e gli dicevo che c’era un cinese interessato alla loro attività si mettevano a ridere e dicevano: “Ma c’hanu a fari…sti cinisi! [che potranno mai fare questi cinesi]”; ma c’hanu a fari e c’hanu a fari e intanto loro si pigliano tutto il mondo. D’altra parte, i catanesi si pigliano i soldi, e ora stanno senza negozi, senza bancarelle e senza niente ed il mercato oggi è nelle mani dei cinesi. Oggi io mi piglio centomila euro, ma alla lunga te li mangi, perché col fatto che ci sono loro tu non puoi fare più niente.

L’acquisizione di posizioni di forza delle imprese cinesi nel commercio all’ingrosso smentisce l’ipotesi della successione ecologica (Aldrich, Reiss, 1976), poiché i nuovi arrivati non si limitano a “subentrare” agli autoctoni in nicchie di mercato poco redditizie, rendendo più remunerative imprese in sofferenza, ma le utilizzano come trampolino di lancio per accedere ad attività più complesse e strutturate con mercati in espansione, da cui giungono ad “escludere” i competitori locali. In realtà, i cinesi riescono a “forzare” la mappa ambivalente delle opportunità di contesto costruendo un percorso di inserimento strategicamente orientato in una duplice direzione: la definizione appropriata della logistica e l’accelerazione delle procedure di avvio dell’attività.

Le loro scelte logistiche ricalcano prassi e sequenze già consolidate in altre realtà urbane e metropolitane (da Milano e Torino a Roma, da Napoli a Messina): la concentrazione nelle zone più frequentate dei centri cittadini per garantirsi visibilità ed attrarre clientela, la dislocazione dei capannoni per la vendita all’ingrosso in prossimità delle principali infrastrutture di trasporto, la penetrazione nei quartieri periferici per catturare la domanda di una clientela di ceto popolare: Catania aveva tutte le caratteristiche ideali per favorire l’insediamento del commercio cinese: un grosso porto e un grosso mercato, quello di piazza Carlo Alberto. […] I cinesi sono riusciti ad inserirsi in un tessuto commerciale fertile. Si sono poi spostati su Misterbianco [zona commerciale limitrofa al capoluogo], ma si sono accorti che non era commercialmente forte come la fiera di Catania che gode di una posizione strategica rispetto a tutti i mezzi di trasporto e vie di comunicazione: c’è l’aeroporto, il porto, la stazione, l’autostrada. Credo che i cinesi vadano molto anche a

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provare, a sperimentare i diversi mercati, scopri spesso che sono stati ovunque. […] Loro provano ed eventualmente si spostano a secondo delle opportunità e delle prospettive di sviluppo (commercialista F.).

Anche l’insediamento preferenziale in piazza Carlo Alberto spesso non è esclusivo, perché alcune famiglie avviano più di un esercizio commerciale in zone diverse della città, ed è comunque esposto ad un costante flusso di “mobilità esplorativa”. Riproponendo le antiche tradizioni delle diaspore commerciali e delle middleman minorities (Bonacich, 1973; Cohen, 1997), a Catania i cinesi rifuggono da ogni ancoraggio duraturo, raramente acquistano immobili, ma li acquisiscono in locazione e ricorrono al subaffitto per aggirare il vincolo di un contratto a lunga scadenza: La maggior parte sono affitti, anche perché oggi ci sono, domani non ci sono e si vogliono mantenere mobili, appena vedono che il lavoro non gli rende prendono e se ne vanno da qualche altra parte. […] Fanno generalmente contratti lunghi, se sono botteghe fanno sei più sei, se sono depositi quattro anni, se sono abitazioni quattro anni. [Ma il turnover è elevato] Arriva un cinese va da un altro cinese che ha l’attività e gli dice: “Tu quando hai speso di buona uscita ottantamila euro? Ora si vende di meno, si lavora di meno, quindi eccoti cinquantamila”. Chiddu esci e chiddu trasi [Uno esce e l’altro entra] e si prende il contratto. Ogni giorno ci sono cambiamenti e spostamenti di questo genere. Cambiano sempre, chi se ne vuole andare in Spagna, chi in Francia, loro sono in tutto il mondo. Poi si spostano anche all’interno sempre di Catania: c’è stato un cinese che se ne è andato da qui [dalla fiera] e ha aperto un negozio di dettaglio e ingrosso in viale Rapisardi [quartiere popolare più periferico] dove sta facendo soldi a palate (mediatore immobiliare).

La seconda dimensione delle strategie di inserimento degli imprenditori cinesi riguarda l’accelerazione dei tempi di avvio dell’attività commerciale e comporta il superamento di ostacoli e discriminazioni burocratiche, che i nuovi arrivati riescono a fronteggiare mobilitando le reti familiari o di connazionali, ma anche rivolgendosi sin dall’inizio a consulenti professionali, una prassi inusuale fra gli immigrati di diversa provenienza, ma anche fra gli autoctoni che generalmente preferiscono rivolgersi alle associazioni di categoria ed espletare personalmente gli adempimenti burocratici: Il cinese spesso viene da un’esperienza di lavoro dipendente in fabbrica, magari a Prato, e decide di riscattare quello che gli spetta e di spostarsi in una città come Catania. A quel punto l’iter è il seguente: inizialmente, affittano un posteggio alla fiera, magari tra loro stessi cinesi che gli danno la gestione, oppure da un italiano, cominciano così a lavorare e si mettono anche in regola dal punto di vista amministrativo; tra l’altro è l’ospitalità presso un loro connazionale che gli permette di operare come ambulanti, perché senza la residenza a Catania loro non potrebbero operare commercialmente, né richiamare familiari; una volta ottenuto il permesso di soggiorno, si fanno la residenza in città e possono svolgere l’attività che vogliono. Poi, piano, piano prendono un negozio all’ingrosso o al dettaglio e con i rapporti che hanno con Prato e Roma si riforniscono di merce (commercialista A.).

Tuttavia, l’agibilità dei diritti e l’accesso ai pubblici uffici sono garantiti agli imprenditori cinesi soprattutto dai giovani professionisti che li assistono costantemente, con tenacia e determinazione per difenderli da abusi e discriminazioni, perché soddisfatti del rapporto di lealtà e fiducia che hanno stabilito con i loro clienti: Attualmente l’80% dei miei clienti sono stranieri perché io ormai preferisco lavorare con gli stranieri, perché quanto meno a fine mese ti pagano. […] I cinesi sono clienti persino più affidabili dei commercianti catanesi, ormai in Sicilia tutti si adagiano e nessuno vuol pagare. I cinesi invece capiscono di fronte ad un problema chi li può aiutare e poi pagano, anche se un prezzo inferiore al prezzo di mercato, ma pagano. […] Sono anche più fedeli, se si trovano bene, ti consigliano agli amici e agli altri parenti, se vedono che sei affidabile, che corrispondi alle loro esigenze puntualmente (commercialista F.). Io mi occupo principalmente di cinesi, in particolare cinesi che hanno problemi con il reddito54, io sono perennemente in guerra con la Questura di Catania, […] perché gli immigrati qua non hanno garantiti i diritti essenziali, li vedono come carne da macello. […] La legge sull’immigrazione stabilisce che lo straniero ha gli stessi diritti dell’italiano di fronte alla Pubblica Amministrazione, purtroppo questa legge non viene mai applicata, anzi viene elusa costantemente e

54 Si tratta della soglia di reddito che l’imprenditore immigrato deve raggiungere per richiamare dalla Cina un lavoratore, soglia che la Questura e l’Ufficio stranieri della Provincia di Catania hanno impropriamente innalzato (come riconosciuto con sentenza del TAR), equiparandola a quella richiesta a chi assume un lavoratore domestico.

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gli stranieri sono costantemente sottoposti agli abusi della Questura. […] Lo stesso clima si sente e si percepisce allo sportello unico per l’immigrazione. Se io vado allo sportello e gli chiedo informazioni su una certa pratica, loro ti rispondono che non possono rilasciare informazioni. […] In questo campo comunque ci si imbatte in tutto e di più: patronati incompetenti, avvocati ignoranti che truffano i clienti… (avvocato P.). Io ho combattuto per loro molte battaglie, in Questura, con i vigili, e ognuna di queste per me rappresenta un motivo di orgoglio. […] Cerco in qualche modo di occuparmi di tutti i problemi che loro possono avere nel quotidiano: dai controlli della Polizia, della Finanza, della Questura sono davvero bersagliati in continuazione. Certo la nostra attività principale è di tipo contabile, seguiamo tutta l’attività di un’impresa immigrata, da quando nasce a quando assume (commercialista A.).

L’attività dei consulenti non riguarda solo i rapporti con la PA o l’assistenza legale, ma anche la partecipazione alle transazioni e la risoluzione informale delle controversie, poiché i cinesi rifuggono dal denunciare i ripetuti abusi subiti da parte di truffatori, vicini intolleranti ed estorsori e preferiscono restare “invisibili”: Gli stranieri non sono per le denunce. Amano chiarire, come i vecchi mafiosi catanesi, odiano le denuncie. Non gli interessa e non hanno fiducia nella giustizia italiana, perché non hanno buoni rapporti con la polizia. Lo straniero quando arriva si rapporta con loro, con lo Stato, con l’Ufficio stranieri. Basta vedere come sono trattati, cioè da animali, e capisci perché non fanno mai una denuncia. Se non hai alcuna fiducia nelle istituzioni non farai mai una denuncia (avvocato P.). Non vogliono essere visibili, pensano: “Meno ci facciamo sentire, meglio è”, anche a costo di subire dei torti” (ufficiale della Guardia di finanza).

È così che i consulenti diventano gli sponsor e i garanti degli imprenditori cinesi, i loro principali “diffusori di fiducia” nei circuiti degli operatori economici locali, una funzione preziosa non soltanto per l’avvio dell’impresa, ma anche successivamente per i clienti “di successo” che intendono esplorare nuove prospettive economiche cimentandosi con le attività di import- export, come è avvenuto ad un nostro intervistato che esporta vino in Cina ed è riuscito a contattare una rosa di produttori vinicoli etnei proprio grazie all’intermediazione del suo commercialista: Abbiamo un rapporto ottimo con un mio cliente che ho sempre seguito io, dal 2000 almeno, tant’è che mi ha invitato in Cina per il matrimonio del figlio. Lui, oltre ad avere un negozio [jeanseria] su Catania, acquista vini in Sicilia e li esporta in Cina. Abbiamo cambiato strategia commerciale, dato che il mercato cinese è molto più ampio e permette possibilità di crescita di gran lunga maggiori che da noi. […] Così, l’ho accompagnato a fare un giro delle cantine che ci sono sull’Etna, fin quando abbiamo trovato un fornitore abbastanza affidabile, con una grossa produzione. […] Io sono stato l’intermediario di questa operazione (commercialista F.).

In sintesi, l’efficacia delle scelte logistiche, la rapidità dei tempi di avvio dell’attività e l’affidabilità, garantita dai consulenti e dimostrata nelle “generose” transazioni iniziali, connotano il percorso di inserimento “in sordina” degli imprenditori cinesi nella realtà catanese, creando le premesse per l’articolazione di modelli organizzativi e strategie competitive su cui si costruiscono nel tempo nuove dimensioni di consenso e di esorcizzazione dei potenziali conflitti con gli operatori economici locali.

5. Modelli organizzativi e strategie di impresa per una competizione globale I risultati della nostra indagine hanno confermato per le imprese cinesi gli stessi tratti distintivi

dei modelli organizzativi e delle strategie competitive già rilevati in altre realtà territoriali. Anche a Catania si ripropone il modello dell’impresa familiare che comporta: flessibilità, appiattimento gerarchico e scarsa differenziazione dei ruoli funzionali; sovrapposizione dei tempi di vita e di lavoro, con un prolungamento abnorme di calendari e orari delle attività, in particolare nel commercio all’ingrosso dove sono meno regolamentati; confini labili fra formale e informale, soprattutto nella definizione dello statuto del rapporto di impiego e della retribuzione.

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Tutte le imprese che abbiamo contattato, senza distinzione per tipo di attività, sono ditte individuali gestite da una coppia di coniugi, entrambi impegnati a tempo pieno nell’azienda (per 60/90 ore settimanali), tanto da rendere problematica l’attribuzione individuale del ruolo imprenditoriale, anche perché il riconoscimento giuridico della titolarità spesso dipende da appartenenze familiari o da fattori burocratici (ad esempio dall’opportunità per uno dei due partner di regolarizzare per primo il soggiorno, la residenza o la condizione di dipendente presso un’altra impresa)55. La cooperazione di altri familiari alla gestione dell’impresa, invece, non è scontata e non dipende solo da fattori demografici (numerosità della famiglia, età di genitori e figli), ma soprattutto dall’anzianità e dal dinamismo dell’azienda: le imprese pioniere, nate alla fine degli anni novanta e con un giro d’affari più ampio sono quelle che dichiarano la collaborazione di parenti/connazionali, non solo per esigenze funzionali, ma soprattutto perché attraverso la regolare assunzione di familiari e l’anticipazione di capitali promuovono la creazione di reti di imprese fondate su rapporti di parentela allargata. Diversamente che nel modello tradizionale di impresa familiare, infatti, per i cinesi le funzioni economiche della famiglia non si esauriscono all’interno dell’azienda, ma si proiettano verso l’esterno, strutturando strategie di penetrazione capillare e diversificata nel mercato56: Sono famiglie cinesi, di sei, sette persone, però non è che gestiscono un solo negozio, […] chi gestisce il banchetto alla fiera, chi l’ingrosso. Loro si sparpagliano, ogni attività è gestita solo da una persona o due persone. Iniziano con uno, poi diventano due e ognuno si gestisce la propria attività (mediatore immobiliare).

Al di fuori di questa strategia, invece, il riconoscimento giuridico del contributo dei familiari alle

attività aziendali è meno frequente ed è diffuso il lavoro nero, poiché spesso gli imprenditori cinesi ritengono gli oneri contributivi sul lavoro dipendente troppo onerosi, ma soprattutto iniqui, se il dipendente è uno straniero che non potrà fruire della pensione. Non a caso i consulenti dichiarano un doppio registro nella definizione dei rapporti di impiego: prevalentemente regolare per gli eventuali dipendenti italiani, più spesso irregolare per i familiari dell’imprenditore:

Il lavoro nero è molto diffuso nelle imprese cinesi, ma è anche vero che il fatto che si tratta di aziende a conduzione familiare spesso rende le cose molto più ambigue dal punto di vista della relazione contrattuale. [...] I cinesi che hanno attività strutturate quando assumono tendono a farlo in maniera regolare, credo che dipenda anche dal giro d’affari dell’azienda stessa (commercialista A.). I cinesi non vogliono pagare l’INPS, perché ritengono che non ci sia alcuna forma di reciprocità, perché chi torna in Cina non avrà diritto alla pensione; allora loro si chiedono perché devono pagare l’INPS, per loro è una cosa incomprensibile (avvocato F.). I cinesi nelle loro attività spesso impiegano lavoratori italiani. Nei negozi al dettaglio, come commesse, molte ragazze le vedi. Io ho parlato con molte di loro e sono contentissime. Una mi ha detto che preferisce lavorare con loro perché ogni venti del mese, e a volte persino prima, le danno 700 euro. Dove lo trovi un commerciante a Catania che ti dà questi soldi? Un commerciante della via Etnea ti dà 400, 500 euro al massimo. Al dettaglio poi ci sono i normali orari di negozio, dalle otto alle tredici e dalle sedici alle diciotto, non c’è quello stacanovismo tipico dei cinesi che all’ingrosso lavorano ogni giorno compresa la domenica. […] Poi loro [i titolari] lavorano come dannati anche venti ore al giorno, ma lo fanno perché è la loro azienda. Personalmente io tutto questo sfruttamento non lo vedo. Il vero sfruttamento c’è tra italiani e italiani, ma tra italiani e cinesi non esiste (avvocato P.).

D’altra parte, il modello organizzativo delle imprese cinesi non è molto distante da quello radicato nelle tradizioni del commercio locale sul doppio versante del ricorso al lavoro nero e delle collaborazioni familiari:

55 La moglie di Luigi (47 anni, commerciante al dettaglio di abbigliamento), ad esempio, è partita da sola dalla Cina, lasciando il marito e tre figli e raggiungendo per prima l’Italia. In Sardegna ha ottenuto il permesso di soggiorno lavorando regolarmente come dipendente in un negozio gestito da un connazionale. Solo così successivamente ha potuto richiamare la famiglia e avviare un esercizio commerciale a Catania, dove il fratello e altri parenti operano come grossisti. 56 Ad esempio, Elisa, commerciante pioniera, gestisce con i familiari un grande ingrosso di pelletteria con un mercato più che regionale e sta affiancando il figlio nell’avvio di un negozio al dettaglio in un’altra zona della città, con l’intenzione di cederglielo; inoltre, in pochi anni ha già finanziato almeno altri quattro esercizi commerciali (per diverse tipologie di prodotti), gestiti da parenti, come abbiamo rilevato intervistando i diretti interessati.

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Ritengo che il lavoro nero sia altrettanto diffuso presso le aziende locali, così come la tendenza a far lavorare membri della propria famiglia. Certo queste tendenze forse sono più evidenti nel caso dei commercianti immigrati (commercialista A.).

Una tale affinità contribuisce a consolidare il riconoscimento sociale dell’impresa cinese che viene percepita come una realtà nota e rassicurante in un contesto locale caratterizzato dal familismo come meccanismo diffuso di regolazione dei processi economici. Pertanto, la presenza di donne e bambini nei locali dell’esercizio commerciale, spesso contigui con l’abitazione, così come gli scorci dell’intreccio fra vita quotidiana e impresa vengono generalmente interpretati come segni di un modello “arcaico” di impresa, retaggio di “arretratezza” e svantaggio socioculturale; un modello che gli osservatori locali ritengono di aver definitivamente “superato” e che contribuisce ad esorcizzare i loro timori per la concorrenza aggressiva dei cinesi.

In realtà, le nuove attività dei cinesi sono figlie del capitalismo flessibile contemporaneo, poiché amplificano i vantaggi delle imprese familiari tradizionali, senza riproporne le rigidità: l’organizzazione del lavoro, la divisione dei ruoli e l’attribuzione dei compiti non sono univocamente dettate dalle norme del patriarcato e dai diritti di proprietà, che restano, piuttosto, subordinati al primato del mercato e alla logica dell’efficienza funzionale, tanto nell’attribuzione delle posizioni gerarchiche, quanto nella regolazione dei rapporti di genere e fra le generazioni sul lavoro. Nelle imprese più strutturate parentela e consanguineità non garantiscono l’accesso a posizioni gerarchiche superiori che vengono riservate a dipendenti italiani, se i familiari sono ritenuti inadeguati: A volte i cinesi trattano gli italiani meglio dei loro connazionali. Figurati che una mia cliente cinese ha messo a dirigere un italiano perché si era accorta che il fratello, che era un mulo a scaricare merce, non riusciva invece a svolgere mansioni di tipo dirigenziale. E quindi ci ha messo un italiano. Perciò suo fratello scarica tir interi di merce, l’altro cugino fa le consegne e questo italiano gestisce, perché loro non guardano in faccia nessuno. Loro gli danno 1300 euro al mese, due giorni di riposo e vitto e alloggio con contratto. Parliamo certamente di una società grossa che guadagna miliardi. Tu metteresti mai un italiano a dirigere e tuo fratello a scaricare la merce? Io credo di no. Per questo loro sono bravi, perché hanno un’attenzione agli affari che gli altri non hanno (avvocato P.).

Anche nei rapporti fra le generazioni l’autorità paterna è subordinata all’imperativo della

competitività; allorché il titolare dell’impresa familiare riconosce che le capacità gestionali del giovane figlio sono mature e gli cede l’attività, non interferisce in alcun modo sulle sue scelte imprenditoriali, pur continuando ad affiancarlo sul lavoro:

Ho sempre lavorato per mio padre, però, una volta che io ho lavorato per lui, mi ha lasciato tutto quello che ha lui. Quello che voglio fare io lui passa, non deve uscire più niente dalla sua bocca: se io dico domani devo andare qua, “Mario vai”, se dico devo fare questo, “fai” (Mario, 28 anni, imprenditore di seconda generazione, ingrosso e dettaglio di pelletteria, tre fratelli tutti commercianti).

Infine, le trasformazioni dell’economia cinese e l’esperienza dell’emigrazione hanno profondamente mutato la condizione occupazionale delle donne (Rai, 1999; Blanchard, Warnecke, 2010) e i tradizionali rapporti di genere all’interno della famiglia cinese (Ceccagno, 1998), facendo emergere un inatteso protagonismo femminile. Nelle imprese familiari che abbiamo analizzato le donne condividono con gli uomini compiti gravosi (persino di facchinaggio), ma anche funzioni strategiche per l’esercizio commerciale, soprattutto se si tratta di giovani figlie che hanno studiato in Italia e sanno dialogare con enti e istituzioni locali oltre che con i consulenti, negoziare con i clienti, mantenere contatti continui con i fornitori per informarli dell’andamento delle vendite e ricalibrare gli approvvigionamenti. Svolgendo tutte queste funzioni, ad esempio, Angela, la figlia ventenne di Elisa (commerciante all’ingrosso di pelletteria), si è conquistata la fiducia e il rispetto di tutti i suoi interlocutori, sperimentando uno straordinario percorso emancipativo che resta però dimezzato: per volere dei genitori ha dovuto rinunciare al progetto di continuare gli studi dopo il diploma, nonostante i brillanti risultati scolastici, e dovrà attendere il matrimonio per definire i suoi orizzonti professionali.

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Questa inedita flessibilità dei rapporti familiari che non interferisce con gli orientamenti acquisitivi e con la trasmissione di un’etica del lavoro tradizionale, le istanze emancipative di giovani e donne che si esprimono nell’attaccamento al lavoro e, infine, la valorizzazione di nuove competenze delle seconde generazioni che si intreccia con l’antica gratuità del lavoro familiare sono tutti fattori che contribuiscono ad abbattere il costo del lavoro nell’impresa familiare cinese. Un vantaggio competitivo che si coniuga, da un lato, con la capacità di mobilitare risorse di capitale sociale e reti di connazionali per transazioni vantaggiose interregionali e transnazionali, dall’altro, con una strategia del profitto fondata sull’ampliamento della scala delle vendite e sul contenimento dei guadagni unitari, in una sinergia che rende “invincibili” gli imprenditori cinesi nella competizione sul prezzo. Nel commercio all’ingrosso di capi e accessori di abbigliamento low cost i nuovi arrivati hanno sbaragliato i competitori locali, costringendoli alla chiusura o al declassamento dell’attività (ambulantato), sono diventati così i principali fornitori dei dettaglianti italiani e stranieri fino a coprire gran parte del mercato regionale e a proiettarsi anche verso quello maltese:

Le quantità che vendono [i grossisti cinesi] sono enormi. […] I nostri, vengono qua e caricano ventimila, trentamila euro di merce e se la vendono a Misterbianco (area commerciale ai confini con la città), perché trovano il prezzo più basso di quando i catanesi andavano a Napoli a comprare. Da loro trovi a meno. Loro il 50% lo importano da Roma, dagli altri cinesi, altri vanno a comprare direttamente in Cina per avere il prezzo ancora più basso e riescono a vendere a chiunque; poi c’è anche il pronto moda, che viene invece da Prato e da Firenze. Una cosa di questa [l’intervistato indica una gonna] il commerciante italiano a Napoli la prende dieci euro e la rivende a quindici euro. Dal cinese tu trovi la stessa roba fatta con manodopera cinese e tessuto italiano. Loro te la fanno quattro euro, si vende qua all’ingrosso sei euro, l’ambulante la vende dieci. Napoli praticamente muore (mediatore immobiliare).

I cinesi non hanno molti concorrenti: qualche italiano che in qualche modo riesce a importare direttamente dalla Cina oppure qualche grosso gruppo della grande distribuzione […] che ha la forza di poter vendere il prodotto, magari cinese, ma dandogli la parvenza di un’altra qualità in un contesto di vendita più accurata, e su questo fanno la vera concorrenza al cinese. Non c’è altro (commercialista A.). Ormai tutti comprano dai cinesi e diciamo pure che non hanno concorrenti che non siano comunque cinesi. L’altra volta mio marito ha incontrato uno dei nostri vecchi fornitori locali che aveva venduto tutto e si era comprato un camion ed ora gira i paesi a vendere qualcosa (commerciante catanese).

Tuttavia, come sottolineano i diretti interessati oltre che i loro consulenti e clienti abituali, il successo dei commercianti cinesi a Catania non dipende solo dalla capacità di competere sul prezzo, ma da tacite abilità e articolate strategie che si giocano sul doppio registro della diversificazione e dell’adattamento al mercato. Le strategie di diversificazione riguardano tanto le attività, quanto le tipologie di prodotto e i target di clientela. Sul primo versante, l’estensione delle attività familiari spesso non segue traiettorie lineari e gerarchiche (dall’ambulantato al commercio al dettaglio e all’ingrosso per approdare all’import-export), poiché anche i grossisti che hanno enormemente ampliato il loro giro d’affari raggiungendo mercati extra locali e proiettandosi verso l’esportazione in Cina difficilmente rinunciano al punto vendita al dettaglio nella zona della fiera (Mimì, 57 anni, commerciante all’ingrosso di abbigliamento che da qualche anno esporta vini siciliani nello Zhejiang); mentre quelli che hanno costruito le loro fortune solo sul commercio all’ingrosso in alcuni casi affiancano all’attività principale la vendita al dettaglio di prodotti più ricercati destinati ad una clientela più esigente per garantirsi guadagni unitari più elevati:

Già sto aprendo un altro negozio, un negozio al dettaglio di abbigliamento, calzature e pelletteria. Cercherò di trattare un prodotto medio-alto. Nel negozio a dettaglio c’è più guadagno, qui compri 5 euro e vendi 5.50, c’è poco guadagno. [I negozi] li tengo tutti e due. Mia moglie vuole fare negozio a dettaglio (Mario, 28 anni, commerciante di pelletteria).

Per i commercianti cinesi, infatti, la diversificazione delle attività familiari non serve solo ad

articolare la mappa delle opportunità e a frazionare i rischi, ma soprattutto ad accrescere la “prossimità” al consumatore, moltiplicando le “postazioni” atte a coglierne le preferenze e registrarne le variazioni di gusto. La capacità di analizzare l’andamento di mercati variabili

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rappresenta la competenza di base su cui gli imprenditori cinesi costruiscono l’efficacia delle loro strategie:

Loro [i cinesi] girano e guardano e puntano determinati negozi e sanno dove la loro presenza con merce a poco prezzo risulta vincente. Loro, prima di scegliere, guardano tutto il quartiere, girano, perlustrano, studiano (avvocato P.).

I commercianti italiani non sono più competitivi perché non sanno fare ricerca di mercato. I cinesi, invece, sanno fare ricerca di mercato, sanno di cosa ha più bisogno un territorio e di conseguenza cosa devono prendere (commercialista A.).

Come testimonia una commerciante catanese, a differenza dei suoi precedenti fornitori, gli

imprenditori cinesi riconoscono la sovranità dei gusti del consumatore, non cercano di “convincere” i clienti, ma ne rispettano le scelte, puntando su un rapporto qualità/prezzo vantaggioso e sull’ampio assortimento della merce:

Se io dicevo che non mi piaceva un modello e quindi non lo compravo, gli italiani erano pressanti e quasi, quasi si offendevano. Invece, il cinese non è mai pressante, ti lascia scegliere.

Gli imprenditori di successo coniugano l’attenzione agli stimoli del mercato con la capacità di rispondere “con appropriatezza” alla variabilità dei gusti di una clientela sempre più ampia e variegata, particolarmente sensibile all’andamento delle mode. Questo mix di competenze e orientamenti strategici non sempre viene apprezzato dagli operatori economici locali, soprattutto se la flessibilità dell’impresa cinese si traduce nell’invisibilità della struttura organizzativa. In questi casi, ancora una volta, riemerge il fumus del pregiudizio e la “novità” della strategia imprenditoriale viene interpretata come arretratezza, insipienza, pressappochismo. Così ad esempio, l’intervista al “competente” responsabile del marketing dell’azienda vinicola che rifornisce un imprenditore cinese che esporta vino in Cina e lo distribuisce attraverso una rete diffusa di piccoli negozi one shop, testimonia di un “dialogo fra sordi” che sta compromettendo un’iniziativa che si prefigurava assai promettente per entrambe le parti: [All’inizio] scetticismo e paura erano prevalenti, però allo stesso tempo c’era anche tanta voglia di provare. […] Ora però c’è un problema. Loro hanno un approccio alla vendita del vino come se fossero capi d’abbigliamento e questo li ha portati a scendere anche nella qualità che loro ci richiedevano, scendendo sempre di più sul prodotto di primo prezzo. Il che è sbagliato perché l’andamento dovrebbe essere al contrario. […] Il nostro approccio è che lavori sempre sugli stessi prodotti e cerchi di fidelizzare. […] Loro, invece, fanno l’inverso, tengono lì i prodotti, non li spingono e cambiano continuamente formati, etichette, colori, eccetera. Proprio come se fossero capi d’abbigliamento. […] Poi bisogna dire che il nostro cliente è uno che si è inventato un mestiere dal nulla e che forse non ha gli strumenti anche per svilupparlo. […] Il problema fondamentale è la mancanza di chiarezza. Una volta fatto un accordo, l’accordo viene modificato in itinere un sacco di volte. Io non voglio dire che siano inaffidabili, perché se uno guarda all’arco temporale dei sei anni in qualche modo lo sono stati, ma tu devi riuscire a pensare che sono affidabili guardando al futuro e questo con loro non è facile, perché non sappiamo cosa faranno domani, se vorranno, se potranno. […] La nostra valutazione attuale è che loro siano un po’ in difficoltà, che loro improvvisino molto. […] Sembra esserci una totale mancanza di progetto. […] Pensano che ci sia l’affare e lo fanno. […] Non riescono a seguire tutte le procedure come si deve e quindi rischiano di affondare. […] La nostra idea è quella di inquadrarli e fare in modo che facciano quel percorso evolutivo che noi crediamo sia giusto fare. […] L’auspicio è che loro si rendano disponibili ad una collaborazione a più teste e che loro capiscano i loro limiti, cioè quelli di non avere una struttura e una organizzazione.

Se per gli imprenditori cinesi i rischi della fluidità possono diventare elevati in attività complesse e poco esplorate come quelle dell’import-export, nella vendita all’ingrosso di capi di abbigliamento l’attenzione al mercato e le strategie dell’appropriatezza si traducono in prassi consolidate di diversificazione della gamma dei prodotti e del target di clientela che accrescono i vantaggi competitivi delle imprese e definiscono nuove convergenze con le strategie dei dettaglianti. Garantendo ai propri clienti un vasto assortimento di merci differenziate per costo e qualità, aggiornato anche settimanalmente, i grossisti cinesi favoriscono la flessibilità e l’individualizzazione delle strategie di vendita dei dettaglianti che mirano a differenziarsi dai loro

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competitori e a fidelizzare la loro clientela restando al passo con l’evoluzione della moda, senza sacrificare la qualità del prodotto: Al mercato ci riforniamo tutti dai cinesi, i grossisti ormai sono quelli. […] I fattori sono il prezzo e la capacità di copiare prodotti di moda, se fosse solo il prezzo basso probabilmente non venderebbero. Poi dal commerciante cinese tu trovi sempre nuovi arrivi, cose nuove, un grande assortimento, non solo in un periodo dell’anno, ma ogni settimana, da gennaio a dicembre […] che è quello che la gente vuole. […] Bisogna evitare di avere tutti la stessa merce. Il mio compito è scegliere cercando di dare una linea diversa dagli altri. […] Comunque loro stessi, i grossisti cinesi cercano tra loro di differenziarsi. […] Non è vero che hanno tutti le stesse cose e che siano cose tutte di bassissima qualità, esistono delle differenze. Per noi che lavoriamo con i clienti abituali in quanto siamo a posto fisso differenziare per costo e per qualità è importantissimo, dobbiamo garantirci uno standard di prodotto di un certo tipo per far tornare i clienti (commerciante catanese cliente di cinesi).

Per i cinesi la risorsa più importante sta nella ricerca continua del prodotto giusto e nel monitoraggio del fabbisogno, portano sempre un prodotto nuovo, un assortimento nuovo. E poi hanno diversi target, oggi il prodotto cinese non lo compra più solo la famiglia meno abbiente, ma anche la famiglia medio-borghese, perché oggi il prodotto cinese è molto vario e non è solo un prodotto di scarsa qualità (commercialista A.).

Anche fra i nostri intervistati alcuni grossisti puntano più di altri sulla possibilità di estendere i

vantaggi del low cost a produzioni diversificate di qualità. Per loro indicatori di successo e di distinzione diventano la commercializzazione del made in Italy e la capacità di adeguarsi rapidamente all’andamento delle mode, attraendo prevalentemente una clientela italiana, come avviene con la vendita degli articoli del pronto moda prodotti nei laboratori cinesi dei distretti. Ne deriva un totale ribaltamento delle logiche dell’ethnic business, poiché imprese “aperte” (Ambrosini, 2005), che commercializzano articoli di gusto occidentale, cercano di emanciparsi in ogni modo dal marchio etnico che non evoca atmosfere esotiche, ma solo cattiva qualità:

Noi vendiamo merce più buona, gli altri [connazionali] vendono merce economica cinese, noi vendiamo merce italiana firmata, io ho sempre portato qualità, ho sempre portato marchio. Poi il negozio è aperto da tanto tempo e tutti ci conoscono. […] Soprattutto italiani, sai perché? Perché i cinesi 9 su 10 non capisce il marchio, gli italiani quando già ti leggono un marchio un po’ gli suona questa cosa (Mario, 28 anni, grossista e dettagliante di pelletteria).

Tenere merce diversa dagli altri, non c’è altro. Io non sento quello che c’è fuori; non mi interessa se altri dicono là c’è a meno, se a te piace la mia merce prendi, a me non mi interessa se uno vende 1.50, io sempre 3 euro (Monica, 32 anni, ingrosso calzature).

D’altra parte, muovendosi con destrezza su mercati altamente instabili e concorrenziali, gli

imprenditori cinesi riescono a “rassicurare” la loro clientela con la loro affidabilità e con la buona reputazione che deriva dal rigoroso rispetto dei termini delle transazioni:

Sono ottimi pagatori, tempi di consegna immediati, la merce ti permettono di controllartela là davanti. […] Per loro la parola vale più di un assegno. I cinesi hanno la parola. Pagano. Alla scadenza pagano (avvocato P.).

I cinesi sono riusciti a conquistarsi la fiducia degli operatori economici locali perché nel momento in cui si riesce a superare la loro diffidenza iniziale per loro subentra quasi un patto d’onore (commercialista A.)

Sono sicuramente molto affidabili e disponibili. Io sono stata una dei primi a rivolgermi a un grossista cinese [...] e quindi c’è un rapporto storico e di fiducia reciproca. [...] Non ho mai avuto difficoltà con i cinesi perché quando è capitato che la merce era difettosa loro lo hanno riconosciuto e l’hanno subito cambiata. [...] Mentre il fornitore nazionale a garanzia voleva un assegno posdatato, invece, il cinese si fida. Naturalmente, hanno preso delle botte perché qualcuno ne ha approfittato, ora hanno imparato e ora sanno di chi si devono fidare e di chi no (commerciante catanese cliente di cinesi).

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Questi codici di comportamento, ancor più delle appartenenze etniche, hanno contribuito ad alimentare le reti di guanxi dei commercianti cinesi e a “fluidificare” i rapporti con i connazionali che li riforniscono, sia direttamente dalla madrepatria che in Italia (a Roma, Napoli, Firenze)57:

[I loro fornitori] sono cinesi, la fabbricazione è cinese, ma spesso fanno venire la merce da Roma, Napoli o Firenze, più di tutti da Roma (commerciante catanese).

Solo il grande imprenditore cinese consolidato riesce a fare arrivare merce direttamente dalla Cina. […] L’abbigliamento le borse e le calzature ormai non arrivano solo dalla Cina, arriva molto da Prato (commercialista A.). Hanno una rete di relazioni commerciali che coinvolge l’Italia, Malta, così come il loro paese di provenienza (commercialista F.).

Proprio in ragione delle loro strategie imprenditoriali, i commercianti cinesi a Catania si

configurano come moderni alfieri dell’“economia dell’appropriatezza” (Butera, 1987), “formiche transnazionali” del capitalismo flessibile a breve termine, oltre che della globalizzazione dal basso (Ambrosini, 2009). Il loro successo dipende sia dalla capacità di analisi e adattamento al mercato, sia dalla dotazione di capitale sociale e non solo dalle strategie di contenimento dei costi e dei prezzi di vendita. È un mix di risorse competitive che sembra venire da lontano, poiché ripropone i tratti distintivi del modello di sviluppo capitalistico che in Cina è stato “promosso dal basso” dai reticoli di microimprese che producono low cost e “trainato dalla domanda occidentale” di articoli per la persona e per la casa soggetti alla variabilità delle mode; l’apparato produttivo cinese ha imparato a soddisfare una tale domanda più appropriatamente di altri competitori asiatici grazie alla flessibilità e all’isomorfismo mimetico dell’imprenditoria locale, attivati dall’iniziativa delle grandi catene di distribuzione americane ed europee che hanno governato un processo di cooperazione economica transnazionale di cui si sono accaparrati i maggiori profitti (Gereffi, 2005; Gereffi, Humphrey, Sturgeon, 2005; Hamilton, 2006; Trigilia, 2009).

Al riguardo, l’espansione recente degli esercizi commerciali cinesi anche in aree non ancora esplorate, come quelle del nostro Mezzogiorno, rappresenta una via di integrazione economica transnazionale “alternativa” a quella gestita dai big buyers occidentali nel secolo scorso: ricucendo su scala globale le diverse fasi della filiera di produzione e distribuzione di merci cinesi, le “formiche dell’appropriatezza”, da un lato, estendono i vantaggi del basso costo del lavoro e della flessibilità anche al commercio di prossimità, senza subire i vincoli di costo che derivano dagli stili di vita dell’area di insediamento, dall’altro, tendenzialmente riconducono l’intera “catena globale del valore” della produzione di articoli di moda sotto il controllo di capitali nazionali che direttamente o indirettamente danno un ulteriore impulso allo sviluppo economico della Repubblica Popolare; un contributo che deriva dal reinvestimento nella madrepatria di capitali accumulati all’estero, fenomeno ben noto che è emerso anche nell’ambito della nostra indagine, ma soprattutto dalla crescita della domanda occidentale di prodotti cinesi alimentata dai commercianti immigrati. Pertanto, l’efficacia delle strategie locali dell’imprenditoria immigrata contribuisce a rafforzare la competitività dell’economia cinese sui mercati globali.

Rispetto a questo quadro di competizione aggressiva locale e globale non si registrano nella realtà catanese forti tensioni sociali o aperti conflitti con i commercianti autoctoni, poiché attorno al crescente primato delle imprese cinesi si strutturano nuove forme di segmentazione del mercato e di complementarietà delle attività. Permane la specializzazione dei cinesi nella vendita all’ingrosso di capi e accessori di abbigliamento a basso costo, ma con una maggiore stratificazione interna per ampiezza dei mercati di sbocco e diversificazione del prodotto: gli imprenditori pionieri con precedenti esperienze manifatturiere e/o una posizione centrale nelle reti di imprese parentali sono quelli che realizzano i maggiori profitti, rifornendosi anche direttamente in Cina e controllando

57 Il riconoscimento condiviso delle regole di mercato spiega perché nelle interazioni economiche tra cinesi la riproduzione di relazioni fiduciarie nei rapporti “verticali” con i fornitori non entri in contraddizione con la competizione “orizzontale” fra imprenditori che si confrontano sugli stessi mercati.

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ampi mercati, non solo regionali; si accentua, invece, la competizione sul prezzo fra i grossisti che hanno avviato l’attività alla vigilia della crisi e fra i dettaglianti che si rivolgono al mercato locale. I commercianti stranieri che appartengono ai gruppi nazionali di più antico insediamento (senegalesi e maghrebini) restano prevalentemente confinati nell’ambulantato e nella vendita di merce contraffatta fornita soprattutto da cinesi che cercano di sottrarsi ai rischi di commercializzarla direttamente. Infine, i dettaglianti italiani continuano a fare buoni affari con i cinesi, ma scivolando verso posizioni più subalterne e spazi più limitati: alcuni, quelli che vendono su suolo pubblico, riescono a garantirsi la sopravvivenza dell’attività proprio rifornendosi da cinesi; altri, i più spregiudicati, riescono a realizzare lauti guadagni, occultando la provenienza della merce cinese per venderla a prezzi elevati.

Inizialmente c’era un conflitto tra l’imprenditore locale e l’imprenditore cinese. […] Questo è in gran parte superato perché si è stabilizzato un certo status quo, un quieto vivere, dove ognuno opera nella sue aree d’influenza, ed ha sviluppato una sua clientela (commercialista A.).

[I commercianti catanesi] si lamentano dicendo che è tutta colpa dei cinesi se non c’è lavoro, ma alla fine rimane tutta chiacchiera, perché poi sono loro stessi che lavorano con la merce cinese, perché se dovessero lavorare con merce italiana potrebbero starsi a casa. Sono loro che oggi come oggi ci permettono di lavorare. […] Inoltre, qui tutti i commercianti locali, anche non di Catania, ma dei paesi, vanno a comprare dai cinesi e poi mettono questi prodotti in vetrina spacciandoli per italiani. Così ci guadagnano ancora di più, perché la comprano a pochissimo e la comprano anche in nero e spacciandola per italiana la vendono a prezzi molto più alti (commerciante catanese).

La complementarietà delle attività e la convergenza degli interessi esorcizzano il conflitto latente

fra commercianti catanesi e cinesi, ma a prezzo di un sostanziale ribaltamento dei loro rapporti competitivi che nel tempo rischia di incrinare gli equilibri raggiunti, come segnala enfaticamente un grossista catanese, fornitore saltuario di un commerciante cinese, che stigmatizza la concorrenza sleale sul prezzo dei nuovi arrivati e preconizza il loro futuro dominio sull’economia locale:

I cinesi è vero che ti portano i soldi, ma sei costretto a svendere il tuo prodotto per accaparrarti liquidità. La cosa molto più grave è che […] sono capaci di venderlo a un prezzo uguale a quello che hanno pagato e quindi sono in grado di distruggerti quel mercato che tu sei riuscito magari a costruirti in più di 10/20 anni. […] E tutto questo alla fine porterà al fatto che un giorno noi lavoreremo sotto di loro. […] Loro stanno scopiazzando di qua e di là, stanno cercando di capire cosa va e cosa non va, appena l’avranno capito saranno loro a diventare i nostri padroni, perché loro tendono a sopraffarti, perché hanno la potenza economica per poterlo fare. Non dobbiamo permetterlo, non devi dare spazio!

6. Conclusioni La rapida espansione della presenza di commercianti cinesi a Catania interseca una trama di

sincronismi fra processi di sviluppo locali e nazionali territorialmente distanti, ma interconnessi nell’evoluzione delle biografie, dei percorsi migratori e delle carriere lavorative delle popolazioni migranti. Questo sistema di sincronismi e intersezioni ha definito tanto la mappa delle opportunità con cui si sono confrontati gli immigrati cinesi a Catania, quanto il profilo delle risorse culturali e di capitale sociale che hanno sostenuto i loro progetti imprenditoriali. Tuttavia, gli esiti di tali progetti non si possono dedurre meccanicamente dal bilancio di opportunità e risorse; piuttosto, il successo dei commercianti cinesi si costruisce nell’interazione con gli operatori economici locali e nel confronto fra modelli imprenditoriali contrapposti e fra corsi di azioni in continua evoluzione.

La colonizzazione repentina dell’area commerciale più strategica della città da parte delle imprese cinesi non provoca conflitti manifesti poiché soddisfa gli interessi di tutte le parti in gioco, ma sancisce il primato del modello imprenditoriale “acquisitivo” dei cinesi, strategicamente orientato ad una localizzazione rapida ed efficace, rispetto al modello “predatorio” a breve termine dei commercianti catanesi che sottovalutano clamorosamente le capacità imprenditoriali dei nuovi arrivati non riconoscendoli in alcun modo come loro competitori. Anche successivamente, allorché le imprese cinesi manifestano tutta la loro competitività aggressiva, monopolizzando la vendita all’ingrosso di capi e accessori di abbigliamento, i commercianti catanesi continuano a trarre

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guadagno dal loro successo, a prezzo però di un ribaltamento inatteso dei loro rapporti di forza sul mercato che contraddice l’ipotesi della successione ecologica.

Il successo dei commercianti cinesi non dipende solo dalla straordinaria capacità di competere sul prezzo, esaltando la flessibilità dell’impresa familiare e l’efficacia del capitale sociale nelle transazioni con i connazionali, ma da un mix di competenze tacite e strategie di diversificazione e adattamento al mercato che ne definisce il profilo imprenditoriale: si configurano come moderni alfieri dell’“economia dell’appropriatezza”, “formiche transnazionali” del capitalismo flessibile a breve termine e della globalizzazione dal basso. Ricucendo su scala globale le diverse fasi della filiera di produzione e distribuzione di merci cinesi, i nuovi imprenditori, da un lato, estendono i vantaggi del basso costo del lavoro e della flessibilità anche al commercio di prossimità, dall’altro, tendenzialmente riconducono l’intera “catena globale del valore” della produzione di articoli di moda sotto il controllo di capitali nazionali che direttamente o indirettamente danno un ulteriore impulso allo sviluppo economico della Repubblica Popolare.

Tuttavia, se l’efficacia delle strategie locali dell’imprenditoria immigrata contribuisce a rafforzare la competitività dell’economia cinese sui mercati globali, non si può escludere in linea di principio l’ipotesi che il dinamismo delle imprese cinesi a Catania possa funzionare come volano dell’economia locale, rafforzando una complementarietà meno asimmetrica fra le imprese catanesi e straniere nel settore commerciale, ma soprattutto aprendo il sistema produttivo locale ai mercati cinesi, grazie al potenziamento delle attività import-export. Una tale prospettiva, però, si scontra attualmente con una doppia criticità. La prima riguarda l’evoluzione dell’imprenditorialità cinese a Catania: in uno scenario reso più precario dalla crisi economica e in ragione della crescente stratificazione del sistema delle imprese cinesi, nei segmenti meno redditizi del commercio low cost si ripropongono le stesse condizioni di sovraffollamento e competizione esasperata, già rilevate in altre aree del paese, che tendono a ridurre gli spazi di mercato per i dettaglianti catanesi e rendono più precarie le imprese cinesi avviate alla vigilia della crisi; si potrebbero, perciò, inceppare gli effetti moltiplicativi delle relazioni di complementarietà, lasciando presagire nuovi flussi di mobilità di lavoratori cinesi verso nuove frontiere. D’altra parte, la possibilità di espandere le attività di import-export gestite dai cinesi si scontra non solo con l’attuale esiguità del fenomeno, ma soprattutto con la chiusura e i pregiudizi della società locale: gli operatori economici catanesi stentano a riconoscere il profilo imprenditoriale dei commercianti cinesi e le valenze innovative delle loro strategie; le associazioni di categoria dimostrano scarsa capacità di dialogare con gli imprenditori immigrati su un piano di parità; le pubbliche istituzioni sovraccaricano i costi di transazione delle imprese cinesi, sottoponendole a discriminazioni e controlli occhiuti.

La sfida resta comunque aperta e su questo doppio binario i policy makers potrebbero essere chiamati a nuovi esperimenti di integrazione fra politiche di inclusione degli stranieri e politiche di sviluppo locale.

56

5. Imprenditori egiziani nel settore edile a Milano

Federica Santangelo*

Il presente capitolo intende inquadrare il fenomeno dell’imprenditorialità immigrata nella provincia di Milano, focalizzandosi sul settore edile e in particolare sugli egiziani. È noto che le dimensioni dei flussi migratori hanno contribuito consistentemente a modificare il mercato del lavoro del nostro paese. Insieme al delinearsi di una domanda strutturale di lavoro extracomunitario (Girardi 2004) si registra però anche un aumento di offerta di lavoro da parte di titolari extracomunitari che segnala un mutamento nel fenomeno delle migrazioni e nei progetti degli stranieri (Zucchetti 2002).

Nel primo paragrafo si darà il quadro della presenza straniera in provincia di Milano e della consistenza di quella egiziana in particolare. Nel secondo paragrafo sarà presentato il contesto in cui l’imprenditorialità egiziana nel settore edile si è sviluppata. Nell’ultimo paragrafo, invece, saranno analizzati i principali esiti delle 40 interviste condotte a imprenditori e lavoratori autonomi di nazionalità egiziana sul territorio milanese e a due testimoni privilegiati58.

5.1. La migrazione in provincia di Milano

Nel corso dei primi anni ‘70 del secolo scorso l’Italia assiste per la prima volta a flussi

migratori in entrata. È però il 1981 che segna formalmente il passaggio del nostro paese da area di emigrazione ad area di immigrazione, come dimostrato dai dati del censimento del 1981. Il saldo del movimento migratorio diventa, infatti, positivo per la prima volta. Da sempre la Lombardia è stata una meta altamente desiderabile per gli stranieri, il che non stupisce visto che la presenza straniera si colloca sul territorio in maniera difforme, concentrandosi soprattutto nelle zone a più elevato sviluppo economico, vale a dire dove le opportunità di trovare un impiego sono più alte anche per gli stranieri. Secondo i dati dell’Istat, in Lombardia soggiornano la maggior parte degli stranieri regolari (il 23,2% del totale nazionale). E quasi la metà di questi, (il 35,6% nel 2009, ma una percentuale superiore al 40 negli anni precedenti), risiede nella provincia di Milano (grafico 1).

La popolazione straniera residente in provincia di Milano e proveniente da paesi in via di sviluppo o da aree dell’est Europeo ha subito dal 1998 al 1° luglio 2007 un aumento del 242% (Blangiardo, 2009). Questo aumento ha però coinvolto in misura minore gli immigrati provenienti dal nord Africa. La popolazione residente proveniente dall’est Europa, infatti, è aumentata del 499%, contro il 145% di quella nord africana e il 361% di quella proveniente dall’America Latina (in posizione intermedia si collocano gli asiatici con un aumento, dal 1998 al 2007, della popolazione residente del 207%) (Blangiardo, 2009).

*Università di Bologna 58 Si tratta di un esponente sindacale di nazionalità egiziana e di un mediatore culturale afferente al centro islamico di viale Jenner.

57

Grafico 1 Numero di stranieri residenti presenti in Italia (totale). Anni 2002-2009

0

500000

1000000

1500000

2000000

2500000

3000000

3500000

4000000

4500000

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

Italia

Lombardia

Milano prov.

Fonte: Elaborazioni su dati Istat

Il grafico 2 è la fotografia riferita al 2009 della presenza straniera residente in provincia di

Milano. In termini assoluti sono le popolazioni asiatiche a scegliere Milano e dintorni più frequentemente, seguite dalle popolazioni dell’America Latina. I nord africani si collocano al terzo posto in termini di numerosità assoluta. Tuttavia, se si orienta la lente di ingrandimento sulle singole cittadinanze, si rileva che al primo posto si collocano quanti provengono da un paese europeo, i romeni, seguiti da una popolazione del Nord Africa: gli egiziani. Infatti, questi costituiscono rispettivamente l’11,2 e il 9,9% degli stranieri regolarmente residenti, seguiti dai filippini (9,2%) e dai peruviani (7,2%) (grafico 2). In provincia di Milano almeno un residente su dieci proviene da un altro paese.

Grafico 2 Numero di stranieri residenti presenti in provincia di Milano (totale) secondo la provenienza. Anno 2009

55.009

71.136

79.463

103.422

19.165

0

20.000

40.000

60.000

80.000

100.000

120.000

Est

Europa

Nord

Africa

America

Latina

Asia Altri

Africa

Est Europa

Nord Africa

America Latina

Asia

Altri Africa

Fonte: Elaborazioni su dati Istat

58

Grafico 3 Stranieri residenti presenti in provincia di Milano (totale) secondo il paese di provenienza (prime dieci nazionalità). Anno 2009

0

5000

10000

15000

20000

25000

30000

35000

40000

45000

50000

Romania Egitto Filippine Perù Ecuador Albania Marocco Cina Rep. Popolare

Sri Lanka Ucraina

Fonte: Elaborazioni su dati Istat

La popolazione egiziana non ha seguito i flussi migratori del resto del nord Africa verso i

paesi arabi se non quando, nel 1971, l’emigrazione temporanea e permanente in altri paesi viene riconosciuta un diritto costituzionale (Cortese 2010). È alla fine degli anni settanta che l’Italia prende piede quale meta dei flussi migratori dall’Egitto e si tratta principalmente di individui con titoli di studio elevati. Molti di loro, impegnati nelle guerre arabo-israeliane, avevano perduto in paese la possibilità di usare il proprio titolo di studio e si sono rivolti al nostro paese. I dati Istat sui residenti in Italia denotano un certo squilibrio di genere. A una presenza egiziana maschile pari a 56834 unità alla fine del 2009 corrisponde una presenza femminile di 25230 soggetti. Il dato mette in luce la struttura dei flussi migratori egiziani che prevedono la partenza prima dei soggetti maschi e solo in seconda battuta il ricongiungimento con le consorti, che, come si avrà modo di evidenziare in seguito attraverso l’analisi delle interviste condotte, sono normalmente scelte in patria dopo il consolidamento della posizione economica e sociale degli uomini nel paese ospite. In altre parole, per la componente egiziana, il processo migratorio sembrerebbe essere ancora piuttosto “giovane”, in quanto vede come protagonisti soprattutto i maschi adulti – giovani o sposati – che si insediano nella società di arrivo come lavoratori. Le donne egiziane inoltre vivono in modo piuttosto isolato, sono casalinghe e dipendono economicamente dal marito. In molti casi soffrono di nostalgia per il paese di origine e aspirano a farvi rientro (Coslovi 2005).

La Lombardia è la regione di residenza per ben il 71% degli egiziani presenti sul territorio nazionale, e di questi il 69,1% risiede in provincia di Milano (in altre parole Milano accoglie quasi un egiziano migrante su due).

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Grafico 4 Egiziani residenti in Italia (totale). Anni 2002-2009

0

10000

20000

30000

40000

50000

60000

70000

80000

90000

2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

Egiziani in Italia

Egiziani in Lombardia

Egiziani in prov. di Milano

Fonte: Elaborazioni su dati Istat

Come mostra il grafico 4, dal 2002 la presenza egiziana nel nostro paese è più che

raddoppiata, ciononostante, la quota di soggetti che ha scelto la Lombardia e in particolare la provincia di Milano è rimasta costante (in media sono sette su dieci gli egiziani che scelgono la Lombardia, la metà degli egiziani regolarmente residenti in Italia predilige vivere e lavorare in provincia di Milano).

Con gli anni ’80 i flussi migratori egiziani vedono la partenza dal paese di origine prevalentemente di operai non specializzati con titoli di studio inferiori. Nel nostro paese è proprio a partire da quegli anni che si sviluppano le prime attività autonome intestate a titolari egiziani. La provenienza per entrambi i flussi migratori è principalmente da aree metropolitane come Il Cairo e Alessandria e dai comuni sul delta del Nilo.

Un terzo periodo di migrazione degli egiziani è identificabile dopo le regolarizzazione del 1998. In questo caso le spinte motivazionali verso l’Italia sono meno di natura culturale e più strettamente legate al raggiungimento di miglioramenti economici in un lasso temporale possibilmente breve. Oltre a livelli di studio inferiori tra gli egiziani di recente migrazione si individuano anche provenienze da piccoli villaggi e da aree agricole, non solo metropolitane (Coslovi 2005).

L’inserimento dei migranti egiziani è piuttosto stabile, nonostante secondo l’opinione e le conoscenze dei testimoni privilegiati intervistati, i progetti migratori siano quasi sempre di breve periodo. L’Egitto è percepita come una nazione ricca e in grado di offrire un futuro, i migranti quindi hanno l’obiettivo di assicurarsi in breve tempo una sicurezza economica per sé e la propria famiglia per fare ritorno al paese. In effetti, si vedrà, che anche coloro che nel tempo hanno completamente perduto il desiderio di vivere in Egitto, e si sono inseriti con successo, continuano ad avere intensi rapporti con il paese d’origine, non solo in termini relazionali, ma anche e soprattutto economici. I motivi che portano ad abbandonare progetti di breve periodo e a inserirsi permanentemente nella società italiana sono addebitabili principalmente alle difficoltà di riadattamento agli stili di vita ormai estranei del paese d’origine (Coslovi 2005). Esiste tuttavia anche un motivo di natura economica: chi abbandona l’Egitto con la speranza di migliorare la propria situazione economica, non riuscendovi, vive come un grave fallimento il rientro al paese che sarebbe etichettato come un’onta da conoscenti e familiari. D’altro canto coloro che riescono ad assicurarsi un minimo di stabilità economica, sono visti in Egitto come i ricchi e sarebbero costretti a mantenere stili di vita talmente tanto elevati da temere che diventino del tutto insostenibili. In rari

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casi di grave insuccesso, i lavoratori egiziani rimandano nel paese d’origine almeno la famiglia affinché abbia il necessario al sostentamento.

Diverso è però il caso della minoranza cristiana copta e cattolica. Come un intervistato ha chiaramente sottolineato e come altre ricerche testimoniano (Ambrosini e Abbatecola 2002; Abbatecola, 2004), in Egitto tali minoranze subiscono forme gravi di discriminazione. L’appartenenza religiosa, segnalata nella carta d’identità, impedisce a copti e cattolici di ambire a posizioni occupazionali di rilievo. I progetti migratori, in questo caso, risultano già in partenza di lungo periodo e sono caratterizzati dall’obiettivo dell’Italia quale meta ideale di libertà religiosa e professionale. In provincia di Milano sono proprio gli immigrati di origine copta quelli che registrano indici di integrazione più elevata (Blangiardo 2009).

Gli egiziani non si presentano con caratteri comunitari forti. Il centro islamico di viale Jenner come la chiesa Copta di via Senato sono punti di riunione e unione su base religiosa, più che di appartenenza nazionale e le scelte abitative sono disperse e non organizzate su base etnica, contrariamente a quanto avviene per altre comunità come quella cinese. I reticoli informali attraverso cui si attivano risorse materiali e immateriali di sostegno sono formati prevalentemente da vincoli di parentela (Ambrosini e Abbatecola 2002; Abbatecola, 2004), proprio per questo sono stati definiti una non-comunità. Ciononostante, e forse anche per questo, la comunità egiziana non solo risulta ben integrata nel nostro paese, ma è anche una delle nazionalità fra le quali risultano meno diffuse forme di criminalità violenta. Come ben mostrano i dati del grafico 5 relativo alle rapine (ma ciò è vero anche per gli omicidi volontari e i tentati omicidi), dal 2004 al 2009, la percentuale di egiziani fra gli autori di reati violenti è modesta. Tenendo conto che gli egiziani costituiscono in Lombardia una quota considerevole delle presenze straniere, le percentuali presentate risultano in proporzione ancora più ridotte.

Grafico 5 Rapine in Lombardia secondo la nazionalità dell’autore. Valori percentuali. Anni 2004-2009

0%

10%

20%

30%

40%

50%

60%

70%

80%

90%

100%

2004 2005 2006 2007 2008 2009

Italia

Altri paesi

Egitto

Fonte: Elaborazioni dell’autore su dati della P.S.

Nel nostro paese, inoltre, la comunità egiziana non ha fondato associazioni forti su base

etnica, ne esistono alcune in grandi città come Torino, Milano, Bologna e Reggio Emilia. Tuttavia sono deboli e non integrate a livello nazionale. Inoltre non si pongono come obiettivo prioritario il mantenimento dei contatti con le comunità di origine, ma piuttosto la promozione dell’integrazione in Italia e la custodia della cultura e della lingua Araba (Coslovi 2005).

Nel contesto provinciale, secondo un recente rapporto Isfol (Marucci 2009), nonostante in confronto alle altre regioni italiane in Lombardia sia presente un numero consistentemente più

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elevato di beneficiari rispetto all’obiettivo 3 della programmazione 2000-2006 FSE59 (Fondo Sociale Europeo) tra di essi compare però una quota piuttosto bassa di stranieri, solo il 6%. Da tempo la Lombardia ha adottato politiche volte a riconoscere i diritti e doveri degli immigrati come cittadini lavoratori60. In questo senso le scelte in termini di politiche sociali non sono state rivolte al tamponamento di situazioni di emergenza per individui a rischio, quanto piuttosto a riforme strutturali del mercato del lavoro che consentissero un pieno inserimento della componente straniera, che ancora prima della programmazione 2000-2006 era già stata monitorata attraverso la costituzione dell’Osservatorio sull’Immigrazione. Ciononostante, i tre progetti analizzati nel rapporto Isfol si rivolgono a ristretti ambiti riguardanti il livello di conoscenze linguistiche, l’aiuto di adolescenti in difficoltà e infine l’incontro di domanda e offerta di lavoro qualificato per l’assistenza e la cura di anziani e bambini. Scarse o inesistenti sono le pratiche e le attività rivolte alla formazione di lavoro autonomo e indipendente come pure alla promozione dell’inserimento lavorativo.

5.2. Gli imprenditori egiziani in provincia di Milano

Nel momento dell’arrivo nel paese ospitante, di solito i migranti si inseriscono nelle

posizioni occupazionali definite dalle tre D (dirty, dangerous e demanding) (Reyneri, 2002). La scelta di investire nell’avviamento di una propria impresa, dunque, potrebbe essere vista nell’ottica del raggiungimento di mobilità sociale e dell’emancipazione da lavori precari e svalorizzanti. In altre parole, il lavoro autonomo e un’impresa propria sarebbero gli strumenti attraverso cui si cerca di superare lo svantaggio occupazionale e la discriminazione sociale che gli stranieri subiscono nel paese ospitante. Altri autori suggeriscono, invece, che l’imprenditorialità sia strettamente legata ai valori e alle tradizioni apprese nel paese d’origine e che sia per questo maggiormente diffusa in alcuni gruppi etnici piuttosto che in altri. Secondo un’altra prospettiva, i migranti si inserirebbero in alcune nicchie di mercato sulla base delle risorse attivabili mediante il radicamento nella società ospitante dei coetnici (le strutture di rete sarebbero in questo caso un vincolo, limitando il campo di attività ai settori in cui sono già presenti altri connazionali, e allo stesso tempo una risorsa). Le imprese immigrate potrebbero sorgere anche e soltanto sulla base delle opportunità economiche e istituzionali del mercato, o in sostituzione ad attività imprenditoriali degli autoctoni. I fattori esaminati potrebbero influenzare congiuntamente la scelta di mettersi in proprio (Codagnone 2003a). In alcuni settori, inoltre, il lavoro autonomo potrebbe essere indotto dalla necessità di diversificazione del rischio economico e dalla volontà di ridurre il costo sociale del lavoro. In particolare nel settore edile gli stranieri potrebbero essere costretti ad aprire ditte individuali, pur rimanendo strettamente legati all’azienda da cui si dividono per ogni committenza (Ambrosini 2000).

Ciò su cui c’è accordo è che anche nel nostro paese il fenomeno dell’imprenditorialità immigrata stia progressivamente raggiungendo dimensioni di un certo rilievo. Dal 2003 al 2008 le

59 Relativo allo sviluppo e all'adeguamento di nuovi sistemi di formazione professionale nell'ambito delle politiche relativa all'istruzione, alla formazione e all'occupazione. Le principali linee d'intervento sono:

• predisposizione e sviluppo di politiche finalizzate al reinserimento nel mercato del lavoro dei disoccupati di lungo periodo.

• politiche volte alla promozione delle pari opportunità tra uomini e donne • interventi e misure ai fini dell'incremento delle opportunità occupazionali • politiche di prevenzione della disoccupazione, tramite l'introduzione di misure formative miranti a favorire la

flessibilità e l'adattabilità dei lavoratori in rapporto alle nuove esigenze provenienti dal mercato del lavoro • potenziamento del patrimonio tecnico-cognitivo dei soggetti in cerca di occupazione • interventi miranti all'evoluzione e allo sviluppo dei sistemi scolastici e formativi

60 Si veda la L.r. del 4 luglio 1988, n. 38: “Interventi a tutela degli immigrati extracomunitari in Lombardia e delle loro famiglie”

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attività autonome con titolare straniero sono triplicate, passando da 56421 a 165114, secondo i dati Unioncamere. Il tasso di imprenditorialità più elevato è associato ai cinesi, seguiti da senegalesi, siriani ed egiziani (con circa un’impresa ogni dieci residenti egiziani). I settori delle costruzioni e del commercio sono quelli in cui si registra la presenza più numerosa di titolari stranieri. Milano, Roma e Torino sono le province in cui si concentra il maggior numero di imprese straniere.

A fronte di una stagnazione del sistema imprenditoriale nazionale dal 2005 al 2009 nel settore delle costruzioni e in quello manifatturiero si registra in Lombardia un aumento percentuale delle ditte a titolare straniero che ammonta rispettivamente al 65,4% e al 57,4% (Cespi 2009).

Al giugno 2008 quasi la metà delle imprese immigrate presenti sul territorio regionale (37.147) avevano sede nella provincia milanese (17.297). Inoltre, delle 5072 imprese con titolari di nazionalità egiziana più del 77% hanno sede in provincia di Milano. Gli egiziani non sono solo la nazionalità fra cui in termini assoluti l’imprenditorialità straniera è maggiormente diffusa (seguiti da cinesi, rumeni e marocchini) in provincia di Milano, ma tendono a specializzarsi nel settore edile (il 60% dei titolari di attività autonome di nazionalità egiziana in provincia opera, infatti, nel settore delle costruzioni (Ethonoland, 2008)). Gli egiziani devono competere con gli imprenditori rumeni e albanesi fra i quali si registra la rappresentanza più consistente nel settore edile (rispettivamente il 76,9% e il 76,4%).

I dati provenienti dalla Camera di commercio ed elaborati dall’Irer attestano che in provincia di Milano il 2,7% degli imprenditori artigiani attivi al 2006 è di nazionalità egiziana (seguiti da romeni, 1,0%, e albanesi, 0,8%). In nessun’altra provincia della regione l’incidenza di una nazionalità sul totale supera i due punti percentuali (i romeni raggiungono infatti il 2,0% a Lodi, albanesi e cinesi toccano l’1,9% rispettivamente a Cremona e Mantova).

Le ricerche (Abbatecola 2004) che si sono concentrate sugli egiziani attivi nel settore della ristorazione hanno evidenziato che le imprese egiziane sono di tipo “aperto”. Sulla base della tipologia proposta da Ambrosini (1994) le imprese aperte si pongono sul mercato in concorrenza con la altre già presenti sul mercato e gestite da autoctoni. Non offrono prodotti etnici né la loro clientela è di tipo etnico. Si tratta insomma di pizzerie e ristoranti (per lo più a gestione familiare). La “non comunità” egiziana prevalentemente quella che è arrivata in Italia con la prima e con la seconda ondata migratoria sceglie il lavoro autonomo per consolidare la propria posizione economica, non per coprire uno svantaggio occupazionale. E ciò deriva da uno spirito orientato alla libera iniziativa e al lavoro ereditato dalla cultura e dalla famiglia di origine con elevata probabilità di classe media.

La ricerca svolta da Codagnone nel 2003 (2003b) proprio sugli egiziani nel settore edile rilevava che l’inserimento degli egiziani in questo settore derivava sì da spazi lasciati liberi da imprenditori italiani, ma anche da spazi creati dall’evoluzione del settore edilizio “in attività ancillari … di supporto a condizioni favorevoli” (p.143) in cui gli egiziani potevano altresì investire il considerevole capitale umano di cui disponevano. I risultati di Codagnone sono stati confermati anche da un più recente studio di area condotto dal Cespi (2005).

I testimoni privilegiati intervistati nel corso della presente ricerca riportano che la specializzazione settoriale degli egiziani nel settore della ristorazione sia stato influenzato da fattori di opportunità di offerta del mercato e da fattori culturali. I pionieri delle migrazioni egiziane infatti avrebbero potuto scegliere tra l’edilizia, la ristorazione e le attività di servizio orientate alla pulizia. Questa terza opportunità veniva però scartata per motivi culturali perché ritenuta inadatta a soggetti maschi.

In quanto soggetti vulnerabili per condizioni economiche, per difficoltà di convalida dei titoli di studio acquisiti in patria e per barriere linguistiche sono costretti a scegliere come prima occupazione nel paese ospitante posizioni occupazionali di basso profilo e scarsa qualifica. Non è sorprendente quindi notare che il settore edile sia quello in cui gli stranieri sono sovra rappresentati. I dati sulle forze lavoro dell’Istat del primo trimestre 2008 rilevano una considerevole partecipazione straniera nel settore edile, di cui la maggior parte è impiegata nelle regioni settentrionali. A fronte di una contrazione dei dipendenti del settore, gli immigrati evidenziano

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invece un aumento del 5%. Alla sovra rappresentazione degli immigrati nel settore delle costruzioni si affianca anche il primato negativo nei tassi di infortunio (Galossi e Mora 2008).

5.3. Gli imprenditori egiziani nel settore edile

In questo paragrafo saranno esposti i principali risultati emersi dalle interviste di area

condotte nella provincia di Milano a 40 imprenditori egiziani61 attivi nel settore edile e a due testimoni privilegiati, un esponente sindacale e un mediatore culturale legato al centro islamico di viale Jenner. Quattro nominativi sono stati forniti dagli elenchi degli iscritti alla Confartigianato della regione Lombardia. Altri contatti sono stati individuati dai due testimoni privilegiati e, infine, si è proceduto con la tecnica a palla di neve. Si tratta esclusivamente di uomini, la maggior parte dei quali islamici. Tre intervistati sono cattolici, uno copto.

In tabella 1 sono fornite le principali caratteristiche anagrafiche degli intervistati secondo il periodo in cui sono migrati verso l’Italia.

Tabella 1 Caratteristiche anagrafiche secondo l’anno di arrivo in Italia dal 1970 al 1989 dal 1990 al 1997 dal 1998 al 2002

Età media 51,1 43,4 35,4 Titolo di studio Lic. Media inf. 1 1 0 Avviamento professionale 1 0 0 Diploma 10 5 6 Laurea 7 8 1 Sposato No 0 0 3 Sì 17 14 4 Separato/divorziato 2 0 0 Di cui con partner italiana 3 2 0 Totale 19 14 7 Il primo dato interessante è che non si registra una diminuzione nei livelli di studio a

seconda delle ondate migratorie. Ciononostante, nell’ultimo flusso il numero di laureati è considerevolmente diminuito. Nonostante i limiti di rappresentatività del campione selezionato, il mediatore culturale intervistato ha sottolineato il fatto che l’Egitto è una nazione con una lunga storia, dove la prima università di medicina è stata aperta nel 1908, e dove nel 1958 è stato costruito il primo caccia veloce. Si tratta in altre parole di una nazione in cui l’istruzione ha un grande valore. Il 25% degli egiziani è laureato. Il numero così elevato di alti livelli di istruzione non riesce d’altro canto ad essere assorbito dal mercato locale, costringendo molti ad abbandonare il paese d’origine. Chi ha un titolo di studio inferiore alla terza media è considerato analfabeta. Sotto questa luce, si può affermare che in effetti l’ultima ondata migratoria è caratterizzata da livelli di istruzione mediamente inferiori, essendo sottorappresentati i laureati.

Tra il momento dell’arrivo in Italia e quello di apertura dell’attività in proprio (tabella 2) trascorre un tempo che va riducendosi in maniera inversa all’arrivo in Italia. In altre parole, tanto

61 29 interviste sono state condotte dall’autrice, 10 da Deborah De Luca, un’intervista è stata seguita da entrambe.

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più recente è l’arrivo in Italia, minore è il tempo che trascorre prima che si decida di aprire una ditta in proprio.

Tabella 2 Tempo intercorso tra l’arrivo in Italia e l’apertura della ditta secondo il

periodo di migrazione dal 1970 al 1989 dal 1990 al 1997 dal 1998 al 2002

da 1 a 5 anni 4 3 4 da 6 a 10 anni 3 6 3 > 10 anni 12 5 0 Media 13,1 8,9 5,1 Totale 19 14 7 Secondo l’esponente sindacale, nonostante gli egiziani arrivino in Italia con una

professionalità già acquisita nel paese di origine, il campo dell’edilizia risulta molto cambiato. È il settore in cui mettersi in proprio ha i costi minori, non necessitando di investimenti in materiali o tecnologie. Inoltre, il sistema dei subappalti è spesso l’unico modo per gli stranieri per riuscire a lavorare, nonostante specialmente in questi ultimi anni di crisi, capiti spesso che siano anche i primi a non essere pagati. A oggi è più difficile imparare sul campo, accumulare esperienza e professionalità on the job (testimone privilegiato). Questo potrebbe parzialmente spiegare la maggiore velocità con cui si formano le imprese individuali fra gli arrivati dopo il 1998, grazie anche alla legge Turco Napolitano che proprio nel corso del 1998 ha eliminato il vincolo della reciprocità per le ditte individuali. Come ricordato, tuttavia, la rete informale parentale svolge un importante effetto traino. È perciò plausibile supporre anche che, fra quanti sono arrivati in tempi più recenti, il tempo di avvio di un’attività autonoma diminuisca visto il minore isolamento dei nuovi. Sono solo sei intervistati su 40 a dichiarare di aver avuto bisogno di prestiti di familiari o amici per avviare la propria attività. Solo uno di questi si è rivolto al sistema bancario. È importante notare che gli intervistati in qualche modo legati al centro islamico (poco più di una decina) alla domanda sulla necessità di ottenere prestiti nel corso della loro attività imprenditoriale hanno reagito, negandolo, in modo alquanto perentorio. La religione islamica, infatti, non consente in nessun modo l’accesso al sistema creditizio. Fra l’altro l’Abi (2009) rileva che oltre un quarto delle imprese con titolare straniero non utilizza i canali finanziari offerti dagli istituti bancari. Il ruolo della rete etnica è evidenziabile attraverso l’esame delle risposte a due diverse domande: l’aver appreso la gestione dell’azienda da parenti o connazionali e l’importanza delle relazioni familiari e in generale etniche nella gestione dell’azienda. Solo 8 intervistati su 40 dichiarano di non avere nessuna persona da cui hanno imparato qualcosa e la quota è inversamente proporzionale all’arrivo in Italia. È infatti solo uno tra gli intervistati arrivati dopo il 1998. Per gli ultimi arrivati è importante il ruolo dei parenti, quando invece per i pionieri risulta fondamentale il ruolo di italiani o, al più di connazionali (tabella 3):

Tabella 3 Imprenditori che affermano di aver imparato da qualcuno nella gestione

dell’azienda secondo il periodo di migrazione. Valori % dal 1970 al 1989 dal 1990 al 1997 dal 1998 al 2002

Hanno imparato da: familiari 20 46 50 connazionali 27 18 17 italiani 87 64, 33 Per quanto riguarda l’utilità delle relazioni con familiari e connazionali nella gestione

dell’azienda, i giudizi espressi dagli intervistati sono molto oscillanti. È loro richiesto di fornire un voto compreso fra uno e dieci (dove uno indica il non aver avuto alcun aiuto dalla rete familiare e

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dieci, all’opposto, il massimo aiuto possibile), ma qualunque valore medio non sarebbe attendibile data, appunto, l’alta variabilità delle risposte. Qualora ci si chieda per quanti la famiglia è almeno sufficiente nell’utilità fornita nella gestione aziendale, ebbene almeno per la metà degli intervistati le relazioni familiari sono state utili. Tuttavia, non è chiaro se tale utilità sia intesa in termini materiali (prestiti finanziari, fornitura di manodopera) o simbolici (sostegno morale nell’avvio dell’investimento). L’attività imprenditoriale può infatti essere aiutata anche dalla presenza di un’economia informale e dalla possibilità di auto sfruttamento dei connazionali o dei parenti (Laj 2006), questo aspetto risultava anzi fondamentale nelle precedenti ricerche effettuate nel settore della ristorazione. Tuttavia la presenza di parenti e familiari come dipendenti e collaboratori è del tutto assente sia nella prima sia nell’ultima ondata migratoria del campione intervistato e marginale nella seconda (solo due imprenditori hanno fra i propri collaboratori dei familiari). Otto intervistati hanno invece dei dipendenti connazionali, ma nessuno di questi è arrivato dopo il 1998. Per poter escludere che vi sia un effetto, anche solo informale, dell’appartenenza etnica nella scelta di condurre una ditta propria è necessario analizzare ancora almeno tre aspetti approfonditi nel corso dell’intervista: le origini sociali dell’intervistato, i motivi che lo hanno condotto in Italia e la carriera lavorativa in Italia.

Tabella 4 Classe sociale di origine secondo il periodo di migrazione62. Valori % dal 1970 al 1989 dal 1990 al 1997 dal 1998 al 2002

BO 21 21 29 CMI 26 14 57 PB 378 36 0 CO 16, 29 14 N 19 14 7 Come si può notare (tabella 4) l’unica differenza di rilievo tra gli imprenditori appartenenti

alle differenti ondate migratorie è la sottorappresentazione tra coloro giunti in Italia dopo il 1998 della piccola borghesia, alla quale appartiene invece poco più di un intervistato su tre arrivato in Italia negli anni precedenti. Durante il colloquio tuttavia molti degli intervistati hanno chiarito che il padre, nonostante avesse un lavoro come dipendente svolgeva anche piccole attività in proprio legate alla coltivazione della terra e alla vendita al dettaglio, cui, date le ampie dimensioni familiari (gli intervistati hanno in media 4 fratelli o sorelle) loro amavano affiancarsi, iniziando a lavorare fin da adolescenti. Quattro intervistati su cinque, inoltre, (indipendentemente dal periodo migratorio) affermano di avere altri parenti titolari di imprese. Le origini sociali degli intervistati non sembrano confermare quanto emerso nelle precedenti ricerche: non si tratta di individui appartenenti a classi medie impiegatizie che si siano impoverite. A conforto di tale affermazione è stata sottoposta agli intervistati un’altra domanda sulle condizioni economiche della famiglia rispetto alla media delle famiglie del luogo in cui risiedevano in Egitto. Solo tre intervistati (appartenenti alle prime due ondate migratorie) confessano che la loro famiglia sopportava condizioni economiche peggiori di quelle degli altri. Quattordici intervistati affermano che la loro famiglia stava meglio o molto meglio delle altre.

Si vedrà come sono cambiati nel tempo i fattori di spinta migratoria: se motivi economici, desiderio di promozione e spirito di avventura contano per più di un intervistato su quattro, la differenza sostantiva tra gli immigrati della prima ondata migratoria e quelli della seconda e terza è che i primi molto più frequentemente degli altri sono arrivati in Italia quasi per sbaglio, o per caso. A seguito di rapporti di scambio con le università tedesche (e in un caso con quella austriaca) alcuni

62 Lo schema di classe utilizzato è quello sviluppato da Cobalti e Schizzerotto dove BO corrisponde alla borghesia, CMI alla classe media impiegatizia, PB alla piccola borghesia e CO alla classe operaia. Rispetto allo schema originario la differenziazione tra piccola borghesia urbana e agricola e tra classe operaia urbana e agricola è stata abolita.

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degli intervistati arrivati qui fra il 1970 e il 1989 si fermavano in Italia in attesa dell’inizio dei corsi in Germania. Trovando lavoro e ritenendo che le condizioni di vita ed economiche fossero favorevoli, rinunciavano ai corsi in Germania per stabilirsi permanentemente nel nostro paese. In un solo caso l’intervistato riferisce di essere partito verso la Germania e di aver poi usato da lì i suoi contatti tedeschi affinché lo aiutassero a trovare lavoro in Italia. Un intervistato ricorda di essere arrivato in Italia solo ed esclusivamente per i mondiali di calcio nel 1990, ha seguito una partita in Sicilia e dopo essere arrivato qui, ha semplicemente deciso di rimanere. In otto casi, fra cui anche quello di un imprenditore di successo, la prima tappa estera è stato un paese arabo dove la domanda di manodopera specializzata egiziana era molto elevata. Che il percorso degli appartenenti alla prima ondata migratoria sia stato diverso e in linea di continuazione rispetto al percorso di studi lo dimostra il fatto che due intervistati su cinque non lavorassero nel paese d’origine. Proporzione consistentemente inferiore fra chi appartiene alla seconda e terza ondata.

In un caso un intervistato riferisce di aver lavorato in Egitto per un grande azienda statunitense per la quale svolgeva ricerche nel campo del marketing. È stato purtroppo costretto ad abbandonare il lavoro perché l’azienda è stata osteggiata per motivi religiosi e non è stato più in grado di trovare un’occupazione che gli garantisse la medesima posizione. È stato spinto quindi a dirigersi verso l’Italia nella speranza che un paese, che credeva fortemente cattolico, potesse garantirgli libertà e opportunità professionali. Ha dovuto purtroppo abbandonare l’idea di usare la sua laurea in economia e ha iniziato a svolgere un lavoro come venditore di bibite al cinema. In seguito è diventato il tutto fare all’interno di un museo (dal facchinaggio al consulente per impianti delle mostre). Alle dipendenze di un italiano ha appreso il lavoro di ristrutturazione edile e di muratura. Decise di avviare una ditta propria dopo aver compreso di avere successo come dipendente e di non essere al contempo libero di praticare la religione a cui teneva enormemente perché sfruttato dal datore di lavoro. Sul lavoro desiderava sì essere autonomo, ma anche creare una dimensione familiare. Prima della crisi la sua azienda era arrivata ad avere 18 dipendenti, fra cui anche un italiano. È felicemente sposato con una donna italiana da cui ha avuto un figlio ed è perfettamente integrato nella sua comunità dove però l’influenza etnica e nazionale è quasi del tutto irrilevante.

Tabella 5 Motivi di attrazione verso l’Italia secondo il periodo di migrazione. Valori % dal 1970 al 1989 dal 1990 al 1997 dal 1998 al 2002

parenti 26 36 43 connazionali 16 29 29 facilità d'ingresso 21 7 14 prossimità culturale 16 14 57 opportunità di lavoro 32 14 14 I motivi che hanno attratto verso l’Italia gli altri intervistati offrono un quadro abbastanza

chiaro del fatto che, nonostante la ridotta numerosità e la non rappresentatività del campione, le ondate migratorie sembrano influenzare le caratteristiche dei progetti migratori. Se i primi sono stati influenzati principalmente dalle opportunità lavorative, le ultime ondate sono state influenzate dalla presenza di connazionali e parenti. L’Italia è stata scelta per la prossimità culturale da quattro dei sette intervistati che sono arrivati dopo il 1998, confermando quanto era stato dichiarato da uno dei testimoni privilegiati. Con la televisione e con il contatto dei successi dei pionieri, il nostro paese è stato visto come una meta ambita. L’Italia e il suo stile di vita sono diventati un gruppo di riferimento per i nuovi migranti egiziani. La facilità d’ingresso ha invece avuto uno scarso peso per i soggetti, salvo per i pionieri, arrivati a cavallo di qualsiasi regolamentazione.

La provincia milanese è stata la prima e sola meta per la stragrande maggioranza degli intervistati. Il primo lavoro in Italia è per tutti gli intervistati un’occupazione di bassa manovalanza, per molti già nel settore delle costruzioni: si passa dal lavapiatti al macellaio, dall’operaio al muratore, dall’addetto ai traslochi alla manutenzione nei circhi. Nessuno dei migranti appartenenti

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alla prima ondata è stato assunto alle dipendenze di un parente o connazionale, al contrario ciò si è verificato in sette dei 21 casi delle due successive ondate.

I motivi che spingono, dopo aver accumulato conoscenze sul lavoro, a mettersi in proprio sono per la maggior parte il bisogno di guadagnare di più, la voglia di essere autonomi e la necessità di valorizzare le proprie capacità. In dieci casi è stato il precedente datore di lavoro a consigliare di aprire una partita iva e mettersi in proprio. Tuttavia nella maggior parte dei casi il consiglio è andato a vantaggio di chi lo ha ricevuto e non si trattava di una necessità in cambio di lavoro, nel noto meccanismo di subappalto ed esternalizzazione del settore per ridurre i costi del lavoro. Solo in un caso si dichiara il desiderio di seguire le tradizioni familiari. Si tratta però di un caso molto particolare. Arrivato nel 1974 in Italia si è sposato e ha in seguito divorziato da una donna italiana. È uno dei nove figli di una famiglia in cui il decesso del padre aveva provocato un drammatico appesantimento della situazione finanziaria. Quattro dei suoi fratelli sono in Italia. Tutti laureati con titolo di studio valido anche nel nostro paese, salvo lui che si è fermato al diploma. La ditta individuale di ristrutturazioni che ha aperto e conduce dal 2006 (dopo essere stato per molti anni attivo nella ristorazione dove ha anche rivestito il ruolo di direttore responsabile di un complesso alberghiero) versa oggi in gravissime difficoltà economiche. La natura del problema in questo caso è che l’intervistato si è appoggiato a pochi grandi clienti con i quali ha svolto lavori molto impegnativi, redditizi e di un certo prestigio. Essendosi però sempre appoggiato ad una sola grande ditta risente più degli altri della crisi in corso.

Sedici degli intervistati dichiarano di non avere dipendenti in questo momento (tabella 6). Si noti però che solo in 6 casi si tratta di ditte individuali e gli intervistati dichiarano infatti che il numero dei dipendenti è rimasto costante negli ultimi tre anni, si tratta di artigiani falegnami e idraulici. Nei restanti casi invece il numero di dipendenti è diminuito a causa della crisi in corso. Fra i dipendenti non emergono reti etniche consolidate. Di fatto il numero di dipendenti connazionali non supera e non si differenzia dal numero di dipendenti di altre nazionalità. Solo cinque intervistati dichiarano di aver dato lavoro a dipendenti italiani (anche nel passato), ma la maggior parte degli intervistati afferma di essersi appoggiato ad artigiani italiani per molti dei lavori svolti, creando quindi un indotto anche per altri imprenditori o lavoratori autonomi nati nel nostro paese.

Tabella 6 Numero di dipendenti N %

nessuno 16 40 1 dipendente 3 7 da 2 a 5 dipendenti 15 38 da 6 a 10 dipendenti 4 10 > 10 dipendenti 2 5 Totale 40 100 Tabella 7 Nazionalità dei dipendenti N %

nessuno 16 40 solo egiziani 15 38 egiziani e stranieri 6 15 anche italiani 3 7 Totale 40 100 Nonostante clienti e fornitori siano prevalentemente italiani, per più della metà degli

intervistati con dipendenti questi sono connazionali (tabella 7).

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Tabella 8 Durata dell’impresa N %

Da 1 a 4 anni 7 18 da 5 a 10 anni 20 50 > 10 anni 13 32 Media 10,7 Totale 40 100 Nonostante le difficoltà dovute alla crisi, le imprese sembrano piuttosto solide giacché

quattro su cinque sono attive da almeno cinque anni (tabella 8). Si noti che le imprese più giovani in due casi coinvolgono soggetti arrivati in Italia nel corso delle prime due ondate migratorie.

In effetti la crisi attuale sta avendo degli effetti piuttosto consistenti per quasi 3 imprenditori su quattro (tabella 9). La categoria meno colpita, salvo i due casi di imprenditori di successo, è quella dei piccoli artigiani (falegnami e idraulici). Tre degli intervistati hanno affiancato all’attività principale legata all’edilizia, attività di tipo commerciale come colorificio e attività nei servizi come un’impresa di pulizia. Ciò consente loro una diversificazione dei rischi imprenditoriali.

Tabella 9 Andamento del fatturato e del numero di dipendenti negli ultimi tre anni N %

Aumentati o costanti 11 27 Diminuiti 29 73 Totale 40 100 Tabella 10 Numero di clienti N %

nessuno o uno 11 27 da 2 a dieci 22 55 >10 7 18 Totale 40 100 Gli imprenditori che stanno affrontando difficoltà più severe avendo solo uno o nessun

cliente sono undici (tabella 10). Uno di loro in particolare, la cui attività consiste nella costruzione di ponteggi, è stato costretto a mandare la moglie e i tre figli in Egitto. Con il denaro della sua attività ha acquistato una casa in provincia, ma non ha ora abbastanza danaro per far fronte alle spese di prima necessità e alle rate del mutuo. In Egitto, invece, è riuscito a comprare una casa e un terreno così da poter far fronte almeno in patria alle esigenze e ai bisogni della moglie e dei figli.

Tabella 11 I principali concorrenti secondo il periodo migratorio. Valori % dal 1970 al 1989 dal 1990 al 1997 dal 1998 al 2002

Nessuno 59 36 15 Connazionali 5 21 14 Altri stranieri 26 36 57 Italiani 5 0 14 Tutti 5 7 0 Nonostante la scarsa numerosità del campione si è scelto di rappresentare la tabella 11

secondo il periodo migratorio. In essa sono riportate le risposte alla domanda: “quali concorrenti teme di più?” Come si può notare, indipendentemente dal periodo di arrivo in Italia, gli altri

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stranieri attivi nel settore edile sono sentiti come pericolosi concorrenti per gran parte degli intervistati. Sostengono infatti che l’apertura a lavoratori provenienti dall’est Europa che applicano prezzi così bassi da non garantire margini di guadagno stia spiazzando il mercato edilizio. Ciononostante la sensazione di minaccia proveniente dai flussi migratori più recenti provenienti dall’Europa Orientale varia secondo il tempo di permanenza in Italia. Sono i nuovi arrivati a subirla maggiormente. Oltre la metà degli imprenditori arrivati tra il 1970 e il 1989 dichiara invece di non temere nessuno in particolare, né italiani né stranieri. Tali differenze possono essere addebitabili alla maggiore vulnerabilità delle giovani imprese. Tuttavia, una seconda spiegazione può essere quella fornita da uno degli intervistati. Consapevole del fatto che la crisi sta producendo i suoi effetti su tutta la popolazione, sa anche che per un lavoro di ristrutturazione gli individui scelgono il preventivo più basso. Ciononostante, afferma di rifiutarsi perentoriamente di abbassare i prezzi, perché ciò svalorizzerebbe il suo lavoro e lo renderebbe di qualità inferiore. Aggiunge inoltre che le nuove ditte possono praticare prezzi più competitivi al ribasso perché sfruttano la manodopera irregolare senza d’altro canto formarla adeguatamente. In questo senso i giovani imprenditori soffrono maggiormente la concorrenza sia perché non hanno consolidato la loro posizione sul mercato sia perché non possono ancora fare affidamento sulla qualità e l’esperienza del proprio lavoro.

A tutti gli intervistati è stato chiesto quali azioni politiche considerassero importanti per aiutare e sostenere l’imprenditorialità straniera. Un intervistato si è preoccupato della sua pensione, chiedendosi se quanto lo stato italiano preleva in forma fiscale per la futura pensione potrà essergli restituito quando, e se, in vecchiaia tornerà in Egitto. Un altro chiede una semplificazione per i permessi di soggiorno. La grande maggioranza degli intervistati però lamenta un’eccessiva pressione fiscale e il troppo elevato costo del lavoro. Inoltre, vorrebbe maggiori tutele rispetto ai crediti esigibili. D’altro canto tali problemi sono comuni ai lavoratori autonomi, indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza. Tutti gli intervistati infatti, anche uno degli imprenditori di successo hanno crediti, anche di notevole entità che non riescono a incassare. Uno dei nominativi segnalati dall’esponente sindacale, per esempio, fino a due anni fa aveva una ditta con più di venti dipendenti ed elevatissimi fatturati. Oggi invece non lavora da quasi un anno. e le grandi imprese per le quali ha lavorato continuano a non pagargli quanto gli spetterebbe. Nella stessa condizione versa anche il costruttore di ponteggi cui si accennava prima. Piuttosto diffusa è l’idea che in queste circostanze nel nostro paese non ci siano sufficienti difese e che specie gli immigrati di recente arrivo si trovino soli di fronte alla burocrazia.

Nonostante le grandi difficoltà, è solo una piccola minoranza (circa sei imprenditori) che pensa che in futuro sarà costretto a chiudere la propria azienda.

Fra i trentaquattro imprenditori con figli, oltre la metà preferirebbe che i figli studiassero e trovassero un lavoro diverso dal proprio, solo due di loro aspira ad un rientro in patria delle nuove generazioni.

Conclusioni

La provincia di Milano accoglie in Italia il gruppo più numeroso di cittadini stranieri di

nazionalità egiziana. Il tasso di imprenditorialità degli egiziani risulta in provincia piuttosto elevato ed è particolarmente vivace nei settori della ristorazione e dell’edilizia.

I risultati della presente ricerca confermano parzialmente quelli a cui sono giunti precedenti lavori: la comunità egiziana appare più una “non comunità”. I soggetti intervistati non partecipano alle attività di associazioni etniche, salvo quelle di tipo religioso che però non connotano l’appartenenza nazionale.

Progetti migratori di breve periodo tendono a trasformarsi in percorsi di stabilizzazione e integrazione permanente nella società ospitante, nonostante tutti gli intervistati mantengano stretti rapporti con il paese d’origine e investano nell’acquisto di una casa in Egitto. Quattro dei soggetti

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intervistati mantengono anche rapporti d’affari con imprese all’estero. Si tratta tuttavia di attività non collegate a quella svolta in Italia e di natura prevalentemente finanziaria.

Le attività imprenditoriali sono di tipo aperto: si sfruttano cioè segmenti di mercato nazionale che si sono liberati (o che non sono svolti dagli italiani) con clientela e fornitori tipicamente italiani. La scelta di autonomia è il risultato di una costrizione dell’esternalizzazione del mercato edilizio solo in un caso. La rete informale dei connazionali, ma anche le opportunità offerte dal mercato sono i motivi che stanno dietro alla scelta di specializzazione settoriale degli egiziani. Ciò è ampiamente dimostrato dal fatto che la maggior parte dei dipendenti dei soggetti intervistati appartengono alla stessa nazione.

Si è però notato che alcune differenze sono emerse nella struttura delle relazioni quando si è tenuto distinto il periodo migratorio. I pionieri (arrivati nella seconda metà degli anni settanta) e coloro che li hanno immediatamente seguiti (fino al 1989) hanno avuto minori possibilità di attivare le risorse e i legami nazionali e parentali, ciononostante hanno potuto contare su un più elevato capitale culturale rispetto a chi li ha seguiti. Inoltre, la classe sociale d’origine, nella maggior parte dei casi medio elevata, ha probabilmente fornito lo spirito d’intraprendenza necessario a superare le difficoltà linguistiche e gli svantaggi economici e sociali subiti all’arrivo in Italia prima, e la volontà di avviare e mantenere un’attività in proprio in seguito. Si potrebbero definire le loro attività imprenditoriali come “imprese aperte radicate”. Si tratta di iniziative solide, nonostante le difficoltà settoriali.

Nonostante la scarsa numerosità degli imprenditori arrivati dopo le regolarizzazioni del 1998 le attività svolte appaiono sempre tipiche di imprese aperte, che questa volta potremmo definire “strumentali”, invece che radicate. L’arrivo in Italia è stato per lo più agevolato dalla presenza di connazionali e parenti. L’Italia rappresenta un mito di successo economico in un breve lasso di tempo. In questo senso l’attività in proprio è strumentale al raggiungimento di questo obiettivo e continua a risentire della condizione di straniero (anche nei confronti dei potenziali concorrenti) nonostante sia rivolta a un mercato italiano.

Coloro che sono arrivati tra il 1990 e il 1998 si collocano in una posizione intermedia: sono vicini agli imprenditori radicati (in termini di capitale culturale), ma a quelli strumentali in termini di spinte attrattive verso l’Italia e come questi ultimi hanno potuto affidarsi a una rete etnica, tipicamente parentale, più solida.

I soggetti che intraprendono un percorso migratorio sono, in linea generale, diversi da coloro che restano in patria. Resta da comprendere se le differenze rilevate in questa indagine siano il frutto di tali diversità che connotano per ovvie ragioni i pionieri più degli altri o se si tratti invece di differenze legate al periodo di permanenza. In altre parole: il radicamento e l’integrazione (non solo in campo sociale, ma anche e soprattutto in campo economico) che si delineano nelle imprese e nelle attività autonome gestite dagli egiziani arrivati fino al 1989 sono da ricondurre alle loro caratteristiche individuali (capitale culturale, origini sociali, spirito di intraprendenza) o piuttosto sono stati determinati dal fatto che essendo in Italia da più tempo hanno ormai abbandonato qualunque progetto di rientro in patria? In questo secondo caso ci si aspetterebbe la stessa evoluzione anche fra gli imprenditori delle ondate successive.

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6. Imprenditori nord africani nel settore metalmeccanico a Modena e Reggio Emilia

Matteo Rinaldini (Università di Modena e Reggio Emilia)

Introduzione Il presente capitolo si suddivide in tre parti. La prima parte riguarda le caratteristiche del contesto socioeconomico e politico-istituzionale in cui si situano i processi di immigrazione. La seconda parte, invece, è dedicata alla descrizione dell’evoluzione dei processi migratori nei territori di Modena e Reggio Emilia. La terza parte, infine, riguarda il fenomeno dell’imprenditoria degli immigrati a Modena e Reggio Emilia. Ai risultati della ricerca sugli imprenditori marocchini, tunisini ed egiziani del settore metalmeccanico che si è svolta sul territorio di Modena e Reggio Emilia è dedicato l’ultimo paragrafo. 1 – Il tessuto socioeconomico e politico-istituzionale di Modena e Reggio Emilia 1.1 I sistemi distrettuali di Modena e Reggio Emilia e il nuovo scenario di crisi economica Specificità importante dei processi di immigrazione nelle province di Modena e Reggio Emilia è il loro radicamento in un “territorio a industria diffusa” (Rinaldini, 2003). Si tratta di processi migratori che si insediano in territori in cui il tessuto produttivo si contraddistingue per essere costituto da una molteplicità di imprese manifatturiere di piccole e medie dimensioni. In Emilia Romagna e in particolare a Modena e Reggio Emilia, quindi, il mercato del lavoro manifatturiero risulta essere un mercato del lavoro importante in cui si inseriscono gli immigrati. Ciò non significa che anche nel mercato del lavoro dell’agricoltura, del terziario, del lavoro di cura e delle costruzioni in senso stretto del territorio reggiano e modenese non siano presenti ingenti quote di lavoratori immigrati. Tuttavia, a differenza di altre aree del paese, il settore manifatturiero di questi territori ha esercitato in passato ed esercita ancora oggi una grande forza attrattiva nei confronti della manodopera straniera. La presenza dei distretti industriali e le opportunità di lavoro prodotte dai sistemi distrettuali di Modena e Reggio Emilia sono spesso state indicate come importanti determinanti della forza d’attrazione che il territorio esercita sui flussi migratori. Conviene, quindi, soffermarsi brevemente sul significato di distretto industriale e sulle caratteristiche che assume questa particolare forma economica nel territorio modenese e reggiano. La letteratura economica e sociologica sui “distretti industriali” è vasta. Con il trascorrere degli anni si sono moltiplicati gli sforzi per dare una definizione precisa di “distretto industriale” e in alcuni casi si è giunti alla messa a punto di specifiche procedure di tipo quantitativo per l’identificazione di ciò che può essere definito distretto e di ciò che invece non può essere definito tale (Sforzi, 1990). Secondo diversi studiosi, tuttavia, la definizione di distretto non è riducibile all’interno di una pura operazione di carattere statistico in quanto il distretto non risulta essere rappresentato solo dall’apparato produttivo (che peraltro di per sé, nel caso si tratti di un distretto, pone il problema dei confini settoriali), ma anche da un ambiente di relazioni sociali e di valori difficilmente misurabile (Brusco e altri, 1997). In alternativa ad un approccio di natura quantitativo, quindi, è stato proposta (Brusco e altri, 1997) una definizione di distretto industriale di più ampio respiro, in grado di contenere anche valutazioni di carattere qualitativo, largamente sovrapponibile al concetto di Sistema Produttivo Locale nell’accezione che Brusco ne ha dato: un insieme di imprese concentrate in un territorio delimitato, che producono direttamente o indirettamente per uno stesso mercato finale (Brusco, 1989). Una tale definizione, tuttavia, lascia significativi margini di discrezionalità nello stabilire ciò che risulta essere sistema distrettuale e ciò che non risulta esserlo e, soprattutto, apre alla possibilità di formulare tipizzazioni distrettuali esponendosi a rischi di ambiguità

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terminologiche. Il dibattito sulla definizione di distretto, dunque, non si è mai potuto considerare esaurito così come ancora in atto è la discussione sull’identificazione delle aree territoriali considerabili aree distrettuali. La stessa applicazione del concetto di “distretti industriali” ai clusters di imprese presenti sul territorio emiliano romagnolo è stata da più parti e a più riprese sottoposta a operazioni di precisazione e riclassificazione. Non essendo questa la sede per passare in rassegna in modo esaustivo il concetto di sistema distrettuale, né essendo intenzione di chi scrive riportare le numerose analisi della genesi, della struttura e della evoluzione dei distretti industriali emiliani, ci si limiterà a riportare la definizione di distretto industriale fornita da Beccattini e a tracciare per grandi linee le caratteristiche peculiari che presentano i distretti industriali emiliani. Secondo Becattini (1979) la morfologia di un sistema distrettuale può essere riconducibile a tre livelli: a) l’apparato produttivo; b) le istituzioni di collegamento tra apparato produttivo e comunità distrettuale; c) la cultura e i valori presenti nelle istituzioni di base ed elementari funzionali al comportamento distrettuale. Questi tre livelli, secondo lo stesso studioso, risultano interagire tra loro e proprio tale interazione costituisce “l’identità del distretto”, ossia la prima delle risorse distintive di un distretto industriale. La seconda delle risorse distintive, invece, è rappresentata dalle “risorse diffuse di organizzazioni produttive specificatamente orientate”, ovvero squadre di imprese organizzate intorno a imprese finali. La terza delle risorse distintive è costituita dalle “risorse di organizzazioni degli interessi per la mediazione tra una distribuzione del reddito che ha il consenso sociale e la competitività del distretto”. La quarta delle risorse distintive è costituita dalle “risorse di saper fare e saper apprendere come mediazione e mezzo di trasmissione tra la tradizione e il progresso tecnico”. La quinta risorsa, infine, è costituita dall’insieme di istituzioni di base o elementari e dal contesto politico-culturale in grado di trasmettere e tramandare valori e cultura funzionali alla riproduzione del distretto. Un distretto così definito comporta due importanti implicazioni: in primo luogo la sostanziale immobilità delle risorse necessarie a far sì che possa nascere un sistema distrettuale; in secondo luogo il fatto che gli aspetti culturali e valoriali a cui tale definizione fa riferimento – ai quali in una certa misura è possibile legare, come è stato fatto, anche concetti come capitale sociale e coesione sociale – risultano essere innervati in un tessuto sociale derivante da processi culturali e socio-economici di lunga durata (a la Braudel) e non tanto da politiche intenzionali. Tutto ciò renderebbe il distretto industriale, da una parte, una forma economica particolarmente delicata, in quanto il sistema distrettuale si regge su un preciso equilibrio tra risorse e interazioni, ma anche una forma economica dinamica e agile e, quindi, in grado di adattarsi a diversi scenari competitivi; dall’altra una forma economica non riproducibile (né tanto meno trasferibile), in quanto il sistema distrettuale rappresenta il prodotto (almeno in una certa misura) di risorse immobili, la cui genesi e combinazione sono fondate su un principio di “ambiguità causale” e di path dependence , ma allo stesso tempo e, anzi, proprio per questo, anche una forma economica attrattrice di forze esterne, le quali per sfruttarne il potenziale sono costrette a perseguire strategie di investimento nell’area distrettuale e non strategie di disgregazione e sradicamento di parte di essa dal contesto. Proprio a partire da ciò che si è riportato sopra o dalla sua parziale messa in discussione si è sviluppato, a partire dagli anni settanta, un ampio dibattito che di volta in volta ha toccato diversi aspetti del distretto industriale riducibili a due aree problematiche: le condizioni necessarie per la riproducibilità nel tempo e nello spazio del distretto industriale e le rispettive politiche (non solo economiche in senso stretto) di sostegno, promozione e sviluppo; le trasformazioni necessarie del sistema distrettuale per la sostenibilità del vantaggio competitivo a fronte dei mutamenti che hanno preso piede proprio a partire dagli anni settanta e i rispettivi costi economici e sociali che tali cambiamenti comportano (tra i quali anche lo snaturamento della forma economica distrettuale). Al di là del dibattito che si è sviluppato negli ultimi quaranta anni sui sistemi distrettuali, è largamente condiviso il fatto che una caratteristica importante del tessuto produttivo dell’area reggiana e modenese è la presenza di sistemi distrettuali con diverse specializzazioni. I principali e più noti distretti industriali dell’area sono quelli delle macchine agricole (zona di Modena e Reggio Emilia), del tessile e abbigliamento (zona di Carpi e Correggio) e della ceramica (zona di Sassuolo

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e Scandiano). Bertini (1995) individua tre caratteri essenziali della via all’industrializzazione di un “territorio a industria diffusa” come quello emiliano: a) uno sviluppo industriale “endogeno”, ovvero uno sviluppo basato su risorse materiali e immateriali tradizionalmente presenti sul territorio; b) uno sviluppo industriale “indigeno”, ovvero uno sviluppo portato avanti principalmente da attori locali fortemente legati al territorio; c) uno sviluppo industriale “spontaneo”, ovvero uno sviluppo basato sulle relazioni individuali e collettive tra attori situati sul territorio piuttosto che su grandi decisioni di investimenti provenienti dall’esterno. In letteratura, inoltre, sono frequentemente indicati diversi altri fattori genetici caratteristici dei distretti reggiani e modenesi tra i quali: il passato agricolo e, in particolare, la diffusione della forma di produzione mezzadrile e della rispettiva cultura; la presenza, sempre nel passato (negli anni cinquanta), di “impianti incubatori” (di cui le OMI Reggiane costituiscono un esempio calzante); il ruolo svolto dalle istituzioni politiche, amministrative ed economiche del territorio per agevolare la condivisione delle risorse presenti nel distretto; un clima di relazioni industriali particolarmente favorevoli (dove per favorevoli non si intende necessariamente a-conflittuali) (Bertini, 1995; Bianchi, 1997; Brusco, 1989; Nuti, 1992). Oltre che sugli aspetti genetici, molti studiosi si sono poi concentrati sulle caratteristiche che hanno assunto con il passare del tempo i distretti emiliani e in particolare quelli modenesi e reggiani. Anche in questo caso la letteratura è vasta, ma la raccolta di ricerche curata da Cossentino, Pyke e Sengenberger (1997) offre la possibilità di sintetizzare, seppur con una inevitabile operazione riduzionista, alcune importanti caratteristiche dei distretti industriali emiliani così come si presentavano nell’ultimo decennio del secolo scorso. Gli autori, rifacendosi ai contributi di ricerca di diversi altri studiosi, sottolineano diversi aspetti di rafforzamento delle entità distrettuali emiliane e altri aspetti di potenziale logoramento. Tra i primi sono annoverati: il persistente dominio all’interno dei sistemi distrettuali delle piccole imprese; la capacità dei distretti modenesi e reggiani di mantenere la capacità competitiva sui mercati internazionali acquisita in passato e la conferma della loro integrazione nel mercato globale; la produzione della crescita del reddito in misura superiore rispetto alla media nazionale (nei settori di appartenenza dei distretti); la creazione all’interno di sistemi distrettuali di occupazione in misura significativamente maggiore rispetto alla media nazionale anche durante le congiunture economiche negative; la capacità dei sistemi distrettuali di mantenere un basso tasso di disoccupazione (molto più basso di quello nazionale). Tra gli aspetti di potenziale logoramento, invece, sono indicati: l’aumento della concentrazione industriale e dunque la risposta alla pressione competitiva globale attraverso una maggior influenza delle imprese maggiori sulle imprese minori; la tendenza all’entrata all’interno dei sistemi distrettuali di imprese multinazionali attraverso la graduale acquisizione di imprese locali; la presenza sempre più significativa all’interno dei distretti di processi di decentramento produttivo verso aree del mondo dove è possibile trarre vantaggio da più bassi costi del lavoro. A questi aspetti di potenziale logoramento delle entità distrettuali pare necessario aggiungere anche il ruolo più leggero delle istituzioni politiche ed amministrative del territorio che non sembravano più in grado di esercitare la stessa funzione esercitata nei decenni precedenti e il brusco cambiamento delle relazioni industriali rispetto al passato (Brusco e Russo, 1992). Alla vigilia del nuovo secolo, dunque, lo stato di salute dei distretti di Modena e Reggio Emilia si presentava in chiaroscuro. Negli anni successivi le tendenze di trasformazione individuate durante gli anni novanta si rafforzarono e sempre più spesso si sarebbe parlato di crisi strutturale in riferimento ad alcuni distretti del territorio (come quello del tessile e abbigliamento di Carpi e Correggio) o di inadeguatezza del concetto di distretto per descrivere ciò che erano diventate le realtà produttive territoriali. Allo stesso tempo, però, si consolidarono anche le tendenze che, come scritto sopra, durante gli anni novanta erano state ritenute essere indicatori di consolidamento e maturazione dei sistemi distrettuali di Modena e Reggio Emilia. Si è già scritto quanto la propensione all’export sia risultata essere un carattere centrale dei sistemi distrettuali emiliani. Proprio questa caratteristica negli anni precedenti alla crisi del 2008 sembra essersi accentuata. Rispetto al 2001, nel 2008 la crescita dell’export delle imprese del territorio modenese si attestava poco al di sotto del 40%, variazione tra le più significative nel panorama

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nazionale. Le quote più consistenti del mercato estero risultavano essere intercettate dal settore meccanico tradizionale (i cui prodotti da soli hanno intercettato quasi un terzo dei mercati esteri modenesi), dal settore ceramico (nonostante negli ultimi anni abbia perso una parte del suo appeal estero), dal settore dei mezzi di trasporto e in misura minore dal settore del tessile e abbigliamento e dal settore alimentare (Venuti, 2009). Risultava simile la tendenza per quel che riguarda l’export delle imprese reggiane nello stesso arco di tempo considerato (2001 - 2008), anche se in questo caso già nel 2007 si registrava una flessione delle esportazioni (dunque un anno prima della crisi economica). Nel caso reggiano le quote più consistenti del mercato estero risultavano essere intercettate dal settore dei macchinari industriali (i cui prodotti da soli intercettano quasi un terzo dei mercati esteri reggiani), dal settore dell’abbigliamento, dal settore delle apparecchiature elettriche ed elettroniche e dal settore alimentare (Freddi, 2010). In generale, negli ultimi 15 anni la destinazione delle esportazioni modenesi e reggiane ha subito un significativo mutamento: a un calo, seppur lieve fino all’ultimo periodo, della proporzione delle esportazioni destinate ai Paesi dell’Unione Europea, ha corrisposto la crescita delle esportazioni verso i Paesi extra UE (in particolare Turchia, Russia, USA e Marocco), passati dal 5% nel 1995 al 10% nel 2009 (Freddi, 2010; Venuti, 2009). La produzione e il fatturato del settore industriale dell’area reggiana e modenese hanno conosciuto a partire dall’inizio del nuovo secolo anni di costante crescita. La natimortalità delle imprese, altro indicatore importante della salute dei sistemi distrettuali, registrava ogni anno saldi positivi (Istat; Sistema Unioncamere Emilia Romagna). Riguardo al livello di PIL pro-capite delle aree considerate, fino al 2008 le provincie di Modena e di Reggio Emilia si posizionavano costantemente all’interno delle prime 10 province italiane. Questo dato, unito al fatto che il tasso di disoccupazione nelle province di Modena e Reggio Emilia registrava fin dalla fine degli anni novanta livelli frizionali, che da anni si registrava un tasso di occupazione tra i più elevati nel Paese pur in presenza di un tasso di attività elevato sia per le donne che per gli uomini, restituisce un quadro dell’area modenese e reggiana di inizio secolo che riflette un alto livello di benessere diffuso (Freddi, 2010; Venuti, 2009). Solo con la crisi economica iniziata nel 2008 gli indicatori hanno cominciato a registrare elementi di criticità. Nel 2009 il volume delle esportazioni è calato drasticamente rispetto agli anni precedenti. Sia i dati Istat che quelli Unioncamere hanno registrato un calo costante del’export delle imprese del territorio durante il corso del 2009 e timide riprese durante il 2010. La tendenza ad un complessivo calo del volume delle esportazioni, tuttavia, non sembra essere circoscritta ai territori del reggiano e del modenese, ma sembra essere diffusa in tutte le province della regione Emilia Romagna (e in generale di tutto il Paese). Gli indicatori di produzione e fatturato hanno mostrato durante il 2009 e il 2010 una forte flessione, anche se molto differente a seconda dei settori di riferimento: il settore agroalimentare, ad esempio, ha mostrato una sostanziale tenuta; il settore metalmeccanico e quello ceramico sono andati in grande sofferenza; il settore dell’edilizia e delle costruzioni ha, invece, registrato un crollo verticale sia per quel che riguarda la produzione che per quel che riguarda il fatturato al punto che in molti intravedono nei dati congiunturali del settore il preludio di un cambiamento strutturale. Ciò che inoltre appare come un cambiamento importante rispetto al passato è il saldo negativo della natimortalità delle imprese registratosi nel 2009 dopo molti anni di saldo positivo (Istat; Sistema Unioncamere Emilia Romagna). Nelle graduatorie per provincia relative al PIL pro-capite nel 2009 la provincia di Modena si collocava in terza posizione a livello regionale, ma Reggio Emilia, che sembra essere stata colpita in modo più pesante dalla crisi economica, registrava nel 2009 il terzo più basso valore di Pil pro-capite della regione. Per la prima volta dopo molti anni, inoltre, il tasso di disoccupazione è significativamente cresciuto attestandosi al 5% nella provincia di Reggio Emilia e al 5,2% nella provincia di Modena (i tassi di entrambe le province, tuttavia, erano - e sono ancora oggi - ancora molto più bassi rispetto al tasso di disoccupazione italiano che si attestava nello stesso anno al 7,8%). Ciò che sembra però rappresentare più di ogni altro indicatore lo stato di sofferenza in cui versa il sistema socioeconomico modenese e reggiano sono i dati relativi alla cassa integrazione:

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nell’area modenese e reggiana l’ammontare delle ore di CIGO e CIGS nel 2009 risulta essere tra le più elevate d’Italia. E’ evidente, quindi, che oggi la realtà modenese e reggiana pur registrando performance economiche superiori alla media nazionale risulta essere in grande sofferenza. Se la crisi economica determini o meno la necessità di “ripensare” strutturalmente il tessuto produttivo dei sistemi distrettuali è materia di dibattito, come del resto è materia di dibattito se la crisi economica sia destinata ad innestare trasformazioni in tutto il contesto socio-economico del territorio a partire proprio da quelle istituzioni che hanno contraddistinto in passato i sistemi distrettuali emiliani. 1.2 Il tessuto socio-economico e istituzionale di Modena e Reggio Emilia a fronte del fenomeno immigrazione Al di là delle trasformazioni del tessuto produttivo che la crisi economica è destinata o meno a produrre o ad accentuare nelle aree di Modena e Reggio Emilia, questi due territori sono riusciti nel passato recente e ancora oggi riescono ad esercitare una notevole forza attrattiva nei confronti dei flussi migratori. In diverse occasioni, nel descrivere le peculiarità dell’inserimento degli immigrati nel tessuto sociale dell’area reggiana e modenese, è stata sottolineata l’importanza del ruolo del tessuto istituzionale locale. Sin dalla fine degli anni ’80, il momento in cui l’Emilia Romagna ha cominciato a conoscere le prime consistenti ondate di immigrati stranieri, le province di Modena e Reggio Emilia si sono distinte per la prontezza con cui hanno attivato iniziative e strategie di inserimento sociale dei nuovi arrivati. Uno dei caratteri distintivi dei territori in questione è stato quello di non limitarsi ad un approccio emergenziale verso la questione migrazione, ma di andare oltre adottando un approccio di integrazione strutturale e riconvertendo risorse e strutture in rapporto a nuove tipologie di problemi che i nuovi arrivati ponevano (Mottura e Rinaldini, 2003). Nel sostenere ciò non ci si riferisce unicamente alle strutture amministrative delle due province, ma anche a gran parte delle organizzazioni del territorio coinvolte in diversa misura nella governance locale. Già a partire dagli anni ’90 le Amministrazioni locali delle due province si sono mostrate fortemente attive in questo senso. Nel modenese il Comune di Nonantola è stato il primo Comune in Italia ad introdurre il consigliere comunale aggiunto straniero (eletto dai residenti immigrati) e per molti anni è stato l’unico Comune ad avere sperimentato questa forma di rappresentanza. Nel 1993 a Modena è stato istituito il Forum provinciale dell’immigrazione e nel 1996 è nata la Consulta Comunale degli stranieri residenti come organo della Giunta e del Consiglio comunale. Sempre nel 1996 il CNEL ha definito Modena “laboratorio nazionale per le politiche migratorie” (Ibidem, 2004). Nel reggiano durante gli stessi anni sembra essere stata la Provincia ad avere assunto un ruolo da protagonista sul tema immigrazione (Ibidem, 2004). Un indubbio merito della legge Turco-Napolitano è stato quello di avere istituito delle risorse dedicate al tema dell’integrazione sociale degli immigrati (il Fondo Nazionale delle Politiche Migratorie che durerà dal 1999 al 2003 per poi confluire nel Fondo Nazionale Politiche Sociali). A partire, quindi, dall’anno 2000, la Regione Emilia-Romagna ha potuto proporre annualmente (dapprima avendo solo le Province come soggetti attuatori) un “Programma regionale delle attività per l’integrazione degli immigrati” attraverso risorse previste a livello nazionale, integrate da risorse regionali per un ammontare di circa 2.500.000 euro l’anno (Stuppini, 2010). Nei primi anni di programmazione la Regione ha destinato più del 50% delle risorse disponibili a tre aree di intervento: a) una serie di interventi in ambito scolastico; b) la realizzazione ed il consolidamento di centri specializzati ed informativi per cittadini stranieri che i comuni hanno realizzato prevalentemente su base distrettuale individuando una sede centrale ed alcuni sportelli decentrati nei comuni più piccoli (si tratta di una rete diffusa su tutto il territorio che oggi conta 140 centri informativi su 341 comuni); c) il consolidamento e lo sviluppo delle attività specifiche di mediazione interculturale nei servizi (Ibidem, 2010). Successivamente all’approvazione della Legge 189/2002 (Legge Bossi Fini) la Regione Emilia Romagna ha deciso di modificare il proprio impianto normativo in materia di immigrazione. Nel corso del 2003 si è sviluppata un’intensa fase

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di confronto con tutti i soggetti interessati e la legge regionale è stata definitivamente approvata dal Consiglio regionale nel marzo 200463.A seguito dell’approvazione della Legge Regionale 5/2004, la Regione ha approvato due programmi triennali di attività: il primo, varato nel febbraio 2006, ha coperto il triennio 2006/2008; mentre il secondo, varato nel dicembre 2008, ha coperto il triennio 2009/2011 (Ibidem, 2010). Nel primo programma triennale la Regione ha finalizzato gli sforzi nell’implementazione delle azoni di rilevazione delle implicazioni di una materia che si stava sviluppando ed articolando sempre di più per poter svolgere al meglio la propria funzione di programmazione. Il secondo programma triennale della Regione si è focalizzato, invece, sull’obiettivo della coesione sociale. Dal punto di vista amministrativo il tentativo è stato quello di evitare un’eccessiva frammentazione dei progetti, con il rischio di una loro dispersione e di un’eccessiva separazione tra accesso ai servizi e nuove progettualità. Sono state quindi individuate tre grandi priorità generali: alfabetizzazione, mediazione ed antidiscriminazione (Stuppini, 2010). A partire dai primi anni del secolo, quindi, la Regione Emilia Romagna ha svolto una azione di orientamento e coordinamento delle politiche e degli interventi in materia di immigrazione. Il principio base a cui l’azione della Regione si è ispirata è stato quello di evitare la costruzione di un sistema di welfare (ma anche sanitario e scolastico) parallelo per gli stranieri. Con il passare del tempo e con la creazione di nuovi strumenti di governance locale, l’intreccio tra livello comunale, provinciale e regionale sembra essere diventato più stretto e più complesso. In altri termini i Piani di Zona, i Piani Territoriali di Intervento e i Tavoli di Concertazione hanno svolto sempre di più la funzione di integrazione tra i diversi livelli amministrativi e tra diverse zone amministrative e, soprattutto, hanno assunto un ruolo centrale nell’indirizzare le politiche e gli interventi rispetto alla questione immigrazione e nel coinvolgimento di attori e organizzazioni del territorio. Non a caso un altro tratto distintivo dei territori provinciali di Modena e Reggio Emilia (e in generale di tutta l’Emilia Romagna) è il coinvolgimento e la forte interdipendenza tra gli enti locali e gli attori del privato sociale presenti sul territorio non solo a livello di finanziamento economico ma anche a livello progettuale e gestionale degli interventi. Ciò non significa naturalmente che tutti gli interventi e le azioni messe in atto durante gli ultimi anni siano state frutto di concertazione e accordi tra i diversi attori e gli enti locali. E’ vero, tuttavia, che nelle province di Modena e Reggio Emilia gli interventi promossi da quella parte del terzo settore (associazioni di volontariato, cooperative sociali, ecc …) che si occupa in diverso modo di immigrazione risultino essere fortemente integrati con l’azione delle Amministrazioni locali. Le stesse associazioni degli immigrati nelle due province rappresentano una realtà importante (anche su un piano meramente numerico) con la quale le istituzioni del territorio sembrano avere costruito negli anni un solido rapporto (anche se non privo di elementi di criticità) (Mottura, 2003; Mottura, Pintus e Rinaldini, 2011). Relativamente alle organizzazioni sindacali, è noto come in Emilia Romagna risulti esserci il tasso di sindacalizzazione della popolazione immigrata più alto in Italia (Caritas/Migrantes, 2010). Diversi studi hanno enfatizzato come i sindacati in Emilia Romagna siano stati tra i primi in Italia a prendere atto dei cambiamenti che si stavano verificando a causa dei processi di immigrazione tra la popolazione e come abbiano avuto la capacità di organizzare le proprie strutture per far fronte a tali trasformazioni fin dalla fine degli anni ottanta (Basso, 2004; Mottura e Pinto, 1996). Il rapporto tra la popolazione immigrata e la CGIL dell’Emilia Romagna, la confederazione territoriale che conta in termini assoluti più iscritti immigrati in Italia, è stata in più occasioni studiato (Mottura, 2002; Mottura, Cozzi e Rinaldini, 2010; Rinaldini, 2008). All’interno di questo scenario le CGIL dei territori di Modena e Reggio Emilia si distinguono per avere le percentuali di iscritti immigrati più alte in regione, per essere centri di aggregazione per gli immigrati residenti sul territorio (iscritti e non iscritti) (Pintus e Rinaldini, 2010) e per essere state tra le prime strutture territoriali in regione ad essersi attrezzate per accogliere e rappresentare quelli che sono stati definiti da Mottura e

63 L.R. N.5/2004. BUR N.40 del 25 marzo 2004. La legge contiene un impianto culturale basato sul concetto di parità di diritti e doveri in una linea di “interculturalità”. Non si iscrive, quindi, nel filone culturale delle affirmative actions di stampo anglosassone (cioè dare di più, in termini di garanzie minime, ai soggetti più deboli).

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Rinaldini (2009) i “nuovi soggetti sociali” per il sindacato. Anche le associazioni imprenditoriali del territorio hanno mostrato negli anni passati una certa sensibilità nei confronti del fenomeno immigrazione. Oltre ai numerosi studi promossi a partire dagli anni novanta, spesso le associazioni imprenditoriali della regione sono state coinvolte all’interno di pratiche di governance locale e altrettanto spesso sono state protagoniste nel dibattito pubblico sulla questione immigrazione. Nonostante ciò, non si sono registrati, fatta eccezione per lo sportello CNA-World della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, interventi specifici delle organizzazioni imprenditoriali sulle proprie strutture locali per far fronte alla crescita della popolazione immigrata in regione (né nei confronti dei lavoratori impiegati nelle imprese associate, né nei confronti degli imprenditori immigrati). Indubbiamente il susseguirsi di governi di sinistra e centro-sinistra nelle due province di Modena e Reggio Emilia (oltre che della Regione Emilia Romagna) ha lasciato un segno sul sistema governance che si è sviluppato in queste aree territoriali e in particolare sul tipo di politiche in materia di immigrazione che sono state implementate a livello locale. La questione di quanto la continuità politica a livello amministrativo abbia influito sul tipo di approccio al fenomeno migratorio meriterebbe di essere indagata più a fondo, ma per tutto ciò che è stato scritto sopra anche in riferimento ai distretti industriali territoriali, è lecito domandarsi, come fanno Mottura e Rinaldini (2003), se la ricchezza economica delle due città, basata su un tessuto industriale e produttivo moderno, e il peso della tradizione politica di sinistra che in passato ha messo al centro il valore della solidarietà dei lavoratori stiano alla base del fatto che spesso i lavoratori immigrati, oltre ad essere stati ricercati (wanted) risultino essere stati, almeno in un primo momento, anche benvenuti (welcome). E’ altrettanto lecito domandarsi, tuttavia, quanto questo tipo di governance e questo tipo di orientamento nei confronti degli immigrati e della questione immigrazione siano destinate a rimanere tali a fronte delle profonde trasformazioni del tessuto produttivo che si sono verificate in questi ultimi anni (e di cui si è accennato nelle pagine precedenti), del continuo incremento della popolazione immigrata (come si capirà nelle pagine successive), dei cambiamenti avvenuti su un piano politico-culturale all’interno degli stessi partiti di sinistra e di centro-sinistra e, non ultimo per importanza, della crescita a livello locale delle formazioni politiche di destra e centro destra. Nelle tornate elettorali più recenti, infatti, i partiti di centro destra sono indiscutibilmente cresciuti e hanno aumentato il loro peso sul territorio. Nei due comuni capoluogo lo schieramento di centro-sinistra, pur mantenendo una larga maggioranza, è arretrato elettoralmente a favore dei partiti dello schieramento opposto. Alcune amministrazioni comunali delle provincie di Modena e Reggio Emilia, inoltre, hanno cambiato segno e sono oggi amministrati da partiti di centro destra. E’ la Lega Nord in particolare ad essere sorprendentemente cresciuta negli ultimi anni soprattutto a Reggio Emilia. L’immigrazione è stata una delle principali questioni su cui le ultime campagne elettorali a livello locale si sono concentrate. Grande spazio, infatti, è stato dato al fenomeno migratorio e alle caratteristiche che presenta la presenza immigrata sul territorio. Ciò che è stato notato dopo i risultati elettorali, tuttavia, è che la crescita elettorale della Lega Nord nei comuni delle due provincie non sembra presentare delle correlazioni significative rispetto alla presenza degli immigrati. In altri termini la crescita elettorale della Lega Nord non è avvenuta nei comuni dove la presenza degli immigrati risulta essere più alta. Al contrario la Lega Nord si è affermata in particolare nei comuni della zona della montagna e nelle aree del distretto ceramico, dove la presenza degli immigrati è tra le più basse. Tuttavia, è stato fatto notare, in quelle zone si è registrata negli ultimi anni una crescita della popolazione immigrata maggiore rispetto ad altre zone del territorio di Modena e Reggio Emilia e questo potrebbe avere avuto un certo peso nell’affermazione della Lega. E’ interessante, comunque, il fatto che sia nel caso di Modena che nel caso di Reggio Emilia le criticità attribuite al fenomeno immigrazione all’interno dei discorsi pubblici dei diversi schieramenti durante il periodo elettorale non solo sono state le stesse, ma hanno anche mostrato la medesima tendenza a trasformarsi verso una direzione precisa. Il binomio criminalità-immigrazione, infatti, pur rimanendo una costante all’interno dello spettro delle problematiche individuate dallo schieramento dei partiti di centro-destra a livello locale è stato gradualmente assunto come problema anche dallo schieramento di centro-sinistra

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(anche se a dire il vero è stato declinato in termini differenti rispetto allo schieramento opposto). Contemporaneamente nel discorso portato avanti dallo schieramento di centro-destra sembra trovare sempre più spazio la questione immigrazione e welfare locale. Non a caso la questione a cui il centro-destra ha rivolto l’attenzione durante le recenti elezioni amministrative è stato quello dell’accesso degli immigrati alle case popolari e dei figli degli immigrati agli asili nido e alle scuole dell’infanzia comunali. Il protrarsi del momento di crisi economica lascia supporre che queste tematiche siano destinate ad essere sempre più presenti ed oggetto di confronto all’interno dell’arena politica locale. Andall (2007), tuttavia, ben prima dell’inizio della crisi economica internazionale, attraverso l’esposizione dei risultati di una ricerca sulle condizioni di lavoro degli immigrati impiegati in piccole imprese effettuata in una regione italiana caratterizzata dalla presenza di distretti industriali, sosteneva che fattori come la trasformazione della regolamentazione del mercato del lavoro e le nuove politiche in materia di immigrazione contribuivano in modo significativo a peggiorare le condizioni di lavoro degli immigrati impiegati nelle piccole imprese dei sistemi distrettuali. Proprio questi fattori, secondo Andall, contribuirebbero a minare alla base la coesione sociale che ha contraddistinto i contesti in cui i distretti industriali si sono sviluppati. Tutto ciò, quindi, rappresenterebbe un problema per i sistemi distrettuali e per il mantenimento del loro livello di competitività a prescindere dal periodo di crisi. 2 – Il fenomeno migratorio a Modena e Reggio Emilia 2.1 Evoluzione dei flussi di immigrazione straniera a Modena e Reggio Emilia Durante gli anni novanta le province di Modena e Reggio Emilia si sono affermate come territori fortemente attrattivi nei confronti dei flussi migratori internazionali. L’inizio del fenomeno di immigrazione però è situabile almeno due decenni prima: già durante gli anni settanta, infatti, a Modena e Reggio Emilia i flussi migratori provenienti dall’estero si sovrapponevano a quelli provenienti dalle regioni del sud Italia e nel corso della prima parte degli anni ottanta la presenza di immigrati stranieri aumentò costantemente (Rinaldini, 2008)64. A cavallo della L. 943/86 e della relativa micro-sanatoria, la presenza la popolazione immigrata a Reggio Emilia e a Modena, come in tutto il resto d’Italia, crebbe considerevolmente. Se nella prima parte del decennio l'incremento medio annuo di cittadini stranieri in Italia aveva segnato il 9%, nel biennio 1987-1988 l'incremento si attestò al 22%. In Emilia Romagna si verificò la stessa tendenza leggermente più accentuata: si passò da un incremento medio annuo dell'8% durante la prima parte degli anni ottanta ad un incremento del 23% nel biennio 1987-198865. All’interno della regione i centri industriali di Parma, Modena, Reggio Emilia e Bologna cominciarono a distinguersi come poli attrazione per i flussi migratori (Montanari, 1990). Gli anni immediatamente seguenti il 1990, in un clima politico-sociale diviso tra atteggiamenti allarmistici e solidaristici, la sanatoria legata alla L. 39/1990 (Legge Martelli) portò alla regolarizzazione di più di 200.000 immigrati su tutto il territorio nazionale. Nello stesso periodo si registrò un incremento importante degli stranieri nel territorio di Reggio Emilia e Modena66.

64 I primi immigrati stranieri provenivano prevalentemente dai paesi del nord Africa (in particolare dall’Egitto e dal Marocco) (Einaudi, 2007; Grappi e Spagni, 1981). La quantificazione dell’entità del fenomeno migratorio in questa prima fase costituisce un aspetto problematico in quanto le cifre disponibili sono contraddittorie. Le rilevazioni non erano effettuate dagli Enti Locali in maniera sistematica e questo ha comportato inevitabilmente un gap di conoscenza del fenomeno sul piano quantitativo. Solo a partire dai primi anni ‘80 sono stati svolti studi e sono state effettuate rilevazioni e analisi dei dati disponibili. Il censimento del 1971, tuttavia, aveva mostrato che in Emilia Romagna risiedevano già a quella data 7.358 stranieri. Dieci anni dopo il numero di stranieri residenti in regione era raddoppiato: al censimento del 1981 gli stranieri erano 16.086 (Montanari, Angeli e Pasquini, 1987). 65 Più che di una vera e propria crescita della presenza reale degli immigrati, si trattò dell’emersione da una condizione di irregolarità di una parte di immigrazione che fino ad allora era sfuggita alle rilevazioni. 66 A Reggio Emilia al 31-08-1990, circa due mesi dopo l’entrata in vigore della sanatoria, risultavano presenti 3.813 cittadini stranieri e al 30.06.1991, solo dieci mesi dopo, il numero era salito a 5.074; a Modena si registrò un aumento di proporzioni simili anche se l’incidenza degli stranieri sul totale della popolazione risultava più bassa rispetto a quella che si registrava a Reggio Emilia (Zanaboni e Guerra, 2000).

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Nonostante la sensazione diffusa fosse quella di una crescita sostenuta e veloce degli arrivi degli immigrati, si trattava in realtà dell’emersione di immigrati da una situazione di irregolarità del soggiorno più che del vero e proprio arrivo di “nuovi immigrati” dall’estero. Ciò che, tuttavia, cominciava ad emergere con sempre più nitidezza era il fatto che, in un quadro generale in cui gli immigrati, una volta acquisito il permesso di soggiorno, tendevano a spostarsi verso il nord Italia, Reggio Emilia e Modena esercitavano nei confronti di questa “migrazione nella migrazione” una forte forza attrattiva. Tutte le regioni della “terza Italia” con i relativi centri urbani di media dimensione e i tessuti produttivi ad industria diffusa svolgevano una funzione attrattiva nei confronti dei flussi migratori e i territori di Reggio Emilia e di Modena, in cui le piccole e medie imprese manifatturiere da anni avevano cominciato a lamentare carenza di manodopera, si ponevano come meta ideale per un flusso di immigrati in cerca di una stabilizzazione lavorativa. Dal 1991 al 1998 i cittadini stranieri residenti nella provincia di Reggio Emilia che possedevano un permesso di soggiorno passarono da 6.142 a 13.308 unità, mentre a Modena da 8.373 a 15.238 (RER, 2005). Quattro anni dopo, successivamente alla sanatoria legata alla Legge 40/1998 (Legge Turco-Napolitano, in seguito trasfusa nel T.U. 286/1998) e alla vigilia della Legge 189/2002 (Legge Bossi-Fini) gli immigrati regolarmente residenti nelle province di Modena e Reggio Emilia erano rispettivamente 23.605 e 20.200 (RER, 2005). Se gli anni a cavallo del secolo furono anni di importante crescita della popolazione immigrata sul territorio delle due province (in un contesto italiano che vedeva una crescita sostenuta su tutto il territorio nazionale), fu il periodo successivo alla Legge 189/2002 (Legge Bossi-Fini) e alla rispettiva sanatoria che ha segnato un passaggio decisivo per il volume della presenza degli immigrati a Reggio Emilia e a Modena. Nella provincia di Reggio Emilia alla fine del 2003 gli immigrati residenti risultavano quintuplicati rispetto al 1993. In un solo anno, inoltre, la popolazione immigrata sul territorio crebbe di circa 10.000 unità (da 20.000 nel 2002 a più di 30.000 nel 2003). A Modena nello stesso anno si registrò un trend simile: più 13.000 unità (da 25.000 a più di 38.000) (RER, 2005). Negli anni successivi le provincie di Modena e Reggio Emilia hanno registrato una incidenza di residenti immigrati sul totale della popolazione residente tra le più elevate in Italia. Al 31/12/2007, in un quadro nazionale di forte crescita della popolazione immigrata, gli immigrati regolarmente residenti a Reggio Emilia e a Modena ammontavano rispettivamente a 52.420 e a 67.320, l’anno dopo a 59.429 e 76.282 e al 31/12/2009 a 64.511 e 82.596 (RER, 2010). Le due provincie di Reggio Emilia e Modena possedevano nel 2009 l’incidenza in percentuale dei cittadini stranieri sul totale della popolazione provinciale più elevata in regione dopo Piacenza (rispettivamente del 12% e dell’11,5%)67. A partire dal 2008 Reggio Emilia e Modena, rispetto alle altre province dell’Emilia Romagna, hanno registrato il maggior numero di cittadini stranieri residenti con un permesso di soggiorno di lunga durata (Reggio Emilia, 17.873; Modena, 18.018) e le incidenze in percentuale più alte di possessori di un permesso di lunga durata sul totale della popolazione immigrata (Reggio Emilia, 18,6%; Modena, 18,8%).

Nell’ultimo decennio il numero di acquisizioni della cittadinanza italiana nelle due province è risultato essere in termini assoluti secondo e terzo solo a Bologna (ma se si considera il numero di acquisizioni della cittadinanza rispetto al numero di immigrati residenti in provincia, Modena e Reggio Emilia si collocano tra le prime posizioni in Italia). Una differenza significativa tra Modena e Reggio Emilia riguarda i primi cinque paesi di provenienza degli immigrati: a Modena i primi cinque paesi di provenienza degli immigrati risultano essere Marocco, Romania, Albania, Tunisia e Ghana; a Reggio Emilia invece risultano essere Marocco, Albania, India, Cina e Romania. In generale l’incidenza della componente rumena sul totale della popolazione immigrata nelle due province è cresciuta notevolmente a partire dal 2003. Incrementi simili hanno riguardato la componente moldava e quella ucraina (anche se tali componenti non rientrano all’interno delle prime cinque nazionalità presenti nelle due province).

67 In molti comuni del modenese e del reggiano l’incidenza degli immigrati sul totale della popolazione provinciale oggi supera abbondantemente il 15% e in alcuni anche il 20%.

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Risultano evidenti, quindi, le caratteristiche del recente cambiamento della popolazione immigrata presente sul territorio per quel che riguarda le provenienze geo-culturali: nonostante la componente magrebina della popolazione immigrata (e più in generale la componente nord-africana) mantenga ancora oggi il primato, negli ultimi anni la componente della popolazione immigrata proveniente dai paesi dell’Europa centro-orientale (e più in particolare dai paesi ex-socialisti) risulta essere in forte crescita. Già da diversi anni nell’area reggiana e modenese circa il 50% degli immigrati regolarmente residenti erano donne. Nel complesso dunque si è registrato un processo di sostanziale equilibrio tra i generi, anche se la composizione di genere varia molto da una nazionalità all’altra: nettamente prevalenti le donne tra gli immigrati ucraini e moldavi; rapporto tra generi sostanzialmente equilibrato tra gli immigrati rumeni; negli altri gruppi nazionali, invece, la componente maschile risulta essere sempre prevalente (RER, 2010). Reggio Emilia e Modena risultano essere anche le due province in Emilia Romagna con le percentuali maggiori di minori stranieri sul totale della popolazione immigrata residente. Nel 2008 Reggio Emilia i minori stranieri rappresentavano il 25,7% del totale degli immigrati residenti, mentre a Modena il 24,7% (nel 2008 la media regionale era del 23,1%). I minori stranieri inseriti nel sistema scolastico (comprensivo degli asili nido e delle scuole dell’infanzia) nelle due province risultano essere a Reggio Emilia il 6,85% del totale dei minori inseriti e a Modena il 6,56%. E’ evidente, dunque, che il fenomeno migratorio nelle provincie di Reggio Emilia e Modena si presentava alla vigilia della crisi come un fenomeno fortemente dinamico (e, come si capirà meglio nei prossimi paragrafi, anche complesso). Le caratteristiche dell’immigrazione nei territori di Modena e Reggio Emilia sono mutate diverse volte durante i 30 anni passati. In riferimento al solo dato quantitativo, ciò che risulta significativo è la velocità con cui il fenomeno dell’immigrazione è nato, si è affermato ed è cresciuto nell’area presa a riferimento e soprattutto la capacità del tessuto economico e sociale di assorbire un così grande flusso di nuovi venuti. Non ci si scordi, infatti, che parallelamente al flusso di immigrati stranieri Reggio Emilia e Modena in questi ultimi trenta anni hanno rappresentato la meta anche di un ingente flusso migratorio proveniente dal sud Italia. Reggio Emilia è una delle città capoluogo (oltre che una delle province) in Italia la cui popolazione residente è cresciuta di più negli ultimi 15 anni. La popolazione delle due province, quindi, è cambiata profondamente e proprio all’interno di questo generale cambiamento demografico si inserisce l’immigrazione straniera. Rispetto ai dati qualitativi del processo, invece, è evidente che le caratteristiche dei flussi migratori nei territori di Modena e Reggio Emilia lasciano trasparire la stabilizzazione del fenomeno e il radicamento della popolazione immigrata. Nemmeno la crisi economica degli ultimi anni, infatti, sembra avere scalfito la forza attrattiva delle due province emiliane nei confronti deii flussi migratori. 2.2 L’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro e nella struttura occupazionale locale Le prime presenze di lavoratori stranieri all’interno del tessuto produttivo delle provincie di Modena e di Reggio Emilia sono collocabili nella seconda metà degli anni settanta (Einaudi, 2007; Capecchi, 1978; Grappi e Spagni, 1981; Rinaldini, 2003). Già nei primi anni ottanta era chiaro che il tessuto produttivo del territorio esprimeva un fabbisogno lavorativo a cui l’offerta di lavoro locale non riusciva a rispondere. Fin da allora il tessuto industriale del territorio si dimostrava particolarmente attrattivo nei confronti della manodopera straniera. Durante la prima parte degli anni ottanta la provincia di Reggio Emilia deteneva il primato regionale per quel che riguarda gli stranieri occupati nel settore industriale (Rinaldini, 2003). Alla fine degli anni ottanta l’incidenza degli avviamenti lavorativi degli immigrati nel settore industriale sul totale degli avviamenti lavorativi degli immigrati nello stesso settore a Reggio Emilia e a Modena era del 67% (le più alte di tutta la regione) (Minardi, 1991). Dieci anni dopo, alla fine degli anni novanta, era evidente che l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro locale di tutta la regione Emilia Romagna aveva assunto una dimensione strutturale. Il passaggio della legge Bossi-Fini fu, tra le altre cose, anche un momento chiarificatore delle caratteristiche della posizione che

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gli immigrati andavano a ricoprire nella struttura occupazionale. Secondo l’Osservatorio del Mercato del Lavoro dell’INAIL, tra il 2000 e il 2001 furono effettuate in regione 60.072 nuove assunzioni di lavoratori immigrati. Negli anni successivi si è registrato un costante aumento del numero delle assunzioni: 72.573 nel 2002; 87.534 nel 2003 (anche per effetto anche della sanatoria); 85.224 nel 2004 (pari al 10,9% delle assunzioni totali registrate in regione) (Caritas/Migrantes, 2005). Nello stesso periodo Reggio Emilia e Modena registrarono un aumento sorprendente delle assunzioni di lavoratori immigrati (all’incirca +3.000 all’anno) e soprattutto parallelamente all’aumento generale delle assunzioni di lavoratori stranieri continuavano i processi di femminilizzazione e di terziarizzazione della componente immigrata dei lavoratori. A Reggio Emilia per esempio nel 2002 le assunzioni di donne immigrate mostrarono un drastico incremento del 57%, mentre quelle maschili aumentarono solo del 19% (Osservatorio Economico della Provincia di Reggio Emilia, n.82). Allo stesso tempo si creò proprio in questo periodo per la prima volta dall’inizio del fenomeno migratorio nella regione emiliano romagnola un equilibrio tra assunzioni di lavoratori stranieri nel settore dei servizi e assunzioni di lavoratori stranieri nel settore industriale. Nel valutare le ragioni di tale riequilibrio tra le assunzioni dei due settori si deve tenere conto dell’esplosione/emersione durante la sanatoria del 2002 del fenomeno badanti. Quattro anni più tardi sulla base della banca dati INAIL nel 2006 risultavano occupati in Emilia Romagna 227.000 lavoratori dipendenti stranieri, il 15,3% del numero complessivo di occupati (nel 2005 la percentuale era del 14,4%) (Caritas/Migrantes, 2007). Se si considera la componente dei soli lavoratori stranieri dipendenti registrati nella banca dati dell’INAIL, il raffronto tra l’Italia e l’Emilia Romagna mostra significative differenze per quel che riguarda la provenienza degli immigrati. I lavoratori non-comunitari presenti in Emilia Romagna si concentravano prevalentemente nei settori dell'industria, delle costruzioni, nel settore alberghiero, nei servizi alle imprese e in agricoltura (Caritas/Migrantes, 2007). I dati INAIL, tuttavia, sottostimano, per un difetto strutturale della rilevazione, il fenomeno delle lavoratrici che svolgono attività di cura alla persona in ambito domestico (le badanti). Un altro corpo di dati in grado di fornire informazioni preziose riguardo la capacità di attrazione del tessuto produttivo regionale nei confronti dei flussi di forze di lavoro immigrate (tenendo conto anche delle dimensioni del lavoro di cura) è quello che riguarda le quote annuali. Il numero delle domande di assunzione di immigrati extracomunitari presentate in Emilia Romagna durante il 2007 era secondo solo a quello della Lombardia e a livello provinciale presentava dei picchi nelle città di Reggio Emilia e Modena. Nonostante ogni anno la maggioranza delle domande di assunzione presentate all’apertura delle quote fossero (e sono ancora oggi) destinate ad essere respinte, le domande rappresentavano (e rappresentano ancora oggi) nella gran parte dei casi lavoratori immigrati che già lavoravano - o per lo meno risiedevano irregolarmente - sul territorio regionale. Le analisi dei diversi mercati del lavoro provinciali all’interno della regione svolte alla stessa data, inoltre, mettevano in luce come la presenza degli immigrati risultasse essere in rapporto di quasi perfetta proporzione inversa rispetto ai tassi di disoccupazione provinciali: minore era il tasso di disoccupazione - Reggio Emilia, Modena, Bologna - maggiore era la presenza di immigrati (Caritas/Migrantes, 2008). Va aggiunto che sempre per le stesse analisi le tre province di Bologna, Modena e Reggio Emilia accoglievano la larga maggioranza dei lavoratori dipendenti stranieri presenti in regione, anche se le province in cui la presenza di immigrati e l’occupazione degli immigrati era stata storicamente inferiore (Ferrara, Ravenna, Forlì e Cesena) registravano in quegli anni una forte crescita degli occupati immigrati. In altri termini l’asse della Via Emilia si confermava un polo d’attrazione interno alla regione (a sua volta un polo d’attrazione nel contesto italiano) anche se contemporaneamente cresceva il processo di distribuzione territoriale degli immigrati e il loro inserimento lavorativo nelle altre province emiliano romagnole. Tra gli studiosi dei processi migratori in Italia sembra essere ormai assodato il fatto che la presenza di un tessuto di piccole e medie imprese manifatturiere nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna ha offerto agli immigrati opportunità di lavoro significativamente migliori non

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solo rispetto a quelle presenti in altre aree del paese, ma anche rispetto a quelle presenti in altre province della stessa regione Emilia Romagna. Nel quinquennio 2004-2008 Reggio Emilia è risultata essere la terza provincia in regione per numero totale di lavoratori dipendenti non comunitari e Modena la seconda (RER, 2010). Se i dati e le analisi riportate sopra indicano chiaramente quanto quello dell’Emilia Romagna sia risultato essere per gli immigrati un mercato del lavoro ricco di opportunità è necessario anche tenere presente che diverse fonti, compresi gli stessi dati ISTAT, indicano la larga diffusione di contratti di lavoro non-standard tra gli immigrati che lavoravano in Emilia Romagna. I dati dell’Osservatorio regionale sul fenomeno migratorio a giugno del 2009 fanno emergere quanto sia diffuso il lavoro in somministrazione degli immigrati non comunitari in Emilia Romagna rispetto al resto d’Italia. Se la percentuale di lavoratori interinali non comunitari in Italia a giugno del 2009 era del 16,86%, in Emilia Romagna era del 20,56%. Il settore economico in cui i lavoratori interinali non comunitari risultavano essere maggiormente impiegati nel 2008 è quello industriale (64,74%) e in misura molto minore quelli del commercio (8,55%), dei servizi alle imprese (7,70%) e dell’alberghiero e ristorazione (6,43%) (RER, 2010). In questo senso Reggio Emilia e Modena, secondo la stessa fonte, rappresentavano realtà avanzate all’interno della Regione. Reggio Emilia, infatti, era la seconda provincia della regione per numero di lavoratori interinali non-comunitari (e la prima per incidenza di lavoratori immigrati interinali sul totale dei lavoratori interinali presenti in provincia) e Modena la terza (la prima provincia era Bologna) (RER, 2010). Il significativo inserimento degli immigrati nella fascia del mercato del lavoro atipico regionale in realtà non costituiva una vera e propria novità degli ultimi anni. Nel 2003, la Regione Emilia Romagna pubblicò i risultati di una ricerca sul lavoro interinale in regione che permisero di fare emergere, tra le altre cose, una significativa sovra-rappresentazione dei contratti in somministrazione lavoro tra gli immigrati e soprattutto una sovra-rappresentazione ancora più significativa di alcune nazionalità rispetto ad altre (RER, 2003). Tre anni dopo, nel 2006, la stessa Regione Emilia Romagna pubblicò i risultati dell’analisi dei dati dei Centri per l’impiego della regione sul 2004 riguardanti la tipologia dei rapporti di lavoro degli immigrati non-comunitari. Dai dati emergeva ancora una volta in modo piuttosto evidente che il peso in percentuale dei contratti di lavoro a tempo determinato non era affatto insignificante. Circa il 50% dei soggetti considerati possedeva un contratto a tempo determinato, circa il 44% possedeva un contratto a tempo indeterminato e circa il 6% ne possedeva uno di inserimento lavorativo (RER, 2006). Dagli stessi dati inoltre emergeva il fatto che per quel che riguarda gli avviamenti al lavoro, il rapporto tra contratti a tempo determinato e contratti a tempo indeterminato era di due a uno e che il raffronto con il dato relativo agli italiani restituiva differenze significative (RER, 2006). E’ evidente, quindi, che l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro è stato accompagnato e si è intersecato con il graduale processo di flessibilizzazione di quest’ultimo. La crisi economica internazionale degli ultimi anni sembra avere accentuato le tendenze occupazionali degli anni precedenti. A fronte di una costante alta presenza di lavoratori immigrati nel mercato del lavoro e nella struttura occupazionale delle due province, la cui incidenza sul totale dei lavoratori dipendenti continua ad essere più alta rispetto a quella nazionale e regionale (si veda la tabella riportata sotto), sembra che negli ultimi due anni sia aumentata considerevolmente la componente di lavoratori immigrati con contratti non-standard.

Assicurati netti. Distribuzione dei lavoratori dipendenti per area di provenienza in Emilia Romagna, Reggio Emilia e Modena. Dati aggiornati a giugno 2009. Italia % Ue % Extra Ue % Totale Reggio Emilia 165.201 82,2 6.689 3,3 29.090 14,47 200.980 Modena 215.748 80,4 12.150 4,5 40.531 15,1 268.429 Emilia Romagna 1.303.010 81,1 90.494 5,6 212.439 13,23 1.605.943 Fonte: RER, 2010 su dati INAIL

A giugno del 2009 i lavoratori stranieri con un contratto di somministrazione lavoro nella provincia di Modena ammontavano a quasi 3.100 su un totale di 11.716 lavoratori interinali e nella provincia

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di Reggio Emilia a quasi 3.500 su un totale di 10.739. L’incidenza dei lavoratori stranieri con un contratto di somministrazione nelle due provincie emiliane risultava essere decisamente superiore rispetto a quella nazionale e nel caso di Reggio Emilia di molto superiore anche a quella regionale.

Assicurati netti. Distribuzione dei lavoratori con contratto di somministrazione per area di provenienza in Emilia Romagna, Reggio Emilia e Modena. Dati aggiornati a giugno 2009. Italia % Ue % Extra Ue % Totale Reggio Emilia 7.255 67,6 594 5,5 2.890 26,9 10.739 Modena 8.647 73,8 725 6,2 2.344 20,0 11.716 Emilia Romagna 44.385 72,4 4.348 7,1 12.613 20,6 61.346 Fonte: RER, 2010 su dati INAIL

2.3 Le interpretazioni riguardo l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro locale e il loro posizionamento nella struttura occupazionale La breve ricostruzione dei processi migratori e dell’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro locale che è stata fatta nelle pagine precedenti fa emergere una realtà caratterizzata da una spiccata capacità di attrazione nei confronti dei flussi. La veloce e consistente crescita di manodopera immigrata, la femminilizzazione della componente immigrata del mercato del lavoro e la graduale terziarizzazione di tale componente parallela ad una persistente presenza di immigrati nelle piccole e medie imprese manifatturiere (ciò che caratterizza in modo netto Reggio Emilia e Modena da altre realtà italiane) sono le principali caratteristiche che emergono dai dati precedentemente riportati. Inoltre, come si è scritto, l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro locale ha accompagnato e si è intrecciato con le trasformazioni di quest’ultimo e in particolare con la ricerca di flessibilità attraverso l’istituzione e la regolamentazione di diverse tipologie di rapporto di lavoro. Se i dati, quindi, sono in grado di restituire un quadro piuttosto nitido delle capacità attrattive che il tessuto produttivo locale possiede nei confronti dei flussi migratori, durante i tre decenni passati diversi studi hanno tentato di andare oltre, fornendo interpretazioni più articolate dell’incontro tra manodopera immigrata e tessuto produttivo locale. 2.3.1 L’attrazione di lavoratori immigrati come risposta al fabbisogno locale di lavoro qualificato: affermazione e declino di una interpretazione dell’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro locale Lo studio di Grappi e Spagni, già citato nelle pagine precedenti, tentava già nel 1981 di avanzare una ipotesi sul motivo per cui nelle piccole e medie imprese manifatturiere di Reggio Emilia fossero occupati molti immigrati stranieri rispetto alle altre province italiane (Grappi, E. e Spagni, P., 1981). Dallo studio (una indagine su un campione di alcune centinaia di immigrati provenienti da paesi nord africani) emergeva il fatto che l’estrazione sociale di quei primi immigrati (soprattutto la componente egiziana, ma anche quella marocchina) era prevalentemente urbana, che in media la loro scolarizzazione era piuttosto elevata e che il mestiere svolto nel paese di origine prima della migrazione era spesso quello di operaio in una piccola impresa o di artigiano. Il tessuto produttivo del territorio di Reggio Emilia e il suo apparato di piccole e medie imprese - e in particolare di piccole e medie imprese metalmeccaniche - secondo gli autori, risultava essere funzionale ai requisiti dell’offerta di lavoro dei soggetti immigrati. In altri termini i soggetti immigrati sarebbero stati attratti dalla possibilità di attutire il trauma dell’esperienza migratoria attraverso la prosecuzione della loro specifica carriera lavorativa e la capitalizzazione della professionalità acquisita in passato nei pesi di origine. Ciò era reso possibile dal fatto che le imprese avevano iniziato ormai da alcuni anni ad avere difficoltà a reperire manodopera autoctona qualificata ed erano quindi alla ricerca di altri bacini di manodopera. In effetti, i risultati della ricerca mostravano che più del 65% dei soggetti immigrati compresi nel campione analizzato ricoprivano la mansione di operai qualificati e sembravano andare a soddisfare proprio il tipo di fabbisogno lavorativo che le

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imprese lamentavano non riuscire a colmare con la manodopera locale (Ibidem, 1981)68. Lo studio di Grappi e Spagni ebbe sicuramente il merito di mettere in luce fin dall’inizio dei processi di immigrazione quale sarebbe stata una peculiarità locale: il massiccio inserimento lavorativo degli immigrati nel settore manifatturiero reggiano e in particolare nel tessuto di piccole e medie imprese metalmeccaniche. D’altra parte lo stesso studio tendeva a enfatizzare la questione dell’incontro tra una domanda e una offerta di lavoro specializzato e sulla base di tale enfatizzazione azzardava una generalizzazione e una previsione che in futuro che si sarebbe rivelata vera solo parzialmente (per non dire in piccola parte). Negli anni successivi, infatti, la domanda di operai qualificati e specializzati da parte delle imprese del territorio si sarebbe rivelata inevasa e sempre più immigrati furono assunti all’interno delle imprese come operai generici. Diverse indagini della seconda metà degli anni ottanta, infatti, restituivano un quadro differente rispetto a quello di inizio decennio69. Gli immigrati erano prevalentemente inquadrati con basse qualifiche e l’ascesa professionale era spesso estremamente lenta se non inesistente. Gli Osservatori della Provincia di Reggio Emilia che uscirono durante gli anni novanta confermarono che la larga maggioranza (sempre oltre il 70%) degli immigrati era avviata al lavoro come operaio non specializzato nonostante una parte significativa di essi fosse in possesso di una scolarizzazione medio alta (Zaniboni e Guerra, 2000). In altri termini più passava il tempo, più l’immigrazione assumeva una dimensione significativa e più era evidente che gli immigrati non si inserivano prevalentemente nei segmenti specializzati del mercato del lavoro industriale locale e che dunque non fossero tali segmenti a costituire l’elemento di attrazione nei confronti dei flussi. 2.3.2 Il capitale umano e gli skills degli immigrati: diverse interpretazioni sulle loro caratteristiche e sulla capacità di valorizzarli da parte del tessuto produttivo locale Quando, nel 2000, l’API di Reggio Emilia ha svolto una indagine sulle piccole e medie imprese e i lavoratori immigrati, ciò che si è scritto sopra era piuttosto evidente (API, 2000). Obbiettivo dell’indagine dell’API era quello di capire le dimensioni quantitative e i caratteri fondamentali della presenza di lavoratori immigrati nel sistema produttivo locale e parallelamente di cogliere gli atteggiamenti, le reazioni e le proposte degli imprenditori. L’indagine riguardava 300 aziende aderenti all’API di Reggio Emilia (il 57% dell’insieme delle imprese associate) rappresentative per settore produttivo, classe di addetti e comune di insediamento. La dimensione media delle imprese era di 28,4 dipendenti. Ben 163 delle 300 imprese considerate dichiaravano di avere lavoratori immigrati alle proprie dipendenze. Sul totale di 8.507 dipendenti delle imprese considerate dall’indagine 656 erano lavoratori immigrati ed erano occupati prevalentemente in imprese di media dimensione (dai 20 ai 75 dipendenti). Le imprese con il più alto numero di dipendenti immigrati appartenevano al settore metalmeccanico, a quello ceramico e a quello edile. Riguardo le qualifiche, il 99% dei lavoratori immigrati risultavano essere operai e l’1% impiegati. L’indagine restituiva meno informazioni certe riguardo il livello di qualifica dei lavoratori immigrati occupati nelle imprese considerate, ma un approfondimento condotto su un campione di 150 operai immigrati metteva in luce che la larga maggioranza di questi era inquadrata al 2° e al 3° livello (operai generici). Sul totale dei 656 lavoratori immigrati dipendenti delle imprese considerate, l’81,5% possedeva un contratto a tempo indeterminato e il 18,5% una forma contrattuale di lavoro non-standard (formazione lavoro, apprendistato, contratto a tempo determinato, interinale, ecc…). Gli imprenditori intervistati durante l’indagine, inoltre, segnalavano una forte crescita negli ultimi anni

68 Nello studio in questione si trova scritto: “… almeno nella nostra provincia è la norma, imbattersi in lavoratori che già erano capaci di operare ad un tornio, una fresa; che erano addirittura collaudatori, ingegneri meccanici, elettronici ecc… una risposta a questo … sta proprio nel tipo di manodopera richiesta nei settori industriali della nostra provincia, una manodopera quasi mai generica… e per lo più in grado di lavorare in una moderna industria …” (Grappi e Spagni, 1981, p. 7) e più avanti “… questi lavoratori hanno raggiunto una certa specializzazione tecnica (che poi vuol dire lavorare in fabbrica o in una industria con una certa mansione) e tramite amici o parenti vengono a conoscenza che in Italia e precisamente a Reggio Emilia c'è richiesta di tornitori e saldatori …” (Grappi e Spagni., 1981, p. 87) 69 Ci si riferisce in questo caso a diverse indagini svolte da CGIL, CISL e UIL di Reggio Emilia che tuttavia sconfinavano anche in territorio modenese. Il materiale non è edito, ma è comunque possibile reperirlo presso l’archivio storico della Camera del Lavoro di Reggio Emilia.

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di immigrati assunti attraverso le (da poco create) agenzie interinali. Gli immigrati in altri termini erano inseriti in segmenti dequalificati del mercato del lavoro e della struttura occupazionale locale e aumentava tra di essi la parte che era occupata attraverso contratti di lavoro non-standard (anche se rimaneva fortemente minoritaria). Dalle interviste con gli imprenditori emergeva che l’assunzione di lavoratori immigrati era motivata soprattutto dalla indisponibilità per ragioni demografiche, sociali e culturali di manodopera autoctona sul mercato del lavoro. Il reperimento di manodopera immigrata risultava avvenire attraverso canali informali ed i principali motivi per cui gli imprenditori non volevano assumere immigrati o per cui operavano una selezione rispetto a particolari nazionalità erano riconducibili a dinamiche di “discriminazione statistica”. Oltre a tutto ciò, l’indagine dell’API rilevava il fatto che tendenzialmente gli immigrati erano assunti da quella fascia di imprese che avevano apportato innovazioni al processo produttivo e che negli ultimi anni erano cresciute in termini di addetti. In altri termini i risultati dello studio tendevano a falsificare la correlazione positiva che molti ricercatori e studiosi avevano individuato in passato (e avrebbero continuato a sostenere anche in futuro come si vedrà più avanti) tra “impiego di lavoratori immigrati” e “scarsa propensione all’ innovazione da parte delle imprese”. Allo stesso tempo lo studio indicava che gli immigrati andavano a ricoprire quasi unicamente quelle figure lavorative scarsamente qualificate il cui fabbisogno, insieme a quello di figure operaie più qualificate, aumentava a fronte della espansione dell’impresa. La ricerca dell’API, nelle conclusioni, rilevava un problema nel gap esistente tra alte professionalità e alta formazione (ma anche in senso più generale skills) richieste dal tessuto produttivo (e soprattutto dal suo sviluppo) e bassa professionalità e formazione che gli immigrati in genere possedevano. Non a caso le dimensioni critiche individuate e su cui il rapporto finale dell’indagine raccomandava di concentrare gli interventi erano quelle della lingua italiana e della formazione professionale (API, 2000). Due anni dopo la ricerca dell’API, Mottura ha svolto e coordinato una ricerca per conto dell’IRES-CGIL Emilia Romagna sulle condizioni di lavoro e i percorsi di inserimento sociale degli immigrati in Emilia Romagna (Mottura,2002). L’obbiettivo della ricerca era quello di colmare le lacune di ordine conoscitivo sulle condizioni e le strategie degli immigrati nel mercato del lavoro, all’interno della struttura occupazionale e più in generale nel tessuto sociale in cui i soggetti erano situati. Per raggiungere tale obbiettivo furono realizzate 1654 interviste attraverso un questionario strutturato con soggetti immigrati che lavoravano e risiedevano in Emilia Romagna e 35 colloqui guidati con altrettanti soggetti immigrati al fine di approfondire questioni specifiche emerse nel corso del lavoro di campo. Quella di Mottura è stata senza ombra di dubbio una delle ricerche più importanti, per dimensione e per ricchezza di informazioni rilevate, che sono state realizzate sulla questione immigrazione e lavoro in Emilia Romagna. Non a caso negli anni successivi numerosi studiosi hanno fatto riferimento al rapporto finale di ricerca o addirittura hanno utilizzato il database che è stato costruito con le informazioni ricavate dalle interviste strutturate. La ricerca, naturalmente, faceva riferimento all’area regionale, ma molti dei dati furono raccolti nella provincia di Reggio Emilia e di Modena. Si tenga conto, infatti, che 629 dei 1.654 lavoratori immigrati intervistati con il questionario strutturato erano occupati e risiedevano a Reggio Emilia e 403 a Modena70. Il rapporto di ricerca che ne derivò fece emergere una molteplicità di questioni riguardi il profilo socio anagrafico dei soggetti, al percorso migratorio dei rispondenti, alle condizioni di lavoro degli immigrati e al rapporto tra gli immigrati e le organizzazioni sindacali. Per quel che riguarda la scolarizzazione, la formazione e i passati (nel paese di origine) profili socio-professionali dei soggetti intervistati la ricerca fece emergere aspetti molto interessanti e originali. Circa la metà del campione considerato era in possesso di un titolo di studio superiore a quello equivalente alla licenza elementare, mentre circa il 50% era in possesso della licenza elementare. Molto bassa - quasi insignificante - era la percentuale di coloro che non avevano avuto alcuna formazione 70 Non a caso nel 2001, a ricerca ancora in corso a livello regionale, ma a rilevazione già conclusa nella provincia reggiana, il gruppo di ricerca coordinato da Mottura decise di elaborare, analizzare e rendere pubblici i dati e le informazioni rilevate sulla condizione di lavoro e i percorsi di inserimento sociale degli immigrati occupati e residenti a Reggio Emilia (Mottura, 2001). I dati della stessa ricerca relativi a Modena, invece, sono stati lavorati da Marra, il quale è giunto a risultati molto simili rispetto a quelli relativi a Reggio Emilia (Marra, 2004).

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scolastica. Il 36% dei soggetti era in possesso di un livello di scolarizzazione intermedio (equivalente alla licenza media o alla scuola professionale) e l’11% di un livello di scolarizzazione superiore (equivalente al diploma di scuola superiore non professionale e alla laurea universitaria). Inoltre, circa il 25% degli intervistati aveva dichiarato di possedere anche un titolo di studio italiano. Il 58% degli intervistati risultava occupato in patria nel momento in cui aveva deciso di intraprendere l’impresa migratoria e il 23% era studente. Solo il 15% dei soggetti risultava essere disoccupato al momento dell’emigrazione. Un terzo di coloro che risultavano occupati al momento dell’emigrazione risultava lavoratore autonomo (in ordine decrescente: commercianti, addetti ai servizi, agricoltori e artigiani), mentre i restanti due terzi erano lavoratori dipendenti (occupati nei settori dei servizi, dell’industria, del commercio e dell’agricoltura). Gli intervistati, quindi, risultavano avere maturato esperienze lavorative in patria, possedere competenze professionali eterogenee e avere un tasso di scolarizzazione per niente insignificante. Non si trattava, quindi, di una componente di forza lavoro le cui caratteristiche potevano essere ricondotte in modo semplicistico a categorie quali la bassa scolarizzazione e l’assenza di esperienze professionali. In altri termini generalmente non ci si trovava certamente di fronte a figure professionali altamente qualificate (ma d’altronde assumere l’alta qualificazione professionale in termini assoluti, com’è noto, risulta essere un’operazione che nasconde insidie), ma nemmeno a soggetti privi di una qualsiasi formazione scolastica o privi di skills professionali. Il problema, tuttavia, era quello di come tali soggetti erano in grado di spendere il proprio bagaglio di formazione scolastica e di esperienze professionali nel mercato del lavoro e nella struttura occupazionale locale e questo è stato certamente uno degli elementi più problematici che la ricerca di Mottura ha fatto emergere. La ricerca metteva in luce lo stesso nodo problematico della ricerca dell’API del 2000 - l’incrocio tra tipo di offerta e tipo di domanda di lavoro - ma giungeva a delle conclusioni rovesciate rispetto a quelle di quest’ultima. Dalla ricerca di Mottura, infatti, emergeva non tanto la scarsità di offerta di lavoro professionalizzato o la presenza di una bassa scolarizzazione tra gli immigrati, ma piuttosto la difficoltà del tessuto economico a valorizzare le competenze presenti sul territorio e la situazione di stallo in cui si trovano i percorsi lavorativi dei migranti. Degli intervistati che possedevano la laurea universitaria solo 2 lavoravano negli uffici, 54 lavoravano in produzione e i restanti lavoravano nei magazzini (o in comparti affini). La proporzione era più o meno la stessa tra gli intervistati che possedevano licenza media superiore (anzi, tra questi nessuno lavorava negli uffici). La ricerca di Mottura metteva in evidenza che agli evidenti, seppur moderati, miglioramenti delle condizioni contrattuali e di qualifica non corrispondevano miglioramenti per quel che riguardava il tipo di lavoro, le mansioni e i ruoli dei lavoratori immigrati. Risultava evidente, quindi, che la struttura occupazionale dei lavoratori immigrati rifletteva una “… perdurante sottovalutazione delle risorse, in termini di competenze e professionalità presenti (e/o attivabili) tra gli immigrati, nonché ancora uno scarso impegno a determinare le condizioni opportune … per farle emergere e metterle a frutto …” (Mottura, 2002, p. 37). L’analisi che Gilberto Serravalli ha svolto nel 2002 utilizzando lo stesso database relativo a Reggio Emilia costruito dalla ricerca di Mottura riguardava un aspetto strettamente legato alla questione dell’inserimento degli immigrati nella struttura occupazionale locale (Serravalli, 2002). Partendo dall’assunzione del fatto che l’”effetto di domanda” risultava essere l’elemento esplicativo principale riguardo i flussi migratori a Reggio Emilia, la ricerca di Serravalli tentava di rispondere ad una questione direttamente conseguente, ovvero se il sistema economico e sociale reggiano fosse anche capace di integrare i lavoratori immigrati. Per rispondere a tale interrogativo Serravalli ha adottato un paradigma che sottolinea l’importanza e la centralità dei “processi cumulativi”. Tale paradigma, particolarmente adatto ai contesti in cui è rilevante la mancanza di informazioni e conoscenze reciproche, risulterebbe particolarmente adeguato allo studio delle relazioni di lavoro in cui sono coinvolti gli immigrati, in quanto si suppone che da una parte gli immigrati non abbiano una vasta conoscenza del contesto sociale, culturale e istituzionale in cui sono collocati e dall’altra i datori di lavoro non abbiano conoscenze dei nuovi lavoratori con cui instaurano un rapporto. In un contesto tale possono innescarsi “processi cumulativi” per i quali il successo o il fallimento

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professionale dell’immigrato e l’integrazione o l’esclusione sociale risultano essere “processi auto poietici”. Un’importante variabile di integrazione è naturalmente il tempo di permanenza del soggetto nel contesto, in quanto si assume che maggiore è il tempo trascorso dal soggetto nel contesto, maggiori dovrebbero essere le informazioni che il soggetto è in grado di assumere; esistono però una molteplicità infinita di altre variabili che possono influenzare il segno (negativo o positivo) dei processi cumulativi, così come possono rallentare o accelerare tali processi. Ad esempio i “fattori socio-anagrafici” dei soggetti o le “prime mosse” - le prime decisioni o azioni più o meno fortuite nel nuovo contesto - sono considerati in genere variabili importanti. Chiarito il paradigma di riferimento, Serravalli, sulla base dei dati disponibili ha costruito una variabile sintetica del miglioramento delle condizioni di lavoro dal momento del primo contatto con l’impresa nella quale lavoravano i soggetti immigrati nel momento dell’intervista; successivamente ha classificato il totale degli intervistati in tre categorie omogenee sulla base della variabile sintetica di miglioramento costruita in precedenza e ponderata per il tempo di permanenza in Italia dei soggetti; infine ha provato la validità (e la fertilità in termini di informazioni prodotte) del modello dei processi cumulativi. I calcoli effettuati indicavano che il 17% degli intervistati aveva migliorato le condizioni di lavoro dal momento del primo contatto con l’impresa al momento in cui si era svolta l’intervista (aveva realizzato, dunque, processi cumulativi di segno positivo), il 43% le aveva peggiorate (ma in realtà le aveva peggiorate in termini assoluti solo il 10% e dunque solo il 10% aveva realizzato processi cumulativi di segno negativo) e il 40% le aveva mantenute uguali. In altri termini i risultati restituivano un quadro che indicava che il 73% dei soggetti intervistati mostrava non avere realizzato processi cumulativi di segno positivo (non migliorava le proprie condizioni di lavoro in termini assoluti), né avere realizzato processi cumulativi di segno negativo (non peggiorava le proprie condizioni di lavoro in termini assoluti). Ciò che più risultava interessante dalle elaborazioni eseguite è il fatto che il miglioramento delle condizioni di lavoro risultava solo in parte correlato con l’anzianità di presenza in Italia e con l’anzianità aziendale dei soggetti. Le elaborazioni, infatti, mostravano che era la “prima mossa” ad essere particolarmente importante per innescare processi cumulativi di segno positivo. In particolare i processi cumulativi di segno positivo sembravano essere attivati dal trovare un lavoro nel settore industriale, in particolare nel settore metalmeccanico, in un’impresa superiore ai 15 dipendenti; un lavoro che comportasse mansioni in produzione, ma da svolgere con strumenti complessi o con macchine manovrate dall’operatore e il cui apprendimento non fosse misurabile in termini di tempo in poche settimane. Allo stesso tempo sembravano essere di primaria importanza anche alcune specifiche “condizioni soggettive”, quali essere maschio tra i 30 e i 40 anni, essere sposato con più di un figlio e possedere un livello di scolarizzazione relativamente alto. La nazionalità, invece, non risultava influire affatto sull’attivazione dei processi cumulativi virtuosi. In definitiva, la somma di queste due condizioni - uno specifico tipo di lavoro e la combinazione i particolari fattori socio-anagrafici - davano luogo a “processi cumulativi” virtuosi che vedevano i soggetti coinvolti raggiungere più di altri alcuni risultati di integrazione quali: il ricongiungimento della famiglia, l’affitto di una abitazione non condivisa con altri nuclei famigliari, un contratto di lavoro a tempo indeterminato, la sindacalizzazione e l’attività sindacale, oltre che miglioramenti salariali, di orario, di qualifica e in ordine al tipo di lavoro svolto. Questi risultati facevano emergere con nitidezza alcune dimensioni critiche del mercato del lavoro reggiano, del tessuto produttivo locale e in particolare della sua capacità di integrare socialmente ed economicamente gli immigrati stranieri. Infatti, se da un punto di vista quantitativo il problema secondo Serravalli era come giudicare il fatto che meno del 20% migliorava le proprie condizioni lavorative, da un punto di vista qualitativo lo studio metteva in luce una vasta tipologia di soggetti immigrati (donne di tutte le età, uomini al di sotto dei 30 anni e al di sopra dei 40 anni, donne e uomini non sposate, bassamente scolarizzati/e, assunti/e in imprese al di sotto dei 15 dipendenti, nel settore dei servizi, ecc …) a forte rischio di rimanere per un periodo più o meno prolungato al di fuori di traiettorie di integrazione nel tessuto sociale locale. Il rischio generale individuato dall’autore dello studio, dunque, era che a fronte di una non brillante capacità del sistema produttivo locale di valorizzare il potenziale umano degli immigrati, potessero avere

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luogo squilibri sociali ed economici “… che devono essere guardati con estrema attenzione in un sistema locale che ha avuto nell’inclusione e nell’equilibrio distributivo i suoi caratteri distintivi, cruciali anche per la propria efficienza economica …” (Serravalli, 2002, p. 56). 2.3.3 “Immigrazione o innovazione”: dilemma o errata impostazione del problema? Come è stato scritto sopra, il fatto che la larga disponibilità di manodopera immigrata sul mercato del lavoro costituisca un elemento inibitore per le traiettorie di innovazione tecnologica e organizzativa è stata ed è tutt’oggi un’interpretazione molto diffusa tra gli economisti. Fin dall’inizio dei processi di immigrazione, il dilemma “immigrazione o innovazione” è spesso stato presente nei dibattiti e nelle riflessioni relative alle prospettive future di sviluppo del tessuto produttivo locale e questo è vero sia in ambito accademico che in ambito imprenditoriale, sindacale e politico-amministrativo. Nel 2003 Murat e Paba riflettendo su alcuni dati relativi all’incontro tra imprese italiane e manodopera straniera sostenevano proprio che le imprese italiane e in particolare le piccole e medie imprese dei distretti industriali delle regioni della terza Italia correvano il rischio di impiegare la manodopera straniera per ridurre i costi evitando in questo modo di mettere in atto processi di ristrutturazione aziendale. La disponibilità di manodopera immigrata, secondo i due economisti, permetterebbe alle imprese dei distretti industriali del territorio emiliano romagnolo di far fronte alla crescente competizione internazionale, almeno sul breve o brevissimo periodo, attraverso l’abbattimento del costo del lavoro ed evitare in questo modo costosi processi di ristrutturazione aziendale e di innovazione di processo finalizzati all’aumento della produttività. D’altra parte l’impiego di lavoratori immigrati sarebbe anche, secondo gli stessi, una alternativa per le imprese dei distretti alla delocalizzazione della produzione come strategia di contenimento dei costi. Le conclusioni di Murat e Paba erano che il protrarsi di una strategia di questo tipo sul lungo periodo avrebbe inevitabilmente condannato le imprese locali a perdere competitività sul piano internazionale e che una via d’uscita per evitare il peggio sarebbe stata quella di agire sulla regolazione degli accessi degli immigrati al territorio in favore di una migrazione high skilled. A prescindere dal fatto che in molti (fuori e dentro l’ambiente accademico) hanno criticato questa modellizzazione del rapporto tra innovazione e immigrazione (in alcuni casi assumendo problematicamente gli assunti e i concetti che stanno alla base di questo modello; in altri casi mettendo in discussione la direzionalità della relazione causale o la relazione causale stessa costitutiva del modello; in altri casi ancora criticando le implicazioni a livello di politiche migratorie che questo modello più o meno esplicitamente introduce), questa visione del rapporto tra sviluppo d’impresa e immigrazione non ha mai smesso di essere un punto di riferimento di amministratori, politici e rappresentanti delle parti sociali a livello locale. A dimostrazione della persistente presenza nella riflessione sul mercato del lavoro locale del dilemma innovazione o immigrazione, diversi anni dopo, nel 2008, Barberis ha posto la questione dei percorsi di inserimento lavorativo degli immigrati nel tessuto produttivo dei distretti industriali emiliani in termini di ricorso alla manodopera straniera come uno degli indicatori del perseguimento di strategie di labour intensive. I processi di indebolimento dei diritti e di diffusione di forme di lavoro atipico che si sono sviluppati e hanno intersecato i processi migratori, infatti, portano Barberis a sostenere che il sistema economico locale tenda a privilegiare il ricorso ad attività di labour intensive piuttosto che strategie di innovazione organizzativa e tecnologica. Nonostante ciò, il mismatch quali-quantitativo tra manodopera locale e imprese determinato dall’orientamento di una crescente parte di popolazione autoctona verso altre aspettative e formative e occupazionali aprirebbe spazi, secondo l’autore, non solo di inserimento degli immigrati in segmenti del mercato del lavoro caratterizzati dalle “3 D” ma anche in segmenti medi (Barberis, 2008). Quindi se da una parte una strategia competitiva generale basata sul labour intensive e l’inserimento processi migratori in una tale strategia genererebbe criticità inedite per il contesto distrettuale (o forse criticità antiche) - come la comparsa (o la ricomparsa) dei working-poor -

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dall’altra il mismatch quali-quantitativo offrirebbe agli immigrati possibilità di inserimento sociale relativamente stabile oltre che percorsi professionali ascendenti. Già a metà degli anni novanta, tuttavia, uno studio sui lavoratori immigrati nelle piccole e medie imprese bolognesi mise in luce i limiti di una tale impostazione del problema applicata ad un contesto come quello del tessuto produttivo dell’Emilia Romagna (Lugli e Tugnoli, 1994). Dallo studio in questione emerse che la propensione ad assumere manodopera immigrata non era presente solo in quelle imprese del bolognese che non avevano realizzato o che non avevano in progetto alcuna innovazione. (Lugli e Tugnoli, 1994). I risultati della ricerca sul campo, inoltre, misero in luce che la realizzazione di innovazioni da parte delle imprese non escludeva la propensione delle stesse ad impiegare lavoratori immigrati. Anzi, l’analisi dei dati e delle informazioni raccolte escludeva l’esistenza di una associazione tra presenza o meno di strategie di innovative (di prodotto, di processo e organizzativa) e impiego di manodopera immigrata; al contrario la necessità di ricerca di maggiore flessibilità lavorativa determinata dalle innovazioni tecnologiche e organizzative introdotte, risultava essere un volano per l’impiego di manodopera immigrata da parte delle imprese. Lo stesso studio, tuttavia, metteva in guardia da un differente rischio riscontrato. La crescente flessibilizzazione dei mercati interni nelle imprese che avevano effettuato interventi di innovazione produceva, infatti, una duplice esigenza: quella della ricerca di una flessibilità funzionale da realizzarsi attraverso il reperimento di figure professionali, altamente qualificate, stabili, per le quali la polivalenza professionale assumesse un ruolo cruciale all’interno dell’organizzazione; e quella della ricerca di flessibilità numerica, di cui la precarietà del posto di lavoro e la scarsa qualificazione professionale sono un elemento costitutivo. La ricerca effettuata fece emergere che l’assunzione di manodopera immigrata da parte delle imprese, indipendentemente dalla loro propensione all’innovazione, era fortemente ricercata per rispondere alla seconda esigenza e molto meno per rispondere alla prima. Sulla base di tutto ciò venivano delineati due possibili scenari futuri: il primo, di alto profilo, della competizione fondata sulla qualità, il cui presupposto fondamentale sarebbe stato l’attuazione di un’intensa politica formativa e di alti salari nell’obbiettivo di favorire la cooperazione tra lavoratori ed impresa; il secondo, di basso profilo, della competizione sul prezzo, i cui presupposti sarebbero stati la pressione verso il basso dei salari, la deregolamentazione del mercato del lavoro e lo scarso investimento in formazione del personale; e per quel che riguarda i lavoratori immigrati lo studio concludeva: “… È evidente che si tratta di scelte aperte il cui esito è largamente indipendente dalla considerazione del ruolo svolto dalla manodopera immigrata; ma è altrettanto vero che la larga disponibilità di forza lavoro straniera scarsamente qualificata può favorire, se non sufficientemente contrastata, la seconda opzione, con gravi conseguenze negative non solo limitatamente al mercato del lavoro ma anche sulla tenuta competitiva di tutto il sistema. Pertanto è il modello formativo, in concomitanza con l’azione sindacale e legislativa, che può favorire l’evoluzione del mercato del lavoro verso l’uno o l’altro scenario: solo un impegno decisivo delle imprese e degli attori istituzionali a favore della polivalenza e della qualificazione professionale della forza lavoro può consentire di avviare il sistema produttivo sulla strada della competizione di qualità. Ma questo impegno non può prescindere dal coinvolgimento in tale processo di valorizzazione della risorsa lavoro dei segmenti di manodopera straniera, sia per il raggiungimento di obbiettivi di estensione dei diritti civili e di giustizia sociale … sia per evitare che la formazione di un mercato secondario del lavoro su base etnica apra la strada ad una più accentuata frammentazione … dello stesso” (Lugli e Tugnoli, 1994). 3 – Le imprese degli immigrati a Modena e Reggio Emilia 3.1 Le imprese degli immigrati a Modena e Reggio Emilia: un fenomeno relativamente trascurato Prima dei risultati dell’analisi dei dati e delle informazioni che sono state raccolte può essere utile inquadrare il fenomeno dell’imprenditoria degli immigrati nei territori di Modena e Reggio Emilia

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attraverso una rassegna degli studi e delle ricerche che sono state pubblicate a riguardo negli anni passati. Gli studi che hanno per oggetto gli imprenditori immigrati nei territori di Modena e Reggio Emilia e in generale in Emilia Romagna non sono numerosi. A fronte di una vasta produzione di studi e ricerche sull’imprenditoria degli immigrati sul territorio nazionale, infatti, la questione degli imprenditori immigrati all’interno dei sistemi distrettuali emiliano romagnoli è stata relativamente trascurata. L’attenzione di studiosi e ricercatori si è rivolta a partire dagli anni novanta e per un lungo periodo ad altre aree del Paese, in particolare Lombardia (Ambrosini, 1995; Ambrosini e Abbatecola, 2004; Ambrosini, 2009; Baptiste e Zucchetti, 1994; Chiesi e Zucchetti, 2003; Zucchetti, Corvo e Perla, 1999), Piemonte (Castagnone, 2008; Camera di Commercio di Torino e FIERI, 2008; Luciano, 1995; Santi, 1995) e in misura minore Lazio e Toscana (Ceccagno, 2003). Solo negli ultimi anni si è riposta l’attenzione sull’imprenditoria degli immigrati nella regione Emilia Romagna a fronte di una costante crescita del fenomeno a livello locale (rispetto all’ultimissimo periodo si vedano le pagine successive). Nonostante ciò diverse indagini effettuate a livello nazionale durante gli anni passati hanno messo in evidenza l’importanza che ricopre il territorio emiliano romagnolo rispetto alla distribuzione delle imprese degli immigrati. Le indagini sistematiche condotte dalla CNA e riportate ogni anno all’interno del Rapporto Immigrazione della Caritas hanno da tempo registrato una significativa presenza di imprese di immigrati nel territorio regionale. Nel 2010, inoltre, all’interno dello stesso Rapporto Immigrazione della Caritas è stato ritenuto necessario inserire un approfondimento sulle imprese degli immigrati nei distretti industriali emiliani (Caritas, 2010). Anche gli ultimi monitoraggi sull’imprenditoria straniera della Fondazione Leone Moressa individuano l’area della regione Emilia Romagna come un territorio ad alta densità di imprese immigrate. Allo stesso modo i rapporti pubblicati negli scorsi anni da Nomisma, Adiconsum, CRIF e Unioncamere (2007; 2009) hanno messo in evidenza la vivacità dell’imprenditoria degli immigrati nel contesto emiliano romagnolo. Il rapporto di Nomisma, CRIF e Unioncamere del 2009, inoltre, ha messo in luce tre caratteri dell’attuale fenomeno dell’imprenditoria degli immigrati: l’eterogeneità dei modelli imprenditoriali perseguiti dagli immigrati; la difficoltà nel definire il rapporto tra le imprese degli immigrati e il mercato creditizio strutturato o non-strutturato; la forte integrazione delle imprese degli immigrati nel tessuto economico e con gli attori istituzionali del territorio in cui sono situate. Sassatelli (2009) prendendo spunto da questi risultati generali dell’indagine di Nomisma, CRIF e Unioncamere del 2009 ritiene ad oggi insufficiente su un piano esplicativo la dicotomia “modello marginale” versus “modello di qualità” per spiegare le tendenze imprenditoriali perseguite dagli immigrati e soprattutto, visti i livelli di integrazione di queste ultime con il contesto economico e istituzionale locale, associa direttamente la virtuosità dello sviluppo delle imprese degli immigrati al comportamento complessivo del sistema economico del territorio e dei servizi di orientamento, accompagnamento e assistenza agli attori economici che quest’ultimo offre. Successivamente alla pubblicazione del rapporto, i territori di Modena e Reggio Emilia hanno acquisito una visibilità mediatica rispetto al tema dell’imprenditoria degli immigrati mai avuta in passato proprio grazie alla supposta virtuosità dell’integrazione tra imprenditoria degli immigrati e sistema economico e istituzionale locale (nel 2010 in effetti si possono contare decine di articoli su quotidiani locali e nazionali che mettono in evidenza quanto nelle due province emiliane sia in crescita l’imprenditoria degli immigrati. Un articolo emblematico in questo senso è quello pubblicato su “Il Sole-24 Ore” del 28 giugno 2010). In generale le indagini e i rapporti di ricerca citati sopra evidenziano il fatto che in anni di crisi economica conclamata la decrescita del numero di imprese italiane sembra essere stata bilanciata dalla crescita delle imprese di immigrati. In altri termini tanto a livello nazionale quanto a livello dei singoli territori la crescita delle imprese degli immigrati sembra avere limitato i danni rispetto alla diminuzione del numero delle imprese degli italiani e del numero del totale delle imprese. Rispetto invece alle province di Modena e Reggio Emilia gli studi e le ricerche che si concentrano specificatamente su quest’area territoriale si contano sulle dita di una mano e sono tutti relativamente recenti. Le ricerche in particolare hanno riguardato il territorio di Modena e i

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rispettivi sistemi distrettuali (che, tuttavia, trascendono dai confini amministrativi) (Barberis, 2008; Marra, 2008; Nomisma, 2010), mentre ad oggi non risultano essere state effettuate ricerche di questo tipo relative alla provincia reggiana. La ricerca di Marra (2008) è stata fatta su un campione di sessanta imprese a titolare straniero in provincia di Modena. Obbiettivo della ricerca era quello di rilevare le caratteristiche soggettive degli imprenditori immigrati. Il quadro che emerge dalla ricerca è che in generale gli intervistati hanno intrapreso a fronte dell’impossibilità di migliorare la loro condizione lavorativa ed economica attraverso il lavoro dipendente, inserendosi negli spazi del tessuto produttivo locale lasciati “vuoti” (vacancy chain) dagli imprenditori autoctoni. Tutto ciò risulta più evidente in alcuni settori piuttosto che in altri, ma si delinea come una caratteristica intersettoriale. I settori in cui allo stesso tempo risulterebbe chiara anche la tendenza da parte degli immigrati a capitalizzare le esperienze lavorative accumulate in anni di lavoro dipendente ssarebbero quelli del ceramico e del metalmeccanico. Rispetto alla vocazione imprenditoriale, Marra sottolinea che, pur esistendo una certa correlazione tra specializzazione produttiva ed origine nazionale, tale correlazione non sembra essere giustificabile con categorie quali la “tradizione” o la “propensione culturale”. Sono, infatti, i migrant network (e l’attivazione di processi di training etnici) e le caratteristiche del contesto produttivo in cui questi sono collocati che sembrano avere un peso maggiore nella scelta degli immigrati di una specifica nazionalità a imprendere in un determinato settore piuttosto che in un altro. Rispetto alle criticità, infine, la ricerca di marra rileva una certa difficoltà ad accedere al credito e alle “risorse aggiuntive” (bandi pubblici, leggi a sostegno dell’impresa, ecc …) da parte degli imprenditori immigrati non solo a causa di un gap informativo le cui responsabilità sono attribuite dall’autore della ricerca alle istituzioni economiche e amministrative locali. Due anni dopo un’indagine di Nomisma (2010) svolta sul territorio modenese ha rilevato le stesse criticità della ricerca di Marra, con l’aggiunta del fatto che ciò di cui gli imprenditori immigrati sembrano avvertire maggiormente la mancanza sono i servizi di formazione, pur essendo in gran parte iscritti ad associazioni di categoria che tra le loro attività hanno la formazione degli imprenditori. Un ulteriore elemento di debolezza delle imprese degli immigrati risulta essere la dimensione ridotta (per numero di dipendenti, ma anche per fatturato) delle imprese. Nonostante ciò dall’indagine emerge anche che le imprese degli immigrati risultano essere profondamente integrate con il territorio e nel tessuto imprenditoriale locale. In particolare: la percentuale di imprese che risultano vendere su tutto il territorio nazionale e non solo a livello locale risulta essere significativa; oltre il 60% risulta rivolgersi a fornitori dislocati al di fuori della provincia modenese; solo l’8% degli imprenditori risulta avere una clientela composta esclusivamente da immigrati. Le due indagini di cui si sono riportati sinteticamente i risultati sopra hanno fatto emergere, quindi, una situazione imprenditoriale degli immigrati in provincia di Modena con luci ed ombre. Entrambi gli studi, tuttavia, si sono concentrati prioritariamente sugli imprenditori immigrati, tralasciando il contesto in cui si sono inseriti gli stessi imprenditori e non cogliendo quindi la complessità dell’interazione tra trasformazioni del tessuto produttivo locale e nuovi imprenditori. Lo studio di Barberis (2008), che prende in considerazione i sistemi distrettuali di Modena e di Vicenza, si focalizza sulla posizione e sulla funzione che le imprese degli immigrati ricoprono e svolgono all’interno di sistemi distrettuali e ha il merito di assumere questi ultimi non come entità statiche e date una volta per tutte, ma piuttosto come contesti articolati e permanentemente in evoluzione. Barberis adotta una prospettiva basata su una visione dinamica dei sistemi distrettuali (in cui disgregazione, disembedding, e ricreazione, re-embedding, delle strutture del distretto possono coesistere, almeno potenzialmente, come parti di un unico processo di trasformazione), la quale a sua volta rimanda ad un modello di embeddedness relazionale (tra attori tradizionali e nuovi attori) e multidimensionale (in un continuum che ha ai suoi estremi le dimensioni di overembeddedness e underembeddedness). Infatti, considerare il carattere relazionale, il carattere multidimensionale e soprattutto l’incrocio tra questi due caratteri dell’embeddedness permette di individuare diverse possibili articolazioni dell’assetto che i sistemi distrettuali stanno assumendo come ad esempio le modalità attraverso le quali sono integrati gli attori economici immigrati

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all’interno del sistema. Barberis, attraverso le analisi del database camerale e diverse interviste a testimoni privilegiati, giunge alla conclusione che a fronte di un evidente processo di disembedding dei sistemi distrettuali, la presenza degli imprenditori immigrati si inserisce in un processo di re-embedding le cui tendenze oggi appaiono essere, anche se in misura diversa, duplici: da un lato, quella in cui gli imprenditori immigrati contribuiscono alla ricostituzione di alcune economie distrettuali attraverso forme di breaking-out (apertura di nuovi mercati esteri, nuova cultura del lavoro, individuazione di nicchie di mercato inesplorate e/o inattese, innovazioni di prodotto, ecc …) determinando così uno stiramento e una riarticolazione del sistema distrettuale, ma non necessariamente un suo indebolimento; dall’altro lato, quella in cui gli imprenditori immigrati si inseriscono all’interno delle economie distrettuali attraverso forme di breaking-in offrendo alle imprese una alternativa alla delocalizzazione delle attività produttive faticose, ad alta densità di manodopera e a bassa intensità di capitale e permettendo alle imprese autoctone di concentrarsi sul controllo del prodotto (marketing, design, progettazione, ecc …). Entrambe le tendenze offrono vantaggi funzionali ai sistemi distrettuali, ma alla lunga possono porre dei problemi sia su un piano di competitività economica del sistema, sia, se le si osserva attraverso la prospettiva dell’embeddedness, su un piano sociale. La seconda tendenza, infatti, può determinare una dinamica di competizione interna al distretto sui costi del lavoro che, oltre ad investire in modo diretto o indiretto tutto il sistema economico locale, avrebbe ricadute anche sull’integrazione sociale degli immigrati che paradossalmente potrebbero risultare embedded all’interno di una dimensione economica ma dis-embedded su un piano sociale (in quanto sarebbero facilmente identificati come capri espiatori per l’abbattimento del livello di benessere socioeconomico diffuso). La prima tendenza, invece, può apparire come una traiettoria di sviluppo preferibile, ma l’esito della riarticolazione delle strutture fondamentali distrettuali e del tessuto socioeconomico tradizionale non è scontato né su un piano economico, né tantomeno su un piano sociale e soprattutto la trasformazione andrebbe orientata e guidata dagli attori istituzionali del territorio che tuttavia oggi più che mai non sembrano essere in grado di gestire un passaggio di tale portata. Se quello che è stato riportato sopra sono i risultati a cui sono giunti i pochi studi che sono stati svolti sul territorio modenese e reggiano, nelle pagine successive sono presentati i dati estrapolati dal Sistema Infocamere relativi agli imprenditori stranieri a Modena e Reggio Emilia. La ricostruzione su un piano quantitativo del fenomeno dell’imprenditoria degli immigrati sul territorio risulta essere una utile introduzione ai dati e alle informazioni raccolte durante la fasi di ricerca sul campo, a cui è dedicato il paragrafo terzo del presente capitolo. 3.2 Le imprese a titolare straniero a Modena e Reggio Emilia sulla base dei dati del sistema camerale locale Le imprese individuali a titolare straniero nelle province di Modena e Reggio Emilia nel 2005 ammontavano rispettivamente a 3.315 e 4.281 imprese. Nel 2009 le imprese individuali a titolare straniero erano invece 4.555 a Modena (+1.240) e 5.442 a Reggio Emilia (+1.161). Nell’arco del periodo 2005-2009, quindi, le imprese individuali a titolare straniero sono cresciute in termini assoluti più a Modena che a Reggio Emilia all’interno di un contesto regionale che ha visto crescere il numero di imprese straniere nello steso periodo di 8.435 unità. Ciò che risulta particolarmente interessante è il fatto che nello stesso periodo in cui le imprese individuali a titolare straniero sono cresciute, il numero di imprese individuali a titolare italiano è diminuito (e la stessa tendenza è possibile riscontrarla a livello regionale). Anche nel periodo in cui la crisi economica è stata più avvertita dal tessuto economico locale, le imprese individuali a titolare straniero, a differenza di quelle a titolare italiano, hanno continuato a crescere (a Reggio Emilia, tuttavia, il 2009 si è concluso con un sostanziale pareggio).

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Tab.1 - Imprese individuali a titolare straniero, a titolare italiano e totale delle imprese individuali in Emilia Romagna, Reggio Emilia e Modena. Serie storica 2005 - 2009.

Imprese a tit. straniera ER

Imprese a tit. straniera MO

Imprese a tit. straniera RE

Imprese a tit. italiano ER

Imprese a tit. italiano MO

Imprese a tit. italiano RE

Totale imprese ER

Totale imprese MO

Totale imprese RE

2005 22.713 3.315 4.281 241.591 35.304 29.131 264.362 38.622 33.424

2006 25.756 3.748 4.846 238.005 34.966 28.905 263.809 38.717 33.761

2007 28.450 4.194 5.274 234.450 34.680 28.351 262.941 38.877 33.631

2008 30.246 4.445 5.443 229.857 33.539 27.779 260.173 37.986 33.228

2009 31.148 4.555 5.442 224.800 32.810 27.028 256.012 37.367 32.476

Fonte: Sistema Infocamere

Il totale delle imprese individuali nei territori di Modena e Reggio Emilia nel 2009 è rispettivamente di 37.363 e 32.476, numeri inferiori rispetto a quelli del 2005. La crescita del totale delle imprese individuali nel territorio di Modena, infatti, si è interrotta nel 2007, anno in cui le imprese individuali raggiunsero la quota di 38.877. A Reggio Emilia, invece, la crescita del numero di imprese si interruppe un anno prima, nel 2006, anno in cui le imprese individuali del territorio raggiunsero quota 33.761. Se si prende a riferimento però solo il numero delle imprese individuali a titolare italiano nel territorio modenese e reggiano la tendenza alla decrescita in termini assoluti è collocabile in anni ben più lontani. In altri termini è possibile affermare che negli anni scorsi la crescita del totale delle imprese individuali è attribuibile in misura prevalente - e successivamente esclusivamente - alla crescita del numero delle imprese individuali a titolare straniero. Negli ultimi anni, inoltre, la diminuzione del numero di imprese individuali nel territorio di Modena e Reggio Emilia risulterebbe molto più forte se le imprese individuali a titolare straniero non crescessero. La vivacità dell’imprenditoria degli immigrati nei territori di riferimento è facilmente osservabile anche dal loro peso in percentuale sul totale delle imprese (si sta facendo riferimento sempre alle sole imprese individuali). Come è possibile osservare dal grafico seguente, il peso in percentuale delle imprese individuali a titolare straniero sul totale delle imprese individuali a partire dal 2005 cresce costantemente sia in Emilia Romagna, sia a Modena, sia a Reggio Emilia, fino ad arrivare nel 2009 rispettivamente al 12,2%, al 12, 2% e al 16,8%. A Modena il peso in percentuale delle imprese individuali a titolare straniero sul totale delle imprese si attesta in tutti gli anni presi in considerazione sul livello della media regionale. A Reggio Emilia invece il peso in percentuale delle imprese individuali a titolare straniero sul totale delle imprese individuali si attesta in tutti gli anni presi in considerazione a livelli molto superori rispetto alla media regionale.

Percentuale di imprese a titolare straniero sul totale delle imprese a Reggio Emilia, Modena ed Emilia Romagna. Serie storica 2005 - 2009

8,6%

9,8%

10,8%

11,6%

12,2%

8,6%

9,7%

10,8%

11,7%

12,2%

12,8%

14,4%

15,7%

16,4%

16,8%

2005

2006

2007

2008

2009

Inc.% imprese a t it. stran in ER Inc.% imprese a tit . stran. a MO Inc.% imprese a tit. stran. a RE

Se si osservano le variazioni percentuali annue del numero delle imprese individuali a titolare straniero a Modena, a Reggio Emilia e in Emilia Romagna è evidente il loro stato di salute soprattutto se si prendono come termine di confronto le variazioni in percentuale annue delle

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imprese individuali a titolare italiano e quelle del totale delle imprese individuali. Come è possibile osservare dai tre grafici riportati di seguito, a Modena, a Reggio Emilia e in Emilia Romagna le variazioni percentuali annue delle imprese individuali a titolare straniero degli ultimi anni sono sempre state in territorio positivo a differenza delle variazioni percentuali annue delle imprese individuali a titolare italiano e del totale delle imprese individuali che sono sempre state in territorio negativo per quel che riguarda l’Emilia Romagna e vi sono entrate a partire dal 2007 per quel che riguarda Modena e Reggio Emilia. Dagli stessi grafici emerge tuttavia il rallentamento della crescita del numero delle imprese individuali a titolare straniero in tutti i territori presi in considerazione, soprattutto a partire dal 2007.

Variazione percentuale annua delle imprese individuali a titolare straniero, italiano e totale imprese individuali in Emilia Romagna. Serie

storica 2006 - 2009

13,4%

10,5%

6,3%

3,0%

-0,2% -0,3% -1,1%

-1,5% -1,5% -2,0% -2,2%

-1,6%

-4,0%-2,0%0,0%2,0%4,0%6,0%8,0%

10,0%12,0%14,0%16,0%

Var.% 2006/2005 Var%. 2007/2006 Var.% 2008/2007 Var.% 2009/2008

Imprese a tit. stran. a ER Imprese a tit. italiano a ER Totale imprese a ER

Variazione percentuale annua delle imprese individuali a titolare straniero, italiano e totale imprese individuali a Reggio Emilia. Serie

storica 2006 - 2009.

13,2%

8,8%

3,2%

0,0%

-0,8%-2,0%

1,0%-0,4% -1,2%

-1,9% -2,7%

-2,3%

-4,0%-2,0%0,0%2,0%4,0%6,0%8,0%

10,0%12,0%14,0%

Var.% 2006/2005 Var.% 2007/2006 Var.% 2008/2007 Var.% 2009/2008

Imprese a tit. stran. a RE Imprese a tit. italiano a RE Totale imprese a RE

Variazione percentuale annua delle imprese individuali a titolare straniero, italiano e totale imprese individuali a Modena. Serie storica

2006-2009

13,1%11,9%

6,0%4,2%

-1,0% -0,8%-3,3%

-2,2%

0,2% 0,4%

-2,3% -1,6%

-6,0%-4,0%-2,0%0,0%2,0%4,0%6,0%8,0%

10,0%12,0%14,0%

Var.% 2006/2005 Var.% 2007/2006 Var.% 2008/2007 Var.% 2009/2008

Imprese a tit. stran. a MO Imprese a tit. italiano a MO Totale imprese a MO

Nel 2009 Modena e Reggio Emilia si distinguono per avere un elevato numero di imprese individuali a titolare straniero non solo rispetto alle altre province dell’Emilia Romagna, ma anche rispetto a tutte le altre province italiane (Tabella 2). Con il 16,8% di imprese individuali a titolare

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straniero sul totale delle imprese Reggio Emilia si colloca al 5° posto tra le province italiane e Modena con il 12,2% al 23° posto (4.555 imprese a titolare straniero su 37.367 imprese individuali totali). A livello nazionale, prima di Reggio Emilia si collocano solo le province di Prato, Firenze, Milano e Trieste.

Tab. 2 - Imprese individuali per provenienza del titolare e incidenza di imprese a titolare immigrato sul totale. Prime 15 province. Anno 2009.

Prov. UE Non UE Italiana Non

class. Tot. straniera Tot. Perc. str.

su tot.

1 PRATO 416 5.355 10.513 2 5.771 16.286 35,4% 2 FIRENZE 2.493 8.216 42.894 5 10.709 53.608 20,0% 3 MILANO 3.005 17.957 96.164 30 20.962 117.156 17,9% 4 TRIESTE 202 1.384 7.569 21 1.586 9.176 17,3% 5 REGGIO EMILIA 629 4.813 27.028 6 5.442 32.476 16,8% 6 PISA 502 2.928 19.335 2 3.430 22.767 15,1% 7 ROMA 6.985 17.746 142.414 192 24.731 167.337 14,8% 8 RIMINI 592 2.043 16.127 11 2.635 18.773 14,0% 9 LODI 360 1.016 8.530 12 1.376 9.918 13,9% 10 TERAMO 540 2.420 18.983 4 2.960 21.947 13,5% 11 GENOVA 675 5.126 37.290 71 5.801 43.162 13,4% 12 GORIZIA 116 717 5.369 7 833 6.209 13,4% 13 PARMA 569 2.869 22.264 4 3.438 25.706 13,4% 14 MASSA CARRARA 415 1.083 9.801 75 1.498 11.374 13,2% 15 TORINO 6.141 10.443 109.648 14 16.584 126.246 13,1%

Fonte: Sistema Infocamere

Entrambe le province risultano avere un peso in percentuale di imprese individuali a titolare straniero sul totale delle imprese individuali superiore rispetto alla media italiana (che, infatti, risulta essere il 9,6%, 323.070 su 3.369.390). E’ bene tenere presente, tuttavia, che la vitalità dell’imprenditoria degli immigrati nelle province di Modena e Reggio Emilia si colloca in un contesto regionale che presenta, relativamente all’imprenditoria degli immigrati, caratteristiche analoghe. Superiore alla media italiana, infatti, risulta essere anche la percentuale delle imprese individuali a titolare straniero sul totale delle imprese individuali dell’intera regione Emilia Romagna con il 12,2%. Nel 2009, l’Emilia Romagna risulta essere la 4° regione in Italia per percentuale di imprese individuali a titolare straniero dopo Toscana, Lombardia e Liguria. Inoltre, se si prende in considerazione la percentuale relativa alla distribuzione delle imprese individuali a titolare straniero tra le regioni italiane, l’Emilia Romagna con il 9,64% risulta essere la 3° regione in Italia dopo Lombardia e Toscana. In altri termini in Italia quasi una impresa individuale a titolare straniero su dieci è situata in Emilia Romagna. Per quel che riguarda la distribuzione delle imprese individuali a titolare straniero per settori produttivi, nel 2009 la netta maggioranza delle imprese di Modena e Reggio Emilia risultano appartenere al settore delle costruzioni. In particolare, a Reggio Emilia le imprese del settore delle costruzioni rappresentano il 56,4% del totale delle imprese individuali a titolare straniero (tab. 3) e a Modena il 40,1% (tab. 4). In regione, invece, le imprese del settore delle costruzioni rappresentano il 47,0% del totale delle imprese individuali a titolare straniero. La vocazione produttiva prevalente dell’imprenditoria degli immigrati nella regione Emilia Romagna e nei territori di Modena e Reggio Emilia, dunque, è piuttosto evidente ed è simile alla tendenza che si registra nelle altre regioni del nord Italia. Tuttavia se si prendono in considerazione i settori prevalenti a cui appartengono le imprese individuali a titolare straniero che per dimensione seguono quello delle costruzioni emerge chiaramente il peso che hanno le imprese individuali a titolare straniero appartenenti al settore delle attività manifatturiere nelle province di Modena e Reggio Emilia e questa è certamente una caratteristica specifica di questi due territori. A Reggio Emilia le imprese manifatturiere

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rappresentano il 19,3% del totale delle imprese individuali a titolare straniero (tab. 3) e a Modena il 20,3% (tab. 4). Percentuali così elevate di imprese manifatturiere tra le imprese individuali a titolare straniero non sono presenti in nessuna altra provincia dell’Emilia Romagna e, in generale, è difficile riscontrarle in altre province italiane. Nella stessa regione Emilia Romagna le imprese manifatturiere rappresentano solo l’11,8% del totale delle imprese individuali a titolare straniero (percentuale però tra le più elevate rispetto alle altre regioni italiane). L’altro settore largamente prevalente nelle due province di riferimento è quello del commercio all’ingrosso e al dettaglio anche se la differenza del peso in percentuale sul totale delle imprese individuali a titolare straniero che si registra a Modena (22,2%) e in generale in Emilia Romagna (24,0%) è significativamente più alto di quello che si registra a Reggio Emilia (14,2%). Tab. 3 - Imprese individuali a titolare immigrato suddivise per settori. Reggio Emilia. Anno 2009.

Settore UE Non UE Tot. stran. Percentuale F Costruzioni 367 2.704 3.071 56,4% C Attività manifatturiere 36 1.017 1.053 19,3% G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut... 98 674 772 14,2% I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 27 111 138 2,5% N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp... 15 86 101 1,9% H Trasporto e magazzinaggio 14 64 78 1,4% S Altre attività di servizi 26 36 62 1,1% J Servizi di informazione e comunicazione 6 47 53 1,0% A Agricoltura, silvicoltura pesca 16 25 41 0,8% M Attività professionali, scientifiche e tecniche 12 15 27 0,5% K Attività finanziarie e assicurative 6 12 18 0,3% R Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e diver... 3 9 12 0,2% L Attività immobiliari 1 7 8 0,1% P Istruzione 2 1 3 0,1% X Imprese non classificate - 2 2 0,0% B Estrazione di minerali da cave e miniere - 1 1 0,0% E Fornitura di acqua; reti fognarie, attività di gestione d... - 1 1 0,0% Q Sanità e assistenza sociale - 1 1 0,0% Totale 629 4.813 5.442 100,0% Fonte: Sistema Infocamere

Tab. 4 - Imprese individuali a titolare immigrato suddivise per settori. Modena. Anno 2009. Settore UE Non UE Tot Percentuale F Costruzioni 356 1.469 1.825 40,1% G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut... 120 890 1.010 22,2% C Attività manifatturiere 81 842 923 20,3% I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 31 159 190 4,2% H Trasporto e magazzinaggio 22 158 180 4,0% N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp... 21 104 125 2,7% S Altre attività di servizi 35 46 81 1,8% A Agricoltura, silvicoltura pesca 29 41 70 1,5% M Attività professionali, scientifiche e tecniche 10 45 55 1,2% J Servizi di informazione e comunicazione 6 46 52 1,1% K Attività finanziarie e assicurative 4 11 15 0,3% R Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e diver... 2 7 9 0,2% X Imprese non classificate 1 8 9 0,2% L Attività immobiliari 4 3 7 0,2% P Istruzione 3 - 3 0,1%

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Q Sanità e assistenza sociale 1 - 1 0,0% Totale 726 3.829 4.555 100,0% Fonte: Sistema Infocamere

Per quel che riguarda le nazionalità dei titolari stranieri di imprese individuali nel 2009, a Reggio Emilia la nazionalità cinese risulta essere quella prevalente con il 17,7%, seguita da quella albanese con il 15,8%, da quella tunisina con il 12,2% e da quella marocchina con l’11,3% (tab. 5). Il 56,9% dei titolari stranieri di imprese individuali in provincia di Reggio Emilia appartengono alle prime quattro nazionalità. A Modena, sempre nel 2009, le prime quattro nazionalità dei titolari stranieri di imprese individuali risultano essere le stesse che a Reggio Emilia, ma in ordine differente: in questo caso infatti la nazionalità prevalente risulta essere la marocchina con il 18,2%, seguita dalla cinese con il 16,7%, dalla tunisina con il 9,5% e dall’albanese con il 9,4% (tab. 6). Il 53,8% dei titolari stranieri di imprese individuali in provincia di Modena appartengono alle prime quattro nazionalità.

Tab. 5 - Titolari immigrati di imprese individuali a RE (prov.). Prime 4 nazionalità. Anno 2009.

Nazionalità N.

% su totale di impr. a titolare straniero

CINA 962 17,7% ALBANIA 862 15,8% TUNISIA 662 12,2% MAROCCO 614 11,3% Altri 2.348 43,1% Totale 5.448 100% Fonte: Sistema Infocamere

Tab. 6 - Titolari immigrati di imprese individuali a MO (prov.). Prime 4 nazionalità. Anno 2009.

Nazionalità N.

% su totale di impr. a titolare straniero

MAROCCO 831 18,2% CINA 760 16,7% TUNISIA 433 9,5% ALBANIA 427 9,4% Altri 2.106 46,2% Totale 4.557 100% Fonte: Sistema Infocamere

Nel 2009 le nazionalità prevalenti tra i titolari stranieri di imprese individuali nei territori di Modena e Reggio Emilia rispecchiano le nazionalità prevalenti tra i titolari stranieri di imprese individuali di tutta la regione Emilia Romagna. Tuttavia a livello regionale cambia il peso di ciascuna nazionalità e soprattutto alle prime quattro nazionalità non appartiene oltre il 50% dei titolari stranieri di imprese individuali come si registra invece elle due province prese in considerazione. Le nazionalità albanese, marocchina e cinese risultano essere anche tra le prime quattro nazionalità dei titolari stranieri di imprese individuali a livello nazionale. Tuttavia a livello nazionale la seconda nazionalità tra i titolari stranieri di imprese individuali risulta essere quella rumena con il 10,8%, che in Emilia Romagna occupa una posizione molto inferiore. 3.3 La ricerca: gli imprenditori metalmeccanici marocchini, tunisini ed egiziani nella province di Modena e Reggio Emilia In questo paragrafo sono esposti i risultati della ricerca effettuata nell’area di Modena e Reggio Emilia sugli imprenditori marocchini, tunisini ed egiziani nel settore metalmeccanico. La ricerca si è svolta nella primavera/estate del 2010 (anche se le ultime interviste sono state effettuate nell’autunno dello stesso anno). La tecnica d’intervista utilizzata è stata quella di una intervista strutturata svolta face to face. Contemporaneamente sono state svolte alcune interviste semi-strutturate con alcuni osservatori privilegiati che vivono o lavorano sul territorio. Il campionamento dei soggetti a cui somministrare il questionario è stato fatto sulla base della tecnica snow-ball basandosi sulle reti di relazione tra immigrati e/o autoctoni. Nella prima fase l’individuazione dei punti di partenza delle catene è stata individuata nelle associazioni di categoria dei due territori (CNA, API, Confartigianato, Confindustria) alle quali è stato richiesto di fornire i recapiti telefonici degli associati di origine marocchina, tunisina ed egiziana della categoria

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metalmeccanica. Solo alcune delle associazioni hanno fornito elenchi di nominativi con i rispettivi numeri di telefono. In particolare è la CNA che ha messo a disposizione il maggior numero di nominativi di soggetti a cui richiedere la disponibilità per svolgere una intervista. Le altre associazioni di categoria o non hanno mai risposto o hanno dichiarato di non avere iscritti con le caratteristiche richieste o hanno fornito elenchi di nominativi di soggetti che si sono rivelati irrintracciabili. Si è deciso quindi di attivare anche altri punti di partenza delle catene e per la precisione il centro interculturale Mondinsieme, l’Associazione Egiziana di Montecchio e la FIOM-CGIL. I primi due punti di partenza hanno dato qualche risultato ma non quelli sperati all’inizio. Nota a parte merita il punto di partenza della FIOM-CGIL. La richiesta che è stata fatta alla FIOM-CGIL è consistita nel domandare gli indirizzi o i numeri di telefono degli imprenditori (artigiani e non) di origine marocchina, tunisina ed egiziana contenuti nel proprio database. La FIOM-CGIL, infatti, possiede un database informatizzato in cui sono contenute diverse informazioni sugli iscritti, comprese le informazioni relative alle imprese in cui gli iscritti sono impiegati tra cui anche il nome e cognome del titolare, la sua nazionalità, il numero di telefono e l’indirizzo dell’impresa. In altri termini se anche un solo lavoratore di una “impresa X” risulta essere tesserato alla FIOM-CGIL di Modena o di Reggio Emilia, il nome dell’”impresa X” e le informazioni relative al titolare dovrebbero risultare presenti sul database. Dal database in questione non è risultato nessun nome che potesse ricondurre ad una delle tre nazionalità di cui si era alla ricerca. Questo punto di partenza, dunque è risultato fallimentare. Tenuto conto però del tasso di sindacalizzazione che la FIOM-CGIL registra sui due territori di Modena e Reggio Emilia, il fatto che nel database non fosse registrata nessuna impresa a titolare marocchino, tunisino o egiziano appare come un dato di per sé interessante e su cui riflettere. Il punto di partenza più efficace, quindi, è stato indubbiamente quello della CNA. Successivamente si sono contattati telefonicamente i soggetti di cui si è avuto il nominativo e il numero di telefono. In molti casi la disponibilità a svolgere una intervista è stata negata. I motivi per il rifiuto a svolgere l’intervista sono stati diversi: qualcuno si è dichiarato non in grado di svolgere una intervista in lingua italiana; qualcun altro ha sostenuto di non fidarsi; altri hanno sostenuto di essere “stanchi di fare interviste di questo tipo”; altri ancora hanno dichiarato di essere troppo impegnati in quel periodo e hanno continuamente rimandato l’intervista. Quelli che hanno accettato di svolgere l’intervista, tuttavia, si sono dimostrati disponibili a rispondere a tutte le domande e si è instaurato un clima favorevole tra intervistato e intervistatore. Le interviste si sono svolte prevalentemente durante i finesettimana o durante giorni lavorativi nel tardo pomeriggio nei luoghi più disparati: nei luoghi di lavoro, nei bar, nelle gelaterie, in un ufficio dell’Università di Reggio Emilia, a casa dell’intervistato, ecc … Ciò è dovuto al fatto che al momento del contatto si è lasciato scegliere all’intervistato il luogo che riteneva più adatto per svolgere l’intervista. Unici due elementi critici rispetto allo svolgimento delle interviste è stato quello della scarsa conoscenza della lingua italiana da parte di alcuni soggetti e della renitenza da parte di molti dei soggetti intervistati a fornire all’intervistatore nominativi di imprenditori metalmeccanici marocchini, tunisini e/o egiziani. Al momento della chiusura della fase di rilevazione, le interviste agli imprenditori metalmeccanici effettuate sono risultate essere complessivamente 29: 20 marocchini, 7 tunisini e 2 egiziani. Due tra gli intervistati avevano la doppia cittadinanza, ma nessuno di loro è nato in Italia. Tutti gli intervistati sono maschi compresi tra una età di 26 e di 64 anni. Prima di dar conto di alcuni risultati della ricerca e di illustrare alcune riflessioni a caldo, risulta utile fornire un quadro il più possibile esaustivo di quali siano le dimensioni e le caratteristiche dell’imprenditoria degli immigrati marocchini, tunisini ed egiziani nel territorio di Modena e Reggio Emilia attraverso alcune elaborazioni sui dati contenuti nel Sistema Infocamere. 3.3.1 I dati provenienti dal sistema camerale locale sulle imprese a titolare marocchino, tunisino ed egiziano delle province di Modena e Reggio Emilia. Secondo i dati provenienti dal Sistema Infocamere, quindi, nel 2009 i gruppi nazionali marocchino e tunisino risultano essere tra quelli a maggiore vocazione imprenditoriale nel territorio reggiano e

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modenese. Molto meno rappresentata tra i titolari stranieri di imprese individuali è la nazionalità egiziana, la quale nelle province di Modena e Reggio Emilia conta circa mezzo migliaio di imprenditori. Per quel che riguarda la nazionalità marocchina, la tabella che segue mostra che nel 2009 il settore maggiormente rappresentato nelle due province di riferimento (il dato è aggregato) è quello delle costruzioni con il 38,5%; segue di poco il settore del commercio al dettaglio e all’ingrosso con il 37,8% e le attività manifatturiere con l’11,1% (tab. 7). Come si capirà meglio in seguito, gli imprenditori marocchini nei due territori si concentrano in misura molto minore che gli imprenditori tunisini ed egiziani nel settore delle costruzioni.

Tab. 7 - Imprese individuali a titolare di nazionalità marocchina in provincia di Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per settore. Anno 2009 Attività Numero Percentuale F Costruzioni 556 38,5% G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut... 546 37,8% C Attività manifatturiere 160 11,1% H Trasporto e magazzinaggio 69 4,8% N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp... 38 2,6% I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 29 2,0% J Servizi di informazione e comunicazione 21 1,5% S Altre attività di servizi 12 0,8% M Attività professionali, scientifiche e tecniche 4 0,3% A Agricoltura, silvicoltura pesca 2 0,1% K Attività finanziarie e assicurative 2 0,1% R Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e diver... 2 0,1% X Imprese non classificate 2 0,1% B Estrazione di minerali da cave e miniere 1 0,1% L Attività immobiliari 1 0,1% Totale 1.445 100,0% Fonte: Sistema Infocamere

Tra i 160 titolari marocchini di imprese individuali che risultano appartenere al settore manifatturiero, 130 (l’81,2%) possiedono imprese metalmeccaniche (tab. 8). La larga maggioranza di queste risultano essere imprese di fabbricazione di prodotti in metallo.

Tab. 8 - Imprese individuali a titolare di nazionalità marocchina in provincia di Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per attività del settore manifatturiero. Anno 2009 Attività Numero Percentuale C 25 Fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari ... 106 66,3% C 33 Riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed... 13 8,1% C 10 Industrie alimentari 8 5,0% C 16 Industria del legno e dei prodotti in legno e sughero (es... 8 5,0% C 28 Fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 8 5,0% C 23 Fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di miner.. 7 4,4% C 14 Confezione di articoli di abbigliamento; confezione di ar... 3 1,9% C 22 Fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche 2 1,3% C 32 Altre industrie manifatturiere 2 1,3% C 24 Metallurgia 1 0,6% C 29 Fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi 1 0,6% C 30 Fabbricazione di altri mezzi di trasporto 1 0,6% Fonte: Sistema Infocamere

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Anche per quel che riguarda i titolari tunisini di imprese individuali, nel 2009 il settore maggiormente rappresentato nelle due province di riferimento (anche in questo caso il dato è aggregato) è quello delle costruzioni con il 83,5%; segue a distanza il settore delle attività manifatturiere con il 7,1% e quello del commercio all’ingrosso e al dettaglio con il 4,1% (tab. 9). Nel caso della nazionalità tunisina, quindi, nel territorio di Modena e Reggio Emilia si registra una forte concentrazione dei titolari di imprese individuali nel settore delle costruzioni, mentre gli altri settori sembrano avere un carattere più residuale.

Tab. 9 - Imprese individuali a titolare di nazionalità tunisina in provincia di Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per settore. Anno 2009 Attività Numero Percentuale F Costruzioni 914 83,5% C Attività manifatturiere 78 7,1% G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut... 45 4,1% H Trasporto e magazzinaggio 28 2,6% N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp... 9 0,8% I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 7 0,6% S Altre attività di servizi 5 0,5% M Attività professionali, scientifiche e tecniche 4 0,4% J Servizi di informazione e comunicazione 2 0,2% X Imprese non classificate 2 0,2% A Agricoltura, silvicoltura pesca 1 0,1% Totale 1.095 100,0% Fonte: Sistema Infocamere

Tra i 78 titolari tunisini di imprese individuali che risultano appartenere al settore manifatturiero, 60 (l’81,2%) possiedono imprese metalmeccaniche (tab. 10). Anche in questo caso la larga maggioranza di queste risultano essere imprese di fabbricazione di prodotti in metallo.

Tab. 10 - Imprese individuali a titolare di nazionalità tunisina in provincia di Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per attività del settore manifatturiero. Anno 2009 Attività Numero Percentuale C 25 Fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari ... 53 21,0% C 16 Industria del legno e dei prodotti in legno e sughero (es... 6 2,4% C 23 Fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di miner.. 4 1,6% C 33 Riparazione, manutenzione ed installazione di macchine ed... 4 1,6% C 14 Confezione di articoli di abbigliamento; confezione di ar... 3 1,2% C 28 Fabbricazione di macchinari ed apparecchiature nca 3 1,2% C 10 Industrie alimentari 2 0,8% C 13 Industrie tessili 1 0,4% C 31 Fabbricazione di mobili 1 0,4% C 32 Altre industrie manifatturiere 1 0,4% Fonte: Sistema Infocamere

Infine, per quel che riguarda i titolari egiziani di imprese individuali, nel 2009 il settore maggiormente rappresentato nelle due province di riferimento (anche in questo caso il dato è aggregato) è quello delle costruzioni con il 87,5%, seguito a distanza dal settore del commercio all’ingrosso e al dettaglio con il 4,6%, da quello dei servizi di alloggio e ristorazione con il 3,0%; il settore delle attività manifatturiere in questo caso rappresenta solo il 2,8% (tab. 11). Anche nel caso della nazionalità egiziana, quindi, nel territorio di Modena e Reggio Emilia si registra una forte concentrazione dei titolari di imprese individuali nel settore delle costruzioni.

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Tab. 11 - Imprese individuali a titolare di nazionalità egiziana in provincia di Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per settore. Anno 2009 Attività Numero Percentuale F Costruzioni 434 87,5% G Commercio all'ingrosso e al dettaglio; riparazione di aut... 23 4,6% I Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 15 3,0% C Attività manifatturiere 14 2,8% H Trasporto e magazzinaggio 5 1,0% N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imp... 2 0,4% J Servizi di informazione e comunicazione 1 0,2% L Attività immobiliari 1 0,2% R Attività artistiche, sportive, di intrattenimento e diver... 1 0,2% Totale 496 100,0% Fonte: Sistema Infocamere

Tra i 14 titolari egiziani di imprese individuali che risultano appartenere al settore manifatturiero, 9 possiedono imprese metal meccaniche e tutte risultano essere imprese di fabbricazione di prodotti in metallo (tab. 12).

Tab. 12 - Imprese individuali a titolare di nazionalità egiziana in provincia di Modena e Reggio Emilia. Disaggregazione per attività del settore manifatturiero. Anno 2009 Attività Numero Percentuale C 25 Fabbricazione di prodotti in metallo (esclusi macchinari ... 9 64,3% C 10 Industrie alimentari 2 14,3% C 29 Fabbricazione di autoveicoli, rimorchi e semirimorchi 2 14,3% C 23 Fabbricazione di altri prodotti della lavorazione di miner.. 1 7,1% Fonte: Sistema Infocamere

3.3.2 Le interviste con gli imprenditori marocchini, tunisini ed egiziani del settore metalmeccanico nelle province di Modena e Reggio Emilia Questa parte del rapporto è dedicata, come è già stato anticipato sopra, ai primi risultati della ricerca che si è svolta a Modena e Reggio Emilia. Ci si limiterà a fare una analisi descrittiva dei dati raccolti rimandando per analisi più raffinate e complesse ad ulteriori approfondimenti futuri. Questa sede, tuttavia, sembra essere la più adeguata anche per fare alcune riflessioni anche sulla base dello svolgimento delle interviste e sulle note a margine che l’intervistatore ha prodotto. Essendo molte le informazioni che si sono prodotte attraverso la somministrazione dei questionari è stato necessario operare una selezione degli argomenti. Nelle prossime pagine ci si limiterà a riporre l’attenzione, quindi, sugli aspetti socio anagrafici, sui percorsi migratori e sulle carriere degli imprenditori immigrati intervistati. Infine si dedicheranno le ultime pagine alle caratteristiche delle imprese di cui sono titolari gli intervistati. 3.3.2.1 Capitale culturale, provenienza famigliare e sociale degli intervistati In generale gli imprenditori intervistati risultano possedere un livello di scolarizzazione medio-alto: in 3 casi su 29 gli intervistati hanno dichiarato di avere conseguito una laurea, in 14 casi un diploma, in 10 casi la licenza media o l’avviamento professionale; solo in 2 casi gli intervistati hanno dichiarato di possedere la licenza elementare. La larga maggioranza dei titoli di studio sono stati conseguiti dagli intervistati nei paesi d’origine (Marocco, Tunisia ed Egitto), ma 6 tra i diplomati e i laureati hanno dichiarato di avere acquisito il diploma o la laurea in Italia o in Francia.

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Tab.13 Titolo di studio degli intervistati

Valore assoluto %

licenza elementare 2 6,9 licenza media 6 20,7 avviamento professionale 4 13,8 diploma 14 48,3 laurea 3 10,3 Totale 29 100,0

Su 29 intervistati, 5 hanno dichiarato di conoscere due lingue (la lingua madre e l’italiano); 15 intervistati hanno dichiarato, invece, di conoscere una terza lingua oltre all’italiano e alla lingua madre e ben 9 intervistati hanno sostenuto di conoscere quattro o più lingue. Questi due dati sembrano indicare che il capitale culturale degli intervistati, in generale, sia tendenzialmente alto. Gli imprenditori durante le interviste hanno spesso sostenuto che possedere una formazione scolastica, al di là del riconoscimento dei titoli di studio, e sapere parlare più lingue ha rappresentato in passato e rappresenta ancora oggi un fattore che ha facilitato la loro attività lavorativa e in particolare quella imprenditoriale. 24 dei 29 imprenditori intervistati sono risultati essere di estrazione urbana: 17 delle famiglie di origine degli intervistati vivevano in città con oltre un milione di abitanti, mentre 7 in città al di sotto del milione di abitanti; solo 5 degli intervistati hanno dichiarato che la famiglia d’origine viveva in piccoli paesi di poche migliaia di abitanti e nessuno abitava in campagna. Le famiglie d’origine degli intervistati sembrano appartenere in parte al proletariato urbano e in parte al ceto medio cittadino. Alla domanda “Come definirebbe le condizioni economiche della sua famiglia di origine rispetto a quelle delle altre famiglie locali?” le risposte degli intervistati sono risultate nettamente polarizzate (tab.13): solo 5 tra gli intervistati ritengono che la famiglia d’origine avesse condizioni economiche un po’ peggiori delle altre; 20 intervistati (quasi il 70%) ritengono, invece, che la famiglia d’origine avesse condizioni economiche più o meno uguali alle altre, mentre in 4 sostengono che la loro famiglia d’origine avesse condizioni un po’ migliori o molto migliori delle altre. Significativo è il fatto che nessuno degli intervistati ha dichiarato che la propria famiglia d’origine avesse condizioni economiche molto peggiori rispetto alle altre famiglie. L’occupazione prevalente del padre degli intervistati è risultata essere quella dell’operaio (tab.14); solo in 4 tra i 29 intervistati hanno dichiarato che l’attività prevalente del padre fosse l’attività agricola; il restante degli intervistati ha indicato come attività del padre svariate professioni (commerciante, artigiano, impiegato, dirigente, insegnante, ecc…). Tab13. Condizioni economiche della famiglia di origine degli intervistati

Valore assoluto %

molto migliori 1 3,4 un po' migliori 3 10,3 più o meno come le altre 20 69,0 un po' peggiori 5 17,2 Total 29 100,0

Tab.14 Occupazione prevalente del padre degli intervistati

Valore assoluto %

contadino 4 13,8 operaio 10 34,5 commerciante 2 6,9 artigiano 2 6,9 impiegato 3 10,3 insegnante 2 6,9 dirigente 1 3,4 altro 5 17,2 Total 29 100,0

In 9 tra gli intervistati (il 31%) hanno dichiarato di avere parenti titolari di altre imprese. Se l’alta presenza di intervistati che hanno dichiarato di avere parenti titolari di altre imprese può essere

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interpretata come l’esistenza di una propensione/tradizione famigliare ad intraprendere, dall’altra è necessario interpretare questo dato con estrema cautela. A ben vedere, infatti, tra coloro che hanno risposto affermativamente alla domanda “ha parenti titolari di altre imprese” solo 1 soggetto ha risposto indicando in un genitore il parente titolare di impresa. La maggioranza dei parenti indicati come titolari di altre imprese, infatti, sono risultati essere fratelli, sorelle e cugini e nella larghissima maggioranza dei casi l’attività imprenditoriale da parte di parenti è stata avviata durante una esperienza di immigrazione e non nel paese di origine. Coerentemente con ciò che è largamente condiviso all’interno dei migration studies, gli immigrati intervistati non sembrano appartenere alla fascia più povera della popolazione del loro paese d’origine. Anche dal dato relativo al tipo di attività che gli intervistati stavano svolgendo al momento della partenza dal proprio paese d’origine si ricava la stessa impressione: 11 intervistati, infatti, hanno dichiarato che al momento della partenza stavano studiando, 16 che stavano lavorando e solo 2 che erano in cerca di lavoro (corrispondente ad una percentuale inferiore al 7%). Alla domanda poi “ha mai lavorato al proprio paese”, il numero di chi ha risposto affermativamente sale a 17. Tra questi, 10 hanno iniziato a lavorare solo dopo il compimento della maggiore età e solo 6 prima dei quindici anni (una percentuale certamente bassa se contestualizzata nei paesi d’origine degli intervistati). Le professioni di coloro che hanno dichiarato di avere lavorato nel paese d’origine sono risultate essere molto diverse. Quelle che, tuttavia, registrano percentuali più alte sono l’idraulico (3 casi), l’operaio (3 casi) e il muratore (2 casi). I settori in cui gli intervistati stavano lavorando nel momento in cui sono partiti dal proprio paese sono risultati essere le costruzioni e la lavorazione di metalli e la meccanica. 3.3.2.2 La partenza dal paese d’origine, l’arrivo in Italia il percorso migratorio e l’attuale condizione di residenza degli intervistati Dalle interviste si evince chiaramente che tra i fattori di spinta che hanno svolto un ruolo determinante per la decisione di emigrare presa dagli intervistati al momento della partenza dal loro paese d’origine, i fattori legati alla condizione economica e sociale risultano essere i maggioritari. Osservando, infatti, la tabella che riporta le risposte che gli intervistati hanno dato alla domanda “cosa l’ha spinto a partire dal suo paese d’origine?” (era lasciata la possibilità agli intervistati di fornire più di una risposta) risulta chiaro come in 19 tra gli intervistati hanno dichiarato che tra i motivi della partenza “i problemi economici” abbiano rappresentato un elemento importante. Sempre in 19 hanno indicato “il desiderio di promozione”, risposta più complessa, ma che ha sempre a che fare con la condizione sociale dei soggetti nei paesi d’origine. Significativo è anche il fatto che “desiderio di libertà” e “spirito di avventura” siano stati i fattori di spinta indicati rispettivamente da 11 e 16 degli intervistati. Nessuno tra gli intervistati ha dichiarato che tra i motivi di spinta siano rientrati fattori politici.

Tab.15 Fattori di spinta

Motivi

N. intervistati che hanno risposto

% sul totale degli intervistati

economici 19 65,5% politici 0 0,0% studio 1 3,4% libertà 11 37,9% avventura 16 55,2% promozione 19 65,5% ricongiung. 2 6,9%

Tab.16 Fattori di attrazione

Motivi

N. intervistati che hanno risposto

% sul totale degli intervistati

presenza di parenti 8 27,6% presenza di connaz 15 51,7% facilità d'ingresso 7 24,1% prossimità culturale 16 55,2% opport. di lavoro 9 31,0%

Rispetto all’età che gli intervistati avevano quando sono partiti dal loro paese d’origine, in 10 avevano meno di 21 anni, in 9 da 21 a 25 anni, in 6 tra 26 e 30 anni e in 4 avevano oltre 30 anni. La larga maggioranza degli intervistati (in 24 casi su 29, l’82,8% del totale), inoltre, ha dichiarato che

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l’Italia è stato il primo paese d’immigrazione, mentre quattro tra i soggetti intervistati hanno dichiarato di avere fatto una esperienza migratoria in altri due paesi europei (Francia e Germania) prima di arrivare in Italia. Riguardo, invece, ai fattori di attrazione, osservando la tabella che riporta le risposte che gli intervistati hanno dato alla domanda “cosa l’ha attratta verso l’Italia” (anche in questo caso era lasciata la possibilità agli intervistati di fornire più di una risposta) è interessante notare che 16 di loro hanno risposto “prossimità culturale”; la risposta “presenza di connazionali” è stata data da 15 intervistati e in 8 hanno risposto “presenza di parenti”; solo 9 intervistati hanno risposto “opportunità di lavoro” e solo in 7 hanno risposto “facilità di ingresso”.In generale sembra delinearsi una certa debolezza dei fattori di attrazione strutturali e, di converso, una certa forza dei fattori culturali/soggettivi e delle strutture a livello meso quali possono essere le reti dei migranti. Dalle risposte, infatti, emerge l’importanza che le reti di connazionali e le reti famigliari rivestono all’interno del processo decisionale che porta gli immigrati a scegliere il paese di destinazione e il peso che può avere nella scelta della destinazione la percezione della cultura presente nel paese (in realtà, al termine cultura gli intervistati attribuivano significati molto differenti). La tabella successiva mostra il periodo in cui gli intervistati hanno dichiarato di essere arrivati in Italia. Ben oltre la metà di loro risultano essere arrivati in Italia prima del 1992 (e hanno almeno 20 anni di immigrazione alle spalle) e 26 intervistati su 29 (l’89,6% del totale) è arrivato in Italia prima del 1999.

Tab.17 Anno arrivo in Italia degli intervistati

Valore assoluto %

1971-1986 3 10,3 1987-1992 16 55,2 1993-1998 7 24,1 1999-2002 1 3,4 2003-2010 2 6,9 Total 29 100,0

Oltre la metà degli intervistati è arrivata direttamente nelle province in cui al momento dell’intervista viveva e lavorava (Modena e Reggio Emilia) e non hanno mai cambiato la loro residenza; 14 intervistati, invece, hanno dichiarato di avere abitato per periodi più o meno lunghi anche in altre province italiane. Napoli e Palermo sembrano essere le due città (o province) che hanno rappresentato le tappe italiane intermedie per la maggior parte degli intervistati che non risiedono da sempre a Modena e Reggio Emilia. Gli intervistati risultano essere altamente stabilizzati sul territorio. La quasi totalità degli intervistati (28 su 29) al momento dell’intervista era coniugato e in un caso è risultato divorziato. Solo in un caso la nazionalità dei partner non è risultata la stessa degli intervistati. 28 intervistati su 29, inoltre, sono risultati avere figli. A differenza delle famiglie d’origine degli intervistati, in generale famiglie numerose, le famiglie che gli intervistati hanno costituito tendono ad essere famiglie più ristrette: 17 degli intervistati che hanno dichiarato avere figli, infatti, non ne hanno più di due. Quasi tutti gli intervistati hanno dichiarato di vivere con le loro famiglie, ma anche il nucleo abitativo rispecchia il ridimensionamento della famiglia: solo 9 degli intervistati hanno dichiarato di vivere con quattro o più perone (prevalentemente i/le figli/e e la partner). 3.3.2.3 La carriera lavorativa e l’inizio dell’attività imprenditoriale Tutti gli intervistati hanno dichiarato che prima di avviare l’attività imprenditoriale hanno svolto altri lavori. Per la totalità dei soggetti con cui si è svolta l’intervista il primo lavoro svolto in Italia è stato alle dipendenze di un datore di lavoro italiano. I settori di attività del primo lavoro in Italia che hanno svolto gli intervistati risultano essere i più svariati, ma in 25 (circa l’86% del totale) hanno

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comunque dichiarato di avere lavorato in settori appartenenti al macrosettore secondario; le professioni prevalenti risultano essere l’operaio (15 casi su 29) e il muratore (5 casi su 29). Tab.18 Settore del primo lavoro in Italia Valore assoluto % agricoltura, caccia pesca estrazione minerali 2 7,5% commercio 1 3% lavorazione dei metalli e meccanica 13 45% altro manifatturiero 5 17% costruzioni 7 24% ristorazione e alberghiero 1 3,5% Total 29 100%

Tab.19 Primo lavoro in Italia

Valore assoluto %

bracciante agricolo 2 7,5% fornaio 1 3,5% operaio 15 52% saldatore 1 3,5% meccanico 2 7,5% idraulico 2 7,5% muratore 5 17% lavapiatti 1 3% Total 29 100%

Per quasi un terzo degli intervistati, il primo lavoro che hanno trovato in Italia è stato il lavoro che hanno svolto fino a diventare imprenditori. Gli altri intervistati (20 soggetti), invece, hanno cambiato due o più lavori prima di avviare l’attività imprenditoriale di cui erano titolari al momento dell’intervista: tra questi 20 casi, in 13 hanno cambiato da 2 a 4 lavori, in 5 da 5 a 7 lavori e in 3 da 8 a 10 lavori. Tra i 20 soggetti intervistati che hanno svolto due o più lavori, oltre la metà ha dichiarato che il lavoro più importante (per durata) svolto successivamente al primo lavoro in Italia è stato quello di operaio e il settore prevalente in cui hanno dichiarato di essere stati impiegati è quello della lavorazione dei metalli e della meccanica. Ciò che è interessante notare è il fatto che, al di là del numero di lavori cambiati, l’ultimo lavoro svolto dagli intervistati prima di avviare l’attività imprenditoriale di cui erano titolari al momento dell’intervista è nella quasi totalità dei casi un lavoro da operaio in una impresa del settore della lavorazione dei metalli e della meccanica. In altri termini, l’inserimento nel mercato del lavoro del settore metalmeccanico è avvenuto a diverse velocità a seconda dei casi, ma almeno una esperienza passata da lavoratore dipendente in una impresa metalmeccanica sembra essere una ricorrenza frequente nella biografia lavorativa degli intervistati. Nella tabella seguente sono riportati gli anni che sono passati dall’arrivo in Italia degli intervistati all’avvio dell’attività imprenditoriale. Nel campione di imprenditori immigrati a cui è stato somministrato il questionario, in media, dall’arrivo in Italia all’avvio dell’impresa, sono passati 10 anni e mezzo. Dal sesto al decimo anno di presenza in Italia sembra essere il periodo in cui più di un terzo degli intervistai ha avviato la propria impresa.

Tab.20 Anni trascorsi dall'arrivo in Italia all'avv io impresa

Valore assoluto %

Valore assoluto %

2 anni 1 3,4 10 anni 2 6,9 3 anni 1 3,4 11 anni 2 6,9 4 anni 1 3,4 12 anni 2 6,9 5 anni 3 10,3 14 anni 2 6,9 6 anni 3 10,3 16 anni 4 13,8 7 anni 1 3,4 17 anni 1 3,4 8 anni 3 10,3 18 anni 1 3,4 9 anni 1 3,4 30 anni 1 3,4 Total 29 100,0

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Quasi tutti gli intervistati, 26 su 29 (circa il 90%), hanno dichiarato che nel momento in cui hanno avviato l’attività imprenditoriale stavano lavorando e solo in 3 erano in cerca di occupazione. Quasi tutti gli imprenditori intervistati,26 su 29 (sempre circa il 90%) hanno utilizzato capitale proprio (spesso i propri risparmi o la propria liquidazione) per avviare l’attività, la quale, sempre per quasi tutti gli intervistati, 28 su 29, è stata fondata ex-novo e non rilevata da altri.

Tab.21 Stato occupazionale degli intervistati al momento dell'avviamento dell'attività

Valore assoluto %

in cerca di occupazione 3 10,3 lavorava 26 89,7 Total 29 100,0

Il dato sullo stato occupazionale degli intervistati al momento dell’avviamento dell’attività, alla luce dei motivi che hanno spinto gli stessi intervistati ad intraprendere, conviene leggerlo in chiaroscuro. Ai soggetti del campione, infatti, è stato richiesto di indicare i tre motivi principali che li hanno spinti ad avviare l’attività imprenditoriale e di attribuirgli un ordine di importanza. La tabella 22 mostra come tra i primi motivi che hanno spinto ad imprendere gli immigrati intervistati ci sia il “guadagnare di più” (12 risposte su 29). Tuttavia sempre tra i primi motivi la risposta “non ho trovato altro lavoro” è stata indicata da 6 intervistati su 29, e le risposte “non mi volevano come dipendente, ma come artigiano” e “consiglio del precedente datore di lavoro” sono state indicate da 3 intervistati. E’ opportuno precisare che la risposta “consiglio del precedente datore di lavoro” è stata data con una certa dose di ironia da parte degli intervistati, nel senso che nonostante gli intervistati abbiano specificato che non gli è stato posto un vero e proprio out-out da parte degli ex-datori di lavoro, per diversi motivi la scelta di mettersi in proprio è stata fortemente condizionata dagli imprenditori per i quali stavano lavorando. In altri termini, il confine tra “dare un consiglio” e “persuadere” nei racconti che gli intervistati hanno fatto a margine dell’intervista è risultato molto sottile. A rafforzare questa impressione sta anche il fatto che non pochi tra coloro che hanno deciso di mettersi in proprio sulla base di un consiglio da parte dell’ex datore di lavoro (ma anche tra coloro che hanno deciso di mettersi in proprio per guadagnare di più) hanno dichiarato che si sono pentiti della scelta che hanno fatto.

Tab.22 I motivi di avvio: primo motivo

Valore assoluto %

guadagnare di più 12 41,4 lavoro più regolare 1 3,4 essere autonomo 2 6,9 valorizzare capacita 2 6,9 consiglio precedente datore di lavoro 3 10,3 non ho trovato altro lavoro 6 20,7 non mi volevano come dipendente, ma come artigiano 3 10,3 Total 29 100,0

Rispetto ai secondi motivi (tab.23), invece, la risposta maggioritaria è stata “essere autonomo” (indicata da 7 intervistati su 29), seguita da “guadagnare di più”, “avere un lavoro più regolare” e “valorizzare le mie capacità” (ciascuna risposta è stata indicata da 5 intervistati). La quinta risposta maggiormente rappresentata è ancora “non ho trovato altro lavoro” (indicata da 3 intervistati).

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Tab23 I motivi di avvio: secondo motivo

Valore assoluto %

guadagnare di più 5 17,2 lavoro più regolare 5 17,2 essere autonomo 7 24,1 valorizzare capacita 5 17,2 valorizzare conoscenze 2 6,9 non ho trovato altro lavoro 3 10,3 riparo da razzismo e diffidenza 1 3,4 seguire tradizioni familiari 1 3,4 Total 29 100,0

Rispetto ai terzi motivi (tab.24), infine, “valorizzare le proprie capacità” rappresenta la risposta maggioritaria (indicata da 6 intervistati), seguita da “per guadagnare di più” (indicata da 4 intervistati), “non ho trovato altro lavoro” (indicata da 4 intervistati), “avere un lavoro più regolare” e “consiglio del precedente datore di lavoro” (ciascuna risposta è stata indicata da 3 intervistati).

Tab.24 I motivi dell’avvio: terzo motivo

Valore assoluto %

Percentuale valida

guadagnare di più 4 13,8 14,8 lavoro più regolare 3 10,3 11,1 essere autonomo 2 6,9 7,4 valorizzare capacita 6 20,7 22,2 valorizzare conoscenze 2 6,9 7,4 consiglio precedente datore di lavoro 3 10,3 11,1 non ho trovato altro lavoro 4 13,8 14,8 riparo da razzismo e diffidenza 1 3,4 3,7 stare più vicino alla famiglia/ottenere ricongiungimento 1 3,4 3,7 rinnovare permesso soggiorno 1 3,4 3,7 Total 27 93,1 100,0 Mancanti 2 6,9

Al di là di questi ultimi dati, che meriterebbero, alla pari di altri, un maggior approfondimento, ciò che è scritto sopra si rispecchia nelle risposte che gli intervistati hanno fornito in un’altra parte dell’interista: quella che aveva l’obbiettivo di rilevare il ruolo giocato durante la fase di start-up e di sviluppo dell’impresa da alcuni precisi fattori come ad esempio la conoscenza della lingua italiana, la professionalità, la conoscenza di lingue straniere, il sostegno della famiglia, ecc … Dalle analisi emerge che la conoscenza della lingua italiana, la “voglia di lavorare” e la professionalità rappresentano per gli intervistati gli aspetti che hanno giocato un ruolo di primaria importanza nell’avviamento e nella gestione dell’attività imprenditoriale; l’istruzione, la conoscenza di altre lingue oltre a quella italiana, i capitali iniziali e il sostegno della famiglia sono anch’essi aspetti che, anche se in misura minore, sono risultati importanti nelle esperienze da imprenditorie degli intervistati; la tradizione e le esperienze professionali della famiglia, invece, si caratterizzano per essere considerati dagli intervistati fattori scarsamente importanti nell’avviamento e nella gestione dell’impresa; secondo gli intervistati, infine, non risultano essere stati di nessuna importanza i rapporti con le associazioni e le istituzioni autoctone e/o connazionali. Quest’ultimo dato sulle associazioni, tuttavia, risulta essere contradditorio rispetto al tessuto relazionale che gli intervistati hanno sostenuto di avere sviluppato sul territorio e che, come si capirà più avanti, sembra comprendere anche le associazioni di categoria e le istituzioni locali.

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3.3.2.4 Le caratteristiche dell’impresa Le imprese di cui sono titolari gli intervistati naturalmente rientrano tutte all’interno del settore metalmeccanico. Le attività che le imprese svolgono, tuttavia, risultano essere molto differenti. A conferma di ciò che è già largamente ribadito dalla letteratura sui distretti, ovvero la labilità dei confini dei settori produttivi delle imprese di un sistema distrettuale, durante lo svolgimento della ricerca si sono incontrati titolari di imprese che per la loro natura si collocavano al confine di diversi settori produttivi. Talvolta gli imprenditori stessi, pur confermando che la propria impresa si occupava di lavorazione di materiale ferroso e metallico o di manutenzione e montaggio di macchinari, sostenevano di svolgere prevalentemente la propria attività in un settore diverso rispetto a quello metalmeccanico. Di fronte a questo scenario complesso e articolato si è deciso di valutare di volta in volta se in effetti l’impresa di cui era titolare l’immigrato che stava per essere intervistato potesse rientrare all’interno della definizione “metalmeccanica”. Nonostante questa selezione, basata ovviamente anche sulla sensibilità dell’intervistatore, le imprese i cui titolari sono stati intervistati sono comunque risultate molto diverse rispetto al settore produttivo di riferimento. Di fatto è possibile affermare che 5 degli immigrati imprenditori intervistati risultano operare nel settore dei macchinari di climatizzazione, di aspirazione e degli impianti idraulici e fotovoltaici. Non si tratta solo di imprese di montaggio degli impianti e dei macchinari, ma anche della fabbricazione a livello artigianale di componenti dei sistemi suddetti. Un secondo gruppo, costituito da 12 imprenditori, invece risulta svolgere attività di riparazione e collaudo di vere e proprie macchine industriali (a bassa tecnologia) o produrre alcuni componenti di queste ultime. Questo secondo gruppo, tuttavia, risulta essere molto eterogeneo al proprio interno a partire dal fatto che i settori delle imprese che utilizzano i macchinari (e dunque i settori dei committenti) sono almeno tre: il metalmeccanico, il ceramico e l’agroalimentare. Infine il terzo gruppo, costituito da 12 imprenditori, è un gruppo di imprese collocabili al confine tra il metalmeccanico e l’edilizia e comprende le imprese che trattano, trasformano e costruiscono strutture in metallo, ma che svolgono questa attività spesso presso i cantieri di costruzione o comunque in stretto contatto con imprese del settore edile. Sarebbe interessante elaborare i dati raccolti a partire dalla segmentazione sub-settoriale che si è illustrata sopra, ma lo scarso numero di casi non permette di svolgere analisi significative in questo senso. L’eterogeneità delle imprese che si sono ricomprese nel campione, tuttavia, è un elemento da tenere in considerazione per l’interpretazione dei dati che seguono. 21 dei 29 imprenditori immigrati che sono stati intervistati hanno dichiarato di non avere dipendenti, 5 di avere un dipendente, 2 di averne due e 1 di averne quattro. Il mercato del lavoro da cui attingono le imprese degli immigrati intervistati, tuttavia, risulta essere composto solo da immigrati: nessuno degli intervistati ha, infatti, sostenuto di avere dipendenti italiani e solo due intervistati hanno dichiarato di avere avuto dipendenti italiani in passato. I dipendenti delle imprese degli immigrati intervistati risultano essere prevalentemente connazionali (tra cui anche qualche famigliare) e in misura minore stranieri non connazionali. Lo stesso è possibile affermare per i collaboratori. Se emerge una certa debolezza di relazioni tra le imprese degli immigrati intervistati e la popolazione autoctona per quel che riguarda il mercato del lavoro (le cui ragioni non è stato possibile approfondire né da parte della domanda, né da parte dell’offerta), per quel che riguarda la rete relazionale utilizzata dagli imprenditori immigrati per acquisire competenze e risorse per gestire l’impresa soprattutto in fase di start-up risulta essere molto più articolata. Quasi due terzi degli intervistati, infatti, hanno dichiarato che ci sono state persone da cui hanno imparato a gestire la propria impresa. Ciò che risulta essere interessante è il fatto che la larga maggioranza degli intervistati ha dichiarato che tra queste persone da cui hanno imparato a gestire e a condurre la propria impresa ci sono molti italiani. Molto pochi, invece, sono coloro che hanno indicato stranieri e connazionali (compresi i famigliari) tra le persone da cui hanno imparato a gestire l’impresa. Non sembra essersi verificato in misura consistente, quindi, un processo di ethnic training all’attività imprenditoriale come è emerso, invece, in altre esperienze di ricerca, ma piuttosto un trasferimento di competenze tra soggetti autoctoni e stranieri. Dalle note carta e penna delle interviste, inoltre,

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emerge che spesso gli italiani da cui gli intervistati hanno dichiarato di avere appreso i rudimenti del proprio lavoro risultano essere ex-datori di lavoro ed ex-colleghi di lavoro. In altri termini sembra che durante il periodo da lavoratore dipendente che tutti gli intervistati hanno passato prima di imprendere sia avvenuta una trasmissione di saperi pratici, spesso on the job, da parte di ex-colleghi ed ex-datori di lavoro: si tratta in alcuni casi della trasmissione di saperi gestionali e organizzativi, in altri casi della trasmissione di competenze relazionali e di contatti e conoscenze (prevalentemente con fornitori e clienti), in altri casi ancora di “saperi di contenuto del lavoro”. Coerenti con ciò che è stato scritto sopra sono i risultati derivanti dalla batteria di domande relative al tessuto relazionale degli intervistati e all’importanza che queste rivestono nella gestione dell’impresa. Dall’analisi di queste domande emerge chiaramente come le relazioni con gli italiani siano considerate di gran lunga più importanti rispetto alle relazioni con i connazionali e con gli immigrati di altre nazionalità. Anche le relazioni con i famigliari, in generale, sembrano essere considerate meno importanti rispetto a quelle con gli italiani. La rete relazionale dalla quale gli imprenditori intervistati hanno dichiarato di attingere risorse di diversa natura per gestire l’impresa sembra comprendere anche il tessuto istituzionale locale e non essere costituita solo da rapporti informali tra soggetti individuali. Per esempio per gestire la contabilità dell’impresa, le paghe, i contributi e gli obblighi fiscali 8 intervistati su 29 hanno dichiarato di rivolgersi ad un commercialista italiano, ma, soprattutto, 20 intervistati su 29 hanno dichiarato di rivolgersi ad una associazione di categoria. Anche alle domande relative alla tipologia di associazioni a cui gli imprenditori si sono rivolti in passato per avere assistenza o consulenza, gli intervistati hanno indicato nelle associazioni di categoria italiane quelle che hanno fornito il supporto più significativo. In generale, quindi, gli imprenditori immigrati intervistati sembrano essere relativamente integrati nel tessuto relazionale e non a caso considerano la dimensione relazionale e in particolare le relazioni con gli autoctoni un elemento fondamentale per il successo o per lo meno per la sostenibilità dell’attività imprenditoriale. Un elemento di criticità che emerge dalle interviste, tuttavia, è quello dell’accesso al credito: più di un terzo degli imprenditori immigrati intervistati hanno dichiarato di avere avuto bisogno di richiedere prestiti per lo sviluppo della propria attività imprenditoriale; in particolare 8 degli intervistati hanno dichiarato di essersi rivolti ad istituti bancari (una quota significativa se si conta che, come molti intervistati hanno dichiarato, esistono fattori culturali e religiosi per i mussulmani che non facilitano l’accesso al credito presso le banche occidentali); nonostante ciò pochi degli intervistati che hanno richiesto finanziamenti alle banche hanno dichiarato di avere ottenuto prestiti. In generale le imprese degli intervistati sembrano essere inserite in un mercato che si estende su un’area territoriale più vasta di quella provinciale (tab.25). Solo 7 intervistati hanno dichiarato di vendere prevalentemente i propri prodotti all’interno della provincia in cui ha sede l’impresa, mentre 11 intervistati hanno sostenuto di vendere prevalentemente i propri prodotti all’interno della regione Emilia Romagna, 8 in più regioni d’Italia (prevalentemente, ma non esclusivamente regioni settentrionali) e 3 anche all’estero.

Tab.25 Area territoriale in cui l'azienda vende prevalentemente i propri prodotti

Valore assoluto %

provincia 7 24,1 regione 11 37,9 in più regioni italiane 8 27,6 anche all'estero 3 10,3 Totale 29 100,0

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La larga maggioranza delle imprese degli immigrati intervistati non risultano essere mono-committenti: solo 7 tra le imprese degli intervistati, infatti, risultavano avere al momento dello svolgimento dell’intervista un solo committente/cliente; in 20 tra i 29 intervistati, invece, hanno dichiarato che al momento dell’intervista la propria impresa aveva dai 2 ai 5 committenti; 2 intervistati, infine, hanno dichiarato di avere dai 6 ai 10 committenti. Per quel che riguarda invece i fornitori, gli intervistati hanno dichiarato che in genere la rete di fornitori di materie prime, attrezzi e materiali da lavoro, strumenti, macchinari e mezzi di produzione (gli intervistati hanno fatto riferimento ad una molteplicità di materiali a causa della varietà della tipologia di imprese i cui erano titolari. I fornitori, di conseguenza, sono risultati essere soggetti molto diversi tra loro: imprese manifatturiere, imprese di lavorazione delle materie prime, esercizi di commercio all’ingrosso, esercizi di commercio al dettaglio, ecc …) è collocata all’interno della provincia in cui ha sede l’impresa (per 21 dei 29 intervistati) e in misura minore in altre province della regione o in altre regioni italiane. Tab.26 Area territoriale in cui sono situati i fornitori dell'azienda

Valore assoluto %

comune 2 6,9 provincia 21 72,4 regione 4 13,8 in più regioni italiane 2 6,9 Totale 29 100,0

Tab.27 Numero di clienti

Valore assoluto %

uno 7 24,1 da 2 a 5 20 69,0 da 6 a 10 2 6,9 Totale 29 100,0

Gli intervistati hanno dichiarato che sia nel caso dei fornitori che in quello dei committenti si tratta sempre di aziende il cui titolare è italiano. Tuttavia, in 4 casi gli intervistati hanno dichiarato che in passato hanno avuto rapporti d’affari anche con aziende del paese d’origine e che in tutti e quattro questi casi la ragione è stata la vendita di prodotti o servizi della propria impresa. La rete di imprese in cui sono inseriti gli imprenditori immigrati, quindi, sembra essere relativamente densa ed estesa. Inoltre sembra emergere una rete di rapporti tra imprese, come tradizione all’interno delle aree distrettuali, caratterizzata dalla compresenza di strategie di competizione e di cooperazione (talvolta con gli stessi soggetti). Spesso durante le interviste gli imprenditori hanno raccontato episodi di “risposta alle richieste del mercato” enfatizzando la loro capacità di collaborazione con altre imprese e la capacità di attivare la rete di piccole e micro imprese in cui evidentemente sono situati. Spesso si trattava della descrizione di strategie che prevedevano la costruzione in tempi rapidissimi di “una squadra di imprese” per far fronte ad una commessa insostenibile (non tanto per quantità o per ristrettezza dei tempi, ma piuttosto per la complessità e l’eterogeneità delle lavorazioni richieste) da parte di una singola impresa. Tutto ciò secondo gli intervistati è reso possibile dal fatto che esistono rapporti consolidati di collaborazione tra imprese sul territorio. A conferma di ciò, stanno le risposte che gli intervistati hanno dato alle domande relative alla natura dei rapporti con gli altri gli imprenditori. Solo 7 degli intervistati hanno dichiarato di non avere rapporti con imprenditori connazionali e solo in 2 hanno dichiarato di non averne con imprenditori italiani. Ciò che, tuttavia, risulta ancor più interessante è il fatto che solo 3 degli intervistati hanno dichiarato di avere rapporti di concorrenza con imprenditori connazionali, così come solo in 3 hanno dichiarato di avere rapporti di concorrenza con imprenditori italiani, mentre 19 intervistati hanno sostenuto di avere rapporti di collaborazione con imprenditori connazionali e ben in 24 di avere rapporti di collaborazione con imprenditori italiani. Da un’altra batteria di domande, inoltre, emerge che la maggioranza degli intervistati non sembra temere la concorrenza. Alla domanda su quali siano i concorrenti più temibili, oltre la metà degli intervistati (16 su 29) ha risposto “nessuno”, in 6 “gli italiani” e in 6 “gli albanesi o gli stranieri originari dai paesi dell’Europa dell’est”.

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3.3.2.5 le imprese e la crisi economica Come è stato scritto sopra, durante gli ultimi anni di crisi economica le imprese degli immigrati nel territorio di Modena e Reggio Emilia hanno registrato, stando ai dati del Sistema Infocamere, una tenuta maggiore rispetto alle imprese italiane dello steso territorio. Le interviste con gli imprenditori immigrati marocchini, tunisini ed egiziani hanno rappresentato la possibilità di esplorare anche la performance delle imprese durante l’attuale crisi economica. Un tema di questo genere meriterebbe un maggiore approfondimento, ma è possibile ricavare qualche informazione anche dai risultati di una parte delle interviste che sono state svolte. Secondo gli intervistati i punti di forza delle proprie imprese durante una fase di crisi economica come quella presente risultano essere principalmente due: la buona reputazione che si sono costruiti rispetto ai committenti e la flessibilità che possono garantire di fronte alle richieste del mercato. Solo meno della metà degli intervistati ha indicato nei prezzi più bassi uno di motivi di competitività della propria impresa in un momento di crisi e ancora meno sono stati quelli che hanno indicato nel mantenimento di bassi costi un elemento su cui puntare in un momento di crisi economica.

Tab.28 I punti di forza dell’impresa di fronte all'attuale crisi economica

N. intervistati che hanno risposto

% sul totale degli intervistati

Prezzi bassi 13 44,8 Qualità del prodotto 11 37,9 Buona reputazione 18 62,1 Flessibilità 16 55,2 Mantenimento di bassi costi 8 27,6

Tab.29 I punti di debolezza dell’impresa di fronte all'attuale crisi economica

N. intervistati che hanno risposto

% sul totale degli intervistati

Concorrenza di aziende imm. 10 34,5 Concorrenza di aziende it. 9 31,0 Difficoltà di accesso al credito 6 20,7 Scarsa conoscenza della PA 6 20,7 Scarse conoscenze professionali 4 13,9 Diffidenza della società it. 6 20,7 Dipendenza da pochi clienti 19 65,5 Altro 4 13,9

Rispetto invece ai punti di debolezza la maggioranza degli intervistati ha indicato nella dipendenza da un numero limitato di committenti il maggiore problema che in un periodo di crisi economica sono costretti ad affrontare; la concorrenza delle imprese di altri immigrati risulta essere il secondo punto di debolezza maggiormente avvertito dagli intervistati e la concorrenza di aziende italiane il terzo; seguono la difficoltà dell’accesso al credito, la scarsa conoscenza della Pubblica Amministrazione e la diffidenza della società italiana. In 20 tra i 29 imprenditori intervistati hanno dichiarato che rispetto al periodo precedente alla crisi economica il numero di dipendenti è rimasto costante. Questo dato è da prendere con cautela dal momento che comprende anche gli intervistati che non hanno mai avuto alle loro dipendenze qualcuno. 8 imprenditori intervistati, invece, hanno dichiarato che rispetto al periodo pre-crisi i dipendenti sono diminuiti e solo in un caso si è registrato un aumento del numero di dipendenti. Per quel che riguarda il fatturato, invece, 18 dei 29 imprenditori immigrati intervistati hanno dichiarato che dal periodo precedente la crisi economica al momento dell’intervista il volume del fatturato è diminuito; 8 degli intervistati hanno sostenuto che il volume di fatturato è rimasto costante rispetto a tre anni prima; 3 intervistati, infine, hanno dichiarato che il volume di fatturato è aumentato. Rispetto al futuro la totalità degli imprenditori marocchini, tunisini ed egiziani intervistati hanno dichiarato di non avere intenzione di cedere l’azienda a terzi, né tanto meno ai figli. Tuttavia 8 di loro ritengono che sia probabile che ad un certo punto siano costretti a chiudere la propria impresa ed escludono che tale dismissione possa coincidere con l’avviamento di un’altra attività imprenditoriale nello stesso settore o in un settore diverso, ma piuttosto che possa coincidere con la ricerca di un lavoro da dipendente.

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7. Imprenditori cinesi nel settore delle confezioni e dell’abbigliamento a Prato Maria Fabbri (Sociolab) 1. Immigrazione a Prato

In Toscana la presenza di popolazione straniera ha ormai assunto le caratteristiche di un fenomeno strutturale di crescente rilevanza, in primo luogo da un punto di vista demografico e in particolare nelle province centrali e nell’area fiorentino-pratese, lungo la cosiddetta traiettoria della “Toscana dell’Arno”, tra Firenze, Prato e Arezzo (Callia, 2009).

Nel periodo compreso tra il 1995 e il 2002 l’incremento nella presenza di migranti più significativo ha riguardato le aree prossime al capoluogo di Regione e soprattutto la Provincia pratese, dove la popolazione straniera è quasi quadruplicata con un incremento del 290% (Paletti, Russo, 2010).

L’insediamento e la rapida crescita della comunità straniere hanno avuto un impatto rilevante sulla società pratese anche in considerazione del fatto che questa presenza risulta nell’intera provincia spesso legata a un progetto migratorio di lungo termine, se non di definitivo stanziamento (Giovani, Valzania, 2004).

Il fenomeno appare ancora più significativo se lo si considera in relazione ad alcune caratteristiche del contesto: la Provincia di Prato è infatti una provincia ancora relativamente giovane, istituita solo nel 1992; si estende su una superficie piuttosto limitata, di 365 kmq, e con una popolazione complessiva al 1° gennaio 2009 di 246.034 abitanti (ISTAT), con una crescita demografica in attivo grazie proprio al saldo positivo degli stranieri (28.971, secondo ISTAT al 1° gennaio 2009).

Alla fine del 2009 la provincia di Prato contava 31.450 residenti stranieri (Rapporto Statistico Immigrazione Caritas Migrantes, 2010) con un’incidenza del 12,7% sulla popolazione totale, valore non solo superiore alla media regionale ma ai primi posti nella graduatoria nazionale: grazie a questa presenza la città in circa cinquanta anni si è trasformata da Comune di medie dimensioni alla terza città del centro Italia.

Attualmente Prato è quindi la Provincia toscana che registra la presenza più significativa di migranti sul proprio territorio, seconda solo al capoluogo regionale (Ministero dell’Interno, Conferenza dei Prefetti, 2009): questi stranieri rappresentano 110 etnie diverse ma provengono soprattutto da paesi a forte pressione migratoria asiatici, africani e dell’Europa centro-orientale: il 22,5% di loro ha meno di 15 anni e solo l’1,5% ne ha più di 64, con una popolazione attiva pari al 76% (conto il 65,5% degli italiani).

Figura 1: stranieri residenti a Prato (Bracci, 2008)

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In particolare nell’area del distretto pratese71 risulta molto rilevante soprattutto la presenza cinese che anche a livello nazionale costituisce numericamente la quarta comunità straniera in Italia, con un’incidenza sulla popolazione straniera del 4,4% (Caritas, 2010).

La migrazione cinese in Italia si è articolata in quattro flussi principali.

Il primo flusso intorno al 1918, con l’arrivo a Milano dei primi piccoli gruppi di cinesi originari dello Zhejiang e dallo Shandong, provenienti in larga parte dalla Francia, dove avevano lavorato durante la prima guerra mondiale nelle fabbriche a corto di personale; gradualmente la stabilità economica raggiunta da questi primi migranti cinesi, in prevalenza uomini giovani, ha permesso loro di iniziare a chiamare familiari ma anche conoscenti dalla madrepatria.

L’attività principale dei nuovi arrivati è in questi anni quella dell’impiego nella vendita ambulante di prodotti tessili ma mantiene forti connotati di precarietà; solo in un secondo momento molti cominciano ad impiegarsi come lavoratori salariati, specie nelle fabbriche tessili, e la comunità comincia lentamente a crescere e a stabilizzarsi in particolare a Milano, a Torino e a Bologna.

Negli anni del boom economico che investe la società italiana, l’immigrazione cinese è però ancora poco consistente e si concentra principalmente nelle città industriali del Nord Italia e a Roma e comunque resta non comparabile a quella di molte metropoli straniere, dove già da tempo esistono zone ad alta concentrazione etnica, meglio conosciute come chinatowns.

Il secondo flusso che ha interessato l’Italia è quello proveniente dal Fujian, iniziato alla fine degli anni ’80 e anche in questa circostanza generato da un processo di migrazione a catena dalla Cina., a seguito della politica di apertura del governo di Deng Xiaoping e delle sue scelte più flessibili anche in materia di espatrio che permettono un’inversione rispetto alla tendenza che aveva caratterizzato la Cina negli anni precedenti e aprono una nuova fase dell’emigrazione cinese. Proprio in questi anni l’arrivo di immigrati cinesi in Italia comincia a crescere notevolmente, sia come approdo indiretto, dopo aver soggiornato più o meno a lungo in altri paesi europei, che come approdo diretto dalla madrepatria.

Sono però gli anni ‘80 e ’90 che vedono il maggior flusso di cittadini cinesi nel nostro paese: questo flusso interessa molte regioni anche al centro e in parte al sud Italia. In dieci anni la presenza di cittadini cinesi sul territorio nazionale passa dalle 2.036 unità nel 1982 alle 22.112 del 1992, in un contesto generale di maggior afflusso di immigrati e di ampie regolarizzazioni, attraverso l’uso di sanatorie (Guercini, 1999) e in particolare per la chiusura delle grandi industrie e delle miniere di Stato nella Repubblica Popolare che spinge molti cinesi a una scelta migratoria, basata sempre su pattern di catena parentale.

In questo periodo in Italia nascono e si sviluppano numerose attività commerciali e si diffondono i laboratori tessili cinesi, dando vita a importanti centri produttivi: si moltiplicano i laboratori,

71 Tutti i comuni di quella che poi è diventata l’area della provincia pratese hanno avuto il loro primo grande sviluppo già tra il XIII e il XIV secolo, con l’ascesa di un dinamico ceto produttivo e commerciale. A partire dall’800 si assiste però nella zona allo sviluppo delle attività legate al settore tessile e all’abbigliamento come ambiti peculiari dell’economia locale. Come descritto da Dei Ottati (1995), il distretto si configura negli anni cinquanta del ‘900, centrandosi su un numero ridotto di attività di lanifici e su un secondo circuito composto da artigiani e da piccoli commercianti. Solo la deliberazione consiliare n. 69 del 21 Febbraio 2000 ha però riconosciuto all’area pratese (con l’aggiunta dei comuni di Agliana, Calenzano, Campi Bisenzio, Montale e Quarrata) la qualifica di distretto industriale specializzato nelle produzioni del tessile e dell’abbigliamento, che attualmente occupano più di un terzo degli addetti e che hanno fatto di Prato il modello di distretto industriale in Toscana (Lazzaretti, Storai, 1999). Attualmente il sistema locale del lavoro, comprende sia i nove comuni della provincia (Cantagallo, Carmignano, Montemurlo, Poggio a Caiano, Prato, Vaiano, Vernio) che i due comuni di confine del pistoiese, mentre il sistema di produzione tessile ha un’estensione territoriale maggiore, definita distretto industriale, e si estende a tre comuni del pistoiese (Quarrata, Montale, Agliana) e a due comuni di confine con l’area fiorentina (Campi Bisenzio e Calenzano)

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soprattutto dediti alla lavorazione del pellame e dei tessuti, e iniziano a comparire anche le prime attività legate alla ristorazione.

L’ultimo flusso si è verificato negli anni 2000 e ha visto una migrazione più diversificata, spesso non vincolata a legami forti ma anche decisa da singoli individui con livelli di scolarizzazione più alta, il cui progetto migratorio è spesso finalizzato non solo al ricongiungimento parentale ma anche alla ricerca di capitali o a personali strategie professionali (Cologna, 2006).

È però il terzo flusso quello a cui si lega lo sviluppo della comunità cinese di Prato che ha avuto infatti inizio intorno ai primi anni ’90: da questo momento in poi riveste un ruolo di catalizzatore di investimenti e di manodopera cinese, divenendo sede di una tra le maggiori comunità d’Italia.

Tra il 1990 e il 1991, l’anagrafe comunale pratese registra l’arrivo di quasi 1.000 cittadini cinesi e il numero dei residenti passa dai 38 del 1989 ai 1.009 del 1991, con un insediamento di massa favorito dall'approvazione di alcune disposizioni di legge che prevedevano la regolarizzazione degli immigrati (legge Martelli).

Questo flusso viene alimentato per altro non solo dagli arrivi provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese ma anche dai numerosi trasferimenti da varie città italiane o europee: in particolare il movimento interno cinese verso Prato ha avuto origine dall’area della piana fiorentina, dalla zona oggi popolarmente conosciuta come Chinatown, il quartiere cinese tra Firenze, Signa, Poggio a Caiano, Brozzi e la periferia di Peretola, dove i migranti cinesi, provenienti in maggioranza da aree rurali delle province meridionali di Zhejiang e Fujiang (Bellandi, Biggeri, 2005), si erano inseriti lavorativamente nel settore della pelletteria (Fondazione Michelucci, 1995).

La maggior parte dei cinesi presenti sul territorio pratese proviene ancora oggi da una zona circoscritta del Zhejiang, tradizionalmente nota per lo spirito imprenditoriale e la forte inclinazione al sacrificio per il raggiungimento del successo economico dei suoi abitanti, e in particolar modo dalla città di Wenzhou: questa comunità costituisce il gruppo straniero più numeroso a Prato, seguito da albanesi, pachistani, marocchini e rumeni.

La comunità cinese ha avuto a Prato caratteristiche e modalità di sviluppo senza precedenti, con una dimensione significativa quanto quella di Parigi, e si caratterizza per una permanenza strettamente legata a una vita lavorativa intensa ma anche per una forte mobilità e una certa precarietà, pur con tendenze ad un insediamento sempre più stabile (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009). La tendenza sarebbe confermata a partire dal fatto che se in passato solo gli uomini ne erano protagonisti, oggi sono interi gruppi familiari a spostarsi, per arrivare fino al dato eloquente dei bambini nati a Prato da genitori cinesi che vede oggi più di 1.300 nati, circa il 18% della comunità locale.

2. Stranieri e impresa a Prato

Una così rilevante presenza ha avuto riflessi importanti anche sul tessuto economico e produttivo locali, nel quadro di una regione in cui gli stranieri hanno un ruolo determinante nell’economia, con un considerevole rapporto tra il valore aggiunto immigrato sul valore aggiunto totale dell’area (16,7%).

In modo particolare il riferimento è qui al fenomeno dell’imprenditoria straniera, in relazione al quale l’intera Toscana si pone tra le prime posizioni a livello nazionale, e che raggiunge livelli significativi di presenza in alcune Province, come appunto quella pratese con un dato del 23,9% (Paletti, Russo, 2010).

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Al 31 dicembre 2008 risultavano iscritte alla Camera di Commercio di Prato 7.460 imprese con almeno una persona straniera avente carico e un trend di crescita costante dal 199972, a fronte di una diminuzione delle imprese individuali locali. In circa dieci anni il numero di imprese a conduzione non comunitaria si è dunque quintuplicato e oggi nella provincia di Prato un’impresa su quattro risulta guidata da un imprenditore immigrato (Callia, 2009): indicatori questi di una crescente stabilizzazione e della capacità imprenditoriale straniera di modellarsi sul distretto locale.

Figura 2: Imprese con titolare immigrato per regione (Unioncamere, 2009)

La ricerca empirica sul tema ha però evidenziato come proprio nella realtà toscana siano ancora poche le imprese a carattere propriamente “etnico”, orientate cioè a fornire ai connazionali prodotti o servizi connotati etnicamente (Ambrosini, 2001 a; FIERI, 2005), mentre si assiste invece a quella che viene definita come specializzazione etnica delle attività in alcuni contesti locali. L’imprenditoria straniera in Toscana è infatti caratterizzata da una tipica concentrazione territoriale e settoriale, con evidente rilievo in proposito del distretto tessile di Prato e di alcuni sistemi locali della provincia di Firenze nel settore delle confezioni (Beudò, Giovani, Savino, 2008).

Il riferimento è qui all’attività della comunità cinese che nel corso degli ultimi venti-venticinque anni si è insediata lungo l’asse dell’Arno che unisce la periferia e i Comuni della cintura a nord ovest di Firenze con la Provincia di Prato e prosegue poi verso la Provincia di Pistoia.

La presenza delle attività cinesi ha raggiunto in questa zona rapidamente una visibilità rilevante, connessa soprattutto alla tendenza a concentrare le proprie attività in aree ben definite(la zona di via Pistoiese e quella del Macrolotto), che si sono sviluppate dal punto di vista produttivo in modo omogeneo e coeso. Queste aree hanno assunto caratteristiche urbanistiche e architettoniche molto precise e ben identificate dalla collettività locale, che sono cambiate nel tempo con il modificarsi della natura dell’attività e dell’organizzazione produttiva della comunità cinese, passando dai laboratori-abitazione di dimensioni medie o piccole, caratterizzati dalla contiguità tra famiglia e

72

Nel 1999 le ditte individuali cinesi iscritte al registro Imprese erano 952, 1502 nel 2003, 2507 nel 2005, 3040 nel

2007 e 3435 nel 2008, a fronte di una diminuzione delle imprese locali.

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impresa (Guercini, 1999), per micro imprese a carattere familiare, con frequente commistione tra luogo di vita e di lavoro, ai capannoni industriali per aziende vere e proprie, dove però nella maggior parte dei casi permangono una serie di forti criticità legate alle condizioni di lavoro e alla legalità delle modalità di gestione.

Le aziende cinesi hanno fin da subito mostrato non solo di essere estremamente flessibili e competitive nella produzione, con manodopera disponibile ad ogni orario, ritmi intensi di lavoro e a bassissimo costo, ma anche di sapersi sviluppare come aziende autonome rispetto al polo produttivo pratese, capaci di avvantaggiarsi dell’effetto trainante dei servizi, delle competenze e del dinamismo del tessuto imprenditoriale e del sistema economico locali, sfruttandone al massimo le caratteristiche.

3. L’impresa cinese-pratese

La forte propensione all’imprenditorialità della comunità cinese in Italia73 ha nel contesto provinciale pratese un caso emblematico che evidenzia al meglio come a differenza di altre nazionalità, la scelta migratoria per i cinesi si leghi strettamente allo spirito imprenditoriale piuttosto che al lavoro subordinato, in una dinamica in cui pare che sia proprio la dimensione imprenditoriale a richiamare nuovi flussi e non viceversa e a rappresentare il primo gradino della scala dell’integrazione.

Le ditte individuali iscritte nel 1999 al Registro Imprese pratese erano 952, cifra considerevole se paragonata a quella relativa alle altre etnie presenti sul territorio che non risultano altrettanto interessate all’imprenditoria e lavorano prevalentemente come dipendenti all’interno delle aziende pratesi, come nel caso dei pakistani che lavorano nelle tessiture e nelle filature. Il dato cresce a 1502 nel 2003, a 2507 nel 2005, per poi arrivare a 3040 nel 2007 e a 3435 nel 2008 (Calandi, Cialdini, Menaldi, 2010).

I dati dell’Osservatorio del Comune di Prato confermano una straordinaria crescita dell’imprenditoria cinese proprio tra il 2002 ed il 2005, periodo che oltre alla nascita di numerose ditte individuali (Caserta e Marsden, 2003) vede anche una crescita più contenuta di società di capitali, concentrate soprattutto nei settori del commercio e delle confezioni, con una ridotta capacità di capitalizzazione, intorno ai 20.000 euro74 (Marsden, Caserta, 2010; Bracci, Parpajola, Sambo, 2009) ma che confermano una crescente diffusione verso forme societarie più evolute a testimonianza di acquisizione di competenze e di conoscenze dei meccanismi del sistema burocratico e di lavoro.

73

I dati forniti dalla Confederazione Nazionale dell’Artigianato relativi al 2007 riportano la presenza in Italia di 19.044

aziende cinesi su un totale di 141.143 aziende di cittadini stranieri, con un’incidenza del 13,5%. 74

Nel manifatturiero quasi l’80% delle società cinesi si colloca al di sotto dei 15.000 euro e nel tessile si caratterizzano

quasi sempre per la scarsa disponibilità di risorse.

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Figura 3: Numero imprese cinesi- Provincia di Prato (Marsden, Caserta, 2010)

I dati della Camera di Commercio, analizzati alla fine del 2009 (Marsden, Caserta, 2010), registrano un tasso di crescita delle aziende cinesi intorno al 13% rispetto al 2008, che per altro in questi anni di crisi, compensa il tasso di crescita negativo registrato in quasi tutti i comparti italiani, in particolare nel manifatturiero. Sempre secondo questi dati, nel settembre 2009 le imprese orientali erano 4.336 con una crescita del 10,6% rispetto allo stesso mese del 2008, con un ulteriore crescita registrata a fino dicembre.

A gestire l’insieme di queste aziende sono oggi a Prato oltre 4.700 imprenditori, in larga maggioranza (70,13%) tra i trenta e i cinquanta anni di età, prevalentemente di sesso maschile, ma con una partecipazione femminile comunque molto elevata (40,07%), specie nelle fasce di età superiore. La presenza delle donne è in crescita costante, interessa tutti i settori di attività ma si concentra nel manifatturiero (Marsden, Caserta, 2010) e sembra confermare nei ruoli imprenditoriali l’equilibrio di genere che caratterizza le migrazioni cinesi dal punto di vista quantitativo, per cui le donne possono precedere, accompagnare o seguire i mariti e le rispettive famiglie (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009).

Figura 4: Imprese cinesi a conduzione straniera (Bracci, 2008)

Seguendo la classificazione di Ambrosini-Schellenbaum (1994), la maggioranza di queste imprese cinesi rientra nella categoria dell’impresa aperta, che produce o offre beni e servizi non tipicamente etnici e destinati ad un mercato aperto.

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Del resto, come Ceccagno (2004) ha evidenziato parlare di economia etnica nel caso delle imprese cinesi a Prato significa ignorare la rete di relazioni tra piccole imprese cinesi e committenti italiani: un sistema di relazioni, più o meno dirette, che si lega alle origini della presenza cinese nella zona.

Lo sviluppo della comunità cinese a Prato si accompagna infatti alla crescita di un settore specifico di attività imprenditoriale, in relazione con il nucleo originario di aziende di maglieria e confezioni presenti sul territorio in alcune zone ai margini del Comune (Toccafondi, 2005), e si connette a una graduale evoluzione del sistema di impresa.

Infatti negli anni ‘90 la necessità del distretto locale di affrontare alcuni cambiamenti nel sistema produttivo per fare fronte alla concorrenza di paesi con manodopera a basso costo offre spazio all’insediamento delle imprese cinesi, specie nella forma di laboratori di subfornitura, specializzati in fasi di lavorazione ad alta intensità di lavoro (Ceccagno, 2003): in pochi anni le impresi cinesi si moltiplicano, grazie anche all’entrata in vigore della legge 40/98 che liberalizza l’accesso degli extracomunitari all’esercizio del lavoro autonomo, e vanno a sostituire ruoli che la popolazione locale non era più disposta a svolgere all’interno della tipologia industriale che produce in pronto moda (Calandi, Cialdini, Menaldi, 2010), ovvero confezioni a costi contenuti prodotte in tempi brevissimi seguendo l’evoluzione della moda di mese in mese.

Le interviste con i testimoni privilegiato hanno delineato un quadro di sviluppo particolare dell’imprenditoria cinese nel contesto pratese: un “caso nazionale” di imprenditoria straniera all’interno di un distretto locale con caratteristiche che ne hanno facilitato la diffusione.

Il distretto pratese si è infatti distinto fin dalle origini per uno sviluppo “dal basso”, con diffusione di aziende di dimensioni medio-piccole, specializzate in fasi e in grado di avvantaggiarsi della prossimità territoriale per sfruttare economie esterne all’impresa ma di fatto interne al sistema (Cialdini, Landi, 2010) nella produzione di beni a basso contenuto tecnologico, attribuendo importanza all’interno della realtà manifatturiera alla piccola impresa e alle attività artigiane. Come evidenziato da Dei Ottati (1995), l’organizzazione complessiva del distretto resta ancora oggi largamente basata sulla divisione del lavoro tra le imprese finali-committenti, che curano l’acquisto di materie prime e di semilavorati, la progettazione dei campionari e la commercializzazione dei tessuti o dei filati, e le imprese di fase, generalmente specializzate in una sola fase del processo produttivo (filatura, orditura, tessitura, tintura, finissaggio) che si occupano della manifattura dei prodotti e dei semilavorati.

Proprio nell’ambito della committenza si sono inserite inizialmente le aziende cinesi, plasmandosi sul cosiddetto “modello delle costellazioni” in cui le imprese-guida, generalmente lanifici, “governano” le costellazioni, mentre le altre imprese hanno bassa propensione alla crescita e restano sostanzialmente funzionali alla costellazione stessa (Dei Ottati, 1995).

Secondo l’analisi fornita dalla teoria della vacancy chain (Ambrosini, 2001 b), che evidenzia i meccanismi di sostituzione attraverso i quali gli imprenditori autoctoni escono da mercati considerati maturi o a bassa redditività, lasciando così spazio all’iniziativa dei nuovi arrivati, varie caratteristiche del sistema produttivo locale avrebbero dunque facilitato questo sviluppo: la natura dello spazio di specializzazione produttiva del settore delle confezioni che permette l’accesso per la facilità di acquisizione delle competenze industriali, confrontate a quelle richieste del tessile tradizionale; le basse soglie di entrata dal punto di vista del capitale necessario iniziale; un contesto politico-amministrativo con limitate barriere normative, burocratiche e organizzative rispetto ad altri contesti nazionali; la facilità di formazione, talvolta interpretata dagli imprenditori locali in termini di mero sfruttamento del patrimonio di saperi locali all’insegna del “sono venuti qui e hanno imparato tutto” (INT1); la facile reperibilità di spazi e macchinari per avviare le ditte e la possibilità di inserirsi in un mercato già attivo; nonché la natura peculiare del ciclo produttivo

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locale, fondato sulla centralità della famiglia e sull’auto-sfruttamento (Bracci, 2008)75. In proposito, secondo un approccio mixed embededdness, Ceccagno (2003) ha evidenziato come, in alcuni distretti industriali italiani, i cinesi abbiano adattato i propri valori di riferimento alle esigenze del mercato locale.

Inoltre, sulla base di considerazioni culture bound approach 76, il sistema pratese presenta alcuni aspetti che possono aver sostenuto lo sviluppo dell’imprenditoria cinese sia per la presenza di tratti comuni della cultura di impresa locale con quella migrante, con riferimento al forte individualismo e allo spiccato spirito competitivo, sia per la diffusione di meccanismi di relazione e di modalità di gestione economica informali che avrebbero di fatto facilitato le imprese cinesi a inserirsi e consolidarsi nel tessuto produttivo, adeguandosi e talvolta esasperando elementi e pratiche già esistenti.

I testimoni privilegiati hanno infatti evidenziato nelle interviste l’importanza nello sviluppo delle aziende cinesi di alcune caratteristiche relazionali del contesto: la tradizione locale di larghe fasce di economia sommersa, connesse al cosiddetto “nerone” (INT4), termine gergale per indicare la tipica modalità di transizione economica locale; l’esistenza di aree grigie di impresa, in primo luogo quella dei contoterzisti; una certa tolleranza da parte delle istituzioni locali in una provincia ancora giovane, senza risorse e strutture adeguate per far fronte alle esigenze e alle criticità legate a una presenza definita da alcuni “enorme in termini assoluti ma insostenibile in termini relativi” (INT1).

Infine come è stato evidenziato (Becattini, 2000; Marchetti, 2004; Bracci, 2008) la crescita di queste imprese rievoca le modalità di nascita e sviluppo del distretto pratese e mostra rilevanti affinità con il sistema produttivo locale: fortissima applicazione al lavoro, abilità manuale, radicamento familiare, frequente impiego del lavoro femminile (con donne molto spesso titolari di azienda) e di minori, oltre al fatto che questa comunità migrante avrebbe al pari di quella locale del passato un riferimento fondamentale nei valori della cultura familiare come fulcro del sistema lavoro.

Il tessuto sociale e produttivo di Prato sembrerebbero quindi aver reso disponibili per gli immigrati cinesi oltre a risorse professionali, infrastrutture e una nicchia di mercato anche il sostegno di un sistema di valori molto simile a quello che aveva favorito la nascita e la crescita dei distretti industriali di piccola impresa: il lavoro come strumento di riscatto sociale ed economico, l’attitudine al rischio imprenditoriale e sociale, la propensione per il lavoro autonomo e la mobilità nel mercato del lavoro con l’ambizione a mettersi in proprio appena se ne ha l’opportunità sulla base di progetti migratori che pongono al centro un percorso lavorativo operaio-imprenditore (laoban), in cui Il lavoro autonomo è visto come una reale opportunità di crescita sociale ed è il fine ultimo della maggioranza dei cinesi che migrano (Ambrosini, 2001 b):

“una migrazione focalizzata sul lavoro che per il lavoro sacrifica ogni altro tipo di interesse, molto simile alla condizione dei pratesi degli anni '50 con i telai sempre accesi, le vasche per tingere i tessuti in condizioni di non grande sicurezza e per cui oggi certe condizioni di vita e di lavoro dei laboratori cinesi sono inaccettabili […] una fame di fare impresa, di incrementare il proprio benessere e una sorta di effetto traino di emulazione tra i giovani per cui tutti vogliono fare impresa e progredire" (INT2);

75

Si rileva però come alcune analisi (Rastrelli, 1999) abbiano evidenziato come lo scenario mediatico “schiavi -

padroni”, sia invece spesso basato su un patto, fondato sulla condivisione di tradizioni comuni e in cui ciascuna delle

parti ha ruoli e guadagni definiti; ciò non significa, ovviamente, che non vi siano casi di sfruttamento vero e proprio,

sia dal punto di vista lavorativo che da quello umano.

76 Approccio che si focalizza sul ruolo delle culture nazionale e locale nella formazione dei caratteri dei vertici

aziendali, dei comportamenti imprenditoriali e dei criteri di gestione dell’impresa.

120

“il cinese viene qui con un'idea ben precisa che è quella di partire dipendente ma di finire autonomo e imprenditore di se stesso: un progetto di vita che lo deve portare ad essere titolare di un'aziende con un'idea del lavoro e del mettere a lavorare le persone prettamente asiatica, con una grandissima spinta ideale e culturale basata sullo spirito di sacrificio, il senso del gruppo e anche una certa aggressività imprenditoriale” (INT3).

L’insieme e l’interazione di questi elementi avrebbero offerto alla comunità cinese particolari opportunità per dare vita a una realtà di insediamento produttivo pressoché unica per intensità e dimensioni e portato Prato a costituire il caso emblematico del cosiddetto modello dell’industria diffusa, con oltre la metà dei lavoratori stranieri inserita nell’industria tessile locale (Giovani, Savino, Valzania, 2006).

A partire dalla fine degli anni ’80 si è infatti verificato un graduale effetto di sostituzione di imprese italiane nelle fasi più intensive e meno qualificate dell’attività distrettuale, come quelle relative alle confezioni, sostenuto anche dalla “funzione di scivolo” che la sostituzione ha svolto per gli imprenditori pratesi, svolgendo spesso un ruolo di ammortizzatore sociale per gli artigiani locali che decidevano di fuoriuscire dal precario settore della subfornitura manifatturiera, incentivati anche alla possibilità di una “buonuscita” ricavata dalla vendita di strutture, locali e macchinari agli imprenditori cinesi.

I testimoni privilegiati intervistati confermano questa visione per cui che le imprese gestite da cinesi poggiano le proprie fondamenta proprio sulla specializzazione dei mercati di fase che caratterizza il distretto e per cui i cinesi sarebbero riusciti, partendo dall’assorbimento di un comparto non centrale ma significativo e attraverso una graduale evoluzione imprenditoriale sia a livello economico che organizzativo

“a farsi un varco, lavorando 24 ore su 24, in alcune micro fasi del processo e hanno poi realizzato una sorta di scalata alla filiera” (INT1).

Si rileva però che secondo una diffusa interpretazione locale, alcuni cittadini cinesi avrebbero però successivamente individuato nel distretto pratese un luogo privilegiato da presidiare per produrre o commercializzare articoli di abbigliamento, in modo da poter utilizzarne i vantaggi esistenti e le risorse consolidate: la rete di servizi, la logistica, le numerose imprese di subfornitura, la rete di relazioni e l’immagine nella filiera della moda mondiale (Bellandi, 2004), nonché il forte radicamento locale di competenze artigiane e industriali, unito al determinante ruolo delle istituzioni e delle associazioni nell’azione di riorganizzazione territoriale.

Le aziende cinesi di confezioni si collocano a valle nel distretto tessile pratese, allungando la filiera con aziende di piccole dimensioni nel settore delle confezioni e della maglieria, soprattutto in cotone, comparto produttivo in precedenza marginale nel distretto pratese77, che è divenuto molto competitivo rispetto ad altri poli sia italiani che europei, annullando però anche la concorrenza delle micro imprese artigiane locali rimaste nel settore, i cosiddetti “prontisti” (Ceccagno, 2003):

“il settore delle confezioni di pronto moda per tanto tempo non ha interessato i pratesi. La filiera del tessile locale partiva dai famosi ‘cenci’, dal recupero del cotone e soprattutto della lana, quindi dalla rigenerazione

77

La produzione locale si articolata su produzioni differenti: ha riguardato tra gli anni ’50 e ’60 i tessuti di lana cardata

per abbigliamento invernale, ricavati soprattutto da fibre riciclate, i cosiddetti “cenci”; ha visto emergere negli anni ’70

la lavorazione di fibre tessili naturali vergini, sintetiche e artificiali per la maglieria, le “maglie”; per negli anni ’90

differenziarsi ulteriormente per far fronte alla prima grande crisi del cardato pratese con innovazioni tecnologiche di

rilievo.

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dei tessuti fino ad arrivare alla vendita del tessuto ma non è mai arrivata a questo settore: è sempre restata nel tessile tradizionale e sui recuperi. I cinesi hanno occupato una fetta di mercato libera e piano piano si sono allargati, arrivando a ‘sgomitare’ su altri settori” (INT3).

Il settore è dunque quello del pronto moda, una produzione rapida e che richiede un continuo ricambio di collezioni, in cui l’intero ciclo manifatturiero di un capo di abbigliamento fino alla distribuzione non richiede più di una settimana. Questa nuova specializzazione del distretto si è basata sulla capacità degli imprenditori cinesi di coniugare le caratteristiche dell’economia locale con le proprie aspirazioni imprenditoriali e le caratteristiche socioculturali del gruppo, sostenute però dalla loro capacità di acquistare fiducia nel distretto per riconosciute affidabilità, precisione e rapidità nelle consegne e nella correzione degli errori, per cui la loro capacità di fidelizzazione del cliente si baserebbe principalmente sugli ampi margini rispetto al rapporto qualità-tempo nella consegna della merce, non di rado legati a dure condizioni di lavoro e a ritmi produttivi serrati (Guercini, 1999; Barrocci, Liberti, 2004).

Il modello di produzione è quello indicato dalla letteratura sul tema come “modello Wenzhou o Zhejiang” (Rastrelli, 1999; Marsden, 2002), basato sulla piccola impresa, con una forte divisione dei processi lavorativi e caratterizzato da dinamismo e flessibilità (Ceccagno, 2002; Colombi, 2002), spesso associati a un “deficit di qualità” e alle degenerazioni del lavoro nero (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009).

Si tratta di aziende di dimensioni mediamente piccole, nella maggioranza dei casi con non più di cinque dipendenti (Marsden, Caserta, 2010), che lavorano su fasce basse di prodotto e si rivolgono alla distribuzione su larga scala e in particolare ai mercati ambulanti, “con venditori che vengono da tutta europea a rifornirsi a Prato di prodotti cinesi, pagando cash!” (INT1). Queste aziende si sono aperte un varco nell’ambito di un settore sviluppatosi rapidamente in risposta a nuovi paradigmi di consumo della moda e basato sul riassortimento veloce e sui prezzi contenuti e si rendono competitive utilizzando soltanto in piccola parte materie prime di aziende locali e sempre più con l’acquisto di semilavorati dall’estero e dalla stessa Cina.

Il percorso delle aziende cinesi sul territorio pratese le vede dunque inizialmente comparire come contoterziste, in fasi circoscritte della filiera (cucitura, stiratura); poi affermarsi come produttrici loro stesse di capi a basso costo; infine divenire in alcuni casi fornitrici europee di produzioni di origine cinese (ma made in Italy). Un percorso da contoterzisti a pronto modisti (instant fashion), quindi da committenti a imprenditori, rispondendo a una precisa strategia imprenditoriale e a nuove domande di mercato.

Se all’inizio degli anni ’90 parlare di imprenditoria straniera a Prato significava però sostanzialmente parlare dei laboratori di confezioni di cinesi, oggi, dopo vent’anni, anche questa pur restando la specializzazione etnica ancora evidente, si presenta nel distretto come un fenomeno più vasto e complesso che investe differenti settori di attività.

Nell’ambito dell’imprenditoria cinese, le confezioni hanno infatti mantenuto un ruolo trainante ma i piccoli laboratori di produzione hanno incontrato crescenti difficoltà a conquistare o a mantenere la propria posizione sul mercato e si è assistito all’inserimento in nuovi settori, spesso per una strategia familiare di diversificazione imprenditoriale, per cui alla gestione di uno o più laboratori di confezioni si affianca l’avvio, da parte di un membro della stessa famiglia, di esercizi commerciali o di altri tipi di imprese (Marsden, 2002).

Questo processo di diversificazione delle attività imprenditoriali gestite da cittadini di origine cinese, in parte sicuramente legato alla ricerca di nuovi mercati in reazione alla concorrenza interna ed internazionale; si presta a una duplice interpretazione: da una parte, evoluzione dell’esperienza di migrazione; dall’altra, come ulteriore tendenza verso un’organizzazione autarchica della comunità,

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sempre più capace e interessata a rispondere in modo autonomo alle esigenze specifiche dei suoi membri in termini di produzione e vendita di beni e servizi (Marchetti, 2004; Savino,2003):

“la comunità cinese a Prato è riuscita a costituire un ambiente quasi autosufficiente in termini di necessità primarie: hanno farmacie, oreficerie..., usufruiscono dei servizi pubblici, della scuola e dell'assistenza medica ma su molte cose sono riusciti a diventare autonomi. Siamo già ai grandi magazzini di abbigliamento e di generi alimentari, alla grande e media distribuzione, al commercio al dettaglio di qualsiasi tipo e ai servizi” (INT3).

Dal 1998 al 2000 il panorama dell’imprenditoria cinese si è dunque notevolmente diversificato: il numero degli esercizi commerciali quadruplica ampiamente, arrivando a superare l’ottantina, e fanno la loro comparsa sul mercato anche diverse ditte che offrono ai membri della comunità differenti tipi di servizi. Già dal 2001, l’inserimento in nuovi settori diviene l’elemento emergente nello sviluppo dell’imprenditoria cinese, mentre diminuisce il ruolo delle confezioni, che mostrano una crescita assai limitata e riducono nettamente la loro incidenza percentuale sul totale delle ditte cinesi attive nella provincia.

Dal 2001 2002 la diversificazione delle attività produttive ha dato vita anche a un cambiamento nelle relazioni di alcuni di questi imprenditori cinesi con la madrepatria, con l’intensificarsi di attività di importazione di semilavorati e di import-export.

L’imprenditoria cinese si spinge dunque oggi oltre i confini del settore delle confezioni e si afferma anche nella ristorazione e nel commercio e, pur ancora in modo marginale, nelle costruzioni e alcune indagini sul distretto pratese (Colombi, 2002; Ceccagno, 2003) hanno segnalato recenti traiettorie di diversificazione produttiva, che riguardano attività commerciali collegate alla filiera produttiva dell’abbigliamento, oltre ad attività commerciali rivolte non solo alla comunità etnica, ma anche alla più ampia clientela autoctona.

Nonostante il trend di crescita nelle registrazioni, sembra permanere un alto tasso di mortalità tra le imprese cinesi, specie tra quelle di sussistenza (Ceccagno, 2002), in evidenza in particolare a partire dal 2000 e un’analisi compiuta sui dati del 2002 ha fatto emergere il dato di una vita media delle imprese cinesi di circa due anni e otto mesi, contro una media di poco più di quattro anni dell’insieme delle aziende straniere e di circa dodici anni e mezzo di quelle italiane (Caserta, Marsden, 2003).

Infatti, pur con alcune imprese nel settore delle confezioni e del tessile in grado di vantare una discreta anzianità aziendale di circa dieci anni, il rapporto 2007 della Camera di Commercio indicava che la quota di aziende con meno di due anni di attività superava ampiamente il 50%” (Caserta, Marsden, 2007).

4. Le risorse di rete nell’imprenditoria cinese

Una caratteristica fondamentale del sistema di impresa cinese, evidenziata dalle numerose ricerche empiriche sul tema, concerne il radicamento del sistema di impresa nelle reti di relazioni comunitarie e familiari e come i legami forti influiscano su vari aspetti dello sviluppo del lavoro autonomo, sia nella fase di avvio che in quella di reclutamento della manodopera e dei capitali. Infatti, nonostante Ceccagno (2003) rilevi un trend di crescita nel numero di dipendenti cinesi in aziende italiane, la netta maggioranza di cinesi lavora ancora per imprese cinesi.

Alcune ricerche sull’argomento hanno sostenuto che nella comunità cinese sia in corso un processo di apertura al territorio locale, citando proprio una graduale diffusione di dipendenti italiani in

123

aziende cinesi (Marsden, Caserta, 2010) ma alcune analisi (banca dati Idol, in Bracci, Parpajola, Sambo, 2009) circoscrivono molto l’ambito di questa apertura, limitandola ad alcuni reparti e spiegando il fenomeno solo come scelta strumentale di porre rimedio non solo ai problemi di lingua, ma anche alle difficoltà nella contabilità e nelle questioni normative. Nella quasi totalità dei casi, infatti, gli addetti delle imprese a conduzione cinese sono cinesi; l’unica presenza italiana si rivela nelle mansioni impiegatizie all’interno di aree specifiche: amministrazione, commerciale, contabile e di design o in legami di consulenza in ambito fiscale, legale. La situazione nelle imprese italiane è speculare: nell’indagine curata da Zanni (2007), solo una delle 164 imprese italiane intervistate ha dichiarato di avere tra i propri addetti dei lavoratori di nazionalità cinese (0,6%).

La struttura imprenditoriale cinese tende quindi a basarsi su una strategia di inserimento nel mercato del lavoro tramite un’enclave socio economica di natura etnica, creando nel mercato di lavoro dei comparti al tempo stesso connessi e separati su cui si intersecano rapporti familiari e che secondo alcuni intervistati costituiscono “una vera e propria enclave economica, con 15.000 addetti, che fa derivare un'enclave sociale” (INT4) in cui il passaparola e la raccolta di notizie tra amici e parenti costituiscono una modalità ordinaria di reclutamento e generano il cosiddetto effetto trascinamento (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009).

Questa caratteristica “reticolare” sembrerebbe confermata anche dalla concentrazione di queste aziende in un’area strategica dal punto di vista dell’economia pratese, come quella del Macrolotto nella zona industriale di Iolo, con un’inversione di tendenza, rilevata anche dalle associazioni economiche locali, rispetto alla logica d’insediamento tradizionale delle imprese locali che tenderebbe invece a prediligere la lontananza dalla concorrenza.

Savino, Valzania e Bruscaglioni (2005) evidenziano in un loro saggio questa peculiarità dell’impresa cinese sul fronte organizzativo, incentrato su risorse etniche di tipo fiduciario e solidaristico, all’interno di un sistema di relazioni che è stato definito in termini di “network etnico” (Calandi, Cialdini, Menaldi, 2010). Al riguardo, la letteratura ha indagato con particolare attenzione il legame tra azione economica, assimilazione socio-culturale e appartenenza etnica, evidenziando nel caso dell’etnia cinese la propensione a muoversi all’interno del proprio gruppo etnico, in termini di reperimento e distribuzione di risorse (Colombi, Guercini, Marsden, 2002; Ceccagno, 2006), con particolare riferimento al fatto che le imprese di proprietà cinese tendono ad assumere principalmente connazionali, spesso parenti o comunque persone molto vicine alla propria cerchia familiare.

In proposito la letteratura evidenzia soprattutto la centralità della cultura della guanxi78 rispetto all’uso del denaro contante nella comunità cinese: entrare nella guanxi di un cinese è infatti come entrare a far parte di una famiglia allargata e questo implica anche una serie di modalità di aiuto reciproco, basati su vincoli di mutua fiducia e su un’etica del ricambiare i favori spesso di natura economica, con contributi monetari su cui i cinesi basano di frequente l’avvio di un’attività imprenditoriale:

“si tratta di un sistema di finanziamenti informale di microcredito tra parenti e amici stretti, chi non sostiene in questo modo viene visto male, come un soggetto non degno di stima: è una sorta di consuetudine, somiglia ai sistemi arabi, e si presta più facilmente se il progetto imprenditoriale sembra valido ma sono legami di tipo familiare e di amicizia, non comunitari” (INT2).

78

Il termine Guān xì ha nella lingua cinese vari significati: relazione, vincolo, rapporto, importanza, significato, causa

ma anche amicizia. La letteratura evidenzia che l’uso dei contanti nella comunità cinese è legato alla cultura della

guanxi: entrare nella guanxi di un cinese è come entrare a far parte di una famiglia allargata e implica anche una serie

di modalità di aiuto reciproco, spesso di natura economica, attraverso le quali i cinesi costruiscono il proprio futuro.

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L’azienda diventa per i cinesi uno strumento per il conseguimento di più elevati livelli di benessere per la famiglia, e questa connessione influenza le politiche di gestione e l’organizzazione delle attività (Guercini, 1999).

Sempre questa “famiglia allargata” sembra determinare in misura considerevole le scelte imprenditoriali dei migranti cinesi (Marsden, 2002): fin dagli anni ’90 la crescita delle famiglie, la moltiplicazione del numero di aziende e l’inserimento in nuovi settori di attività avrebbero infatti proceduto in modo parallelo, tramite la realizzazione di strategie imprenditoriali decise all’interno delle famiglie stesse, ad esempio sperimentando l’inserimento in nuovi settori da affiancare a un’attività già consolidata nel settore delle confezioni, con un approccio molto pragmatico all’autoreferenzialità che permette scambio di informazioni su opportunità e spazi lavorativi (Ceccagno, 2002):

“sia l'idea, che l'analisi del mercato, che i finanziamenti nascono dalla relazione familiare: uno straniero non ha relazioni sociali nel paese in cui arriva e questo è uno svantaggio: io non ho uno zio avvocato, una zia dottoressa e solitamente sono i familiari che aiutano i parenti a venire in Italia e poi forniscono un sostegno economico ma anche idee. Se un soggetto apre un'attività e vede che può andare sia per aprire un mercato ma soprattutto per solidarietà, ti dà un'idea” (INT2).

In una forte corrispondenza tra valori familiari e valori produttivi, la famiglia allargata diventa quindi il fulcro dell’attività imprenditoriale cinese e si è parlato in proposito di “familismo imprenditoriale” (Università di Udine, 2005): questa famiglia è infatti il punto di riferimento per il reperimento delle risorse economiche che permettono l’avvio dell’attività imprenditoriale, fonte di reclutamento di forza lavoro e origine delle motivazioni necessarie.(Colombi, 2002). La rete di relazioni individuata dall’appartenenza al guanxi permette quindi non solo di avviare e di sostenere ma anche di diversificare l’attività imprenditoriale, distribuendone i rischi d’impresa all’interno e realizzando così una gestione autoreferenziale.

Tutti i testimoni privilegiati hanno confermato la centralità del capitale sociale in termini di reti familiari e del gruppo di riferimento per la definizione delle strategie imprenditoriali cinesi, alcuni hanno però evidenziato che se inizialmente il modello dominante delle imprese cinesi operanti nel distretto era caratterizzato da una totale partecipazione della famiglia a tutti gli aspetti della vita aziendale e da un’assunzione in prima persona delle funzioni produttive da parte dello stesso imprenditore, molto più articolata è la realtà attuale. Ne darebbe conferma la crescita del fenomeno della richiesta di finanziamenti alle banche, sebbene sembri riguardare soprattutto la fascia di imprenditori cinesi più istruita e con una permanenza in Italia di più lungo periodo 79, mentre la maggior parte sarebbe ancora estranea al circuito tradizionale del credito bancario, preferendovi il circuito parallelo di micro-credito etnico.

Come ricordato da Marsden e Caserta nella loro recente ricerca (2010), proprio lo studio della diaspora fujianese in Europa ha portato a parlare di “globalizzazione cinese” (Pieke, 2004), come fenomeno che vede l’estensione verso l’esterno di un sistema mondiale con la Cina al centro (Ceccagno, 2002), evidenziando come questa migrazione stessa avvenga nel contesto di dense reti con un ruolo fondamentale delle risorse di capitale sociale, non solo come veicolo di flussi di persone ma anche di informazioni, di beni, di denaro e di altre risorse: una rete di contatti creata dai migranti che non considera più le migrazioni unidirezionali ma come un movimento continuo su più direzioni, secondo un approccio transnazionale che prende in considerazione i network oltre il contesto d’insediamento (CeSPI, 2006). 79

Significativa è l’apertura di una nuova filiale della Credem nella zona a maggiore concentrazione di popolazione

cinese, avvenuta alla fine del 2008. La filiale si rivolge principalmente ai cittadini cinesi e impiega personale cinese e

personale italiano capace di parlare il cinese; altre banche hanno invece assunto mediatori linguistici per facilitare la

relazione con la clientela cinese.

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La rete viene dunque a costituire per la comunità cinese migrante anche la base per una sorta di “carriera di mobilità sociale e spaziale” e dare così vita a un processo aperto in uno spazio sovranazionale, che genera percorsi imprenditoriali cosmopoliti:

“l'architettura del modello sociale imprenditoriale è fortemente modulare, organizzato per reti di clan che sviluppano una capacità di intervenire sul mercato che ha uno spettro europeo, richiamando flussi da tutta Europa su base familiare: magari vado a Prato due mesi a fare le maglie, poi due mesi a Parigi a fare le borse...per noi andare a Firenze è una tragedia, mentre per il figlio di un cinese prendere l'aereo per andare a lavorare a Parigi è normale” (INT4).

Questo sistema di relazioni permetterebbe quindi al migrante cinese di costruire un progetto di vita e di alimentare aspirazioni non limitate ad un unico contesto territoriale, ma di riferirsi piuttosto a un’ampia area di partenza e di transito, spesso in stretta connessione anche con la madrepatria (Bin Wu, 2009), dando origine a vaste reti commerciali internazionali a dimensione globale tramite una forte propensione alla mobilità internazionale (Ceccagno, 2002).

La rete quindi oltre ad assumere un’importanza cruciale nello sviluppo dell’imprenditoria cinese nei vari territori, prevalentemente sotto l’aspetto del ruolo svolto dai legami familiari e comunitari che contribuiscono a definire le strategie imprenditoriali, costituisce lo schema della natura globale del fenomeno migratorio cinese, articolando una pluralità di network tra aziende e realtà locali, non solo in varie aree italiane ma estendendosi anche verso altri paesi europei e verso la Cina stessa.

La ricerca sul tema (Marsden, Caserta, 2010) ha evidenziato cambiamenti nel ruolo e nell’immagine dell’imprenditore cinese, in primo luogo più interessato alla ricerca e all’innovazione, ma rilevando anche cambiamenti nei network imprenditoriali con una crescente interazione con le realtà economiche e la società locali:

“ci sono contatti e legami economici e socio-economici, stabiliti soprattutto su interessi di aziende italiane che si servono di aziende cinesi in una lotta al ribasso dei prezzi, anche da parte di grandi marchi” (INT3),

pur nel permanere di numerosi problemi e difficoltà a stabilire relazioni produttive tra le due comunità imprenditoriali e a consolidare strumenti in tal senso:

“c’è un substrato di aziende pratesi dei filati che hanno rapporti con i cinesi e si era anche cercato di fare un consorzio per la realizzazione di capi di abbigliamento sport casual, realizzato da cinesi con tessuti italiani, ma non è andato avanti: non sono riusciti nemmeno a coinvolgerli” (INT1);

“il mercato cinese è parallelo a quello del tessuto pratese, nel senso che non c'è una concorrenza diretta rilevante sulla produzione, ma è mancata anche la collaborazione, probabilmente sia perché le attività sono su due livelli di mercato differenti ma anche per la mancanza di volontà, per una forte diffidenza che porta a evidenziare i problemi e a mantenere chiuse le due comunità, senza nemmeno cercare di promuovere un incontro per la ricerca di una soluzione comune per uscire dalla crisi” (INT2);

Al tempo stesso è stato evidenziato che un pur contenuto aumento delle interazioni con la società locale e la trasformazione di processi gestionali e organizzativi si connettono alla richiesta da parte degli imprenditori cinesi di un maggior riconoscimento all’interno della società locale (Marsden, Caserta, 2010).

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5. Prospettive dal distretto pratese

Secondo alcuni degli intervistati, non è azzardato sostenere che l’insediamento e lo sviluppo dell’imprenditoria cinese abbia garantito in parte, pur con considerevoli cambiamenti, la continuità di esistenza del distretto pratese a fronte dei mutamenti globali, posticipando la crisi dell’economia locale. La cosiddetta “crisi pratese” sarebbe quindi potuta giungere in anticipo sui tempi senza lo sviluppo del pronto moda, evoluzione di un modello imprenditoriale in grado di creare un ampio mercato europeo.

Una presenza così numerosa e, a detta degli attori collettivi presenti sul territorio, comunque difficile da valutare con certezza e spesso fortemente sottostimata dai dati statistici a causa del fenomeno della clandestinità, ha però generato inevitabilmente nel corso del tempo tensioni a livello della comunità locale e in particolare nel mondo imprenditoriale del distretto.

Numerose sono infatti le lamentele del mondo imprenditoriale locale rispetto alla presenza cinese, nonostante molteplici siano stati negli anni gli interventi dell’Amministrazione Comunale per cercare di superare una gestione emergenziale del problema, andando verso la programmazione di interventi più strutturali, quali la riqualificazione delle periferie produttive e la progettazione di aree artigianali, in grado di tenere conto delle particolari esigenze del modello produttivo cinese (Comando Generale della Guardia di Finanza, 2006). Sempre in questo approccio di intervento proattivo, fin dal 1993, solo un anno dopo la costituzione della neo provincia di Prato, l’Amministrazione comunale pratese si è dotata di un proprio Centro di Ricerca e Servizi per l’Immigrazione con un profilo di ricerca-intervento e compiti di studio, accoglienza e servizio per gli immigrati presenti nella comunità locale80. Nel 2002, inoltre, l’Assessorato comunale alla Cultura è stato affiancato dall’Assessorato alla Multicultura: esperienze queste che per molti anni hanno fatto di Prato un vero e proprio laboratorio nazionale sul tema dell’integrazione:

“Prato è un'eccezione che non fa tendenza ma è un'avanguardia che precede quello che accadrà in altri territori e questo poteva servire portare avanti un dibattito” (INT4).

Iniziative istituzionali a parte, in città, pur in assenza di episodi di rilievo connessi all’intolleranza, si rileva un certo separatismo a livello di società civile, per cui i rapporti tra i membri delle due comunità rimangono più formali che sostanziali ed esistono molte difficoltà (Ceccagno 2004). La percezione da parte della comunità locale sarebbe infatti quella di una situazione di assoluta emergenza, priva di non solo di risposte ma anche di ascolto a livello nazionale:

“Prato è una provincia giovane e ancora sottodimensionata per la presenza delle istituzioni che sono in affanno per i controlli: non c'è proporzione tra quello che noi possiamo fare e quello che sta succedendo, occorre un intervento statale urgente” (INT1).

Soprattutto negli ultimi anni la tensione per gli effetti prodotti sul tessuto imprenditoriale pratese dalla crisi economica e finanziaria globale si intrecciano sempre con più frequenza alle vicende politiche nazionali e locali81 e sembrano fomentare il diffuso malessere locale:

“la chiusura della prima generazione per problemi linguistici e per un interesse focalizzato sul lavoro e nel tempo l'aumento della comunità hanno esteso il peso delle differenze che insieme all'avvento della crisi ha aumentato la diffidenza e prodotto malessere, espresso anche dal risultato

80

L’attività del centro partita nel 1994 si è conclusa nel 2006 ma la ricerca sull'imprenditoria cinese prosegue in parte

tramite la Camera di commercio

127

delle ultime elezioni. In questo momento c'è l'incontro tra due chiusure a livello sociale, culturale, economico e anche urbanistico” (INT2);

“vent'anni fa lo stereotipo del cinese era di quello sull'apino con le ruote sgonfie che guida, carico di roba, con le infrandito o i mocassini neri con il calzino bianco e ci si rideva su, oggi minimo minimo il cinese al più basso livello gerarchico della sua fabbrica ha il furgone e poi si cominciano a vedere le Mercedes, i Suv, le BMW, le Audi da 60-70.000 € e questo suscita invidia sociale: ci si chiede come possano aver fatto e improvvisamente si vede il cinese irregolare che ha rubato il lavoro” (INT3);

“gli elementi di protesta sono legati allo sviluppo dell'imprenditoria cinese e all'aumento della concorrenza ma anche a un clima generale di atteggiamento verso gli stranieri in Italia che ha determinato uno spostamento dell'opinione pubblica e della posizione politica della città” (INT5).

I testimoni privilegiati sottolineano come per anni Prato sia stata il contesto di un’interazione priva di elementi di conflittualità o di manifestazioni organizzate di protesta sul tema della presenza cinese, nonostante una diffusa lamentazione a livello di senso comune e che solo negli ultimi due anni si è sviluppato un discorso pubblico sul tema, motivato dal convergere della crisi locale del settore, pur già conclamata da tempo, con quella globale:

“la sostanziale aconflittualità era dovuta al funzionamento dei meccanismi di integrazione economica, in parte riconducibili ad alcune peculiarità cittadine nella percezione del migrante, prima interno poi straniero, ma in cui il contante ha sempre facilitato i rapporti” (INT6).

A seguito dell'esplosione della crisi economica le espressioni generali di malcontento (“i cinesi stanno sempre meglio e noi sempre peggio”82) avrebbero quindi assunto toni più decisi, si sarebbero indirizzati specialmente verso le modalità dell'imprenditorialità cinese, tema veicolato in modo ambivalente in modo da associare a livello di pubblica opinione la crisi di Prato con la presenza cinese83, non di rado intrecciando il tema con quello del pregiudizio etnico.

La crisi avrebbe generato dinamiche di conflitto precedentemente assorbite o ammortizzate dal sistema economico locale, producendo anche segnali politici forti che tendono a riassumere l’analisi della crisi con l’attribuzione di responsabilità alla presenza cinese.

Tutti gli intervistati infatti riconducono il recente avvicendamento di colore nell’amministrazione cittadina, con l’elezione di un sindaco di centro-destra per la prima volta nella storia della città e l’inasprimento delle misure “anti-cinesi” (ad esempio, i blitz anti illegalità con gli elicotteri) in controtendenza rispetto agli anni precedenti 84, proprio alla capacità di questa parte politica di tradurre e sintetizzare il passaggio da un sentimento di relativa estraneità tra le due comunità a una preoccupazione per il futuro di Prato percepita in termini di “assedio cinese” (Pieraccini, 2008), come sintetizza lo slogan elettorale di centro-destra “Martini [presidente della Regione] + Carlesi [ex Sindaco di centro-sinistra] = cinesi”.

Questo nuovo discorso pubblico sull’emergenza imposta dall’affermarsi dell’imprenditoria cinese si sviluppa sul tema della concorrenza sleale, con cornici interpretative distinte ma spesso intrecciate tra loro e principalmente sostenute dagli esponenti della realtà imprenditoriale locale, soprattutto da quelli che non hanno rapporti commerciali con la comunità cinese, che dichiarano di temere possibili contagi, come si evidenzia in un recente documento dell’Unione industriale pratese:

82

Luigi Caroppo, Chinatown, la “rivolta” pratese sul Financial Times, La Nazione, 10 febbraio 2010 83

Si veda in proposito il caso dell’iniziativa "Prato non deve morire" del 28 febbraio 2010. 84

Guy Dinmore, “Tuscan town turns against Chinese immigrants, Financial Times, 9 febbraio 2010

128

“Confronti fra le performance delle imprese cinesi e delle imprese italiane sono improponibili giacché i costi delle une, irregolarmente alleggeriti di oneri fiscali e contributivi, sono imparagonabili a quelli delle altre. Fare impresa, in sostanza, è facile se ci si autoesonera da costi che invece continuano a gravare, con estrema pesantezza, sulle imprese corrette: quelle stesse che con le imposte che versano alimentano i bilanci di Stato ed enti locali, e quindi welfare, scuola, cultura, sanità e quanto altro occorre ad una comunità civile ed avanzata. Il timore del contagio dell’illegalità cinese anche alle imprese italiane è forte oggi come non mai, a causa delle difficoltà delle imprese corrette e della maggior contiguità dei ‘due distretti’ conseguente l’entrata dell’imprenditoria cinese anche nel settore tessile. Le imprese italiane vengono mortificate dalla vicinanza con realtà che conseguono successi economici straordinari alimentati dall’illegalità; sono verosimili le tentazioni di possibile emulazione che, ove si concretizzassero, farebbero apparire il ricorrente dibattito sull’etica del distretto come un mero esercizio di teoria travolto dalla realtà”85.

La prima cornice interpretativa riguarda la denuncia dell’imprenditoria cinese in termini di illegalità diffusa nelle transazioni economiche; propensione al dumping sociale, soprattutto per l’utilizzo di manodopera clandestina e minorile e violazione delle condizioni igieniche e di sicurezza precarie, mancanza di tutele lavorative e situazioni di vero e proprio sfruttamento di connazionali in clandestinità connesse a sistemi di riscatto progressivo dei debiti contrati per la migrazione; mancato rispetto della proprietà intellettuale, oltre alle più generali questioni connesse al fenomeno dell’immigrazione irregolare e del lavoro nero86 (Ceccagno, 2002).

La violazione delle regole, economiche e giuridiche, sarebbe dunque la principale risorsa competitiva di questa imprenditoria secondo una lettura del fenomeno che sostiene lo sviluppo di un “distretto parallelo” di un’economia etnica gestita su modelli organizzativi e culturali esclusivamente orientali, quindi nella migliore delle ipotesi percepiti come inconciliabili con quelli locali: un “distretto nel distretto”, una realtà economica su nuovi segmenti di mercato, in buona parte sommersa e a totale gestione cinese (Bonacchi, Giunta, 2006) che non rispetta le norme della società locale e diventa quindi anche una minaccia in termini di sicurezza e ordine pubblico:

“si preme molto sul tasto della legalità e delle regole e la crisi mette in evidenza l'imprenditoria cinese alla ricerca di colpevoli” (INT3).

In questo quadro di forte allarme, alcuni dei testimoni privilegiati intervistati hanno però sottolineato la complessità del problema dell’illegalità connessa all’imprenditoria cinese e il rischio della diffusione di una visione che sostenga l’esistenza di un fenomeno di illegalità etnica, spesso ad uso e consumo mediatico, che tende a confondere e assimilare aspetti, presenti ma molto diversi, quali sommerso e reti criminali (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009) spesso con una trattazione superficiale di eventi e di comportamenti, che seppur presenti, non devono essere generalizzati come uniche modalità lavorative cinesi; senza per altro tenere conto del fatto che il tema dell’irregolarità lavorativa riguarda anche molte imprese italiane, specie di piccole dimensioni, e che più in generale l’Italia è un paese che si distingue per una peculiare cultura della legalità (Ceccagno, 2002).

Inoltre in molti hanno evidenziato le contraddizioni di queste denunce, in quanto certe caratteristiche improprie dei sistemi lavoro dell’imprenditoria cinese avrebbero negli anni procurato considerevoli vantaggi competitivi alle imprese italiane committenti che tramite un atteggiamento “compiacente” avrebbero trovato risposta alle proprie esigenze di flessibilità (Ceccagno, 2002; Ambrosini, 2001 b) “creando un intreccio di reciproci interessi nel quale, anche in contrasto con le parti della nostra normativa in materia di lavoro e di diritti sindacali, sono saltate molte delle regole 85 Allarme degli Industriali: “Imprese corrette mortificate dalla concorrenza di quelle sleali. Rischio di contagio

dell’illegalità cinese alle nostre aziende” http://www.notiziediprato.it/2011/01) 86

Secondo Ceccagno (2002) con lavoro nero (heigong) i cinesi si riferiscono solo alla presenza di clandestini all’interno

delle imprese e non al frequente scollamento tra il lavoro e il pagamento delle imposte.

129

del tradizionale modo di produrre. In sostanza, invece di delocalizzare in all’estero, i committenti hanno potuto beneficiare di una ‘delocalizzazione in loco’, in cui le imprese cinesi adottano ritmi e modalità di lavoro tipiche di zone a basso sviluppo, rimanendo però a portata di mano” (Barrocci, Liberti, 2004, 96).

La seconda cornice interpretativa riguarda invece tema della irregolarità nella produzione e la saturazione dei mercati con prodotti di scarsa qualità ed è alimentata dalle criticità che caratterizzano il contesto economico globale e che hanno acutizzato la crisi locale.

Del resto, nel quadro di peculiarità del sistema produttivo locale che risultano spesso vincoli nelle potenzialità di sviluppo del distretto (propensione alla crescita delle imprese per filiazione, scarso investimento tecnologico), sono proprio i settori del tessile e dell’abbigliamento quelli che hanno infatti avvertito in modo più forte gli effetti della crisi globale attuale (Bellandi, Biggeri, 2005):

“si confonde l'argomento delle irregolarità delle aziende cinesi con la vera causa della crisi delle imprese del tessile pratese che è legata alla globalizzazione e alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo che hanno ridimensionato il mercato e richiede un rinnovamento del sistema e così si parla di concorrenza sleale che va a ledere soprattutto la ricchezza sociale della città” (INT2).

La perdita di competitività, esplosa dal 2000, a seguito della crisi dell’economia statunitense e per l’accrescersi della competizione dei paesi asiatici, ha visto in generale in Toscana le esportazioni passare dall’8,3% al 6,9% del totale nazionale e nello specifico le esportazioni di prodotti tessili pratesi diminuire in termini reali del 45%.

Nel 2008 con una variazione delle esportazioni dell’area sul peso del totale di quelle toscane dal 13,4% del 2001 all’8,2% Prato si è posizionata come la provincia italiana con le performance peggiori (Unioncamere, 2009), arrivando nell’aprile 2011 a ottenere il riconoscimento dello stato di crisi da parte del Governo, dopo più di un anno di attesa.

In particolare, le imprese del distretto pratese (straniere e non) subiscono la competitività delle aziende tessili e di confezioni cinesi localizzate in Cina che immettono sul mercato quantitativi ingenti di merce a prezzi molto bassi, dando vita ad aree manifatturiere specializzate che potrebbero portare alla nascita di distretti manifatturieri in quei luoghi.

Questa concorrenza esterna si somma poi alla concorrenza interna che proviene da tutte quelle imprese, spesso cinesi, nel settore della moda che hanno già operato strategie di internazionalizzazione produttiva con partner cinesi e che realizzano prodotti made in Italy in Italia ma con semilavorati che provengono dall’estero:

“la signora che in Germania compra il vestitino ‘made in Italy’ al mercato , crede veramente che sia fatto in Italia e invece lo hanno fatto come semilavorato i cinesi in Cina e terminato quelli a Prato ” (INT1).

La ricerca sul tema ha però mostrato che, per quanto negli ultimi anni sia cresciuto in misura notevole l’import dalla Cina di prodotti finiti, è difficile stabilire se stia realmente soppiantando il circuito produttivo locale (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009) e se quindi effettivamente “i cinesi rubino il lavoro”.

La terza cornice riguarda le denunce di molti imprenditori locali rispetto alla mancanza di relazioni positive dell’imprenditorialità cinese con il territorio e definisce il fenomeno in termini di un’invasione da parte di una comunità che utilizza servizi e strutture del distretto ma non porta benefici e non costruisce benessere:

“’impresa etnica, autoreferenziale e rimesse all'estero sono i tre elementi che chiudono il cerchio e che delineano la volontà di non immettere capitali

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verso l'interno, quindi anche verso la città, anche sotto l'aspetto delle aziende:talvolta si trovano imprenditori cinesi che non sono proprietari nemmeno dei macchinari ma li prendono in affitto, questo soprattutto nel mondo del lavoro nero” (INT3).

I vantaggi derivanti dall’affermazione imprenditoriale della presenza cinese sarebbero, secondo le interpretazioni più rosee di alcuni degli intervistati, comunque distribuiti in modo diseguale e a vantaggio esclusivo di pochi locali operanti su settori specifici, come quello immobiliare o dei beni di lusso:

“per i commercianti di Prato sarebbe un problema sei cinesi decidessero di andare via, perché spendono molto nei negozi di lusso alla ricerca di un modello di consumo griffato” (INT1).

Questa mancata riconoscenza e redistribuzione verso il territorio “ospite” viene per altro aggravata dall’esistenza di un intenso flusso di rimesse verso la madrepatria, spesso tramite un “uso creativo” del canale dei money transfer (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009), di circa l’80% delle risorse, valutato intorno ai 590.000 euro all’anno per l’intera regione dal Ministero, con un 78,6% proveniente da Prato (Paletti, Russo, 2010) ammontare stimato a livello locale in cifre ben superiori: in questo quadro nella percezione degli imprenditori locali, l’imprenditoria cinese non solo non restituirebbe parte degli utili alla città ma addirittura le sottrarrebbe risorse.

Un’ultima interpretazione del malcontento è quella che porta gli imprenditori pratesi, pur consapevoli della natura dell’attività manifatturiera cinese non in diretta concorrenza con le preesistenti aziende tessili del luogo ma in posizione complementare e persino di estensione della filiera, a lamentare non tanto la mancanza di interazione con le imprese orientali quanto la percezione di ingiustizia. Le carenze di integrazione da parte delle aziende cinesi, in termini di mancato rispetto di regole, accordi, consuetudini accettate invece dalle aziende autoctone alimenterebbero secondo alcuni intervistati le recriminazioni degli operatori locali sul fatto che:

“in un periodo di crisi, avendo difficoltà nel fare indagini sulla comunità cinese, le istituzioni preposte continuano a fare controlli massicci sulla comunità italiana, con accanto le aziende cinesi che fanno di tutto e nessuno li controlla e allora viene la rabbia in corpo!” (INT1);

Il tema della disparità nei controlli è oggetto di continue discussioni e polemiche in ambito locale a livello politico, mediatico e di opinione pubblica locali anche in termini della denuncia di un abbandono da parte delle istituzioni nazionali e di un’oggettiva difficoltà nel garantire un efficace monitoraggio come evidenzia con un esempio un intervistato:

"loro hanno una lingua per cui lo spostamento di un accento cambia il significato di una parola, per cui un'impresa che ha un nome, ad esempio ‘Ma’, resta per due anni, che è il tempo necessario per la nostra legislazione per rimanere senza il controllo da parte delle istituzioni, poi invece di ‘Ma’, si chiama ‘Maa’ che si scrive nello stesso modo ma è un altra parola, l'indirizzo è lo stesso e per altri due anni non hanno controlli e poi magari diventano ‘Maaa’...loro conoscono le nostre leggi a tal punto che sanno dribblare tutti i problemi legati alla rendicontazione, mentre noi non conosciamo niente su di loro” (INT1).

Per cercare di superare le difficoltà di relazione tra le due comunità imprenditoriali, facilitare il dialogo e creare collaborazione, alcune associazioni di categoria hanno promosso iniziative di apertura alle imprese cinesi (servizi di mediazione culturale, traduzione di siti internet), per quanto alcuni intervistati segnalino come esse stesse non si siano sempre mostrate capaci di contrastare alcuni luoghi comuni:

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“spesso sul tema hanno giocato su un doppio pedale, riconoscendo da una parte il possibile ruolo dell'imprenditoria cinese ma al tempo stesso puntando spesso il dito verso i cinesi per rispondere delle carenze e delle criticità del sistema locale” (INT6).

Al momento però l’unico iscritto all’associazione locale degli industriali risulta Xu Qui Lin, “caso virtuoso” dell’imprenditoria cinese-pratese, ormai noto alle cronache locali per il suo ruolo pionieristico (Ceccagno,2002), titolare della nota azienda di abbigliamento Giupel spa, produttrice di giubbotti di pelle e di stoffa con un fatturato di 15 milioni di euro nel 2003, con 24 dipendenti, di cui la metà cinesi e l'altra metà italiani,che esporta il 30% del fatturato87.

Alcuni intervistati hanno però sottolineato anche la mancanza di supporto all’integrazione da parte delle organizzazioni della società civile che rappresentano la comunità e l’impresa cinesi a livello locale. A Prato esistono infatti gruppi di interesse di azione collettiva (Associazione Amicizia cinesi, Associazione del commercio cinese, Associazione dello Fujian, Associazione buddisti cinesi in Italia) che però tendono a rappresentare interessi speciali o lobby, piuttosto che interessi pubblici, e non sono luoghi di partecipazione in quanto privi di agende politiche, ad eccezione di Associna, che raduna i cinesi di seconda generazione e ha forti contatti con varie realtà del terzo settore.

Riguardo alle prospettive di interazione tra le due realtà di impresa, per il momento ancora fenomeno residuale, fondamentalmente le visioni sono di due tipi.

Da un lato vi è chi tende ad evidenziare soprattutto i tratti di separatezza ed estraneità; per cui Prato sarebbe considerato dalla comunità imprenditoriale cinese solo come una sorta di “polo logistico”, una piattaforma per l’import dalla Cina e l’export verso i mercati nazionali ed europei (Bracci, Parpajola, Sambo, 2009) con la commercializzazione di manufatti cinesi in un percorso di internazionalizzazione produttiva che sembra precludere lo sviluppo di relazioni:

“già nel 1995 abbiamo cercato di stabilire i primi contatti, per organizzare degli incontri tra operatori cinesi e italiani per creare connessioni, perché già si profilava una presenza massiccia: ne abbiamo fatti uno nel 1995 e uno nel 1996 tramite dei loro commercialisti che facevano da intermediari ma non è mai nato niente, non siamo mai riusciti ad avere operatori cinesi dell'abbigliamento. Cerchiamo di invitarli anche alle nostre attività, senza separazioni di nazionalità ma come imprenditori, ma fino adesso i nostri inviti sono andati a vuoto[...], perché loro hanno un'economia etnica e i loro riferimenti sono chiusi nei loro circuiti finanziari, nelle loro storie e non hanno interesse a fare cose con noi" (INT1)

Questa prospettiva arriva a ipotizzare una sorta di “diaspora, guidata da un progetto politico cinese” (INT3). Le imprese cinesi di Prato sarebbero quindi una sorta di articolazione di una filiera produttiva che parte dalla Cina:

“una ‘filiera globale’, in cui Prato costituisce una sorta di ‘testa di ponte’: produco il tessuto in Cina, lo faccio passare via Taiwan per evitare i dazi, lo vengo a tingere nelle tintorie cinesi a Prato, lo confeziono, lo imbusto e lo spedisco ai distributori del nord Europa. Si tratta di una filiera con fasi in tutto il pianeta, per cui Prato sarebbe il presidio tessile della Cina sul mercato europeo. Questa è la ragione per cui questa imprenditoria non si svilupperà mai producendo benessere e crescita collettiva del sistema imprenditoriale autoctono e di crescita dell'occupazione generale” (INT4).

87

A livello artigianale si contano invece solo 60 aziende iscritte alla Confartigianato e 50 alle CNA, nonostante il trend

di crescita nelle registrazione delle ditte cinesi.

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Per i sostenitori di questa posizione i contatti con l’imprenditoria cinese sono di fatto impossibili da ipotizzare e l’unica soluzione viene offerta da scelte protezionistiche, norme rigide sulla concorrenza e severità nei controlli sulla legalità.

Dall’altro lato si collocano i sostenitori di una tesi sostanzialmente funzionalista, che tende a sottolineare le interazioni tra le imprese cinesi ed il contesto locale, con molti legami economici e convenienze reciproche sia pure evidenziando la distribuzione non uniforme dei benefici della presenza, la tendenza della comunità cinese ad essere autoreferenziale (Asel, 2006) e le difficoltà nella relazione con un soggetto collettivo di non facile comprensione da un punto di vista culturale e con l’eterno problema del gap linguistico88.

I legami tra imprenditoria autoctona e cinese possono svilupparsi sia pure solo in una prospettiva di legame economico, sulla base di un interesse che sembra aver da sempre contraddistinto l’atteggiamento verso la comunità cinese del sistema economico locale:

“mi ha sempre colpito la capacità dei pratesi di cogliere le potenzialità dei cinesi come clientela, stabilendo interrelazioni e creando rapporti fin dall'inizio della loro presenza. Nel ‘94 ricordo le prime pubblicità di negozi pratesi in cinese: a Firenze i cinesi sono arrivati prima anche se con una minore incidenza ma non ho mai visto questo fenomeno che considera l’altro come strumento di mercato ma che permette comunque di creare forme di mixité” (INT5).

Del resto, come sottolineato da alcuni intervistati, la relazione tra le due comunità imprenditoriali pur limitata esiste già o nei confronti di imprese consolidate che possono contare su un vasto numero di dipendenti e su una solida organizzazione, dotate di un certo potere di contrattazione con la società locale e i cui titolari vivono spesso da anni sul territorio, conoscendone i meccanismi (Ceccagno 2002) o talvolta invisibile, perché basata sull’illecito

“con meccanismi fiduciari basati sul tipico ruolo di facilitatore delle relazioni che ha sempre avuto il denaro a Prato” (INT6),

come nel caso di affitti in nero, ordini evasi, mutui accondiscendenti, richieste di consegne in tempi fuori mercato, senza però che si traduca necessariamente né in un’effettiva integrazione socio-culturale, né in un’efficace relazione di mercato.

In conclusione, due contrapposte prospettive di sviluppo vengono oggi configurate dagli attori interessati dal fenomeno.

Da una parte uno scenario in cui una comunità cinese sempre più auto-referenziale, incapace di lasciare effetti positivi apprezzabili sul territorio, renderà l’apparato produttivo originario più anemico, fragile ed esposto a una concorrenza crescente da parte di imprese localizzate nei paesi emergenti.

Dall’altra la possibilità di un’integrazione consistente fra le due comunità, non tanto a livello culturale, quanto a livello economico, viene sostenuta come strumento sia per uscire dalla crisi, allungando alla filiera per arrivare al capo finito, che per promuovere la convivenza pacifica:

“le prospettive per il futuro dipendono molto dal fatto se decideranno di fare un up-grading del prodotto per andare su prodotti più alti, allora ci potrebbe essere una buona collaborazione, altrimenti sarà impossibile” (INT1).

88

Un ruolo particolare nello sviluppo di relazioni imprenditoriali sembra essere legato all’abbattimento della barriera

linguistica, ad esempio tramite la scolarizzazione delle nuove generazioni, attraverso il superamento di quello che

Ceccagno definisce “lessico funzionale ridotto” (Ceccagno, 2003).

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Se pur oggi l’imprenditoria cinese si concentra ancora nel settore delle confezioni e dell’abbigliamento, come attività complementare e differenziandosi quindi dall’attività prevalente del distretto pratese che riguarda invece la produzione di tessuti e stoffe, prevalentemente di lana, la possibilità della realizzazione di una filiera allargata a valle, integrando produzione di tessuti e di confezioni, potrebbe infatti aumentare la competitività del distretto pratese, realizzando a pieno la già parziale evoluzione da distretto del tessile tradizionale a polo integrato della moda, spostandolo sulla realizzazione di un prodotto finito e confezionato, più concorrenziale in un mercato controllato dai distributori, ed evitando la creazione di un distretto parallelo.

Pur davanti al rischio che le posizioni dominanti assunte dall’imprenditoria cinese, legate alla concorrenza nell’ambito dell’economia globalizzata, combinate alle decisioni e agli slogan forti della nuova amministrazione comunale, determinino un atteggiamento di sempre maggior chiusura a livello locale con una graduale affermazione della sindrome da “invasione”, tutti gli intervistati concordano sulle potenzialità di un’integrazione economica con l’imprenditoria cinese in regola per la creazione di un distretto unico.

In generale, nonostante le voci di un graduale abbandono del territorio da parte della comunità per trasferire altrove la produzione e non rinunciare così alla competitività di alcune forme di economia illegale, pur in un periodo di crisi e con il graduale inasprirsi dell’atteggiamento delle istituzioni locali, tutti gli intervistati propendono per la possibilità che il fenomeno dell’imprenditoria cinese permanga sul territorio in maniera consistente.

Il passo del superamento della relazione solo economica è però valutato da tutti i testimoni privilegiati come ancora lontano per l’assenza nell’imprenditorialità cinese del tradizionale fulcro dell’economia locale individuato nel rapporto tra economia di distretto e sentimento di appartenenza e di orgoglio cittadino in un tessuto produttivo fortemente basato sulle relazioni a cui dovrebbe supplire un intervento da

“parte istituzionale per dare il senso di un progetto che, come ha detto il Vescovo, dovrebbe rispondere all’interrogativo ‘in che città vogliamo vivere d'ora in poi?’, perché non possiamo dichiarare guerra a 20.000 persone! che città è una città che dichiara guerra a 20.000 dei suoi abitanti?!” (INT3).

6. Une breve riflessione conclusiva

L’ampia ricerca empirica e le numerose analisi esistenti sul caso dell’imprenditoria cinese a Prato confermano l’elevata propensione imprenditoriale e la forte tensione verso l’affermazione economica e sociale degli immigrati cinesi, che proprio in questo contesto territoriale e distrettuale hanno creato una realtà di aziende senza paragoni in Italia, già a partire dalla fine degli anni ’80. Come evidenziato, questi imprenditori stranieri si sono concentrati su un settore produttivo specifico, trasformandolo da produzione con una posizione marginale nel distretto locale ad ambito produttivo di un polo competitivo non solo a livello nazionale ma in tutta Europa.

L’imprenditoria cinese ricopre quindi oggi un ruolo cruciale nel contesto pratese e, pur non rappresentando più un fattore di novità, rimane ancora un elemento di notevole rilievo per la comprensione della futura evoluzione dell’ambiente distrettuale locale.

Va però considerato che se fino a tempi recenti nell’area pratese la presenza di attività imprenditoriali cinesi mostrava un trend di aumento, alimentando la concorrenza interna a vantaggio del mercato locale, il proliferare di queste micro-imprese ne ha gradualmente ridotto i margini di guadagno, aggravandone una situazione già di per sé spesso precaria. A questa criticità si sommano l’inevitabile saturazione del mercato e l’impatto della crisi globale e iniziano così a venire

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elaborate ipotesi relative al possibile abbandono del territorio da parte della comunità imprenditoriale cinese.

Questa opzione potrebbe costituire un rischio concreto di impoverimento delle potenzialità del tessuto produttivo locale che solo l’uscita dall’autoreferenzialità economica di questi soggetti imprenditoriali, se affiancata anche dall’inversione di tendenza rispetto all’isolamento sociale della comunità cinese, potrebbero scongiurare.

Se negli anni ’90 la presenza di queste imprese ha costituito un elemento di ampliamento della varietà nella composizione del distretto, capace di influenzarne i caratteri e di dotarlo di risorse competitive nuove; nell’attuale panorama economico in costante evoluzione queste aziende potrebbero invece svolgere un ruolo fondamentale nell’elaborare strategie di sviluppo e di risposta alla crisi del settore e alla sfavorevole congiuntura economica globale: gli imprenditori cinesi diventano quindi per l’economia pratese attori chiave che sarebbe controproducente allontanare.

Vari interrogativi si pongono quindi al riguardo non solo di quella che sarà la specifica evoluzione dell’imprenditoria cinese e sulle ricadute di questo sviluppo sulla realtà economica locale ma in particolare sull’aspetto dell’evoluzione delle relazioni tra quelle che ancora oggi si presentano come due comunità imprenditoriali distinte e sui se e sui come l’imprenditoria cinese potrebbe diventare da “distretto parallelo”, con modelli organizzativi e culturali propri, a parte integrante, per quanto peculiare, del tessuto produttivo locale, specie nell’ipotesi che una sinergia tra le due realtà imprenditoriali presenti sul territorio riesca a fornire una risposta alla crisi del sistema produttivo locale tradizionale e a creare le condizioni per rispondere alle sollecitazioni interne ed esterne imposte dalla nuova fase dell’economia globale.

Un simile cambiamento richiede in primo luogo lo sviluppo di un network alternativo a quello puramente etnico, dove i rapporti con l’esterno siano intensi e di natura diversificata e dove le relazioni con la popolazione autoctona siano potenziate anche oltre ai percorsi economici della filiera allargata del tessile.

Questo per non correre il rischio di un’integrazione “monca” in cui l’inserimento nel mercato di lavoro non si accompagna a percorsi di integrazione sociale, in termini di diritti, di doveri e di relazioni e in cui lo sviluppo dell’imprenditoria straniera costituisce un indicatore di capacità di inserimento del tessuto economico e di stabilizzazione in atto smentito però dalla realtà delle relazioni sociali.

Il ritardo politico a livello nazionale in termini di mancata percezione del fenomeno e di scarsa tempestività negli interventi e l’attuale atteggiamento dell’Amministrazione locale centrato sulla sicurezza non sembrano però sostenere un simile approccio, facendosi spesso promotori di comportamenti adattivi e scelte tampone verso situazioni di disagio o di conflitto.

Per favorire questo processo di networking occorrerebbe innanzitutto approfondire la conoscenza relativa ai bisogni di qualificazione e di formazione di queste realtà imprenditoriali, per sostenerne l’ingresso sul mercato con modalità regolari e dare spazio ad azioni e a processi positivi di integrazione al riguardo.

Inoltre il fenomeno richiede un aggiornamento continuo e costante delle analisi sia a livello locale, a cui gli enti e le istituzioni del Comune e della Provincia provvedono da anni con un prezioso lavoro di monitoraggio, sia in termini di un impegno di ricerca anche in prospettiva comparata per consentire di arrivare a nuove letture e interpretazioni e contribuire anche al superamento del modello di distretto locale tradizionale in favore di un sistema a rete maggiormente integrato a livello regionale.

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8. Imprenditori marocchini nel settore del “food” a Torino

Eleonora Castagnone*

1. L’imprenditoria straniera a Torino 1.1 Il contesto economico

Fin dagli anni ’70, il Piemonte, e la provincia di Torino in particolare (dove si concentra più di uno straniero su due), rappresentano un importante luogo di afflusso di migranti dall’estero. La regione si colloca oggi tra le aree italiane a più alto tasso di immigrazione, includendo 377.241 stranieri pari al 8,9% del totale sull’Italia, con un’incidenza sulla popolazione complessiva dell’area del 8,5% (Caritas, 2010). I flussi e la composizione dei migranti in quest’area si sono nel corso dei decenni progressivamente diversificati e articolati. Di pari passo anche le amministrazioni locali, assieme a un importante contributo del terzo settore, si sono attrezzate negli ultimi decenni nell’elaborazione di politiche locali e misure volte alla gestione del fenomeno migratorio e all’integrazione delle nuove componenti della popolazione.

Attualmente l'insieme degli stranieri residenti in Piemonte si caratterizza per una marcata tendenza alla stabilizzazione, accompagnata dalla consistente crescita di nuovi arrivi, soprattutto dall'Europa orientale e in particolare dalla Romania. Si assiste poi alla stabilizzazione sul territorio di molte famiglie immigrate, che i ricongiungimenti familiari, l'acquisto della casa, l'iscrizione dei figli alle scuole italiane mettono in evidenza.

Per quanto riguarda l’inserimento nel mercato del lavoro, dei 133.000 stranieri occupati in Piemonte rilevati nel 2007 (Di Monaco, 2008), 5.000 lavorano nell’agricoltura (attività concentrata soprattutto nelle province di Asti e Cuneo), 60.000 nell’industria e 67.000 nei servizi. La presenza degli stranieri nell’agricoltura e nell’industria rappresenta circa il 9% dell’occupazione complessiva, mentre nei servizi rappresenta il 5,8%. In una prospettiva di genere, sono soprattutto gli uomini stranieri a lavorare nei settori primario e secondario, nei quali superano abbondantemente il 10% dell’occupazione totale maschile, mentre le donne straniere che lavorano nell’industria rappresentano circa il 5% del totale dell’impiego femminile in questo settore. Nei servizi avviene il contrario: gli uomini stranieri costituiscono il 4,8% dell’occupazione maschile, mentre le donne straniere il 6,8% dell’occupazione femminile (ibidem). Se la presenza degli stranieri è largamente prevalente nel lavoro manuale e dequalificato, è da segnalare tuttavia uno spazio crescente, sia pure in specifici comparti, come quello sociosanitario, per figure con un buon livello professionale: le procedure di assunzione di personale straniero paramedico salgono fra il 2007 e il 2008 da 1.200 a 1.800 circa89. Nell’area dell’assistenza le figure di media qualificazione (ausiliari e assistenti domiciliari o nelle istituzioni) tendono poi a sostituire il personale più generico (ibidem).

Accanto al lavoro subordinato, poi, il lavoro autonomo sta assumendo un peso sempre più importante nell’inserimento e nella mobilità lavorativa dei migranti in questa zona, così come nel resto d’Italia.

La provincia di Torino costituisce, secondo l’ultimo rapporto Camera di Commercio di Torino-FIERI (2011), il terzo polo di maggiore attrazione delle attività imprenditoriali dei cittadini

*Università Statale di Milano e FIERI 89 Questo dato va letto alla luce del passaggio allo status di comunitari dei romeni, condizione che ha permesso ai lavoratori di questo gruppo di essere assunti direttamente dalle aziende ospedaliere, anziché attraverso cooperative.

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stranieri, con un totale di 30.122 imprese, pari al 4,8% del totale sull’Italia, dopo Milano (10,5%) e Roma (9,1%).

Il contesto economico torinese ha costituito un fertile terreno di coltura per la creazione e lo sviluppo di attività autonome da parte dei nuovi cittadini. A partire dagli anni ’80, infatti, un sempre più spinto fenomeno di outsourcing ha fatto dell’affidamento esterno di funzioni prima gestite internamente, una strategia determinante per le aziende e le industrie torinesi, prima fra tutte la FIAT. Questo processo ha stimolato nell’ultimo trentennio lo svilupparsi di un tessuto composto essenzialmente da piccole e medie imprese. Ne è derivata una frammentazione delle unità imprenditoriali, con la conseguente diffusione di ditte individuali (che attualmente costituiscono il 53% sul totale delle imprese nella provincia torinese) e una decrescita sensibile del volume delle attività: il numero medio degli impiegati è passato da 9,7 nel 1971 a 5,4 nel 1996, secondo i dati della Camera di Commercio di Torino (2008).

Anche a Torino, come in molte altre città europee, si sono insediate significative concentrazioni di immigranti che costituiscono ambienti favorevoli per l’installazione di negozi e servizi specializzati da parte di operatori stranieri. Così numerosi migranti hanno saputo cogliere le opportunità offerte dalla domanda crescente generatasi non solo in seguito all’aumento della popolazione straniera, ma anche per la crescente richiesta da parte di italiani, avviando attività in proprio. Un’altra parte dei lavoratori autonomi si è invece affiancata ai titolari italiani, e, attraverso un fenomeno di sostituzione, è andata a inserirsi in quei settori tradizionalmente occupati dagli italiani, e spesso progressivamente disertati da questi ultimi. Si tratta, analogamente ai lavori subordinati, soprattutto dei cosiddetti mestieri delle “3 d” (Castels, 2002, 152): dirty, dangerous, demanding, sporchi, pericolosi, gravosi.

Guardando più nel dettaglio alle attività autonome, quasi il 60% delle posizioni imprenditoriali è costituito da titolari di imprese individuali, seguiti dalle società di persone (26,3%) e dalle società di capitale (il 12,3%): l’impresa individuale è pertanto la forma giuridica che ancora riveste un ruolo preponderante fra gli imprenditori stranieri e che registra il maggior incremento in termini di consistenza rispetto al 2009 (+7,1%). In valori assoluti, le imprese individuali con titolari di nazionalità straniera ammontano nella provincia di Torino a 15.742 unità: oltre 15 imprenditori individuali stranieri ogni 100 italiani (CCIAA-FIERI 2010).

Fig.1 - Imprese individuali in provincia di Torino (valori in migliaia). Anni 2000-2010.

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Nell’analisi di Unioncamere (2007: 31) la rapida crescita dell’imprenditoria straniera avvenuta negli ultimi in Italia anni ha infatti fatto degli immigrati “l’attore fondamentale per la tenuta della piccola dimensione produttiva”. Come già da molti osservato, infatti, anche a Torino la crescita di attività a titolare straniero ha permesso nel complesso di contrastare un possibile declino quantitativo dell’insieme delle imprese ed ha accresciuto con il tempo sensibilmente il proprio peso sul totale. Il grafico successivo rappresenta l’andamento delle attività individuali a titolare italiano e quelle a titolare straniero nella Provincia di Torino.

La crescita di consistenza rispetto all’anno precedente è stata del +8,6%, per le imprese straniere, a fronte di un numero stazionario di titolari italiani di imprese individuali. Nonostante si registri un rallentamento nella crescita, imputabile ad un più generale effetto crisi di cui ha risentito anche l’iniziativa imprenditoriale nel suo complesso, tale incremento è stato comunque determinante nel garantire la crescita del numero di imprese individuali nel complesso (+1%).

Per quanto riguarda le principali aree di provenienza degli imprenditori stranieri a Torino, queste sono l’Europa dell’Est e l’Africa mediterranea. Dopo un periodo di netta predominanza dell’imprenditoria proveniente dall’Africa mediterranea, a partire dal 2004 tale componente è stata raggiunta e poi sorpassata dagli imprenditori di nazionalità est europea: questi ultimi oggi hanno acquisito lo stesso peso percentuale (oltre il 44%) che, dieci anni prima, detenevano i piccoli imprenditori nord africani. Analogamente si è assistito ad un graduale calo degli imprenditori asiatici (dal 17% del 2000 al 10,4% del 2010), mentre gli imprenditori dell’America Latina, così come quelli dell’Africa subsahariana, hanno registrato un trend oscillante: fra il 2000 ed il 2002 il peso percentuale dei titolari latino-americani è sceso dal 4% al 3%, si è mantenuto costante sino al 2006, per poi ricominciare lentamente a crescere (nel 2010 il peso è del 4,6%); gli imprenditori dell’Africa Sub-Sahariana sono passati da un peso del 21% nel 2000 hanno visto aumentare la propria presenza (dal 12% al 21% del totale), dal 2002 hanno progressivamente perso consistenza, fino a segnare il 10,3% nel 2010. (CCIAA-FIERI, 2011).

Tab.1 Imprenditori con ditte individuali in provinc ia di Torino per area geografica di provenienza al 31 dicembre

Guardando alle dieci nazionalità più consistenti per numerosità, resta preponderante la quota di imprenditori romeni, con un peso superiore ad un terzo del totale. Ad essi fan seguito i marocchini, che costituiscono poco meno di un quarto dei titolari di ditte individuali stranieri nel complesso. Le

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nazionalità che completano la classifica restano comunque più distanziate rispetto alle prime due: così i cinesi (6,9%) in terza posizione e, a scendere, albanesi (5,5%), nigeriani (4,8%) e senegalesi (3,7%); in coda gli imprenditori di nazionalità tunisina (2,7%), egiziana (2,6%), moldava (2%), peruviana (1,5%), brasiliana (1,3%) e del Bangladesh (1,1%). Tutte le principali nazionalità nel corso del 2009 hanno manifestato un incremento di consistenza, compreso fra il +1% delle imprese individuali brasiliane, ed il +20,5% di quelle moldave e del Blangladesh (CCIAA-FIERI, 2011). Tab.2 Imprese individuali straniere in provincia di Torino per principali nazionalità. Anno 2010

Tab.3 Settore di attività degli imprenditori indivi duali. Anno 2010 (valore %)

L’incrocio delle attività con le nazionalità di provenienza (tab.3) mette poi in evidenza alcune specializzazioni produttive: i tre quarti degli imprenditori dell’Est Europa operano nel settore delle costruzioni; la stessa percentuale dei titolari dell’Africa Sub-Sahariana e quasi il 60% dei nord

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africani svolge attività commerciali, prevalentemente commercio ambulante e al dettaglio in attività di vicinato. Anche gli imprenditori asiatici prediligono il commercio (62,2%) e le attività di ristorazione (il 14,2%), mentre la comunità latino americana mostra una maggiore diversificazione delle proprie attività imprenditoriali: vi è sì una convergenza nei due settori principali – costruzioni con il 39,1% e commercio con il 23,8% - ma risulta la presenza nell’industria manifatturiera (5,6%) e nei servizi - dai trasporti (8,7), ai servizi di pulizia e noleggio (7,2%), a quelli di servizi di informazione e comunicazione (3,2%) (CCIAA-FIERI, 2011). 1.2 Il contesto istituzionale: politiche e azioni rivolte all’imprenditoria straniera a Torino e provincia

Le azioni di sostegno all’imprenditoria straniera promosse dalle amministrazioni locali torinesi sono state fin dall’inizio concepite attraverso un prinicipio di inclusività e indifferenziazione, considerando cioè questa componente come parte integrante del più ampio sistema economico territoriale e agendo per integrarla al suo interno. Secondo questo approccio, dunque, non sono state intraprese iniziative specifiche, quanto piuttosto azioni diffuse e indirizzate all’imprenditoria del territorio nel suo insieme. La maggior parte di queste sono finalizzate soprattutto a fornire servizi o facilitazioni rivolti allo start-up e alla gestione di impresa attraverso servizi di informazione e consulenza amministrativa e legale, programmi di orientamento e accompagnamento, corsi di formazione, erogazione di finanziamenti e forme agevolate di accesso di credito.

I principali soggetti che hanno attivamente contribuito a tali azioni di sostegno sono90:

1) Le amministrazioni locali:

Come già accennato le ammistrazioni locali torinesi forniscono servizi alle imprese del territorio in maniera indistinta. Queste sono:

- La Provincia di Torino, attraverso il MIP (Mettersi in Proprio), un servizio di supporto alla creazione di nuove imprese. Le azioni del MIP sono volte a diffondere una cultura imprenditoriale, a stimolare la nascita di idee d'impresa e a favorire la creazione e lo sviluppo di nuove attività di successo. Il servizio è finanziato attraverso fondi dell'Unione Europea, del Ministero del Lavoro e della Regione Piemonte.

- Il Comune di Torino, attraverso: 1) l’Assessorato al Commercio, 2) l’Assessorato al Lavoro, 3) l’Assessorato all’Integrazione.

Il primo ospita lo Sportello Unico per le Imprese, che è incaricato di offrire servizi di orientamento, consulenza, sosegno finanziario, alle imprese locali.

Il secondo è responsabile degli aspetti di formazione professionale e dell’allocazione delle risorse finanziarie ergogate dai Fondi Strutturali e dal Ministero del Lavoro (ex Legge n.266/1997).

Per quanto riguarda il terzo, anche se le misure specifiche di sostegno all'imprenditoria non fanno parte delle attività dell’Assessorato all’Integrazione, questo ha un mandato nel coordinamento delle diverse politiche di integrazione, oltre a svolgere informalmente un ruolo attivo nel supporto alla creazione di imprese e di associazioni di migranti. Un esempio è quello dell’associazione “Hatun Wasi” composta da donne peruviane che vendono cibo nel Parco della Pellerina, molto frequentato da questa comunità nei fine settimana e in occasione delle festività. Negli ultimi mesi, in particolare, il Comune di Torino ha avviato un percorso di assistenza per sostenere la conversione

90 La rassegna dei soggetti è tratta dal rapporto “"Ethnic Entrepreneurship. Turin case study. Cities for Local Integration Policies (CLIP)”, (Tarantino, 2010).

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dell’associazione in una cooperativa sociale, organizzando incontri fra i vari membri con le banche o con istituzioni che forniscono servizi di supporto all’imprenditoria (Tarantino, 2010).

2) Le Agenzie di Sviluppo Locale:

Se gli assessorati hanno una funzione principalmente politica, gli attori con un ruolo più attivo sia nella fase di progettazione, sia nella fase di esecuzione e attuazione delle politiche, sono le Agenzie di Sviluppo Locale. Si tratta di entità orientate alla promozione dello sviluppo economico e sociale di aree e quartieri della città. In diversi casi, tali agenzie sono il risultato della collaborazione tra diverse istituzioni pubbliche e attori privati locali. Queste concepiscono progetti e servizi per migliorare la competitività delle piccole e medie imprese locali e la capacità dell’area di intervento di attrarre capitali. Ciascuna di questa agenzie è attiva in quartieri caratterizzati da un’alta concentrazione di migranti.

- The Gate91: si occupa di interventi a favore dello sviluppo economico, sociale, culturale, promozionale e di trasformazione, riqualificazione fisica pubblica e privata dell’area di Porta Palazzo e Borgo Dora. Una parte delle attività dell’agenzia è orientata proprio all’imprenditoria straniera (botteghe, macellerie, bazar, negozi di abbigliamento e casalinghi) e all’area mercatale in particolare (il quartiere ospita il mercato all’aperto più grande d’Europa), di cui si parlerà oltre.

- L’Agenzia di Sviluppo Locale di San Salvario92: ha come obiettivo il miglioramento della qualità della vita nei suoi aspetti sociali, economici, ambientali, culturali e della vivibilità per tutti i cittadini del quartiere San Salvario. Si fonda sull’ eterogeneità dei partecipanti, dei quali valorizza le esperienze e i saperi, con l’obiettivo condiviso della conservazione dell’esistente e di una riqualificazione del quartiere basata sulla sostenibilità sociale ed economica. L’Agenzia promuove e organizza azioni per la valorizzazione delle risorse dell’area e svolge inoltre attività di consulenza tecnica, informazione, orientamento e supporto.

- L’Agenzia di Sviluppo di Via Arquata

L'Agenzia per lo Sviluppo di Via Arquata nasce nel 2000 come risultato del lavoro di un tavolo sociale avviato nel 1998, formato oggi da cooperative, sindacati e associazioni di volontariato e associazioni di cittadini che vivono e lavorano in via Arquata. Nello stesso periodo il Comune di Torino, in collaborazione con la Regione, la ASL, l'ATC e l'allora Provveditorato agli Studi, avviò in questa zona della città un programma di riqualificazione urbana approvato dal Ministero dei Lavori Pubblici. Il progetto prevede interventi sul tessuto urbano, ma anche e soprattutto azioni di accompagnamento e sostegno sociale.

3) La Camera di Commercio, oltre a servizi di sostegno economico, formazione imprenditoriale, consulenza e orientamento rivolti alle imprese del territorio nel loro complesso, ha concepito un dizionario-guida in 8 lingue (italiano, inglese, francese, arabo, romeno, spagnolo, albanese e cinese) “Le parole dell’Impresa” diviso in otto aree tematiche (L’impresa in generale; Leggi e Regolamenti; Gli Istituti, gli Albi e le Autorizzazioni; Il Sistema Fiscale e Tributario; Il Diritto del Lavoro; la Normativa Ambientale e di Sicurezza del Lavoro; Il Mercato; La Gestione Economica e Finanziaria) rivolto a imprenditori stranieri già attivi o in fase di avvio dell’impresa.

Dal 2009 la Camera di Commercio ha inoltre attivato un servizio sperimentale di mediazione culturale per aiutare i cittadini stranieri di lingua araba e romena a orientarsi sui temi imprenditoriali e facilitare il loro rapporto con enti e istituzioni sul territorio.

91 Si veda a proposito: www.comune.torino.it/portapalazzo/ 92

Si veda a proposito: www.sansalvariosviluppo.it

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La CCIAA ha infine stabilito un osservatorio permanente sul fenomeno delll’imprenditoria straniera in provincia di Torino in stretta collaborazione con l’istituto di ricerca FIERI (Forum Internazionale ed Europeo di Ricerca sull’Immigrazione). Dal 2004 ad oggi sono stati prodotti quattro rapporti di ricerca su questo tema, che hanno previsto un aggiornamento statistico annuale sul quadro del fenomeno nel territorio torinese, accanto a un approfondimento qualitativo su vari settori e nazionalità rilevanti93.

4) L’Agenzia delle Entrate (Divisione Regionale Piemonte) ha promosso con INPS e la Camera di Commercio di Torino il progetto “Fare Impresa - Istruzioni per i Nuovi Cittadini”. Il progetto ha istituito una scuola per aspiranti imprenditori e ha preso avvio nel febbraio del 2010. Le lezioni si svolgono su base mensile (due ore al mese), sono suddivise in moduli e affrontano le questioni più importanti per l’avvio di impresa, la gestione quotidiana dell’attività, l’adempimento degli obblighi fiscali e previdenziali. Il progetto è stato sostenuto anche da associazioni di volontariato nella zona di Torino che si occupano di stranieri, come il Sermig, l'associazione italo-egiziana Cleopatra e la Caritas di Torino.

5) Anche le associazioni di categoria hanno saputo cogliere la sfida sollevata dalle nuove fila di imprenditori fornendo servizi attività ad hoc, attraendo al tempo stesso nuovi iscritti:

Il CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) è attiva sul territorio piemontese da numerosi anni, con attività pionieristiche all’interno del sistema CNA nazionale. Si tratta in particolare del progetto “Dedalo”, servizio di supporto ed assistenza alla creazione d’impresa da parte di immigrati, fra cui l’accesso al credito, la formazione, il disbrigo di formalità amministrative e burocratiche (compresi i servizi per il rinnovo dei permessi di soggiorno, la richiesta di ricongiungimenti familiari, la definizione delle pratiche relative ai permessi di soggiorno, etc.). Oggi Dedalo è diventato un modello d’intervento per 25 simili progetti sul territorio nazionale con la denominazione di CNA World che ne rappresenta la naturale evoluzione; il progetto è stato inoltre premiato come una delle migliori 12 pratiche europee in occasione della conferenza "Imprenditorialità tra immigrati e minoranza etniche" organizzata dalla Commissione Europea a Bruxelles il 5 marzo 2008. L’apporto iniziale della Regione Piemonte, della Provincia di Torino e la collaborazione con la Camera di commercio di Torino hanno favorito la creazione di uffici territoriali dedicati al tema dell’immigrazione, offrendo servizi in funzione delle specifiche leggi, dei diritti sociali e della creazione d’impresa.

Il CNA è stato inoltre promotore di progetti pioneristici di sostegno all’imprenditoria transnazionale nel quadro di progetti di co-sviluppo. Il primo ha coinvolto la comunità marocchina e si è avvalso della collaborazione dell’ONG (Organizzazione Non Governativa) Re.te, il secondo ha implicato il gruppo senegalese (e in particolare imprenditrici donne) ed è stato effettuato in collaborazione con l’ONG CISV.

In particolare rispetto al Marocco la CNA ha portato a termine a dicembre 2008 un progetto di accompagnamento alla creazione di impresa da parte di migranti marocchini residenti in Piemonte nel proprio paese d’origine (“Promozione di nuove imprese da parte di immigrati marocchini nella Provincia di Khouribga”), finanziato dalla Regione Piemonte e dalla Camera di Commercio di Torino, che ha visto tra i partner coinvolti anche la Provincia di Khouribga, la Camera di Commercio di Khouribga e l’Istituto Euromediterraneo Paralleli.

93

Si vedano a proposito il sito di FIERI: http://www.fieri.it/lavoro.php e della Camera di Commercio di Torino: http://www.to.camcom.it/studi

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API-TO (Associazione della Piccola e Media Impresa di Torino e Provincia) svolge anche un ruolo importante per la PMI del territorio e più recentemente ha avviato il “Progetto Straniero e Imprenditore” che offe servizi alle imprese già avviate, così come allo start up di nuove attività.

6) Gli istituti di credito e micro-credito :

Dal pundo di vista dell’accesso al credito, diverse banche si sono mobilitate a Torino per migliorare le proprie politiche e i propri servizi rivolti alla clientela straniera. Due banche in particolare, Intesa San Paolo e Unicredit si sono distinte in questo senso, aprendo delle agenzie con servizi dedicati ai clienti di origine straniera in due dei quartieri della città a più alta concentrazione di popolazione immigrata.

Non mancano anche varie inziative di microcredito. Fra queste si può citare PerMicro, un servizio promosso dalla Fondazione CRT in collaborazione con il Comune di Torino e in partnership con Banca Etica; oppure il progetto Dieci Talenti della Fondazione Don Mario Operti, in collaborazione con l'Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro, che, attraverso un finanziamento della Compagnia di San Paolo, fornisce microcredito per l’avvio di impresa. Per un più ampio ed esaustivo rapporto sul microcredito a Torino si rimanda al documento della Camera di Commercio “Il Microcredito a Torino e in Piemonte. Studio di fattibilità di un modello subalpino”94.

7) I soggetti del co-sviluppo e la promozione dell’imprenditoria transnazionale.

Come già prima sottolineato le Ong torinesi CISV e Re.Te. hanno contribuito, in virtù del loro ruolo da ponte fra contesti di provenienza e zone di residenza dei migranti all’estero, a iniziative di sostegno all’imprenditoria transnazionale in collaborazione con soggetti del mondo privato (associazioni di categoria) e di quello pubblico (istituzioni locali).

Anche l’Ong di Milano COOPI e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), hanno in passato promosso iniziative di sviluppo all’imprenditoria transnazionale dei migranti nel quadro di progetti di co-sviluppo rivolti specificamente all’imprenditoria senegalese95. In entrambi i casi sono stati finanziate iniziative basate su Torino (Castagnone, 2006; Stocchiero, 2008).

8) Le associazioni di migranti

Per quanto riguarda i migranti , va infine rilevato che sul territorio torinese manca quasi del tutto un associazionismo costituito su base comunitaria (nazionalità comune) o settoriale (appartenenza al medesimo comparto) di carattere economico-imprenditoriale che sia stato in grado di convogliare coesione interna ai gruppi professionali, da un lato, e di farsi interlocutore delle istituzioni, dall’altro. La stessa comunità marocchina, la più antica e la più numerosa, nonché quella con il più

94

Disponibile all’indirizzo: http://images.to.camcom.it/f/Studi/Mi/Microcredito.pdf 95

L’Ong COOPI ha promosso nel 2005 progetto “Il rafforzamento del capitale sociale nell’ambito del

fenomeno migratorio senegalese” per sostenere iniziative transnazionali a livello imprenditoriale e associativo. La peculiarità di questa iniziativa è stata dare impulso alla creazione di un comitato organizzativo di associazioni migranti, enti locali, associazioni di categoria (una camera di commercio italo-senegalese) per la selezione delle iniziative da sostenere, e per la costituzione di una rete di soggetti interessati a promuovere interventi di co-sviluppo fra Senegal e Italia (Castagnone, Ferro, Mezzetti, 2008). Per quanto riguarda l’OIM di Roma, nel quadro del programma MIDA (Migration for Development in Africa) questa ha sostenuto azioni di sviluppo da parte di migranti di Senegal, Ghana e Etiopia residenti in Italia. Il progetto ha previsto iniziative di sostegno all’imprenditoria transnazionale, individuale e collettiva, progetti e interventi di carattere sociale a partire dalle associazioni dei senegalesi in Italia e iniziative di ricerca e promozione di strumenti finanziari per la canalizzazione delle rimesse nel paese di origine (Castagnone, Ferro, Mezzetti, 2008). .

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alto tasso imprenditoriale sul territorio, non è mai riuscita, salvo timidi tentativi perlopiù fallimentari, a organizzarsi in questo senso. In seguito verrà presentata una breve rassegna delle associazioni imprenditoriali marocchine e della loro funzione economica sul territorio. 2. La migrazione marocchina a Torino

La migrazione marocchina in Italia ha inizio a partire dalla fine degli anni Settanta. Si tratta nei primi tempi di una migrazione a forte composizione maschile, caratterizzata da un alto tasso di irregolarità e da una elevata mobilità territoriale, composta da lavoratori non specializzati (operai impiegati nell’agricoltura e nell’industria) e commercianti ambulanti. Nel corso degli anni si assiste a una crescita costante di questo flusso e a una diversificazione della sua composizione: cominciano a giungere in Italia individui provenienti anche dalle zone urbane del Marocco e con un più elevato tasso di scolarizzazione. L’Italia, da paese di ripiego rispetto alle tradizionali destinazione europee, e in particolare a quella francese, diventa progressivamente una delle principali mete di destinazione dei flussi da questo paese.

Anche le zone di provenienza evidenziano una diversificazione progressiva. Tradizionalmente, la regione di Chaouia Ouardigha e più precisamente la provincia di Khouribga collocata al centro del Marocco rappresentava la principale area di emigrazione marocchina destinata all’Italia. A partire dagli anni ’90, tuttavia, vi sono nuovi punti di partenza: le due regioni di Tadla-Azilal, in particolare, la località di Fkih Ben Saleh della provincia di Beni Mellal e la provincia di Settat. Nonché, sempre di più, altre regioni, come la Grande Casablanca, Rabat –Salé-Zemmour Zaaers o Marrakech-Tensift El Haouz (Mghari, Fassi Fihri, 2010).

La migrazione marocchina si caratterizza poi progressivamente, a partire dalla fine degli anni ’90, per una crescente femminilizzazione, frutto soprattutto dei ricongiungimenti famigliari, come si vedrà meglio oltre. Secondo un recente rapporto dell’OIM (Mghari, Fassi Fihri, 2010), i marocchini richiedenti il ricongiungimento familiare, con famiglia di 3 o più persone rappresentano il 12,1% sul totale dei richiedenti.

All’inizio del 2009 i residenti marocchini in Italia superano per la prima volta le 400.000 unità. Questi risultano a fine 2010 la terza comunità più rilevante a livello nazionale (403.592), dopo romeni (796.477) e albanesi (441.396) (dati ISTAT). Incidono per quasi metà (46%) sulla collettività complessiva africana in Italia e il 66% su quella nord-africana.

In un processo di calo dell’incidenza sul totale dei soggiornanti dei Paesi del Nord Africa dal 18 al 15%, la collettività marocchina ha mantenuto un tasso di crescita costante, pari al 10% (Dossier Caritas, 2009).

La presenza femminile (tab.4), come già accennato, ha subìto una forte evoluzione, passando da 83.292 unità nel 1992 (con un tasso del 9,8% sulla presenza maschile), a 258.571 presenze nel 2007, quadruplicano così il proprio peso percentuale sul totale della comunità (37%). Tab.4 Presenza femminile marocchina in Italia: serie 1992-2007 1992 1997 2002 2007

n.a. 83.292 115.026 167.334 258.571 % sul totale 9,8 20,6 32 37

Fonte: dati ISTAT

Tale femminilizzazione progressiva è il risultato di tre processi concomitanti e complementari: il potenziamento del ricongiungimento familiare, l’impatto delle nascite in Italia, che comporta un

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maggiore equilibrio tra maschi e femmine, e infine, l’emergere della migrazione delle donne sole nel corso degli ultimi decenni (Mghari, Fassi Fihri, 2010).

Dal punto di vista dell’inserimento nel mercato del lavoro, i dati dell’Istat sulla forza lavoro (Istat, 2008), evidenziano come gli uomini siano principalmente muratori e manovali nell’edilizia, venditori ambulanti, saldatori, operai degli alti forni, magazzinieri, falegnami, addetti alle macchine, operai agricoli. I marocchini, per altro, lavorano più frequentemente nei servizi d’igiene e pulizia oppure sono agenti qualificati nei servizi sanitari, impiegati nel settore alberghiero e della ristorazione in qualità di cuochi, nonché operai nell’industria tessile.

E’ importante rilevare che, nel triennio 2005-2007, tra i datori di lavoro che hanno presentato una richiesta di autorizzazione ad assumere lavoratori stranieri nell’ambito dei decreti flussi, 131.000 sono stranieri residenti in Italia (un quarto delle richiesta) e fra questi i più numerosi sono cinesi (19.429) e marocchini (17.926). Come ricorda il rapporto OIM (2010), non è escluso che in alcuni casi si tratti di ricongiungimenti familiari «nascosti» (in un terzo dei casi si tratta di assunzioni nel settore del lavoro domestico).

Secondo il Rapporto Caritas (2009) gli occupati provenienti dal Marocco sono concentrati soprattutto nel nord ovest (40,2%) e nel nord est (32,3%) della penisola e in particolare in Lombardia (23,4%), Emilia Romagna (15,8%), Piemonte (14,8%) e Veneto (14,1%).

La comunità marocchina inizia a installarsi nel capoluogo della regione Piemontese verso la metà degli anni ‘80. Si trattava, principalmente, di migranti provenienti dalla provincia di Khouribga, la cui prima esperienza in Italia era stato l’inserimento come lavoratori stagionali al sud (Sicilia, Campania e Puglia) o il commercio ambulante. I primi ad arrivare erano soprattutto uomini maturi, agricoltori spinti all’esodo da problemi connessi alla siccità, i quali, secondo le dinamiche note della catena migratoria, si sono fatti in seguito raggiungere da artigiani e da giovani operai della loro regione d’origine, disponibili a lavorare nell’edilizia e nell’agricoltura, spesso celibi e senza alcuna qualifica. Seguono quindi le partenze di studenti e di persone con un livello di formazione più elevato, alcuni dei quali diventeranno, con il passare del tempo, mediatori, educatori e operatori sociali per sostenere la comunità marocchina nel suo percorso d’integrazione nella società Italiana. Alcuni quartieri di Torino, fra i quali in particolare Porta Palazzo e San Salvario, sono stati e sono ancora fortemente marcati dalla presenza marocchina e dai commerci avviati da questo gruppo (magazzini, bazar, macellerie, ristoranti, kebabberie, ecc.) (FIERI-CCIAA 2008; 2009).

La Provincia e la città di Torino rappresentano oggi il primo polo di attrazione dell’immigrazione marocchina in Italia, con rispettivamente 18.543 e 17.532 individui residenti in queste aree a inizio 2009, complessivamente 58.811 nella regione piemontese (Istat).

I primi flussi nella città hanno origine a partire dagli inizi degli anni ’80 e coinvolgono in particolare marocchini originari della provincia di Khouribga e di alcune aree contigue della provincia di Settat e Benlismane, zone rurali tra le più colpite dagli squilibri economici del paese. La maggior parte degli immigrati marocchini presenti in Piemonte sono ancora oggi originari di questa regione.

Secondo il rapporto dell’OIM (Mghari, Fassi Fihri, 2010) la destinazione Piemontese è scelta dal 24,4% dei marocchini provenienti dalla regione di Chaouia-Ouardigha, dal 18% dalla regione della Grande-Casablanca, il 5,4 dalla regione di Tadla-Azilal (presenti in larga misura il Lombardia), il 16,3% dalla regione di Rabat-Salé-Zemmour-Zaeer, il 7% dalla regione di Marrakech-Tensift-El Haouz.

145

Guardando agli immigrati complessivamente residenti nel territorio torinese, il Marocco risulta il primo gruppo extra-europeo, mentre se allarghiamo la classifica anche ai gruppi neo-europei, questo risulta secondo solo al collettivo romeno che continua a detenere il primato sia nella provincia, che nella città di Torino, con rispettivamente 44.158 e 25.600 presenze nel 2008.

Entrando più in dettaglio nella composizione del gruppo marocchino, le donne rappresentano il 40% del totale (percentuale leggermente al di sopra di quella nazionale, sopra riportata) e i minori il 25,6% (Osservatorio interistituzionale sugli stranieri in provincia di Torino, 2008).

Nel 2007 gli allievi del Marocco iscritti a tutti i livelli scolastici in Provincia di Torino sono stati 4.532, dei quali 2.600 nati già in Italia (ibidem). Questi ultimi dati confermano una tendenza alla ricomposizione famigliare in Italia e a una stabilizzazione e a un radicamento sempre più forte della comunità marocchina nel territorio torinese.

Come per le altre comunità, l’incidenza dei proprietari è aumentata nel corso dell’ultimo decennio e la propensione a comprare casa è stata forse incoraggiata dalla preoccupazione di non dover più subire discriminazioni di tipo etnico durante la ricerca di un alloggio da affittare.

Anche i dati relativi alle richieste di cittadinanza, importante indicatore di integrazione, oltre che frutto di una permanenza stabile sul territorio, rafforzano questo quadro: fra il 2006 e il 2008 le richieste annuali di naturalizzazione avanzate dalla popolazione marocchina sono più che raddoppiate, aumentando il loro peso sul totale delle richieste di 10 punti percentuali (27,49 nel 2006 e 37,63 nel 2008).

Tab.5 Richieste cittadinanza dei cittadini marocchini in Provincia di Torino 2006 2007 2008 n % sul totale

delle richieste

n % sul totale delle richieste

N % sul totale delle richieste

488 27,49 805 34,65 1083 37,63 Fonte: Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri in Provincia di Torino, 2008

PAESE PROVINCIA di TORINO

COMUNE diTORINO

% residenti a TORINO

?MAROCCO 23.895 16.175 68%ALBANIA 9.713 4.988 51%PERU' 7.500 6.301 84%CINA POP 5.829 4.225 72%MOLDOVA 3.808 2.371 62%EGITTO 3.242 2.973 92%NIGERIA 2.807 2.406 86%FILIPPINE 2.748 2.472 90%BRASILE 2.524 1.697 67%TUNISIA 1.948 1.497 77%

Stranieri suddivisi per le principali nazionalità - 2008Stranieri suddivisi per le principali nazionalità - 2008Stranieri suddivisi per le principali nazionalità - 2008Stranieri suddivisi per le principali nazionalità - 2008

* al primo gennaio 2008Fonte: BDDE Regione Piemonte

Elaborazione dell'Ufficio Statistica della Provincia di Torino

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Va tuttavia aggiunto che l’acquisizione della cittadinanza non esclude progetti di rientro, anzi spesso è funzionale a un re-inserimento al paese di origine o alla circolazione, permettendo di acquisire una libera mobilità fra quest’ultimo e l’Italia, soprattutto quando parenti stretti ancora vi risiedono. È stato infatti sottolineato come una situazione giuridica sottoposta a periodici e incerti rinnovi inibisca la propensione al rientro in patria, rendendolo irreversibile in mancanza del rinnovo dei documenti di soggiorno in Italia. Per le stesse ragioni l’ottenimento del passaporto italiano può essere un importante strumento per gli imprenditori che già operano fra il mercato italiano e quello del paese di origine. Oppure per coloro che, pur tentando un ritorno produttivo in Marocco, vogliano lasciare aperta l’opportunità di circolare in Europa senza ostacoli burocratici. Dal punto di vista culturale e religioso, i marocchini rappresentano poi la componente musulmana più importante nel territorio piemontese (e nazionale) e l’identità religiosa è senza dubbio uno degli elementi più significativi di questo gruppo. Non a caso, è nell’ambito religioso, con la costituzione di associazioni di ispirazione islamica e la fondazione e conduzione di diverse sale di preghiera, che la comunità marocchina ha espresso maggiormente le proprie potenzialità associative. Per quanto riguarda l’associazionismo laico, va detto che le potenzialità di questa comunità, in teoria piuttosto significative, data l’ampia popolazione di origine marocchina in città e l’anzianità dell’insediamento, sono rimaste perlopiù inespresse: le associazioni sono numericamente marginali e non sembrano coinvolgere che in minima misura la popolazione di origine marocchina (Capello, 2008). Le associazioni attualmente più attive sul territorio torinese sono o di tipo volontaristico, fortemente centrate su obiettivi di solidarietà interna e di mutuo soccorso fra i membri, oltre che alla promozione culturale del paese di origine; o di tipo cooperativistico, con un più spiccato indirizzo alla fornitura di servizi e di prestazioni professionali al settore pubblico nella mediazione culturale. Appartiene al primo gruppo l’associazione AMECE96 (Association Maison d’Enfant pour la Culture et l’Education), costituitasi a Torino nel 2000 con l’obiettivo di organizzare e fornire servizi e attività di supporto di inserimento sociale (sostegno scolastico, azioni di dialogo tra più generazioni, sensibilizzazione delle famiglie, ecc.) ai bambini e ai giovani ricongiunti in Italia dall’Africa Mediterranea e dal Marocco in particolare (in virtù soprattutto della loro maggiore presenza numerica). Al secondo gruppo è invece riconducibile la cooperativa sociale Sanabil. Questa gestisce a Torino e in Provincia interventi di accompagnamento alla fruizione dei servizi presenti sul territorio, di assistenza educativa e di mediazione culturale in ambito scolastico ed extrascolastico. La cooperativa è a componente nazionale mista, ma ha una forte connotazione marocchina, essendo il suo presidente e fondatore, Said Raouia, un cittadino originario del Marocco. La cooperativa è nata nel 1992 su iniziativa di un gruppo di cittadini stranieri e italiani, che avevano maturato nel paese di origine o in Italia esperienza nel campo del lavoro sociale e che si sono uniti in gruppo per fornire servizi nel settore dell’immigrazione, dapprima informalmente e in seguito attraverso la forma cooperativistica. Il caso di Sanabil racconta anche in maniera esemplare un aspetto dell’organizzazione comunitaria marocchina a Torino, dove, accanto a un numero ridotto di associazioni ancora poco autonome, debolmente strutturate e dalla fragile partecipazione associativa, spiccano alcuni figure eminenti di origine marocchina, che hanno nel corso degli anni ricoperto ruoli di spicco nel dialogo con le istituzioni e hanno assunto posizioni di responsabilità soprattutto nell’ambito di associazioni miste. Si tratta di figure individuali, legate soprattutto alla mediazione e all’intervento sociale, spesso con esperienze di lavoro sociale maturate in Marocco, che hanno cominciato a ottenere visibilità pubblica nel panorama torinese verso la metà degli anni ’90. In questo periodo infatti nasce la figura del mediatore culturale nell’ambito dei servizi pubblici e numerosi corsi di formazione hanno creato e immesso sul mercato figure professionali in questo settore. Proprio in questo periodo nascono

96 http://www.amece.it/

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alcune delle prime associazioni miste di immigrati formati nella mediazione culturale, con l’obiettivo di strutturarsi per fornire servizi e prestazioni al settore pubblico. Per riprendere il caso marocchino, la ridotta strutturazione e istituzionalizzazione della vita comunitaria di questo gruppo va comunque ricondotta, almeno in parte, al prevalere del principio e della pratica della qaraba (a un tempo parentela e vicinato sociale), ovvero alla centralità, che persiste anche nell’esperienza migratoria, dei legami famigliari, di parentela e di “vicinato sociale” (Persichetti 2003, Capello 2008). Si può ipotizzare che il prevalere di questi legami abbiano in qualche maniera inibito l’insorgere di organizzazioni comunitarie laiche di tipo associativo. Una parziale, ma significativa eccezione a questo ultimo punto, si riscontra, come si è detto, nell’ambito religioso. Nel corso degli anni, i migranti marocchini sono riusciti a mettere in piedi numerose sale di preghiera e centri religiosi islamici, dimostrando una sicura capacità organizzativa (Schmidt di Friedberg, 2002). Non a caso i promotori di alcune di queste realtà religiose si sono spesso presentati, e sono stati percepiti, in particolare dalle autorità locali, come rappresentanti e leader dell’intera comunità.

La presenza di associazioni religiose e di sale di preghiera ci ricorda dell’importanza cruciale dell’identità musulmana, che si rivela peraltro anche in fenomeni minimi ma centrali per le nostre indagini, come l’acquisto e il consumo di carne halal, macellata ritualmente. In questo settore, la macellazione islamica e della vendita di carne halal i marocchini hanno conquistato una notevole egemonia, grazie alla condizione di maggioranza all’interno della comunità islamica torinese e in parte alla relazione privilegiata con le sale di preghiera e gli imam.

La progressiva stabilizzazione dei migranti nel territorio torinese non ha indebolito i legami transnazionali con il paese di origine. È invece proprio tramite i legami con il Marocco, che la comunità si definisce e costruisce la propria identità. I legami transnazionali assumono diverse forme: possiamo distinguere tra legami sociali che uniscono i migranti alle loro famiglie e agli altri membri del vicinato sociale nelle diverse località di origine; legami economici, che si manifestano in primo luogo mediante le rimesse e gli investimenti in Marocco; e infine legami simbolici ed identitari.

Il processo migratorio marocchino a Torino, nonostante pluridecennale, è ancora oggi attivo e fluido. Accanto a persone arrivate negli anni ’80 si trovano neo-immigrati, e ovviamente la differente temporalità migratoria si traduce facilmente in differenze rispetto alle opportunità di lavoro e di vita. Analogamente, per quanto tutti i migranti siano sottoposti a una generale subordinazione politica e sociale che conduce a un’inclusione subalterna all’interno della società di accoglienza, vi sono comunque notevoli distinzioni tra i migranti marocchini rispetto alla condizione socioeconomica. Gli imprenditori e i commercianti, in particolare, si distinguono per il loro status all’interno della comunità. Anche se, da un punto di vista strettamente economico, si tratta perlopiù di attività non particolarmente redditizie che rientrano in larga misura nella fascia più bassa del mondo del lavoro autonomo, e pur trattandosi spesso di attività di ripiego o di rifugio, non vanno comunque trascurate le maggiori possibilità economiche e il maggior riconoscimento sociale (almeno intracomunitario) che queste imprese possono comportare. Decisivo in questo senso è la capacità di queste persone di offrire lavoro a parenti, amici e connazionali, dando vita a legami diadici, di tipo almeno in parte clientelare. Anche per questo motivo, gli imprenditori e i commercianti possono ricevere un certo riconoscimento sociale, e un conseguente status, all’interno della comunità. 3. L’imprenditoria marocchina a Torino

Dal punto di vista del lavoro autonomo, il tasso di imprenditorialità della comunità marocchina nel suo complesso si dimostra alto: globalmente il 18,7% della popolazione presente nella Provincia di Torino è lavoratore autonomo o imprenditore, come evidenzia la tabella che segue.

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Tab.6 Tasso imprenditorialità marocchini in Provincia di Torino nel 2007: Maschi (numero posizioni)

% sul totale degli uomini

Femmine (numero posizioni)

% sul totale delle donne

Totale % sul totale della popolazione marocchina

3.365 21,2% 583 11,3% 3.948 18,7% Fonte: Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri in Provincia di Torino, 2007

Secondo l’Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri in Provincia di Torino (2007), che offre dati scorporati per sesso relativi al 2007, il tasso maschile (21,2%) risulta quasi il doppio di quello femminile (11,3%). Questo dato è in contrasto con gli stereotipi, che vogliono le donne di quest’area relegate ai lavori di casa o impiegate come dipendenti presso attività famigliari. In effetti una recente letteratura sta mettendo in evidenza i processi di femminilizzazione delle migrazioni dal Maghreb, anche con processi migratori autonomi, e una crescente partecipazione alla sfera produttiva nel contesto di approdo da parte delle donne.

Il numero di posizioni imprenditoriali marocchine risulta poi a fine 2009 il secondo più alto nella Provincia di Torino (3.522 posizioni), dopo quelle della comunità romena (4.858 posizioni), che continua a essere la più numerosa nel territorio preso in considerazione. Le attività del Marocco rappresentano inoltre il 24,3% del totale delle imprese avviate da cittadini immigrati (FIERI, CCIAA, 2010).

Tab.7 Posizioni imprenditoriali marocchine al 31 dicembre 2009

- comune di

Torino

% sul totale

comune provincia di Torino

% sul totale

provincia Agricoltura, silvicoltura e pesca 2 0,1% 8 0,2% Industria 110 3,1% 146 3,2% Costruzioni 470 13,1% 683 14,8% Commercio all'ingrosso e al dettaglio 2.140 59,6% 2.731 59,1% Trasporto e magazzinaggio 113 3,1% 150 3,2% Attività dei servizi alloggio e ristorazione 210 5,9% 276 6,0% Servizi di informazione e comunicazione 91 2,5% 104 2,3% Attività finanziarie e assicurative 1 0,0% 1 0,0% Attività immobiliari 6 0,2% 8 0,2% Attività professionali, scientifiche e tecniche 25 0,7% 29 0,6% Nol., ag. di viaggio, servizi di supp. alle imprese 118 3,3% 135 2,9% Istruzione 1 0,0% 1 0,0% Sanità e assistenza sociale 30 0,8% 33 0,7% Attività art., sport., di intratten. e divertim. 1 0,0% 4 0,1% Altre attività di servizi 73 2,0% 78 1,7% Imprese non classificate 197 5,5% 235 5,1% TOTALE 3.588 100,0% 4.622 100,0%

Fonte: elaborazione FIERI su dati Camera di commercio di Torino

Per quanto riguarda la distribuzione per settore economico, si conferma una spiccata specializzazione di questa comunità nel comparto del commercio (2.140 posizioni imprenditoriali nel comune di Torino, 2.731 nella Provincia, che costituiscono in entrambi i casi quasi il 60% del

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totale delle imprese marocchine). Seguono per numero di attività tre settori: le imprese edili, fra il 13 e il 14%; le attività manifatturiere, in gran parte rosticcerie, circa il 6%; le imprese nel comparto dei trasporti, magazzinaggio e comunicazione (con una componente importante di phone center, internet point e agenzie di money transfer), circa il 6%. Dalla tabella 7 si nota poi una localizzazione delle imprese individuali straniere ancora prevalentemente Torino-centrica, con il 70% delle imprese aventi sede in città.Dal punto di vista dell’organizzazione interna alle imprese, il già citato principio della qaraba ha una certa pregnanza anche in riferimento all’imprenditoria marocchina. Una buona parte delle attività è segnata dalla logica culturale che presiede a questo tipo di rapporti: è all’interno della famiglia allargata che gli imprenditori attingono nuova forza-lavoro a basso costo ed alta fedeltà; non di rado, gli stessi rapporti tra commercianti e clienti tendono a improntarsi secondo la prospettiva della qaraba, che comporta rapporti stabili, fiducia e reciprocità. E’ per il fatto che, con il tempo, il cliente e il commerciante, magari provenienti dalla stessa località marocchina, diventano parte della rete di qaraba (nel suo significato di amicizia e solidarietà), che il cliente continua a fare acquisti in quello specifico negozio e il proprietario può, in alcuni casi, permettersi di vendere a credito o di abbassare i prezzi. Dal punto di vista dell’associazionismo imprenditoriale, come già prima messo in evidenza, si evidenzia la difficoltà da parte della comunità marocchina a strutturarsi in forme organizzative stabili. Vale la pena ricordare l'esperienza di alcune associazioni marocchine di imprenditori di Torino, che sono state costituite alcuni anni, con alla base forti legami con la scena politica del Marocco. L'Associazione Hassania, per esempio, ha rappresentato a lungo l'altro lato dell'immigrazione marocchina in Italia, essendo ufficialmente supportato da re Hassan II, e ha preso parte, per lo più negli ultimi anni, a numerosi incontri organizzati dalla Camera di Commercio di Torino. Hassania non è l'unica associazione di imprenditori marocchini a Torino. Il Presidente della Associazione Musulmani delle Alpi è un piccolo imprenditore marocchino che non ha preso parte a molti eventi pubblici, a causa della sua forte critica al governo di Rabat (Tarantino, 2010). Alcuni tentavi di sostegno istituzionale in questo senso sono stati compiuti da The Gate, l’agenzia di sviluppo locale di San Salvario, che ha accompagnato la nascita di un’associazione di commercianti marocchini del quartiere che avevano richiesto la consulenza a questo scopo. Il gruppo di commercianti ha seguito un ciclo d’incontri formativi, sulla legislazione italiana in materia di associazionismo e sulla costruzione dello Statuto dell’associazione; in seguito si è formalmente costituita l’associazione “MEDITERRANEO – Unione dei Commercianti e Artigiani del Marocco”. L’associazione, nelle sue finalità dichiarate, voleva essere di valorizzazione al ruolo sociale del commercio marocchino a Porta Palazzo e promuovere scambio e confronto con il territorio. Tuttavia in seguito, a causa di una da una forte conflittualità interna, si è sciolta dopo un anno circa. Un’altra iniziativa di sostegno all’associazionismo è stata quella promossa sempre da The Gate per la costituzione di una cooperativa di addetti al montaggio/smontaggio dei banchi, componente essenziale nel funzionamento del mercato, da sempre però relegata al settore informale. L’iniziativa promossa dall’Agenzia di Sviluppo Locale “The Gate” ha avuto sin dall’inizio come interlocutore privilegiato Said, operatore da oltre vent’anni del mercato di Porta Palazzo (La Stampa, 3 marzo 2010). Si tratta di un caso interessante, perché Said riassume nella sua storia gli elementi di una carriera di successo, giocata tutta all’interno del mercato di Piazza della Repubblica: partendo da montatore-smontatore assunto in nero e successivamente impiegato come aiutante in un banco dell’orto-frutta, ha infine acquisito una licenza mettendosi in proprio. Nel corso degli anni ha poi acquisito un ruolo sempre più rilevante nell’intermediazione fra domanda e offerta dei lavoratori del mercato, collocando tanti connazionali appena approdati a Torino in cerca di lavoro e aiutandone altri all’avvio di attività in proprio nell’ambito del mercato. Ancora oggi Said svolge a Porta Palazzo la funzione del “broker”: funge da collettore di informazioni nei due sensi (aspiranti lavoratori e datori di lavoro), da garante dell’affidabilità dei patrocinati, da mediatore in caso di

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conflitti e incomprensioni (Bertolani, 2003, in Ambrosini, 2005). Proprio in virtù di questa posizione privilegiata all’interno del contesto mercatale e del suo riconosciuto capitale sociale, Said ha cominciato farsi portavoce delle istanze dei suoi connazionali e colleghi e ad assumere un ruolo istituzionale nelle relazioni fra questi ultimi e l’amministrazione locale. 4. La componente marocchina nel comparto alimentare

Il cibo è uno degli oggetti di consumo più densi di significati. Questo assume inoltre nell’esperienza migratoria un ruolo particolare, in quanto viene a costituire il legame simbolico e al tempo stesso materiale con il contesto di origine. Per gli immigrati di oggi, così come per quelli di ieri, il cibo rappresenta un filo rosso che collega la propria esperienza attuale con quella precedente, con i ricordi relativi alla casa, alla famiglia, ai luoghi d’origine. Ritualizza ricorrenze e festività. Favorisce l’incontro con parenti e connazionali. Si presta come un veicolo per trasmettere elementi della cultura d’origine. In alcuni casi, quando il cibo si incontra con la sfera del sacro, segna il confine tra il puro e l’impuro, tra il permesso e il proibito. Diventa in tal modo un influente mezzo per ribadire appartenenze culturali e differenze religiose (Ambrosini, Castagnone, 2009). La formazione di minoranze immigrate ormai stabilmente insediate e composte sempre più da famiglie ha contribuito a costituire un sempre più vasto bacino di domanda di beni alimentari provenienti dalle zone di origine. Negli ultimi due anni il valore complessivo dei consumi degli immigrati in Italia è aumentato del 60%, passando dai 25 miliardi del 2007 ai 40 miliardi del 2009, secondo una stima di Visconti, direttore del master in Marketing e Comunicazione dell'Università Bocconi di Milano. Di questi, circa 15 miliardi di euro sarebbero destinati alla spesa alimentare. A tali dati va poi aggiunto la crescente domanda di questi beni proveniente dalla popolazione italiana, che sta dimostrando una crescente apertura e interesse nei confronti dei cibi detti “etnici”, o che sarebbe più appropriato definire “esotici”. Va ricordato che il cibo, e soprattutto la ristorazione, sono da parecchi decenni un tipico ambito di espressione dell’iniziativa economica degli immigrati. Il settore offre la possibilità di carriere interne, avviate dal basso, dalle mansioni più umili favorite dall’elevato turn-over del personale, rese possibili dai ridotti investimenti necessari. La pesantezza del lavoro, l’incidenza degli infortuni, gli orari antisociali, il modesto prestigio sociale ricavabile (tranne il caso dei ristoranti più rinomati e degli chef di successo) ne fanno un ambito poco appetibile per l’offerta di lavoro nazionale. In tal modo, un certo numero di lavoratori immigrati, che in genere arrivano nel settore per caso, spinti dalla necessità, trovano occasione di inserirsi, apprendere il mestiere, perfezionarsi, e ad un certo punto riescono a rilevare l’attività, o ad aprirne una in proprio. Una volta aperta una breccia nell’offerta locale di ristorazione, la possibilità di contare sulla collaborazione fedele, poco esigente e altamente flessibile di familiari e connazionali rappresenta un’importante risorsa competitiva (Waldinger e Al., 1990). Nello stesso tempo, la cucina offre possibilità di apprendimento per i parenti più giovani e volonterosi, che a loro volta potranno dar vita a nuovi ristoranti in altre aree urbane. Anche nel caso dei mercati ambulanti molti operatori hanno potuto accedere al lavoro autonomo grazie a carriere giocate internamente al settore, dapprima come addetti al montaggio/smontaggio dei banchi, successivamente come garzoni tuttofare, fino all’acquisto di una licenza propria. Per quanto riguarda i dati relativi alla filiera alimentare, l’insieme del comparto della ristorazione, della produzione97 e del commercio, nel 2008 vede 602 imprese individuali gestite da titolari

97

Nei registri camerali la “produzione” manifatturiera vede l’imprenditoria straniera occupata principalmente

nella produzione di prodotti di panetteria, pasticceria fresca e altri prodotti alimentari (l’1,6%) e nel

confezionamento di vestiario ed accessori (l’1,2%): la prima attività è più diffusa fra i nord africani, la seconda

fra gli asiatici. I dati qui presentati si riferiscono in particolare alla produzione alimentare e includono i in

151

stranieri che rappresentano il 3,7% del totale di imprese individuali straniere. Il numero di attività in questo comparto è quasi quadruplicato dal 1998 al 2008, anche se il peso specifico del settore sul totale delle attività imprenditoriali straniere si è molto ridotto, segno di una penetrazione degli imprenditori stranieri anche in altri settori. L’intero comparto del cibo (imprese con titolare italiano e straniero) ha registrato negli ultimi 10 anni un discreto aumento (+16%), tuttavia la maggior crescita delle imprese straniere nel settore (+250%) rispetto a quelle gestite da nazionali, ha determinato un aumento del peso delle ditte individuali straniere sul comparto del cibo che passa dall’1,2% del 1998 al 3,7% del 2008.

I marocchini sono fra i protagonisti di questo processo. Preso complessivamente, il comparto del cibo facente capo a questi ultimi, è del 30%, con una crescita negli ultimi otto anni di 15,4 punti percentuali (CCIAA-FIERI, 2009). Tab. 8 Imprese individuali marocchine del settore del food in Provincia di Torino al 2008 Settore n % Comm. ambulante 77 47,83 Comm. dettaglio 19 11,8 Comm. ingrosso 1 0,62 Ristoranti 6 3,73 Produzione 58 36,03 di cui: produzione di prodotti di panetteria e di pasticceria

fresca 28 e: produzione di altri prodotti alimentari (gastronomie) 27

Altro 3 TOTALE 219 101

Fonte: elaborazione FIERI su dati Camera di commercio di Torino

grande maggioranza attività di produzione (e vendita) di prodotti di panetteria (pane e pizza al taglio) e di

gastronomia, e di kebab.

Settore Settore Settore Settore 1998199819981998 1999199919991999 2000200020002000 2001200120012001 2002200220022002 2003200320032003 2004200420042004 2005200520052005 2006200620062006 2007200720072007 2008200820082008Ristorazione Ristorazione Ristorazione Ristorazione 93 111 111 121 126 135 140 149 148 162 163Produzione Produzione Produzione Produzione 28 50 66 80 98 112 135 139 165 188 227Commercio Commercio Commercio Commercio 51 51 58 68 93 106 131 164 177 194 212Totale Totale Totale Totale 172 212 235 269 317 353 406 452 490 544 602

Fonte: elaborazione FIERI su dati Camera di commercio di Torino

3,00% 3,30% 3,70%

????Numero di imprese individuali straniere nel comparto del cibo etnico Numero di imprese individuali straniere nel comparto del cibo etnico Numero di imprese individuali straniere nel comparto del cibo etnico Numero di imprese individuali straniere nel comparto del cibo etnico

2,10% 2,30% 2,60% 2,80%1,20% 1,50% 1,70% 1,90%

5,30% 5,00% 4,60% 4,50%% su totale imprese % su totale imprese % su totale imprese % su totale imprese individuali straniere individuali straniere individuali straniere individuali straniere

% straniere su totale % straniere su totale % straniere su totale % straniere su totale imprese individuali nel imprese individuali nel imprese individuali nel imprese individuali nel comparto del cibo comparto del cibo comparto del cibo comparto del cibo

15,30% 13,50% 8,90% 7,80% 7,40% 6,70% 5,80%

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Questo gruppo in particolare ha saputo collocarsi a vari livelli della filiera e in particolar modo nel commercio ambulante di ortofrutta (dove detiene quasi il 50% delle attività intestate a stranieri) 98. Si tratta di un’attività a base generalmente familiare, che richiede un modesto capitale fisso, comporta orari pesanti e richiede una disponibilità a tollerare condizioni di lavoro gravose. Così nel tempo, a Torino come altrove, ai commercianti locali si sono avvicendati operatori provenienti dalle successive ondate migratorie. Per questi lavoratori autonomi un banco al mercato è stato un investimento consapevole, in una strategia di promozione sociale. Tuttavia nella ricerca condotta nel 2010 da FIERI in collaborazione con la Camera di Commercio di Torino, è emersa anche la valenza di ripiego o di rifugio dei lavoratori che hanno intrapreso una carriera nei mercati, in un mercato del lavoro depresso, in attesa di tempi migliori. Diversi operatori intervistati in questo contesto hanno espresso una preferenza al ritorno al lavoro subordinato in fabbrica, garanzia di un reddito più sicuro e stabile, e dunque di migliori condizioni di vita per sé e per le proprie famiglie.

Nell’ambito del commercio seguono poi le attività di prossimità (oltre 11% delle attività gestite da marocchini nel settore alimentare). Si tratta di bazar/macellerie, minimarket, botteghe, che propongono prodotti alimentari legati alla preparazione dei piatti tradizionali (cous-cous, riso, spezie, salse, ecc.) e di carne halal.

La produzione di prodotti alimentari rappresenta poi una fetta importante delle attività marocchine nel food, arrivando a coprire il 36% delle licenze di questo tipo. Si tratta, come evidenziato nella tabella sovrastante che presenta i dati delle attività registrate presso la Camera di Commercio, soprattutto di attività di street food: gastronomie da asporto – e in particolare kebabberie - “caratterizzati dal basso prezzo, dall’elevata copertura del territorio e dalla ridotta qualità gastronomica” (Napolitano, Scialpi, 2009, 1). In questa categoria rientrano anche attività di pianificazione e pasticceria, nella quale un certo numero di marocchini si sta specializzando a Torino.

Inferiore è l’apporto nella ristorazione, pari a meno del 4%. Le attività già censite a Torino in studi precedenti (FIERI, CCIAA, 2009) hanno individuato esclusivamente ristoranti che offrono una cucina popolare rivolta soprattutto a connazionali.

Il commercio all’ingrosso di generi alimentari resta, infine, un’attività marginale per il gruppo marocchino (meno dell’1%) Risulta così che gli approvvigionamenti delle materie prime per le attività di ristorazione e i prodotti venduti al dettaglio nei commerci cittadini, provengono o dai canali “tradizionali” (grande distribuzione organizzata) o dalle piattaforme di distribuzione all’ingrosso specializzate in prodotti “etnici” che fanno riferimento soprattutto a Milano. La regolamentazione e i controlli delle merci di importazione hanno particolarmente influito su questo versante, spingendo ristoratori e commercianti a rifornirsi prevalentemente in ambito nazionale, o a mobilitarsi per produrre direttamente sul territorio torinese. Questo ultimo caso si è prodotto a Torino nella coltivazione della menta e di erbe aromatiche che un commerciante marocchino ha trapiantato nella cintura torinese, abbattendo così i costi di importazione e sopperendo ai relativi rischi. La menta prodotta viene poi smerciata presso macellerie e bazar e a rivenditori al dettaglio che operano informalmente ai margini del mercato di Porta Palazzo.

98 Le licenze per commercio ambulante sono di due tipi: Tipo A. Autorizzazione a posteggio fisso, assegnata per l’utilizzo di posteggi in aree di mercato e rilasciata dal Comune in cui sono disponibili dei posti contestualmente alla concessione decennale del posteggio stesso. Consente anche l’attività in forma itinerante nel territorio regionale in cui viene rilasciata (ovviamente nei periodi di non occupazione del posteggio di cui si è titolari) nonché la partecipazione alle fiere su tutto il territorio nazionale. Tipo B. Rilasciata dal Comune di residenza del richiedente, consente l’esercizio in forma itinerante in tutto il territorio nazionale, nelle fiere, nei mercati ma limitatamente ai posteggi non assegnati o provvisoriamente non occupati dai titolari (fonte: sito FIVA www.fiva.it).

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Anche nel food, il commercio si rivela dunque per i cittadini originari del Marocco come una vera e propria specializzazione settoriale. Importante è, oltre che dal punto di vista numerico, l’impatto urbano che questi commerci hanno avuto sui quartieri in cui sono sorti (soprattutto San Salvario e Porta Palazzo). Si tratta infatti di commerci di prossimità, botteghe, negozi di quartiere, realtà profondamente radicate nel tessuto urbano. Qui la dimensione economica è fittamente intrecciata a quella sociale. Il ruolo di centri di aggregazione e punto di riferimento per gli stranieri si interseca a quello di snodo di rotte commerciali, “fra una logica di razionalizzazione economica dello scambio, che tende alla fluidità e alla divisione degli ordini mercantili, e una logica – a prima vista economicamente aberrante –che aggroviglia e sovrappone i prodotti, le sequenze, i ritmi, gli ordini sociali” (Péraldi, 2005).

Risulta così evidente come le pratiche di consumo si intreccino con quelle della territorializzazione della città e va a tal proposito considerato come nell’area di Porta Palazzo queste attività abbiano profondamente segnato lo spazio pubblico, introducendo nuove e complesse dinamiche sociali e economiche, nonché modellandone il paesaggio urbano. E’ stato inoltre sottolineato il decisivo protagonismo dell’imprenditoria straniera nel processo di rivitalizzazione commerciale complessiva dell’area.

Proprio in virtù della vivacità sociale cui la proliferazione di negozi e commerci “etnici” ha contribuito a dare impulso (non senza aspetti critici) in alcune aree della città (in particolare Porta Palazzo e San Salvario), a un insieme di iniziative orientate in una direzione che Rath (2007) ha definito di “etnicizzazione dell’industria del divertimento”. Come già accaduto anche in altre città europee, anche a Torino il turismo urbano e l’industria del divertimento stanno infatti tentando di valorizzare la diversità urbana come risorsa per attrarre pubblico e consumatori eterogenei.

Così, in una recente intervista apparsa su La Stampa (03/03/2010) l’Assessore al Commercio Altamura ha espresso la volontà politica di trasformare Porta Palazzo in “una piccola Barcellona”, promuovendo a piazza della Repubblica “il clima vivace delle ramblas e della Boqueria” e inserendo Porta Palazzo “in un nuovo e organizzato tour turistico che partirà dal Mao e, passando per il Quadrilatero Romano, arriverà nella piazza del mercato più grande d’Europa». Il legame con Barcellona nasce da un gemellaggio con la città spagnola, che ha dato avvio a varie iniziative di cooperazione e di valorizzazione del mercato torinese di Porta Palazzo e di quello della Boqueria nella capitale catalana: il progetto MedEmporion99 e il Torino Food Market Festival100.

Oltre ai progetti promossi dall’amministrazione comunale, altre iniziative hanno preso piede a livello della società civile torinese, sempre nell’ottica della valorizzazione delle aree di Porta Palazzo e di San Salvario, e delle loro peculiarità sociali, culturali ed economiche. Si tratta del corso di formazione per migranti operatori di turismo responsabile in Torino, un’innovativa esperienza promossa dall’Agenzia Viaggi Solidali, dall’Istituto Paralleli e dal Centro Interculturale della Città di Torino che intende stimolare il coinvolgimento delle comunità di migranti presenti sul territorio torinese come risorsa attiva nel settore turistico. Fino ai più consolidati “multieathnik walk tour” “Turisti per casa”101, organizzati da Vittorio Castellani, alias Chef Kumalé, vere e proprie visite guidate ai luoghi d'incontro e di consumo dei "nuovi torinesi", tra moschee, hammam, ethno shops, asian & afro markets e suq mediorientali con degustazioni itineranti di world food. 4.1 Gli imprenditori marocchini intervistati a Tori no

99 Si veda: www.medemporion.eu 100 Si veda: www.foodmarketnet.org 101 Si veda: www.ilgastronomade.com

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Nel corso del 2010, 40 imprenditori marocchini operanti nel settore del food sono stati intervistati a Torino102, nell’ambito della ricerca PRIN “Il profilo nazionale degli imprenditori immigrati in Italia” del Dipartimento di Studi Politici e Sociali dell’Università degli Studi di Milano. Il reclutamento degli intervistati è avvenuto a partire dai contatti segnalati da alcuni rappresentanti della comunità. Questi hanno svolto un ruolo di intermediazione, informando i potenziali intervistati sulla natura e gli obiettivi della ricerca e accertandosi della loro disponibilità a partecipare alla ricerca, per poi introdurli agli intervistatori. Successivamente ulteriori contatti sono stati generati secondo la tecnica “snowball”. Questa fase di preparazione dell’intervista attraverso rapporti fiduciari intra-comunitari è stata fondamentale, non solo nel reperimento dei soggetti, ma anche al fine di un buon esito dei colloqui, in termini di disponibilità all’intervista, a rispondere alle domande, a fornire eventuali nominativi di conoscenti per lo svolgimento di ulteriori questionari.

In linea con i dati complessivi sopra presentati, i titolari di impresa intervistati sono concentrati (29 su 40) soprattutto nel commercio (sia ambulante, con banchi di ortofrutta nei mercati rionali, sia nel commercio fisso in negozio – bazar e/o macellerie). Segue poi il settore della produzione alimentare, che, con un totale di 7 attività (rosticcerie, vendita di kebab e pizza al taglio). Fra questi troviamo anche un panificio specializzato nella produzione di pasticceria marocchina. Sono stati infine intervistati 4 titolari di ristoranti, che offrono una cucina tradizionale marocchina.

Tab.9 Anno avvio attività per settore di attività

Settori attività 1995-2000

2001-2005

2006-2009 Tot

Commercio 6 10 13 29 di cui commercio ambulante 3 6 7 16 di cui bazar e/o macellerie 3 4 6 13

Produzione 0 5 2 7 Ristorazione 1 1 2 4 Tot 7 16 17 40

Gli individui intervistati - 37 uomini e 3 donne – hanno un’età compresa fra i 25 e i 50 anni.

Tab.10 Fasce di età 25-30 10 31-40 12 40-50 18 Tot 40

Sono giunti in Italia in un’età compresa fra i 14 e i 34 anni a partire dagli inizi degli anni ’80. Il gruppo più consistente (20) è giunto negli anno ’90.

Tab.11 Anno arrivo in Italia per età alla partenza Età alla partenza

1980-1989

1990-1999 2000-2007 Tot.

14-19 0 8 1 9 20-24 5 3 6 14 25-29 2 5 3 10 30-34 0 4 2 6 Tot. 7 20 12 39 102 Le interviste sono state effettuate da Carlo Capello (Università di Torino) e Melissa Blanchard (Università di Trento) con il coordinamento di Eleonora Castagnone (FIERI e Università di Milano).

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Fra i 40 intervistati, 27 sono arrivati direttamente in Italia, mentre gli altri 12 hanno compiuto migrazioni precedenti in Francia (9), in Grecia (1), in Libia (1) e in Svizzera (1).

Il grado di istruzione del campione è di livello medio: la maggioranza (34) ha un titolo di studio medio o superiore; quattro (4) posseggono un diploma universitario; e, agli estremi, uno (1) è collocato nella fascia di coloro che non hanno avuto accesso a nessuna scolarizzazione o di livello elementare e uno (1) è in possesso di un titolo post-universitario. Tab.13 Titolo di studio Nessuna scolarizzazione o licenza elementare 1 Licenza media 17 Diploma superiore 17 Laurea 4 Post laurea 1 Tot. 40

Per quanto riguarda la situazione occupazionale in Marocco precedente alla partenza, 22 erano occupati, 14 studenti e solo 2 disoccupati. Inoltre 27 avevano già lavorato al paese di origine (di cui 10 nel commercio e 7 nella ristorazione, in particolare).

Per quanto concerne l’esperienza lavorativa in Italia, per 38 individui su 40, quello attuale non è il primo lavoro in Italia. La maggior parte (34) aveva ricoperto funzioni di lavoro dipendente, soprattutto presso italiani (29), un numero assai inferiore (4) presso un parente o presso un connazionale non parente (1).

Tab.14 Posizione del primo lavoro in Italia

Autonomo 4

Dipendenze di un parente 4

Dipendenze connazionale non parente 1

Dipendenze italiano 29

Totale 38

Al momento dell’avvio dell’attività autonoma in corso in Italia, 31 erano occupati, 8 disoccupati, 1 studente/inoccupato.

Le attività gestite dai titolari intervistati sono state avviate soprattutto a partire dalla fine degli anni ’90, come mostra la tabella sottostante. Coloro che sono arrivati fra gli anni ’80 e gli anni ’90 hanno impiegato infatti più tempo a passare al lavoro autonomo (in media rispettivamente 12,9 e 18,8 anni).

Tab.16 Anni trascorsi fra l’arrivo in Italia e l’ap ertura dell’impresa attuale, in base al periodo di arrivo in Italia

Periodo di arrivo in Italia

1980-89 1990-99 2000-07 Tot

156

1-5 0 2 9 11

6-10 2 9 3 14

+10 6 8 0 14

Media 12,9 8,8 4,7

Totale 8 19 12 39

Va infatti qui ricordato che è solo con il Testo Unico sull’immigrazione del 1998 che viene abolito il vincolo di reciprocità previsto dalla precedente legislazione, agevolando lo sviluppo dell’imprenditorialità straniera. Fino a tale data sussisteva la cosiddetta clausola di reciprocità. Tale norma, introdotta nel codice civile del 1942, prevedeva la possibilità di svolgere in Italia un’attività imprenditoriale solo ai cittadini stranieri provenienti dai Paesi che concedevano tale opportunità anche all’immigrato italiano. Questo non significa che il lavoro autonomo di individui stranieri fosse del tutto assente: già prima della scadenza della clausola di reciprocità, coloro che non rientravano nelle quote stabilite dal sistema italiano, facevano in alcuni casi ricorso alla creazione di impresa attraverso prestanome italiani. La legge 40/98, conservando tale vincolo solo per la costituzione di società per azioni, ha in parte agevolato lo sviluppo della microimprenditorialità immigrata. A questo si affianca, nello stesso periodo, una parziale liberalizzazione del settore commerciale. Gli individui giunti a partire dagli anni 2000 hanno infatti dimezzato il periodo intercorso fra l’arrivo in Italia e l’apertura dell’attività, rispetto a quelli giunti nel decennio precedente.

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9. Imprenditori immigrati a Trento: trasporti ed ed liizia a confronto

Anita DaCol e Deborah De Luca* 1.Introduzione Il rapporto annuale 2010 del CINFORMI103 sull’immigrazione in Trentino traccia un quadro in cui permane costante la concentrazione del lavoro nelle basse qualifiche: 8 immigrati su 10 sono inquadrati come operai, meno di uno su dieci figura nel ruolo di impiegato o quadro e sempre meno di uno su dieci opera come lavoratore autonomo. Mentre tra i lavoratori comunitari il lavoro impiegatizio triplica la sua incidenza facendo scendere al 70% la quota del lavoro operaio, tra i lavoratori extra comunitari è proprio il lavoro autonomo a rappresentare la principale alternativa al lavoro operaio e, forse, anche la via per non perdere il permesso di soggiorno (Ambrosini, Boccagni, Piovesan, 2010). Il lavoro autonomo diventa quindi insieme rifugio e opportunità per gli immigrati: nonostante il settore abbia registrato per la prima volta una flessione rispetto al trend di crescita degli anni precedenti, non sono state riscontrate nemmeno perdite significative. Nel rapporto si commenta questo dato come “risultante di andamenti in parte divergenti tra i diversi settori: calano le attività manifatturiere e soprattutto i trasporti, rimangono stazionarie le costruzioni, crescono leggermente il commercio e l’industria alberghiera” (Ambrosini, Boccagni, Piovesan, 2010, pag.118). I numeri di titolari resta quindi sui livelli del 2009, con oltre 2000 persone nate all’estero alla guida di ditte insediate in Trentino. Il 78,6% provengono da un paese extracomunitario. Le due comunità più numerose che superano il 10% sono quella marocchina (13,2%) e quella albanese (10,8%), mentre i titolari di impresa rumeni si attesta al terzo posto con l’8,8%. Complessivamente le percentuali indicate dalla tabella relativa ai dati nazionali (tab.1) mostrano una rilevante diversificazione tra le provenienze, visto che nessuna componente arriva al 20% e solo le prime due superano il 10%.

* Anita DaCol è consulente in attività di formazione, counseling e ricerca, Deborah De Luca lavora all’Università Statale di Milano. Benché il capitolo sia frutto del lavoro comune delle due autrici, Anita DaCol, che ha anche curato la somministrazione dei questionari agli imprenditori immigrati, ha redatto il primo paragrafo e Deborah De Luca i rimanenti paragrafi. 103 Il Cinformi è il Centro informativo per l'immigrazione, una unità operativa del Servizio per le politiche sociali e abitative della Provincia Autonoma di Trento. Facilita l’accesso dei cittadini stranieri ai servizi pubblici e offre informazioni e consulenza sulle modalità di ingresso e soggiorno in Italia nonché supporto linguistico e culturale. Il Cinformi svolge attività anche nel campo della comunicazione tra gli attori sociali, della casa, dello studio e della ricerca, dell'accoglienza delle persone che necessitano di protezione internazionale e umanitaria

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Tab.1 – Titolari di imprese attive nati all’estero, per principali nazionalità. Provincia di Trento – 30.09.2010 Gruppi nazionali V.A. % Marocco Albania Romania Macedonia Tunisia Serbia-Montenegro Germania Cina Moldova Pakistan

295 241 198 119 119 114 90 72 62 55

13,2 10,8 8,8 5,3 5,3 5,1 4,0 3,2 2,8 2,5

Paesi con forte componente italiana: Svizzera Argentina Cile

205 54 53

9,1 2,4 2,4

Totale 312 13,9 Altro 564 25,2 Totale 2.241 100,0 fonte: elaborazioni Cinformi su dati Camera di Commercio di Trento Costruzioni e commercio risultano i settori maggiormente rappresentati, seguendo la tendenza nazionale nonostante il divario sia più rilevante. Si confermano anche le specializzazioni etniche emerse negli anni precedenti: gli imprenditori immigrati dell’est europeo si concentrano soprattutto nel settore edile, con una presenza dell’80% degli albanesi, seguiti dai rumeni e dai macedoni, mentre i marocchini e i cinesi operano prevalentemente nel commercio. Tab. 2 – Titolari di imprese attive nati all’estero. Prime 10 nazionalità per settore, Provincia di Trento, Imprese attive al 30/09/2010 Gruppi nazionali

Attività manifatturiere

Costruzioni Commercio Alberghi, Ristoranti

Trasporti Altro Totale

Marocco 25 16 210 4 30 10 295 Albania 12 193 9 6 9 12 241 Romania 6 145 20 9 1 17 198 Macedonia 28 76 4 4 4 3 119 Tunisia 7 70 16 2 19 5 119 Serbia-Montenegro

6 60 14 5 12 14 114

Germania 11 19 24 4 5 27 90 Cina 8 12 42 7 0 3 72 Moldova 1 43 6 0 5 7 62 Pakistan 1 9 15 3 12 15 55 Altri Paesi 67 251 212 65 42 239 876 Totale 175 894 572 109 139 352 2.241 fonte: elaborazioni Cinformi su dati Camera di Commercio di Trento

159

Tab. 3 – Titolari di imprese attive nati all’estero. Distribuzione per settore delle prime 10 nazionalità: percentuali di riga, Provincia di Trento, Imprese attive al 30/09/2010 Gruppi nazionali

Attività manifatturiere

Costruzioni Commercio Alberghi, Ristoranti

Trasporti Altro Totale

Marocco 8.5 5.4 71.2 1.4 10.2 3.4 100.0 Albania 5.0 80.1 3.7 2.5 3.7 5.0 100.0 Romania 3.0 73.2 10.1 4.5 0.5 8.6 100.0 Macedonia 23.5 63.9 3.4 3.4 3.4 2.5 100.0 Tunisia 5.9 58.8 13.4 1.7 16.0 4.2 100.0 Serbia-Montenegro

7.9 52.6 12.3 4.4 10.5 12.3 100.0

Germania 12.2 21.1 26.7 4.4 5.6 30.0 100.0 Cina 11.1 16.7 58.3 9.7 0.0 4.2 100.0 Moldova 1.6 69.4 9.7 0.0 8.1 11.3 100.0 Pakistan 1.8 16.4 27.3 5.5 21.8 27.3 100.0 Altri Paesi 7.6 28.7 24.2 7.4 4.8 27.3 100.0 Totale 7.8 39.9 25.5 4.9 6.2 15.7 100.0 Fonte: elaborazioni Cinformi su dati Camera di Commercio di Trento Dal momento che, oltre all’edilizia, nella nostra indagine empirica ci siamo occupati del settore dei trasporti, è interessante notare che, benché la maggior parte delle principali nazionalità si concentrino, come abbiamo visto, nel settore delle costruzioni o nel commercio, vi sono delle eccezioni. Infatti, per pakistani, tunisini e marocchini, quello dei trasporti rappresenta il secondo settore di specializzazione, mentre per i serbi e i moldavi è il terzo settore di attività. Queste nazionalità sono tutte presenti nel campione di imprenditori immigrati intervistati in Trentino. 2. L’indagine empirica: peculiarità e somiglianze tra gli intervistati Benché raramente sia oggetto di studio comparato relativamente a questi specifici argomenti, l’area di Trento ha rappresentato un caso particolarmente interessante nell’ambito della ricerca Gli imprenditori immigrati in Italia, presentando alcune peculiarità nel confronto con le altre aree di indagine esaminate. In primo luogo, la composizione del campione è più diversificata, sia rispetto al settore di attività sia rispetto alla nazionalità. Infatti, dei 42 imprenditori intervistati a Trento, 29 sono attivi nel settore dei trasporti, 12 nell’edilizia e uno nel settore metalmeccanico. Le nazionalità degli intervistati sono ancora più varie: 11 sono nordafricani (marocchini, tunisini e algerini), 25 est europei e albanesi, 6 asiatici (indiani, pachistani e bangladeshi). Questa diversità è importante perché, ad esempio, permette di confrontare gli edili trentini con quelli di Milano, ma anche perché nell’analisi dati complessiva evita una completa sovrapposizione tra area, nazionalità e settore, permettendo di distinguere, almeno in alcuni casi, il differente ruolo dei tre aspetti104. Inoltre, l’area di Trento è l’unica in cui sono presenti in maniera consistente imprenditori dell’est Europa, che ormai a livello nazionale sono sempre più diffusi. Infine, anche se in maniera limitata, è possibile avere un’idea dei cambiamenti nella provenienza nazionale dei flussi migratori in Trentino. Infatti, tra coloro che sono immigrati prima del 1989 prevalgono i nord africani (9 casi su 12), tra coloro che sono arrivati tra il 1990 ed il 1997 vi sono soprattutto est europei ed albanesi (12 casi su 14), mentre dopo il 1998, pur continuando ad arrivare in maggioranza est europei (11 su 16), cresce anche la componente asiatica (4 su 16). In secondo luogo, l’area trentina si contraddistingue per l’importante ruolo svolto dalla locale associazione degli artigiani, a cui molti degli intervistati sono iscritti e che è particolarmente rappresentativa sul territorio, sia tra gli imprenditori italiani sia tra quelli immigrati.

104 In realtà, vista la bassa numerosità dei casi, generalmente ci siamo limitate a distinguere tra i due principali settori e solo raramente abbiamo confrontare le nazionalità o le singole aree.

160

A fronte di queste differenze nella composizione del campione e nei rapporti con le associazioni di categoria locali, non vi sono particolari differenze nel percorso migratorio e nelle caratteristiche socio-demografiche tra gli imprenditori immigrati intervistati a Trento e gli altri. L’età media è pari a 41 anni circa. Sono in Italia in media da circa 16 anni. Nella grande maggioranza dei casi sono sposati con connazionali e hanno figli (oltre il 90% del campione). Inoltre, 33 intervistati hanno la cittadinanza straniera, 8 hanno la doppia cittadinanza e uno ha la cittadinanza italiana. 17 intervistati provengono da famiglie in condizioni economiche migliori rispetto alle altre, 19 da famiglie in condizioni simili alle altre e 6 da famiglie in condizioni peggiori delle altre. Riguardo alla professione paterna, alcuni operavano nel settore edile (8 casi) o nei trasporti (6 casi), come operai, come artigiani o imprenditori. Tuttavia, non vi è una piena corrispondenza tra questi casi e l’attività successivamente svolta dall’intervistato, poiché solo in 4 casi vi è corrispondenza nel settore edile e in altri 4 casi vi è corrispondenza nel settore dei trasporti. La grande maggioranza degli intervistati, dunque, ha intrapreso un’attività diversa da quella svolta dal padre e non è raro, nel caso dei trasporti, che non vi sia nemmeno una pregressa esperienza propria in quello specifico settore. Nel complesso, tuttavia, il 45% degli intervistati in Trentino avevano un padre che svolgeva un’attività autonoma come commerciante (17%), artigiano (9%) o imprenditore (19%). Tra gli altri intervistati, la percentuale scende al 34% e si tratta soprattutto di commercianti (23%), mentre pochi sono artigiani (7%) e ancor meno imprenditori (4%). I padri degli intervistati a Trento, dunque, più frequentemente potrebbero aver trasmesso competenze utili per la futura gestione della propria attività. Nel complesso, comunque, solo il 40% degli imprenditori immigrati a Trento ha almeno un parente titolare di impresa, mentre nelle altre aree la percentuale sale al 63%. L’ipotesi di fattori imitativi nell’avvio dell’impresa non è dunque supportata se si prendono in considerazione non solo il padre, ma anche gli altri legami di parentela. Inoltre, mentre tra gli immigrati residenti nelle altre aree, l’impresa degli altri familiari è collocata in circa la metà dei casi in Italia, tra gli immigrati a Trento l’impresa dei parenti è più spesso al Paese d’origine o in altri Paesi stranieri. L’imprenditore immigrato in Trentino, dunque, può contare meno spesso su informazioni o consigli relativi all’avvio e alla gestione dell’impresa in Italia da parte di parenti che hanno avuto esperienze imprenditoriali nello stesso contesto geografico. Vedremo poi in seguito che questo dato è confermato anche dalla composizione delle reti sociali degli imprenditori.

Fig.1 – Livello di istruzione degli intervistati trentini rispetto a quelli delle altre aree (%)105

2124

10

37

5

39

19

45

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

50

Fino lic.media Qual.professionale Diploma Laurea e oltre

Trento Altre aree

105 Il valore del Chi quadro è pari a 18,62 con 5 gradi di libertà e sig=.002

161

Oltre a quella già citata, le principali differenze particolarità del campione trentino sono l’assenza di donne nel campione (ma così accade anche a Milano e Modena Reggio Emilia) dovuta alla scelta di indagare settori a forte prevalenza maschile e l’elevata presenza nel campione di persone in possesso della qualifica professionale, titolo posseduto da circa un quarto degli imprenditori immigrati in Trentino e che permette di attribuire loro competenze professionali specifiche apprese già durante il percorso scolastico (fig.1). Viene confermata comunque anche nel campione trentino una prevalenza dei diplomati, comune anche alle altre aree, mentre più bassa è la percentuale di laureati. 3.Il percorso migratorio Prima di analizzare il percorso migratorio degli intervistati, è bene ricordare che non provenivano, nella grande maggioranza dei casi, da famiglie in condizioni economiche più difficili rispetto a quelle della media della popolazione. Eppure, non possiamo fare a meno di notare che il 14% degli immigrati a Trento era in cerca di occupazione (il 31% studiava ed il 55% lavorava), mentre nelle altre aree, solo il 5% degli intervistati si trovava senza lavoro (il 41% studiava, l’1% era casalinga ed il 53% lavorava). Inoltre, il 38% degli intervistati non ha mai lavorato nel Paese di origine (sono il 32% nelle altre aree). Per circa 4 su 10 degli immigrati attualmente residenti a Trento, la prima esperienza lavorativa è dunque avvenuta nel contesto di immigrazione. In effetti, notiamo che le possibili difficoltà a trovare lavoro ed in generale, i fattori economici, rappresentano per gli immigrati in Trentino la motivazione alla migrazione più citata (mentre tra gli altri intervistati prevale il desiderio di promozione), seguita dai fattori politici (indicati in particolare dal 40% degli est europei, mentre è un fattore decisamente di secondaria importanza per gli altri intervistati) e solo al terzo posto troviamo il desiderio di promozione (fig.2). In generale, è possibile affermare che le motivazioni espressive sono decisamente secondarie nella decisione di emigrare, mentre un’assoluta centralità è attribuita alle crisi politiche ed economiche che hanno interessato in particolare l’Albania e l’est Europa dai primi anni ’90, periodo in cui, come abbiamo visto, gli immigrati provenienti dall’est Europa hanno iniziato ad arrivare in provincia di Trento.

Fig.2 – Fattori di spinta all’emigrazione degli intervistati trentini rispetto a quelli delle altre aree (risposta multipla - %)106

52

2621

107 5

40

3

46

10

18

32

0

10

20

30

40

50

60

Fatto

ri e

con

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i

Fa

ttori

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i

Pro

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zio

ne

Ric

on

giu

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ime

nto

Lib

ertà

Avv

en

tura

Trento Altre aree

106 Il valore del Chi quadro relativamente ai fattori politici è pari a 23,72 con un grado di libertà e sig=.000. Per il desiderio di promozione il valore del Chi quadro è pari a 8,20 con un grado di libertà e sig=.004. Per lo spirito di avventura, il Chi quadro è pari a 12,59 con un grado di libertà e sig=.000.

162

Nella maggior parte dei casi (83% contro il 73% delle altre aree) dopo aver lasciato il proprio Paese gli intervistati sono arrivati direttamente in Italia. Ciò, però non significa che siano arrivati direttamente a Trento. Questo è accaduto, infatti, per circa metà degli intervistati trentini (52%, contro il 61% delle altre aree). Gli altri hanno invece abitato per lo più in grandi città (Milano, Roma, Napoli, Torino). Il desiderio di lasciare queste prime destinazioni, oltre a migliori opportunità di lavoro, potrebbe anche dipendere da una preferenza per città di minori dimensioni, dal momento che solo il 22% degli immigrati in Trentino abitava in precedenza in una grande città con più di un milione di abitanti (rispetto al 46% delle altre aree esaminate), mentre la maggioranza abitava in una città o in un piccolo paese (78% contro il 48% delle altre aree107). In media, gli intervistati sono arrivati in provincia di Trento dopo circa 2 anni dall’arrivo in Italia, mentre nelle altre aree l’arrivo nella provincia è avvenuto in media dopo quasi 4 anni. Nel complesso, i fattori di attrazione verso l’Italia citati dagli intervistati a Trento si distinguono solo in parte rispetto a quelli indicati nelle altre aree (fig.3).

Fig.3 – Fattori di attrazione verso l’Italia degli intervistati trentini rispetto a quelli delle altre aree (risposta multipla - %)108

40

33

21

14

5

48

13

2529

18

0

10

20

30

40

50

60

Parenti Facilità ingresso Opportunitàlavoro

Connazionali Prossimitàculturale

Trento Altre aree

Il caso più rilevante è rappresentato dalla facilità di ingresso, molto più spesso indicata dagli immigrati in Trentino rispetto a quelli delle altre aree. Contrariamente alle nostre attese, però non sono gli immigrati dell’est Europa ad indicare più frequentemente questa motivazione, bensì tunisini e algerini. La motivazione più frequente è, comunque, a Trento come nelle altre aree, la presenza di parenti, mentre molto meno rilevanti rispetto alle altre aree sono la presenza di connazionali e la prossimità culturale. 4. Il percorso occupazionale e l’avvio dell’attività Come abbiamo accennato in precedenza, tra i nostri intervistati vi sono persone che hanno avviato la loro attività in diversi settori. La diversa appartenenza settoriale permette di distinguere anche i percorsi occupazionali precedenti all’attuale lavoro autonomo.

107 Il valore del Chi quadro è pari a 12,28 con 3 gradi di libertà e sig=.006. 108 Il valore del Chi quadro relativamente alla facilità di ingresso è pari a 9,11 con un grado di libertà e sig=.003. Per la prossimità culturale il valore del Chi quadro è pari a 4,42 con un grado di libertà e sig=.035

163

Molto lineare è il percorso dell’imprenditore proprietario di una carpenteria metallica che faceva il carrozziere al Paese di origine, ma che ha iniziato la sua esperienza migratoria lavorando in una carpenteria metallica alle dipendenze di un italiano. Questa è stato la sua unica esperienza lavorativa prima di mettersi in proprio. Dei 12 imprenditori edili, 4 avevano già lavorato nel settore edile al Paese di origine, mentre tre non avevano mai lavorato e gli altri cinque svolgevano professioni molto diverse (pasticcere, cameriere, commerciante, poliziotto, operaio meccanico). All’arrivo in Italia, tre dei quattro precedentemente occupati nell’edilizia hanno continuato a lavorare nello stesso settore, mentre uno ha lavorato per 10 anni nel settore della ristorazione per poi avviare la propria attività edile. Altri tre intervistati hanno iniziato a lavorare nel settore edile al loro primo lavoro in Italia (uno di questi ha poi fatto l’autista prima di tornare all’occupazione iniziale – cartongessista - mettendosi in proprio), tre hanno iniziato a fare esperienza nel settore edile nel corso della loro occupazione prevalente, uno nel corso dell’ultimo lavoro ed, infine, un intervistato ha avviato l’impresa edile senza aver mai avuto alcuna precedente esperienza nel settore. Dei 29 imprenditori nei trasporti, solo due avevano già lavorato come autisti nel Paese di origine. 13 non avevano mai lavorato prima di emigrare, mentre gli altri svolgevano lavori diversi. I due già in precedenza autisti hanno continuato ad esserlo anche alla prima occupazione in Italia (che per entrambi è stata anche l’unica prima di avviare l’attività in proprio). Gli altri, invece, hanno svolto inizialmente occupazioni in altri settori, prevalentemente nell’edilizia e nella ristorazione. Sei hanno lavorato come autisti nella loro occupazione prevalente, altri 4 nella loro ultima occupazione prima di avviare l’attività. Ciò significa che meno della metà degli imprenditori nel settore dei trasporti avevano un’esperienza pregressa nel settore, mentre gli altri hanno iniziato direttamente con il lavoro autonomo. Questa maggiore ‘casualità’ nell’approdo ad un’attività nel settore dei trasporti rispetto al settore edile emerge anche dall’analisi delle motivazioni che hanno portato all’avvio dell’attività. Mentre tra gli edili prevale il desiderio di guadagnare di più o di valorizzare le proprie capacità (due terzi degli edili scelgono queste due opzioni), tra gli autotrasportatori accanto al desiderio di guadagnare di più vi è quello di essere autonomo e non avere capi (oltre la metà sceglie una di queste due opzioni), e successivamente la possibilità di avere un lavoro regolare o quello di cogliere un’occasione che è capitata (un quinto delle risposte) oppure altre motivazioni slegate comunque dai contenuti del lavoro ma più legate a contingenze (problemi di salute o familiari, perdita del precedente lavoro, ecc.), mentre solo un intervistato sceglie la possibilità di valorizzare le proprie capacità. Mentre il percorso edilizio appare dunque più ‘ragionato’ e lineare, il percorso verso l’attività di trasporto sembra spesso più che altro un tentativo, un desiderio di provare qualcosa di diverso dopo le precedenti delusioni professionali. Questo è esplicitamente dichiarato da un intervistato che alle dipendenze aveva lavorato nel sociale e si è messo in proprio cercando un lavoro che fosse più fisico e meno coinvolgente a livello psicologico e mentale, pensando – sbagliandosi - che sarebbe stato meno faticoso109. Inoltre, il settore dei trasporti è visto talvolta come un’opportunità – tra le altre opzioni possibili – che garantisce buone possibilità di guadagno. Vedremo, in seguito, che in effetti questa supposizione non è sbagliata. Tornando al confronto tra l’area trentina e le altre, è interessante notare che, mentre tutti gli intervistati trentini hanno fondato la propria azienda personalmente, tra gli altri solo il 71% ha fatto lo stesso, mentre il 27% l’ha acquisita da altri e il 2% l’ha ereditata110. Un altro aspetto rilevante è relativo ai capitali utilizzati per fondare l’azienda (fig.4). Infatti, nelle altre aree si utilizza soprattutto capitale proprio, e secondariamente, capitale di familiari oppure prestiti di familiari e conoscenti, mentre le banche hanno un ruolo assolutamente marginale. Invece,

109 Commento tratto dal questionario n.85. 110 Il valore del Chi quadro è pari a 15,88 con 2 gradi di libertà e sig=.000.

164

a Trento un imprenditore su quattro ha chiesto prestiti alle banche. Questa scelta è stato compiuta soprattutto dagli imprenditori provenienti dall’est Europa e dall’Albania.

Fig.4 – Capitale utilizzati per fondare l’azienda dagli intervistati trentini rispetto a quelli delle altre aree (%)111

57

7 7

26

3

69

12 134 2

01020304050607080

Capitaleproprio

Capitalefamiliari

Prestitifamiliari o

connazionali

Banche Altro

Trento Altre aree

Non vi sono, invece, particolari differenze tra Trento e le altre aree riguardo al periodo di fondazione dell’azienda e agli anni trascorsi in media tra l’arrivo in Italia e la creazione dell’impresa. L’azienda è stata fondata dagli immigrati trentini in media da circa sei anni e mezzo (altre aree: 7 anni e mezzo) e gli imprenditori hanno atteso in media circa 9 anni e mezzo prima di avviare la propria attività (anche nelle altre aree il periodo è lo stesso). Quale che sia stato il loro percorso occupazionale precedente, dunque, gli imprenditori immigrati in Trentino hanno dunque atteso alcuni anni prima di intraprendere la carriera del lavoro autonomo, in modo da migliorare la propria conoscenza della lingua e del mercato del lavoro locale, nonché di stringere legami utili per la propria attività futura. 5. L’impresa: caratteristiche e andamento Le imprese trentine hanno in media 2,8 dipendenti. Nel 26% dei casi non hanno nessun dipendente, nel 62% dei casi hanno fino a 5 dipendenti e nel 10 dei casi hanno fino a 10 dipendenti. Solo un’impresa supera questa soglia, con 19 dipendenti. Le imprese edili sono mediamente più grandi di quelle dei trasporti: in media hanno 4,4 dipendenti, contro i 2,2 delle imprese di trasporti. La maggiore dimensione aziendale degli edili dipende anche dal fatto che tra di esse non vi è alcuna azienda senza dipendenti, mentre nei trasporti il 38% degli intervistati è un lavoratore autonomo. Familiari e parenti sono presenti in circa metà delle imprese, mentre molto rara è la presenza di dipendenti o collaboratori italiani (solo in 5 imprese su 42). Nel complesso, nelle imprese degli immigrati a Trento, vi è una maggiore collaborazione di familiari e parenti rispetto a quanto accade nelle altre aree, dove solo in poco più di un’impresa su quattro si osserva la collaborazione di familiari e parenti112. Benché meno rilevante nel fornire il capitale iniziale necessario all’avvio dell’impresa, l’aiuto dei familiari si evidenzia nell’area trentina soprattutto come contributo concreto alla gestione dell’impresa.

111 Il valore del Chi quadro è pari a 19,63 con 5 gradi di libertà e sig=.001. 112 Il valore del Chi quadro è pari a 16,96 con 6 gradi di libertà e sig=.009

165

Fig.5 – Andamento (2007-2010) del fatturato e dei dipendenti delle imprese immigrate trentine rispetto a quello delle altre aree (%)113

6

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9

40

34

17

66

36

60

33

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0 10 20 30 40 50 60 70

Altre aree

Trento

Altre aree

TrentoD

ipen

dent

iF

attu

rato

Aumentato Diminuito costante

Gestione che, nonostante l’attuale crisi economica, presenta dei risultati abbastanza positivi, decisamente più positivi rispetto alle altre aree, sia per ciò che concerne l’andamento del fatturato che per quanto riguarda la situazione dei dipendenti (fig.5). Solo un terzo degli imprenditori immigrati a Trento registra un calo di fatturato rispetto al 2007, mentre nelle altre aree esaminate si trovano in questa situazione i due terzi degli intervistati. Inoltre, metà delle imprese trentine dichiara di aver assunto persone negli ultimi tre anni, mentre meno di un’impresa su 10, nelle altre aree, ha aumentato il numero dei propri dipendenti. Naturalmente, ci siamo domandati i motivi di questi migliori risultati riscontrati nell’area trentina. Una prima spiegazione potrebbe essere legata al contesto territoriale e, quindi, alle opportunità e ai vantaggi offerti da una realtà economica in cui la Provincia autonoma riveste un ruolo centrale, riuscendo in qualche modo ad attutire gli effetti della crisi che, almeno nel caso del settore edilizio, risente almeno in parte della consistenza degli investimenti pubblici. In effetti, ci siamo anche chiesti se fossero presenti eventuali differenze tra i settori di attività degli imprenditori intervistati. Gli imprenditori dei trasporti sembrano essere in una situazione migliore rispetto a quelli dell’edilizia, sia in termini di dipendenti che, soprattutto, in termini di fatturato. Infatti, solo per un trasportatore su 10 il numero dei dipendenti è diminuito contro un terzo degli edili. Inoltre, per metà degli edili il fatturato è inferiore rispetto al 2007, mentre meno di un terzo dei trasportatori si trova nella stessa situazione. Tuttavia, è importante ricordare che questo confronto tra i settori è un confronto relativo e interno all’area trentina. Ad esempio, confrontando il settore edile a Trento e a Milano (area in cui sono stati intervistati prevalentemente imprenditori immigrati operanti nell’edilizia, si veda cap.5), pur con una numerosità molto ridotta si notano enormi differenze sia nell’andamento del fatturato che in quello dei dipendenti, poiché circa tre quarti delle imprese milanesi dichiarano di aver visto diminuire sia il proprio fatturato sia i propri dipendenti nel triennio 2007-2010. Un altro aspetto interessante che vale la pena di sottolineare riguarda invece la partecipazione ad associazioni. Come già anticipato, una delle peculiarità del caso trentino è proprio l’elevata partecipazione associativa. In effetti, solo 6 imprenditori non sono iscritti ad alcuna associazione, né di tipo economico, né di tipo culturale, sportivo o di altro genere. I dati indicano che coloro che sono associati hanno risultati migliori sia in termini di dipendenti sia in termini di fatturato. La

113 Il valore del Chi quadro nel caso del fatturato è pari a 24,97 con 2 gradi di libertà e sig=.000. Per il numero di dipendenti, il valore del Chi quadro è pari a 48,37 con 2 gradi libertà e sig=.000.

166

differenza è ancora più evidente (e statisticamente significativa) utilizzando tutte le interviste agli imprenditori (si veda cap.10). L’aiuto fornito dalle associazioni, come vedremo anche in seguito, non solo è un valido contribuito alla gestione dell’impresa in vari ambiti, ma è anche correlato positivamente con l’andamento dell’impresa stessa. E se la scelta di iscriversi o meno ad un’associazione può dipendere anche dalla dimensione aziendale (De Luca, 2005), nel caso trentino sono iscritti ad associazioni – economiche e non - anche molti imprenditori con nessun dipendente. Prima di occuparci più direttamente dell’esperienza associativa, osserviamo altre caratteristiche delle imprese immigrate a Trento. In primo luogo, gli imprenditori immigrati a Trento lavorano molto: in media 59 ore a settimana rispetto alle 50 degli imprenditori delle altre aree114. Inoltre, ha una clientela molto più dispersa sul territorio, che non si limita mai al comune o quartiere (come accade per metà delle imprese nelle altre aree), ma comprende almeno la provincia e spesso altre regioni italiane (fig.6).

Fig.6 – Localizzazione dei dipendenti e dei fornitori delle imprese immigrate trentine rispetto a quello delle altre aree (%)115

50

0

31

2

15

52

33

95

15

17

9

0

12

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19

3

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2

8

0

0 20 40 60 80 100

Altre aree

Trento

Altre aree

Trento

Clie

nti

For

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ri

Comune Provincia Regione Altre regioni Estero

I clienti sono nel 98% dei casi italiani (è così solo per il 58% delle imprese nelle altre aree). I clienti, però, sono poco numerosi: il 36% degli imprenditori immigrati in Trentino ha un solo cliente (contro il 9% delle altre aree) ed il 41% ne ha al massimo cinque (sono il 27% nelle altre aree). La numerosità e la localizzazione della clientela dipendono anche dalla tipologia di impresa. A Trento mancano gli esercizi commerciali che possono generalmente contare su una clientela vasta e spesso localizzata nel comune o nel quartiere dove è situato il negozio. La mono-committenza è comunque spesso un segno di debolezza e dipendenza dell’impresa, che garantisce all’azienda un basso livello di autonomia, aumenta i rischi di crisi e trasforma l’imprenditore in un mero contoterzista. Per ciò che concerne i fornitori, per gli imprenditori immigrati in Trentino sono sempre italiani (è così per il 71% degli imprenditori nelle altre aree) e sono quasi sempre collocati entro i confini provinciali (fig.6). I legami con gli italiani e con il contesto locale, almeno in ambito lavorativo, sono dunque frequenti e molto importanti. Le imprese degli immigrati trentini sono indubbiamente delle imprese ‘aperte’ (secondo la definizione di Ambrosini, 2005). Del resto, solo il 2% degli

114 Il test F ha un valore di 5,28 con un grado libertà e sig=.023 115 Il valore del Chi quadro nel caso dei clienti è pari a 48,61 con 5 gradi di libertà e sig=.000. Nel caso, invece, dei fornitori, il valore del Chi quadro è pari a 52,35 con 5 gradi libertà e sig=.000.

167

intervistati in Trentino afferma di utilizzare un marchio che sottolinea la propria nazionalità, mentre il 20% degli imprenditori nelle altre aree lo fa116. 6. Le relazioni sociali e associative Nella gestione dell’azienda, gli imprenditori immigrati in Trentino utilizzano molto di più le associazioni di categoria rispetto agli imprenditori delle altre aree studiate. Mentre nelle altre aree la figura di riferimento per eccellenza è quella del consulente italiano, generalmente il commercialista, a Trento gli imprenditori immigrati si dividono quasi sempre equamente tra il commercialista e l’associazione di categoria, che risulta particolarmente utilizzata in riferimento all’adempimento e alla conoscenza di norme in materia di igiene, sicurezza o altro (fig.7). Nel complesso, il 79% del intervistati in Trentino è iscritto ad un’associazione di categoria italiana (contro il 29% degli imprenditori intervistati nella altre aree117), mentre il 17% è iscritto ad una associazione di connazionali culturale, religiosa o di altro genere ed il 10% ad un’associazione culturale, religiosa, ecc. italiana118.

Fig.7 – Soggetti utilizzati nella gestione aziendale dalle imprese immigrate trentine rispetto a quelle delle altre aree (%)119

68

55

68

49

73

56 57

1721

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24

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08

05

0

1914

0

10

20

30

40

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70

80

Altrearee

Trento Altrearee

Trento Altrearee

Trento Altrearee

Trento

Contabilità Paghe e contributi Obblighi f iscali Norme

Consulente italiano Associazione Altro

Del resto la rilevanza e l’utilità del rapporto con l’associazione di categoria è esplicitamente riconosciuta dagli imprenditori stessi, i quali attribuiscono alle relazioni con le associazioni italiane un voto di importanza120 medio molto elevato (5,6), inferiore soltanto a quello attribuito alle relazioni con i familiari (5,7). Nelle altre aree, invece, le associazioni di categoria italiane ricevono un voto di importanza medio molto più basso (2,2)121. Tutti gli intervistati, invece, attribuiscono un voto molto basso alle associazioni di connazionali (in entrambi i casi inferiore a 2) che – dove esistono - spesso sono comunque troppo piccole e poco rappresentative per essere davvero utili agli

116 Il valore del Chi quadro è pari a 7,69 con un grado di libertà e sig=.006 117 Il valore del Chi quadro è pari a 33,96 con un grado di libertà e sig=.000. 118 Escludendo l’associazione di categoria, l’appartenenza alla altre forme associative è simile a quella delle altre aree esaminate. 119 Il valore del Chi quadro nel caso della contabilità è pari a 13,02 con 3 gradi di libertà e sig=.005. Nel caso di paghe e contributi, il valore del Chi quadro è pari a 11,78 con 3 gradi libertà e sig=.008. Nel caso di obblighi fiscali, il valore del Chi quadro è pari a 9,33 con 3 gradi libertà e sig=.025. Nel caso di norme, il valore del Chi quadro è pari a 31,82 con 3 gradi libertà e sig=.000. 120 Voto da 1 a 10. 121 Il valore di F relativo alle associazioni italiane è pari a 42,14 con un grado di libertà e sig=.000.

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imprenditori stranieri. Poco importanti sono anche le relazioni con i connazionali (3,0122) e gli altri stranieri (2,3), mentre le relazioni con gli italiani si collocano al terzo posto (voto medio 5,3). L’importanza della famiglia e della conoscenza di italiani sono confermate anche dalle valutazioni fornite in relazione all’importanza di diversi aspetti nell’avvio e nella gestione dell’azienda (tab.4).

Tab.4 – Voto medio di importanza (da 1 a 10) attribuito ad alcuni aspetti inerenti alla propria attività impre nditoriale a Trento e nelle altre aree (tra parentesi, deviazione standard) Aspetti valutati Trento Altre aree Conoscenza lingua italiana123 9,7 (0,7) 8,3 (2,6) Voglia di lavorare 9,6 (1,5) 9,5 (1,5) Professionalità ed esperienza 9,2 (2,0) 8,3 (2,7) Sostegno della famiglia124 8,7 (2,7) 6,9 (3,4) Conoscenza di italiani 8,3 (2,8) 7,1 (3,5) Capitali iniziali125 7,9 (3,4) 6,2 (3,5) Istruzione 7,1 (3,7) 7,3 (3,1) Tradizione ed esperienze familiari 5,7 (4,1) 5,7 (4,0) Aiuto associazioni italiane126 5,0 (3,9) 1,7 (2,8) Aiuto associazioni connazionali 1,6 (2,1) 1,0 (2,2) N 42 158

Al contrario, l’aiuto delle associazioni italiane non ottiene una valutazione media particolarmente elevata, anche se la variabilità dei giudizi è molto elevata. Tuttavia, il voto medio degli intervistati trentini è significativamente più elevato rispetto a quello degli altri, così come accade per il sostegno della famiglia che, come abbiamo visto in precedenza, collabora più frequentemente alla gestione dell’impresa. Inoltre, più rilevante è anche il ruolo attribuito ai capitali iniziali che, come sappiamo, sono stati più frequentemente reperiti tramite prestiti. Il reperimento del capitale economico, dunque, si conferma un elemento chiave per l’avvio e la gestione dell’impresa, più del capitale culturale. Infatti, sia l’istruzione sia le tradizioni ed esperienze familiari ottengono dei voti medi inferiori a quello attribuito al capitale. Ai primi tre posti, comunque, sia per gli immigrati a Trento che per gli altri troviamo la conoscenza dell’italiano, la voglia di lavorare e la professionalità (quest’ultimo aspetto rimanda alla valutazione dei propri punti di forza, che analizzeremo in seguito). Tornando invece a soffermarci sul capitale sociale degli imprenditori immigrati a Trento, oltre alle relazioni con le associazioni di categoria, rapporti peraltro preminentemente di natura economica, gli imprenditori immigrati a Trento non hanno delle reti sociali particolarmente sviluppate, o quanto meno non più di quanto lo siano quelle degli imprenditori nelle altre aree esaminate. L’ampiezza media della rete sociale è di 1,4 contatti (il valore medio è 1,7 nelle altre aree). Il 31% degli imprenditori intervistati a Trento ha almeno un socio (il 32% nelle altre aree). Non è però la prevalenza di imprese individuali a differenziare il campione trentino dagli altri, quanto più il fatto che solo il 57% degli intervistati in Trentino cita persone da cui ha imparato molto per la gestione dell’azienda, mentre nell’altre aree la percentuale è del 72%. Ad essere diverso è soprattutto il ruolo dei familiari, che vengono molto meno spesso citati dagli imprenditori immigrati in Trentino rispetto agli altri. Un’altra importante differenza riguarda invece le persone utili per ricevere prestiti (fig.8).

122 Nelle altre aree i rapporti con i connazionali ottengono un voto medio pari a 4,9. Il valore di F è pari 11,30 con un grado di libertà e sig=.001. 123 Il valore di F è pari a 12,61 con un grado di libertà e sig=.000. 124 Il valore di F è pari a 10,32 con un grado di libertà e sig=.002. 125 Il valore di F è pari a 8,42 con un grado di libertà e sig=.004. 126 Il valore di F è pari a 39,91 con un grado di libertà e sig=.000.

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Fig.8 – Soggetti a cui le imprese immigrate trentine si sono rivolte per prestiti rispetto alle altre aree (%)127

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Trento Altre aree

Infatti, non solo all’avvio dell’impresa, ma anche durante la gestione della stessa, gli imprenditori immigrati a Trento chiedono molto più spesso prestiti sia a persone sia, soprattutto, a banche o associazioni di categoria. Inoltre, non si rivolgono quasi mai a familiari o connazionali ma sempre ad italiani (prevalentemente banche o associazioni, ma anche altre persone). Anche da questo punto di vista, dunque, si confermano i forti legami economici che gli imprenditori hanno con le istituzioni italiane, banche o associazioni di categoria che siano. Gli scarsi legami con i connazionali non familiari, oltre ad essere supposti a causa del basso voto di importanza attribuito a questo tipo di relazioni e dalla sporadica presenza di connazionali utili nella rete di relazione, emergono anche dalla domanda relativa ai rapporti con gli altri imprenditori. Il 43% degli intervistati a Trento dichiara di non avere rapporti con imprenditori connazionali, mentre risponde allo stesso modo solo il 28% degli imprenditori nelle altre aree. I rapporti sono comunque quasi sempre di collaborazione. Ovviamente, questo dato non stupisce ricordando che clienti e fornitori degli intervistati trentini sono quasi sempre italiani. Infatti, sembra quasi più sorprendente il fatto che il 24% dichiari di non avere rapporti con imprenditori italiani. Inoltre, il 14% definisce i rapporti esistenti come rapporti di concorrenza, mentre per il 62% prevale la collaborazione. 7.Problemi e prospettive delle aziende Abbiamo visto che la maggioranza degli imprenditori immigrati in Trentino ritiene che i rapporti con gli altri imprenditori siano prevalentemente di collaborazione e non di concorrenza. Ma quanto, nel complesso temono la concorrenza? E, oltre alla concorrenza degli altri, quali sono le difficoltà che si trovano a dover affrontare? Un terzo degli intervistati dichiara di non temere alcuna concorrenza (sono il 43% nelle altre aree), mentre il 14% teme la concorrenza degli italiani, il 2% di tutti e il 51% degli altri stranieri. Spesso gli altri stranieri vengono accusati di concorrenza sleale, di non rispettare le regole, ecc., mentre agli italiani non vengono imputati questi tipo di comportamenti. Gli imprenditori intervistati si pongono, implicitamente o esprimendolo chiaramente, nel novero di coloro che rispettano le regole e si trovano perciò ad affrontare costi che non consentono di praticare tariffe troppo basse, mentre i

127 Il valore del Chi quadro è pari a 7,82 con 2 gradi di libertà e sig=.020. Il totale delle tipologie di persone (familiari, connazionali, italiani) è inferiore al totale di chi ha chiesto prestiti perché vi sono alcune risposte mancanti.

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concorrenti sleali vengono identificati in imprese prevalentemente site in paesi dell’est non ancora comunitari, appartenenti a imprenditori stranieri o italiani che attraverso tali società riescono ad aggirare normative europee sempre più restrittive. La norma più onerosa128 per buona parte degli imprenditori immigrati intervistati si riferisce al superamento dell’esame obbligatorio per l’accesso alla professione di autotrasportatore di merci per conto terzi, la quale prevede per gli autotrasportatori privi di diploma di scuola media superiore di essere ammessi all’esame solo dopo aver frequentato un apposito corso professionale di circa 150 ore. Alcuni degli intervistati hanno risolto il problema di ottenere questa idoneità grazie all’impegno delle proprie mogli, socie dell’impresa, che hanno studiato centinaia di pagine e superato la prova mentre i mariti hanno potuto evitare di sospendere l’attività lavorativa. Qualche altro intervistato ha invece dichiarato di voler cambiare attività perché non si sentiva in grado di affrontare uno sforzo così importante, per le difficoltà linguistiche presenti in questa prova e per l’impiego di tempo necessario a superarla. In effetti, i problemi nel superamento di questo esame sono indicati da alcuni degli imprenditori intervistati tra i punti di debolezza dell’azienda, mentre tra le indicazioni emerse allo scopo di sostenere gli imprenditori immigrati diversi auspicano un aiuto o una semplificazione dell’esame stesso.

Fig.9 – Punti di debolezza delle imprese immigrate trentine rispetto alle altre aree (risposta multipla - %)129

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Trento Altre aree

La diversa rilevanza dei due tipi di concorrenza emerge anche dal fatto che, mentre la concorrenza degli italiani viene citata come punto di debolezza dalle imprese solo da un quarto degli intervistati, quella degli altri immigrati è temuta in metà dei casi (fig.9). Nel confronto con le altre aree, vale la pena di segnalare due considerazioni. La prima è che gli imprenditori residenti in Trentino tendono ad indicare più punti di debolezza rispetto a quanto non facciano gli altri. Infatti, tranne nel caso dell’accesso al credito (che come abbiamo visto è ampiamente più utilizzato a Trento che nelle altre aree), tutti gli altri aspetti vengono indicati con maggiore frequenza (anche se in alcuni casi la differenza è minima) dagli immigrati trentini. La seconda considerazione riguarda la diffidenza della società italiana che è sentita da un intervistato su cinque. Se questa diffidenza sia reale o solo percepita, se sia dovuta al particolare contesto locale o meno non possiamo stabilirlo. Ciò che emerge da un’analisi più dettagliata è che questo problema viene manifestato soprattutto da est

128 Le modalità di accesso alla professione di autotrasportatore di merci conto terzi sono disciplinate dal Decreto Legislativo n. 395 del 22 dicembre 2000, il quale prevede tra i requisiti il possesso dell'idoneità professionale che si consegue attraverso il superamento di un esame scritto da sostenere presso l'apposita Commissione Provinciale nel cui territorio gli interessati hanno la residenza anagrafica. 129 Il valore del Chi quadro relativo alla diffidenza della società italiana è pari a 6,59 con un grado di libertà e sig=.010.

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europei e albanesi, e meno dalle altre nazionalità. E’ importante ricordare che queste nazionalità, così come gli asiatici, sono presenti solo in questa aree di indagine, mentre i nord africani, che meno spesso indicano questo problema, sono presenti anche in altre aree indagate (Milano, Torino, Modena e Reggio Emilia). Questo dato rappresenta un altro indicatore del fatto che, al di fuori delle relazioni economiche e istituzionali, l’integrazione sociale nel contesto locale non è sempre facile. La buona integrazione economica ed il relativo successo di questi imprenditori, invece, sono invece confermati dall’analisi dei punti di forza (fig.10). Mentre gli intervistati nelle altre aree puntano molto sui prezzi bassi e sul contenimento dei costi, gli imprenditori immigrati in Trentino privilegiano la qualità dei prodotti e dei servizi offerti e fanno affidamento nella maggior parte dei casi sulla buona reputazione conquistata presso i loro clienti. Questa strategia si rispecchia nell’elevato voto medio attribuito all’importanza della professionalità nella gestione della propria azienda.

Fig.10 – Punti di forza delle imprese immigrate trentine rispetto alle altre aree (risposta multipla - %)130

6455

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Buonareputazione

Qualitàprodotti/servizi

Flessibilità Prezzi bassi Mantenerebassi costi

Trento Altre aree

Puntare sulla qualità e sulla reputazione è senza dubbio una buona strategia per ottenere dei risultati positivi ed affrontare meglio la crisi. In effetti, quando vengono direttamente interrogati relativamente alle conseguenze della crisi sulla propria azienda, se circa la metà degli imprenditori ritiene che la propria azienda uscirà rafforzata dalla crisi (risultato simile a quello emerso nelle altre aree), un imprenditore su cinque pensa di continuare come sta facendo attualmente che, nella maggior parte dei casi vuol dire comunque avere un numero di dipendenti - e, in parte, un fatturato - in crescita o costante. Nel complesso, gli imprenditori appaiono fiduciosi nella tenuta e nella capacità di ripresa della propria azienda. Pochissimi intendono chiudere o vendere l’azienda o anche proseguire l’attività in un altro settore. Infine, nessun intende cedere l’attività ai propri figli. Del resto, l’87% degli intervistati auspicano che i figli trovino un lavoro diverso dal proprio e solo il 10% vorrebbe che in futuro gestissero l’azienda (il 3% vorrebbe che tornassero in patria). 8. Conclusione Il confronto tra i questionari somministrati agli imprenditori immigrati in Trentino e le altre aree oggetto di studio in questa ricerca ha permesso di evidenziare alcune caratteristiche peculiari di estremo interesse.

130 Il valore del Chi quadro relativo ai prezzi bassi è pari a 18,29 con un grado di libertà e sig=.000. Il valore del Chi quadro relativo alla buona reputazione è pari a 5,65 con un grado di libertà e sig=.017. Il valore del Chi quadro relativo al mantenere bassi i costi è pari a 7,65 con un grado di libertà e sig=.006.

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In primo luogo, gli imprenditori intervistati sembrano reagire positivamente alla crisi economica. La crescita di fatturato e/o di dipendenti rispetto al 2007 non è un fenomeno così raro come negli altri casi di studio esaminati, ma riguarda invece una quota consistente di imprese. Anche le previsioni per il futuro dell’azienda sono abbastanza ottimistiche e decisamente orientate verso una prosecuzione dell’attività. Il ruolo della famiglia è rilevante non tanto dal punto di vista economico come fornitore di capitali, quanto come aiuto concreto nella gestione dell’impresa. Dal punto di vista dei capitali, invece, molto più che altrove vengono utilizzate le banche e le associazioni di categoria. Il ruolo delle associazioni di categoria è del resto fondamentale anche nella gestione dell’impresa e spesso contende il primato a quello che è solitamente la figura chiave nell’aiutare l’imprenditore immigrato a gestire la propria attività secondo le norme e le procedure della legislazione italiana: il commercialista. L’importanza del legame con gli italiani e con le associazioni italiane è generalmente riconosciuta dagli intervistati stessi, anche se in questo riconoscimento prevalgono nettamente le considerazioni di tipo economico, mentre poco sappiamo riguardo all’integrazione sociale, anche se il frequente riferimento alla diffidenza degli italiani può portare a pensare che vi siano maggiori difficoltà in questo ambito che non per ciò che concerne l’integrazione economica che ci sembra aver conseguito buoni risultati. L’insediamento degli intervistati appare comunque abbastanza stabile sia per l’assoluta predominanza di soggetti coniugati con figli conviventi, sia per la ridottissima quota di coloro che auspicano un ritorno dei figli al Paese di origine. Non necessariamente, però, questa stabilizzazione implica un passaggio generazionale anche a livello aziendale. Anzi, in realtà, sono davvero pochi gli intervistati che si augurano che i figli proseguano la propria attività, caratterizzata spesso da lunghi orari di lavoro e grande fatica.

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10. Percorsi e strategie imprenditoriali di fronte alla crisi Deborah De Luca*

In questo capitolo, ci concentriamo sui risultati complessivi che emergono dall’indagine, svolta su un campione non probabilistico131 di imprenditori immigrati. In totale, sono stati intervistati 200 imprenditori immigrati residenti in sei aree geografiche distinte, di nazionalità differente e operanti in settori diversi (tab. 1). La scelta delle aree, dei settori e delle nazionalità da intervistare ha tenuto conto della concentrazione territoriale e settoriale delle specifiche nazionalità. Alcuni casi sono già noti e studiati, come gli imprenditori edili egiziani a Milano (Chiesi e Zucchetti, 2003), i cinesi attivi nel tessile a Prato (Ceccagno, 1998) o i marocchini nel settore alimentare a Torino (CCIIAA e Fieri, 2009). Altri, invece, sono dedicati a realtà meno conosciute ma di particolare interesse per diverse ragioni. Il caso di Trento è stato scelto per il forte e peculiare radicamento della locale associazione artigiana nella realtà imprenditoriale immigrata, numericamente consistente soprattutto nei settori dell’edilizia e dei trasporti. Il caso di Modena e Reggio Emilia si caratterizza per la concentrazione dei marocchini nel settore metalmeccanico, con una nicchia di specializzazione nelle macchine per la produzione del formaggio parmigiano reggiano. L’ipotesi è che sia in atto un lento processo di sostituzione dell’imprenditorialità autoctona in questo distretto produttivo, così come è avvenuto in passato nel distretto pratese. Infine, a Catania è stato proposto il confronto fra i commercianti cinesi e senegalesi, le due nazionalità più propense al lavoro autonomo.

Tab. 1 – Caratteristiche delle aree territoriali analizzate132 Area: Settore Contesto Nazionalità prevalente N. interviste Torino Alimentare Urbano Marocco 40 Milano Edilizia Urbano Egitto 43 Trento Trasporti/edilizia Distrettuale Est Europa 42 Modena-Reggio Metalmeccanico Distrettuale Marocco 29 Prato Tessile Distrettuale Cina 5 Catania Commercio Urbano Cina e Senegal 39 Altre aree Alimentare/tessile Romania 2 Totale 200

Dal momento che i 200 imprenditori intervistati non rappresentano un campione casuale degli imprenditori immigrati operanti in Italia ma, come abbiamo visto, sono la combinazione di singoli studi di particolare interesse, ci siamo domandati quanto possano essere rappresentativi dell’imprenditorialità immigrata presente sull’intero territorio nazionale. Un confronto tra i nostri dati e quelli raccolti in una ricerca condotta nel 2007 sull’imprenditorialità artigiana immigrata in Lombardia, in cui sono stati intervistati 299 artigiani immigrati (Zanfrini et al., 2008) ha evidenziato la presenza di numerosi aspetti in comune, e suggerito che l’esistenza di differenze

*Università di Milano 131 Il campione è stato costruito allo scopo di ottenere una rappresentatività sull’intero territorio nazionale, partendo da varie popolazioni in parte sovrapposte. Per le sei aree analizzate sono state utilizzate le liste delle locali associazioni artigiane e della piccola industria e gli iscritti alle Camere di Commercio. In un caso è stata utilizzata anche la lista dei clienti di un istituto di credito locale. A causa dell’elevato numero di nomi irrintracciabili e dei rifiuti, il campione è stato successivamente integrato con una procedura snow ball, che ha permesso di raggiungere la consistenza desiderata attraverso la presentazione di imprenditori conosciuti da coloro che erano già stati intervistati. Questa procedura, pur violando la regola dell’indipendenza tra le singole estrazioni, ha permesso di raggiungere casi non registrati nelle fonti istituzionali. 132 L’intervista n.199 riguarda un imprenditore rumeno di successo residente in provincia di Mantova (vedi par.4, tab.5), mentre l’intervista n.200 è riferita ad una imprenditrice rumena operante nel settore tessile/calzature, pure vincitrice di un riconoscimento, che non avendo dipendenti al momento dell’intervista, non è stata inserita tra gli imprenditori di successo

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dovute in parte alla differente composizione settoriale delle attività autonome svolte dagli intervistati (Chiesi, De Luca, Mutti, 2011).

L’obiettivo del presente capitolo è invece quello di utilizzare i dati complessivi raccolti nel corso della nostra ricerca al fine di comprendere le motivazioni della scelta imprenditoriale, il ruolo del capitale umano e sociale, il livello di integrazione raggiunto, i problemi e le difficoltà incontrate e gli effetti della crisi. Questi temi, come vedremo nel primo paragrafo, sono già stati affrontati, con esiti differenti, da diverse ricerche sull’imprenditorialità immigrata condotte a livello locale e nazionale. Molti di questi temi sono stati affrontati anche nella ricerca oggetto del presente volume. La nostra analisi si soffermerà sulla presenza di eventuali differenze in base ai settori di attività svolta, alle diverse nazionalità di provenienza, alla dimensione di impresa e al diverso periodo di arrivo in Italia.

In particolare, il secondo paragrafo riguarderà una descrizione generale delle caratteristiche socio-demografiche degli intervistati, il terzo seguirà il percorso migratorio degli intervistati, il quarto quello occupazionale. Il quinto paragrafo si concentrerà invece sulle motivazione all’avvio dell’attività autonoma, il sesto sull’andamento delle imprese e sulle difficoltà che stanno affrontando, il settimo sulla dotazione di capitale sociale e, infine, l’ottavo sulle prospettive future. Inoltre, il capitolo si conclude con un breve approfondimento specifico relativo alla dimensione di impresa ed alla sua importanza.

1. Le indicazioni provenienti dalle ricerche empiriche disponibili

Le prime ricerche sul fenomeno dell’imprenditorialità immigrata in Italia risalgono agli anni Novanta e hanno generalmente riguardato singole città e/o specifiche nazionalità (Ambrosini e Schellenbaum, 1994; Baptiste e Zucchetti, 1994; Campani, Carchedi e Tassinari, 1994; Luciano, 1995; Santi 1995; Farina, Cologna, Lanzani e Breveglieri, 1997; Ceccagno, 1998; Schmidt di Freidberg, 1999). In alcune città o contesti territoriali, infatti, la crescita dell’imprenditorialità immigrata ha destato l’interesse di studiosi e istituzioni per la particolare rapidità con cui è avvenuta, o per la maggiore visibilità dovuta alla concentrazione in un territorio circoscritto e/o uno specifico settore produttivo (come ad esempio nel caso dei cinesi a Prato). Nel complesso, queste prime ricerche si sono focalizzate su gruppi nazionali che tuttora sono tra quelli che presentano i maggiori tassi di crescita imprenditoriale: cinesi, egiziani, marocchini. Inoltre, si concentrano prevalentemente su grandi città del Nord Italia, con la rilevante eccezione delle ricerche sui cinesi, che riguardano uno specifico gruppo etnico, ma ne analizzano le caratteristiche e le peculiarità in quanto tale, senza focalizzarsi necessariamente su uno specifico contesto territoriale.

Negli anni Duemila, oltre ad un aumento delle ricerche locali (tra le altre, segnaliamo Pugliese et al. 2001; Marini, 2002; Chiesi e Zucchetti, 2003; Ceccagno, 2003; Lunghi, 2003; Frisina, Gandolfi, Schmidt di Friedberg, 2004; Abbatecola, 2004; Strateghia, 2005; Fiorio e Napolitano, 2006; Gallo e Gaudino, 2006; Laj e Ribeiro Corossacz, 2006; Rolfini, 2006; Barberis, 2008; Marra, 2008; Camera di commercio di Torino e Fieri, 2008, 2009; Ambrosini, 2009; Palumbo e Coslovi, 2009; Berzano et al., 2010; Marsden e Caserta, 2010; Nomisma, 2010) iniziano a comparire le prime ricerche che mirano ad analizzare il fenomeno dell’imprenditorialità immigrata prendendo in esame l’intero territorio nazionale (Confartigianato, 2003; Caritas Migrantes 2006, 2007, 2008, 2009, 2010; Fondazione Ethnoland, 2009; Unioncamere, 2010) utilizzando i dati Unioncamere/Cna.

Le numerose ricerche sviluppate a livello locale, di cui abbiamo fornito solo alcuni esempi senza alcuna pretesa di fornire un elenco esaustivo, spesso condividono almeno in parte alcuni obiettivi.

Anzitutto e principalmente per ciò che concerne le ricerche condotte da centri studi di istituzioni e associazioni locali, il primo obiettivo è conoscitivo. Come per le ricerche nazionali, anche molte ricerche locali utilizzano a tale scopo i dati delle Camere di commercio. Vengono

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delineate l’entità del fenomeno, le sue principali componenti nazionali e settoriali, le sue caratteristiche di fondo in termini di localizzazione e talvolta vengono anche calcolati i tassi di sopravvivenza delle imprese nel tempo.

La maggior parte delle ricerche133, oltre all’eventuale analisi dei dati camerali, prevedono anche la somministrazione di questionari semi-strutturati o la conduzione di interviste qualitative a testimoni privilegiate e/o a imprenditori immigrati.

In questi lavori, sovente vengono indagate le motivazioni che hanno spinto gli immigrati ad intraprendere la via del lavoro autonomo134. Considerando il punto di vista della struttura di opportunità (Waldinger et al. 1990; Kloosterman e Rath, 2001), le ricerche italiane si concentrano soprattutto sulla prospettiva della vacancy chain, ovvero la sostituzione degli imprenditori autoctoni da parte degli immigrati in settori con ridotte possibilità di guadagno, bassi costi di ingresso e orari di lavoro prolungati, che gli autoctoni abbandonano a favore di settori più attraenti, meno faticosi e con maggiori possibilità di guadagno (Marini, 2002; Chiesi e Zucchetti, 2003). Questa è una delle spiegazioni più utilizzate, dal momento che in Italia gli immigrati si concentrano nel commercio e nell’edilizia o, secondariamente, in settori industriali ‘maturi’, come il tessile. Un altro aspetto rilevante sono i cambiamenti avvenuti nell’economia urbana, che hanno favorito lo sviluppo di piccole imprese nei servizi alla persona (Ambrosini, 2005). Inoltre, in alcune città, come Milano e Roma, la consistenza della popolazione immigrata è ormai tale da permettere lo sviluppo dell’impresa etnica, ovvero imprese che soddisfano esigenze specifiche di alcuni settori della popolazione immigrata, come le macellerie islamiche, oppure dell’impresa intermediaria o prossima (phone center, agenzie viaggio o agenzie immobiliari, ecc.) secondo la tipologia individuata da Ambrosini (2005). Tuttavia, la maggior parte delle imprese degli immigrati sono ‘aperte’ cioè non producono beni o servizi per un clientela etnica. Dal punto di vista dell’offerta, molte ricerche hanno evidenziato come la scelta del lavoro autonomo non sia un’alternativa alla disoccupazione, come suggerisce la teoria dello svantaggio (Collins et al., 1964), quanto più un tentativo di migliorare la propria posizione occupazionale in risposta alla scarse opportunità e alle difficili condizioni lavorative spesso offerte dal lavoro dipendente (Raijman e Tienda, 2000; Confartigianato, 2003; Ambrosini, 2005). In altri casi, tuttavia, la scelta del lavoro autonomo non è frutto di un vero e proprio progetto imprenditoriale, ma una soluzione che permette il passaggio dall’economia sommersa a quella regolare tramite l’acquisizione di licenze (Frisina, Gandolfi e Schmidt di Friedberg, 2004). O anche, l’attività autonoma viene intrapresa sotto la pressione del precedente datore di lavoro (Martinelli, 2003). In quest’ultimo caso, appare più accettabile, benché più pessimistica, la spiegazione fornita dalla teoria dello svantaggio.

In secondo luogo, attraverso le informazioni raccolte durante i colloqui con gli imprenditori immigrati, viene ricostruito il percorso di carriera e il ruolo delle reti sociali nell’avvio e nella gestione delle attività, il tipo di clientela, ecc. Il ruolo del capitale umano e del capitale sociale sono ampiamente dibattuti e diversamente enfatizzati in vari studi (Sanders e Nee, 1996; Fernandez e Kim, 1998; Mata e Pendakur, 1999). Diverse ricerche enfatizzano l’elevato livello di istruzione in possesso degli immigrati presenti in Italia, anche se vi sono molte differenze in base alla nazionalità (Chiesi e Zucchetti, 2003) al periodo di arrivo nel nostro Paese (Abbatecola, 2004; Marsden e Caserta, 2010) e anche al genere (Strateghia, 2005). Inoltre, viene analizzato il ruolo del capitale umano precedentemente acquisito - sia in termini di istruzione formale sia nel senso di precedenti esperienze lavorative - nella gestione dell’impresa (Marini, 2002; Chiesi e Zucchetti, 2003; Lunghi, 2003; Marsden e Caserta, 2010).

Anche l’importanza del capitale sociale viene diffusamente sottolineata nelle varie ricerche. In particolare, viene evidenziato il ruolo dei parenti e dei connazionali, piuttosto che degli amici o

133 Ad esempio, Ambrosini e Schellenbaum, 1994; Baptiste e Zucchetti, 1994; Luciano, 1995; Schimdt di Freidberg, 1999; Marini, 2002; Chiesi e Zucchetti, 2003; Lunghi, 2003; Frisina, Gandolfi, Schmidt di Friedberg, 2004; Abbatecola, 2004; Strateghia, 2005; Camera di commercio di Torino e Fieri, 2008, 2009. 134 Sui problemi definitori legati al termine ‘imprenditore immigrato’ si veda Codagnone (2003). Qui si userà sia il termine ‘lavoratore autonomo’ che il termine ‘imprenditore’.

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conoscenti italiani, nell’avvio dell’attività. La presenza di italiani nelle reti sociali dell’imprenditore immigrato ha una duplice valenza: da un lato, viene rilevata come indicatore della possibilità di superare i confini della comunità etnica (Portes, 1998), disponendo di risorse utili all’attività imprenditoriale (Chiesi e Zucchetti, 2003; Abbatecola, 2004); dall’altro, viene utilizzata come indicatore del livello di integrazione, non solo economica, ma anche sociale, degli immigrati (Marini, 2002; Barberis, 2008; Berzano et al. 2010). Nel complesso, l’analisi delle reti appare tuttavia limitata appunto alla distinzione tra familiari, altri connazionali, italiani ed eventualmente altri stranieri.

Del resto, il tema dell’integrazione è spesso centrale nelle ricerche svolte ed, accanto ai legami con singoli individui (stranieri o italiani), particolare attenzione viene dedicata al rapporto con le associazioni ed altri enti ed istituzioni, prime fra tutti le associazioni di categoria e le banche (Confartigianato, 2003; Chiesi e Zucchetti, 2003; Strateghia, 2005; Barberis, 2008; Cespi, 2009), ma anche le associazioni di immigrati stessi e i luoghi di culto religioso (Abbatecola, 2004; Barberis, 2008).

Infine, un altro tema affrontato è quello dei problemi e delle difficoltà incontrate, con la burocrazia, le banche, la diffidenza e a volte la discriminazione da parte degli italiani. Questo argomento è trattato anche da alcune delle ricerche a livello nazionale (Confartigianato, 2003; Fondazione Ethnoland, 2009), anche se prevalentemente le ricerche nazionali si limitano al primo obiettivo precedentemente elencato, ovvero a quello conoscitivo e descrittivo del fenomeno. 2. Le caratteristiche degli intervistati

Nella nostra ricerca, abbiamo cercato di mantenere una rappresentatività equilibrata dei diversi settori, per cui il 29% opera nel settore edile, il 23% in quello alimentare135, il 15% nei trasporti, il 13% nel metalmeccanico, il 12% nell’abbigliamento (quasi esclusivamente commercio, tranne un’impresa di confezioni), il 6% opera nel commercio di oggettistica e artigianato etnico (di seguito definito ‘altro commercio’) ed il restante 2% opera nei servizi. Osservando il dato nazionale136, i primi due settori si confermano l’edilizia e il commercio. Quasi assenti sono invece, nel nostro caso, le imprese di servizi (pulizie, phone center, ecc.).

Per ciò che concerne le nazionalità, i marocchini rappresentano il 32% del campione, seguiti dagli egiziani (21%). Se a queste due nazionalità, che già costituiscono da sole la maggioranza assoluta del campione, aggiungiamo i tunisini (7%), vediamo che i nord africani nel complesso costituiscono il 60% dei casi. Inoltre, i cinesi rappresentano il 13% del campione e i senegalesi il 10%. Gli imprenditori provenienti dall’est Europa costituiscono, nel complesso, solo il 14% del campione. Possiamo dire, dunque, che rispetto al dato nazionale, questi ultimi sono sottorappresentati nella nostra ricerca.

Osservando la tab.2, vediamo che i gruppi etnici di più antica immigrazione sono gli egiziani e gli altri nordafricani, mentre i marocchini si distribuiscono abbastanza equamente in tutti e tre i periodi migratori considerati. I cinesi e gli est europei, invece, sono arrivati in Italia solo più recentemente. Riguardo ai cinesi, notiamo comunque una differenza nel periodo di arrivo tra i cinesi residenti a Catania e quelli abitanti a Prato. Mentre 16 su 20 (80%) dei cinesi residenti a Catania è arrivata in Italia dal 1998 in poi, 3 su 5 dei cinesi residenti a Prato sono arrivati nel periodo 1990-1998. Inoltre, a integrazione della bassa numerosità degli intervistati a Prato, possiamo citare i risultati emersi dalla ricerca di Marsden e Caserta (2010), che su 75 cinesi intervistati a Prato, rilevano che il 52% è arrivato nel 1999 o prima. In questo risultato, dunque, sembrano intrecciarsi i

135 Il settore alimentare (48 imprese totali) è, al suo interno molto variegato, poiché 20 imprese sono attività commerciali stabili (macellerie,gastronomie, pasticcerie, vendita alimentari ingrosso e dettaglio), 16 imprese sono rappresentate da banchi di ortofrutta ai mercati rionali (ambulanti), 11 imprese sono bar o altre attività di ristorazione e, infine, un’impresa svolge attività di panificazione. Per un'analisi dettagliata delle differenze interne al comparto nel caso di Torino (dove si concentrano la maggior parte delle imprese del settore), si veda il capitolo di Eleonora Castagnone. 136 Il dato nazionale a cui facciamo riferimento qui e di seguito è quello riportato dalla Fondazione Ethnoland (2009)

177

diversi percorsi migratori all’interno del territorio nazionale (ad esempio, a Catania la presenza cinese è diventata consistente solo in anni recenti137) e le diverse ondate migratorie in arrivo in Italia (ad esempio, l’immigrazione est europea ed albanese è cresciuta molto negli ultimi due decenni138)

Tab. 2 – Nazionalità degli intervistati e anni di arrivo in Italia

(Valori assoluti)

Fino al 1989

1990-1997 Dal 1998 in poi

Totale

Marocchini 18 24 22 64 Egiziani 21 14 7 42 Altri nordafricani 9 3 2 14 Cinesi 3 5 17 25 Est Europa e Albania 2 14 12 28 Senegalesi 8 3 8 19 Altro 1 2 5 8

Dal momento che egiziani e altri nordafricani sono i due gruppi di più antica immigrazione,

non stupisce che siano anche quelli in cui sono maggiormente presenti persone con la doppia cittadinanza (rispettivamente, il 23% degli egiziani e il 36% degli altri nordafricani). In generale, l’84% degli intervistati ha la cittadinanza straniera, l’1% ha la cittadinanza italiana e il 15% ha la doppia cittadinanza. Nessun cinese (e solo un senegalese) ha la doppia cittadinanza. Questo dato è simile a quello riportato da Ambrosini (2008), che sottolinea l’importanza che la questione della cittadinanza ha per gli stranieri residenti in Italia. In effetti, alcuni altri intervistati hanno dichiarato di essere in attesa della cittadinanza o averne fatto richiesta o di avere l’intenzione di richiederla.

Soffermandoci brevemente sulle principali caratteristiche socio-demografiche, l’età media è pari a circa 41 anni. I più anziani sono gli egiziani, che hanno in media 47 anni, mentre i più giovani sono i cinesi (in media 35 anni circa).

Inoltre, notiamo che le donne rappresentano circa il 10% degli intervistati. Tuttavia, considerando solo gli immigrati di nazionalità cinese, la percentuale di donne si avvicina al 50%, mentre tra le altre nazionalità sono quasi assenti. Ciò dipende anche in parte dalla prevalente presenza maschile in molti dei settori indagati, come ad esempio l’edilizia, i trasporti ed il metalmeccanico.

Benché gli uomini prevalgano nettamente nel nostro campione, non si tratta di uomini soli, ma di uomini che ormai hanno formato una famiglia o sono stati da questa raggiunti, segno si una progressiva stabilizzazione del proprio progetto migratorio. Infatti, gli imprenditori intervistati sono prevalentemente parte di nuclei familiari composti dal coniuge (85%) e dai figli (80% tra i nostri imprenditori). Solo il 5% è sposato con italiani. Però, tra gli egiziani, il 13% è sposato con italiane. Anche tra gli altri nord africani (tunisini e algerini), l’8% è sposato con italiane. Anche questa differenza potrebbe essere collegata all’anzianità di residenza in Italia. Infatti, tra chi è arrivato prima del 1990, l’8% è sposato con italiani/e, tra coloro che sono arrivati in Italia nel periodo 1990-1997 il 7% è sposato con italiani/e, ma solo l’1% di chi è arrivato dopo il 1997 è sposato con italiani/e.

Un altro aspetto importante da considerare, come mostrano diverse ricerche sull’argomento (tra gli altri, Sanders e Nee, 1996; Fernandez e Kim, 1998; Mata e Pendakur, 1999; Chiesi e Zucchetti, 2003) è il ruolo del capitale umano. In quest’ambito, non facciamo riferimento soltanto al grado di scolarizzazione, ma anche ad altre competenze utili (come la conoscenza di una o più lingue straniere), al ruolo della socializzazione familiare al lavoro autonomo e/o al settore di attività

137 Si veda Avola e Cortese (2011). 138 Dati Istat sui permessi di soggiorno 1992-2007. Nel giro di 15 anni, i permessi di soggiorno dalla sola Albania sono decuplicati. Nel 1997, l’Albania era il settimo Paese di provenienza degli immigrati con permesso di soggiorno, nel 2007 è il primo (http://demo.istat.it/altridati/permessi/serie/tab_5.pdf).

178

attuale o alla carriera lavorativa pregressa dell’intervistato (questi due aspetti verranno trattati nel par.4).

Fig. 1 – Titolo di studio conseguito in base alla nazionalità degli intervistati (%) – N=192

34

53

7

80

36

7

37

9

29

12

14

5

3

41

31

46

8

43

50

47

17

16

18

0

7

38

13

0% 20% 40% 60% 80% 100%

Totale

Senegalesi

Est Europa e albanesi

Cinesi

Altri nordafricani

Egiziani

Marocchini

Fino a licenza media Qualifica professionale Diploma Laurea o post-laurea

Contrariamente a quanto emerso in altre ricerche (Abbatecola, 2004; Marsden e Caserta,

2010), il livello di istruzione non varia in base al periodo di arrivo in Italia, bensì in riferimento alla nazionalità di origine degli intervistati (fig.5.2). I più istruiti sono gli egiziani, quelli meno istruiti i cinesi. Le altre nazionalità si collocano a livello intermedio tra queste due, con gli est europei che si distinguono per l’elevata quota di persone in possesso di una qualifica professionale. La quasi totalità degli intervistati ha conseguito il proprio titolo di studio nel Paese di origine. Solo il 6% ha conseguito il proprio titolo in Italia e il 2% in Francia. Mentre in quest’ultimo caso si tratta di intervistati provenienti dal nord Africa, tra coloro che hanno studiato in Italia vi sono, oltre a maghrebini ed egiziani, anche alcuni cinesi.

La bassa dotazione di capitale umano dei cinesi emerge anche considerando il numero di lingue conosciute dagli intervistati. Molti cinesi, infatti, conoscono solo cinese (16%) o cinese e italiano (64%), mentre tra gli altri gruppi nazionali, la maggior parte degli intervistati conosce almeno due lingue o anche di più, oltre alla lingua madre (almeno il 75%).

Riguardo alle condizioni economiche della famiglia di origine dell’intervistato, vi sono due elementi importanti da considerare: l’occupazione del padre e l’autopercezione che l’intervistato ha delle condizioni familiari confrontandole con quelle delle altre famiglie locali. Relativamente all’occupazione del padre, nel 7% dei casi si tratta di un dirigente o di un professionista, nel 18% dei casi di un commerciante o di un piccolo imprenditore, nel 12% di un gestore o proprietario nel settore alberghiero e della ristorazione, nel 18% dei casi, di un tecnico o di un impiegato, nel 16% di un contadino, nel 17% di un lavoratore qualificato nell’industria, nelle costruzioni o nei servizi e nel 13% dei casi di un operaio generico.

Riguardo, invece, alla valutazione delle proprie condizioni economiche, il 34% degli intervistati dichiara di provenire da una famiglia in condizioni migliori rispetto alle altre, il 57% si colloca nella media e il 9% pensa che la sua famiglia stesse peggio delle altre. L’auto-collocazione da parte degli intervistati nel contesto economico del paese di origine vede una presenza nettamente minoritaria di persone con una situazione economica più critica rispetto a quella degli altri. Anzi, un imprenditore su tre ammette che la propria famiglia viveva una condizione migliore rispetto agli altri. Questo dato è coerente con gli studi che mostrano come gli imprenditori immigrati siano

179

spesso dotati di risorse umane e familiari di buon livello (Sanders e Nee, 1996). Tuttavia, ci sono delle differenze in base alla professione svolta dal padre. Infatti, mentre oltre la metà dei figli di piccoli imprenditori, tecnici e imprenditori si dichiarano in condizioni migliori rispetto alle altre famiglie, i figli di lavoratori agricoli e operai generici si dichiarano in proporzione maggiore rispetto alle altre categorie in condizioni peggiori rispetto alle altre famiglie (rispettivamente, il 16 e il 19%).

Non sembra avere nessun effetto sulla percezione delle condizioni economiche della propria famiglia di origine rispetto a quelle delle altre famiglia locali né la condizione lavorativa (o la presenza/assenza) del padre, né la dimensione del nucleo familiare di convivenza, né il luogo di abitazione della famiglia (campagna o città, più o meno grande).

Riguardo a quest’ultimo aspetto, nel complesso, la quota maggioritaria di intervistati proviene da un contesto urbano (città o metropoli nell’82% dei casi). Anche relativamente a questo aspetto, si evidenzia la peculiarità dei cinesi, che nel 56% dei casi vivevano in campagna o in un piccolo paese.

3. Il percorso migratorio dell’intervistato L’analisi delle caratteristiche socio-demografiche degli intervistati ha messo in luce aspetti

in comune, ma anche alcune differenze. In particolare, è emersa la peculiarità dei cinesi per ciò che concerne la scarsa dotazione di capitale umano e la provenienza da un contesto non urbano.

Vediamo se eventuali differenze emergono anche nel percorso migratorio (trattato in questo paragrafo), lavorativo (par.4) e imprenditoriale (par.5) degli intervistati.

Riguardo al primo aspetto, abbiamo in primo luogo analizzato i fattori di spinta a partire dal proprio Paese di origine e quelli di attrazione verso l’Italia. Nel primo caso (fig.2) prevalgono le ragioni economiche, seguite dal desiderio di promozione. Frequente anche il desiderio di avventura, mentre meno rilevanti i problemi politici (citati però dal 36% degli intervistati provenienti da Est Europa e Albania) e il ricongiungimento familiare (citato dal 40% dei cinesi). Tra gli altri motivi addotti, emerge il desiderio di imitare amici e parenti già partiti, le informazioni in parte fuorvianti e ‘ingannevoli’ da questi ricevute, in alcuni casi motivi religiosi (cristiani in Egitto), motivi di studio o problemi familiari (aiuto a parenti in difficoltà, separazione dal coniuge, ecc.).

Fig.2 – Fattori di spinta a partire dal proprio Paese (% - risposte multiple)

43

8

26

16

41

10

19

05

101520253035404550

Pro

blem

iec

onom

ici

Pro

blem

i pol

itici

Avv

entu

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Libe

rtà

Pro

moz

ione

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ongi

ungi

men

tofa

mili

are A

ltro

180

Come abbiamo visto in precedenza, gli intervistati nella maggior parte dei casi non provengono da famiglie in condizioni economiche peggiori rispetto a quelle delle altre famiglie locali. Questo dato, tuttavia, nasconde realtà diverse. Secondo le stesse affermazioni degli intervistati, essere come gli altri significa in alcuni casi semplicemente che la maggior parte della popolazione locale versa in condizioni di estrema povertà. In altri casi, invece, gli intervistati chiariscono che le condizione economiche della famiglia di origine, inizialmente buone o ‘nella media’, sono peggiorate a causa di eventi improvvisi (morte del padre, difficoltà economiche impreviste, ecc). In altri casi ancora, sembra che la motivazione sia stata più che altro il desiderio di migliorare la propria posizione, più che la necessità di uscire dalla povertà (nel 19% dei casi, gli intervistati hanno indicato sia problemi economici che desiderio di promozione). In effetti, chi proviene da famiglie in condizioni migliori rispetto alle altre famiglie locali, cita come motivazioni per la partenza un po’più spesso la presenza di problemi politici, il desiderio di libertà o lo spirito di avventura. In nessuno di questi casi, però, le differenze emerse sono statisticamente significative. L’unica differenza significativa è che chi è in condizione economicamente migliori indica più spesso altri motivi, specifici, per motivare la propria partenza139. Tali motivi, oltre ad essere in parte riconducibili ai precedenti (motivi politici o religiosi, desiderio di avventura o libertà), appaiono come occasioni o eventi non previsti e pianificati. Quindi, per le persone che provengono da famiglie in condizioni difficili, possiamo ravvisare una maggiore consapevolezza e motivazioni più legate alle condizioni economiche, per gli altri prevalgono elementi non ‘strumentali’, ma ‘espressivi’ o anche casuali.

Nel complesso, l’età media alla partenza era di circa 23 anni. Il 13% degli intervistati, quando è partito era minorenne, mentre il 67% aveva tra i 18 e i 27 anni e il 20% aveva 28 anni e oltre. L’età massima alla partenza è di 40 anni. Tra i minorenni, soprattutto cinesi (il 44% dei cinesi, quando è partito, era minorenne), il 65% è partito per ricongiungersi con la famiglia.

L’Italia è stata la prima destinazione nel 75% dei casi. Negli altri casi, la prima destinazione è stato un altro Paese europeo (in primis la Francia, con l’8% dei casi, e la Germania, con il 4%). Altri intervistati (il 3%) sono partiti inizialmente verso il Medio oriente oppure verso la Libia (2%). I principali fattori di attrazione verso il nostro Paese sono stati la presenza di parenti in Italia (47% dei casi), la presenza di connazionali (26%), l’opportunità di trovare lavoro (24%), la facilità di ingresso (18%) e la prossimità culturale (15%). L’importanza di questi differenti aspetti varia considerevolmente in base al periodo di arrivo in Italia (fig.3).

Infatti, tra coloro che sono arrivati prima del 1989, la presenza di connazionali e la facilità di ingresso contano molto di più rispetto alla presenza di parenti, probabilmente raramente già presenti in Italia. Queste persone rappresentano forse i primi migranti in Italia della propria famiglia. In mancanza di parenti, ha invece acquisito maggiore importanza la presenza di legami più deboli, quelli con i connazionali. Coloro che sono arrivati in Italia nel secondo e nel terzo periodo, invece, danno maggiore rilievo ai legami forti, di parentela, avendo la possibilità di scegliere, poiché questi ultimi sono ormai con più probabilità presenti sul territorio nazionale.

La facilità di ingresso, rispetto ad altri paesi europei, è quello che, a detta di molti intervistati, è un altro aspetto che ha contribuito alla scelta dell’Italia soprattutto per i migranti del primo periodo, per i quali comunque l’Italia ha rappresentato in alcuni casi comunque una scelta di ‘ripiego’, vista la difficoltà a stabilirsi in altri Paesi europei di più antica immigrazione, come la Germania e la Francia.

139 Il χ2 ha un valore di 9.45 con un grado di libertà e una significatività pari a 0.002

181

Fig. 3 Fattori di attrazione verso l’Italia in base al periodo di arrivo (%) 140

25

5459

34

2519

30

12 12

0

10

20

30

40

50

60

70

fino al 1989 1990-1997 dal 1998 in poi

presenza parenti presenza connazionali facilità ingresso

Una volta arrivati in Italia, il 60% degli intervistati ha sempre abitato nella stessa provincia.

Vi sono però delle notevoli differenze in base alla nazione di provenienza. Infatti, mentre l’83%, degli egiziani, il 68% degli est europei e il 67% dei marocchini ha abitato sempre nella stessa provincia, solo il 20% dei cinesi e il 14% degli altri nordafricani hanno abitato sempre nella stessa provincia. Tra i senegalesi, il 58% ha abitato sempre nella stessa provincia. La maggiore attrattività di alcune città, come Milano o Torino rispetto ad altre come Modena o Catania è una spiegazione che può valere solo in parte. Emblematico è il caso di Catania, dove possiamo fare un confronto tra diverse nazionalità dal momento che sono stati intervistati sia cinesi che senegalesi. Mentre tra questi ultimi, la maggior parte (circa 6 su 10) è arrivata direttamente in questa provincia, tra i cinesi, solo 2 su 20 hanno fatto altrettanto141.

Le provincie principali dove i migranti hanno vissuto in precedenza sono Firenze, Napoli, Roma e Milano, ma oltre a queste, gli intervistati hanno citato altre 26 provincie italiane, collocate prevalente al nord, ma anche vicino a Roma o Napoli o in Sicilia. Due terzi degli intervistati sono comunque arrivati nella provincia di attuale residenza entro 3 anni dall’arrivo in Italia. 4. Il percorso occupazionale dell’intervistato Una parte del capitale umano utile per l’attività imprenditoriale è collegata alle competenze acquisite dagli intervistati nel corso della propria carriera lavorativa, sia tramite occupazioni alle dipendenze che svolgendo attività in proprio.

Due terzi degli intervistati hanno svolto un’attività lavorativa nel Paese di origine. Spesso tale attività era svolta saltuariamente o, comunque, senza abbandonare il percorso di studi. Infatti, solo il 53% degli intervistati lavorava prima di emigrare, mentre il 39% studiava, il 7% cercava lavoro e l’1% era casalinga. Tra chi ha lavorato al Paese di origine (fig.4), la maggior parte degli intervistati svolgeva un lavoro qualificato in agricoltura, edilizia o industria, seguiti dai commercianti, dai tecnici, impiegati o insegnanti, da chi era occupato in lavori manuali generici, da chi lavorava nella ristorazione o nel settore alberghiero e, infine, da chi svolgeva un lavoro qualificato nel terziario. Rispetto all’occupazione svolta dal padre, notiamo una corrispondenza soprattutto tra coloro che operano nel settore della ristorazione: il 47% dei figli che ha un padre in quel settore ha svolto

140 Il valore del χ2è significativo per la presenza di parenti e la facilità di ingresso. Nel primo caso, χ2 =17,68 con df=2, nel secondo caso χ2 =8,62 con df=2 141 L’elevata mobilità dei cinesi, in cerca di nuovi spazi di mercato per le proprie attività commerciali, è sottolineata anche da Avola e Cortese (2011).

182

un’occupazione simile, in alcuni casi direttamente come coadiuvante nell’azienda di famiglia. Non è così, invece, per i figli di commercianti, che hanno svolto diversi tipi di occupazione. Una discreta concentrazione si osserva anche tra i figli di tecnici e impiegati, che hanno avuto lo stesso tipo di occupazione nel 32% dei casi. Anche il 38% dei figli di operai generici è impiegato in occupazioni simili142.

Fig.4 – Percorso occupazionale degli intervistati per macrocategoria occupazionale (%)

17

26

9

1417 17

11

25

5

15

1

43

16

21

16

10

2

35

0

5

10

15

20

25

30

35

40

45

50

Commerciante Lav.qualif icatiagr edilindustria

Lav.qualif icatiservizi

Lav.ristorazalimentari

Tecniciimpiegati

insegnanti

Lav manualigenerici

Lavoro Paese d'origine Primo lavoro Italia Lav. Prevalente Italia

Una volta arrivati in Italia (fig.4), vediamo che la maggioranza relativa degli intervistati ha fatto il suo ingresso nel mondo del lavoro locale svolgendo occupazioni generiche, a scapito soprattutto di occupazioni più qualificate e remunerate come quelle tecniche, impiegatizie e di insegnamento. In tutti i casi considerati, si osserva che la maggioranza relativa degli intervistati ha continuato a svolgere in Italia un’occupazione simile a quella che svolgeva nel Paese di origine, tranne nel caso dei tecnici, impiegati e insegnanti. Infatti, nel 55% dei casi (12 persone su 22), questi ultimi hanno iniziato a lavorare svolgendo mansioni manuali generiche. Questa categoria di persone è dunque quella che più frequentemente ha sperimentato una situazione di sottoccupazione. Considerando le principali categorie occupazionali relative alla prima occupazione svolta in Italia, notiamo comunque un’elevata congruenza con quella che sarà poi l’attività imprenditoriale attuale, anche se questo percorso merita alcune precisazioni più dettagliate (tab.3).

Benché la maggioranza relativa degli imprenditori nel settore alimentare, abbia incominciato lavorando nel commercio (alimentare), come dipendente o come commerciante, altri hanno invece iniziato lavorando nell’ambito della ristorazione oppure con lavori generici (ad esempio, a Torino molti venditori di ortofrutta hanno iniziato come facchini al mercato143). I lavoratori autonomi nel settore metalmeccanico hanno invece iniziato quasi sempre nel proprio settore di attività, talvolta già con mansioni qualificate, altre volte con occupazioni generiche. Lo stesso è accaduto generalmente per gli imprenditori edili. Tra i commercianti dell’abbigliamento, molti hanno iniziato come operai tessili generici, meno come commessi o commercianti. Al contrario, tra i commercianti di altre tipologie, fin da subito è iniziata l’attività commerciale, generalmente ambulante. Infine, i lavoratori autonomi nei trasporti provengono da occupazioni molto diverse e, nella maggioranza dei casi, non qualificate.

142 Teniamo a sottolineare la valenza puramente descrittiva e indicativa di questi risultati, data la bassa numerosità del campione e la presenza di un certo numero (seppur contenuto) di categorie occupazionali. 143 Si veda a questo proposito il rapporto di Camera di commercio di Torino e Fieri (2009)

183

Tab. 3 – Corrispondenza tra settore del primo lavoro in Italia e attività imprenditoriale

attuale (Valori assoluti - N=194144) Settore impresa

Settore 1° lavoro

Commercio alimentare risto

bar

Metal meccanico

Edilizia Trasporti Abbigliamento (confezioni e commercio)

Altro commercio

Totale

Commercio 19 0 4 2 9 12 46

Industria tessile o pelletteria

0 0 0 0 10 0 10

Metalmeccanico 3 14 2 7 0 0 26

Edilizia 3 5 32 6 0 0 46

Trasporti 0 0 4 2 0 0 6 Ristorazione e alberghiero

8 1 8 5 4 0 26

Altro 11 7 7 6 2 1 34

Totale 44 27 57 28 25 13 194

Sempre in riferimento al primo lavoro svolto in Italia, un altro dato interesssante è quello

relativo alla posizione occupazionale degli intervistati. L’11% ha svolto fin da subito il proprio lavoro in posizione autonoma, l’11% alle dipendenze di un parente, il 6% alle dipendenze di un connazionale, l’1% alle dipendenze di un altro straniero non connazionale e il 71% alle dipendenze di un italiano. L’86% di coloro che hanno iniziato fin da subito in posizione autonoma sono commercianti (la metà ambulanti). Inoltre, tre degli intervistati hanno avviato come primo lavoro in Italia l’attuale attività imprenditoriale.

Riguardo al datore di lavoro, osserviamo delle significative differenze in base alla nazionalità degli intervistati. A lavorare per parenti e connazionali, infatti, sono soprattutto i cinesi (76%), mentre tra le altre nazionalità, almeno l’80% degli intervistati ha lavorato inizialmente per italiani. Unica altra eccezione sono i senegalesi, i quali nel 68 dei casi hanno iniziato direttamente con un lavoro autonomo (per lo più venditore ambulante).

Se la quasi totalità degli intervistati (98%) ha svolto un lavoro diverso dall’attuale all’arrivo in Italia, il 61% degli intervistati ha successivamente svolto ulteriori lavori diversi dal primo prima di avviare l’attività. In media, dopo il primo, gli intervistati hanno cambiato lavoro 3,7 volte.

Senza ripercorrere l’intera carriera lavorativa di ciascun intervistato, l’attenzione si è soffermata sul lavoro prevalente e non sull’ultimo lavoro svolto prima di avviare l’attuale attività, poiché solo il 20% degli intervistati ha svolto un’ulteriore occupazione dopo quella prevalente.

Rispetto al primo lavoro svolto in Italia, notiamo che l’occupazione prevalente è più frequentemente qualificata (la crescita si nota soprattutto nei servizi) e meno spesso generica. Nel lavoro prevalente, gli intervistati sono nella maggior parte dei casi (84%) alle dipendenze di un italiano, mentre non aumenta la quota di autonomi (10%). Nella maggior parte dei casi, quindi, possiamo affermare che quella attuale è la prima attività in proprio. 5. L’avvio dell’attività imprenditoriale

Nel paragrafo precedente abbiamo visto che, nella maggior parte dei casi, gli imprenditori hanno lavorato per alcuni anni alle dipendenze, svolgendo per lo più occupazioni nel settore in cui avrebbero poi avviato l’attività in proprio. Gli anni necessari per acquisire esperienza e capitali finalizzati all’apertura della propria impresa non sono pochi. Gli imprenditori da noi intervistati 144 Il totale è minore di 200 perché 3 intervistati non hanno svolto alcun lavoro prima di avviare l’attività, mentre altri 3 sono attivi in settori diversi da quelli prevalenti e non sono presenti in tabella.

184

hanno atteso in media 9 anni prima di iniziare l’attività e le imprese sono avviate in media da 7 anni. Tuttavia, questa tempistica varia molto in base al periodo di arrivo in Italia. Infatti, mentre coloro che sono arrivati prima del 1990 hanno atteso in media 14 anni prima di fondare l’impresa, chi è arrivato tra il 1990 il 1997 ha aspettato 10 anni e chi è arrivato dopo il 1998 solo 5 anni145. Senza dubbio, la legge Turco Napolitano del 1998 che ha eliminato il vincolo di reciprocità per il lavoro autonomo ha agevolato lo sviluppo imprenditoriale degli immigrati ed ha accelerato il momento di avvio della propria attività, spesso principale possibilità di carriera per i lavoratori immigrati.

L’87% degli intervistati lavorava prima di avviare l’attività. Il 12%, però era in cerca di occupazione e l’1% studiava o era casalinga. L’attività sembra dunque rappresentare un’alternativa alla disoccupazione solo in una minoranza di casi. In realtà, guardando alle motivazioni fornite per l’avvio dell’impresa, si nota che alcuni citano il fatto di non aver trovato un altro lavoro, e non sempre si tratta di coloro che erano in cerca di un’occupazione, ma anche di coloro che lavoravano. Inoltre, altri sono stati consigliati dal precedente datore di lavoro. Il ‘consiglio’ in alcuni casi è emerso essere più che altro quasi una costrizione, perché il datore di lavoro non poteva più permettersi di avere un dipendente, ma lo avrebbe fatto comunque lavorare come artigiano. Oppure il datore di lavoro non accettava che il dipendente svolgesse lavori extra nel suo tempo libero. Per quanto interessanti e indicativi delle tendenza in atto in alcuni settori di attività, questi esempi rappresentano comunque una minoranza di casi. La maggior parte ha aperto un’attività per guadagnare di più, essere autonomo e non avere capi e valorizzare le proprie capacità e conoscenze nel settore (tab.4).

Tab. 4 –Motivi per avviare l’attività imprenditoria le (%) Primo

motivo Secondo motivo

Terzo motivo

Motivo più frequente (indice sintetico)146

Guadagnare di più 37 17 16 49 Essere autonomo, non avere capi 20 21 12 33 Valorizzare le proprie capacità 10 17 23 24 Avere un lavoro più regolare 8 13 10 17 Valorizzare conoscenze nel settore 2 13 13 11 Consigliato/costretto dal datore di lavoro

8 5 5 11

Non ho trovato un altro lavoro 5 4 6 8 Far lavorare i miei familiari 1 2 3 3 Seguire tradizioni familiari 2 3 6 4 Lavoro autonomo mette al riparo da razzismo e diffidenza

0 0 2 0

E’ capitata occasione giusta 3 1 0 3 Motivi familiari/ di salute 2 1 3 2 Altro 2 3 1 2 Totale 100 100 100 - N 199 165 107 200

Riguardo alle modalità di inizio dell’attività, il 77% degli intervistati ha fondato l’azienda, il

21% l’ha rilevata e il 2% l’ha ereditata. Vi sono delle differenze in base ai settori di attività considerati. Infatti, gli imprenditori dei trasporti nel 100% dei casi hanno fondato la propria azienda, mentre gli imprenditori nel settore alimentare nel 72% dei casi l’hanno acquisita. Nel primo caso, ci sembra che l’auto impiego possa essere spiegato con quella che Zanfrini (2008) definisce la “pluralizzazione dei regimi di partecipazione al lavoro” (pag.148). Si tratterebbe

145 Nel confronto tra medie, il valore di F è pari a 71,86 con df=2 e sig=0.000. 146 Per costruire l’indice sintetico è stato assegnato un valore ‘3’ al primo motivo, un valore ‘2’ al secondo motivo e un valore ‘1’ al terzo motivo.

185

dunque per lo più di imprese contoterziste, che per circa la metà dei casi del nostro campione lavora per un solo cliente. Invece, nel commercio si assiste maggiormente ad un processo di sostituzione, come emerge nei nostri dati in maniera evidente nel comparto dell’ortofrutta a Torino. In questo contesto commerciale, infatti, la maggior parte degli intervistati dichiara di aver acquisito il banco ortofrutta al mercato da un italiano, generalmente di origine meridionale, rappresentando così il successivo anello di una catena sostitutiva che contribuisce a connotare questo tipo di attività come “adatte all’ultimo arrivato”.

Benché tra le motivazioni dichiarate dagli intervistati la famiglia abbia un ruolo abbastanza marginale (sia il seguire le tradizioni familiari, sia il poter far lavorare i familiari o altri aspetti connessi alle gestione degli impegni familiari), ben il 58% degli intervistati dichiara di avere un parente titolare di impresa. Nel complesso, il ruolo della famiglia come ispiratrice o come collaboratrice attiva nell’attività imprenditoriale non è affatto marginale. Infatti, un terzo degli imprenditori da noi intervistati coinvolgono familiari o parenti nella propria attività. In particolare, nel 16% dei casi collabora il partner. Certo, non si tratta comunque della maggioranza delle imprese, ma bisogna anche tener presente che nel complesso il numero dei dipendenti è molto basso e molto spesso gli intervistati svolgono l’attività da soli. In media, le imprese intervistate hanno 2,27 dipendenti, però il valore mediano è 1 e l’88% delle imprese ha meno di 5 dipendenti.

Tab. 5 – Necessità di prestiti dichiarata dagli intervistati in base alla

nazionalità degli intervistati (%) Totale Marocchini Egiziani Altri

nordafricani Cinesi Est

europei Senegalesi

Non ho mai avuto bisogno di prestiti

43 53 50 29 32 21 53

Sì, chiesti a parenti o amici 27 22 24 21 48 32 21 Sì, chiesti a banche o associazioni 30 25 26 50 20 46 26 Totale 100 100 100 100 100 100 100 N 200 64 42 14 25 28 19

Per ciò che concerne le fonti di finanziamento, invece, il ruolo della famiglia è abbastanza

marginale. Infatti, i due terzi degli intervistati affermano di aver utilizzato prevalentemente capitali propri, mentre gli intervistati hanno dichiarato di aver utilizzato prevalentemente capitali di familiari o parenti nell’11% dei casi e prestiti sempre di familiari e parenti nell’8% dei casi. Anche l’impatto dei prestiti bancari è secondario anche se non irrisorio, poiché è stato utilizzato nel 9% dei casi. Pure riguardo alle fonti di finanziamento si notano alcune differenze in base alla nazionalità di provenienza degli intervistati. In particolare, circa i due terzi dei cinesi ha fondato l’azienda grazie capitale di familiari, prestiti di familiari o di connazionali. Invece, il 29% degli est europei e albanesi ha chiesto prestiti alle banche. E’ importante ricordare, come già emerso nel capitolo di Federica Santangelo su Milano, che i musulmani non possono, per motivi religiosi, chiedere prestiti alle banche. Tuttavia, sia tra i marocchini che tra gli altri nord africani (esclusi gli egiziani), si rileva qualche intervistato che ha chiesto prestiti alle banche all’avvio dell’attività.

Inoltre, è anche importante segnalare che, nel corso della propria attività (cioè successivamente alla fase di avvio), il 30% degli intervistati dichiara di aver chiesto prestiti a banche o associazioni di categoria, mentre il 27% ha chiesto prestiti a parenti o amici (tab.5). E’ dunque inferiore il numero di intervistati che non ha mai avuto bisogno di prestiti nel corso della propria attività, rispetto a quanti hanno potuto contare solo sulla propria disponibilità economica nella fase iniziale dell’attività. La probabilità di dover ricorrere a prestiti cresce infatti nel corso del corso del tempo. Anche in questo caso, marocchini, egiziani e senegalesi si discostano dagli intervistati di altre nazionalità per una frequenza minore di richiesta di prestiti. Tuttavia, circa un quarto degli intervistati appartenenti a queste nazionalità ha chiesto prestiti a banche o associazioni di categoria (tab.5). Tra coloro che più frequentemente hanno dichiarato di aver chiesto prestiti, i cinesi si sono rivolti per lo più a parenti o connazionali, mentre gli est europei e gli altri nord

186

africani prevalentemente alle banche o alle associazioni. Vale la pena segnalare che alcuni intervistati hanno dichiarato di aver chiesto un prestito senza che venisse loro concesso, mentre altri hanno ammesso di non averli nemmeno chiesti perché consapevoli di avere scarse probabilità di ottenerli.

Nel complesso, i capitali iniziali non sono considerati dagli intervistati un aspetto di primaria importanza nell’avvio e nella gestione dell’attività imprenditoriale (tab.6). Ciò può dipendere dal fatto che molte delle attività intraprese dagli immigrati non richiedono un’elevata dotazione di capitale iniziale per essere avviate (Ambrosini, 2005) ed i capitali propri accumulati nel tempo, come abbiamo appena visto, sono nella maggior parte dei casi sufficienti all’avvio dell’impresa.

Tab. 6 – Elementi importanti per l’attività imprend itoriale (Voto medio - scala da 1 a 10)

Voto (DS) Voglia di lavorare 9,5 (1,5) Professionalità ed esperienza 8,4 (2,6) Conoscenza lingua italiana 8,6 (2,4) Sostegno dei familiari 7,3 (3,4) Conoscenza di italiani 7,3 (3,4) Istruzione 7,2 (3,3) Capitali iniziali 6,5 (3,5) Esperienze professionali della famiglia 5,7 (3,4) Aiuto di associazioni italiane 2,4 (3,3) Aiuto di associazioni di connazionali 1,1 (2,2)

L’aspetto più importante è senza dubbio la voglia di lavorare, elemento coerente con la più

volte citata capacità di auto sfruttamento (es. Morgan, 2001), ovvero di sottoporsi ad un lungo orario lavorativo, come vedremo anche in seguito. Dopo questo aspetto, particolarmente rilevanti risultano essere la professionalità e l’esperienza acquisite e la conoscenza della lingua italiana, il sostegno dei familiari e la conoscenza di italiani. Poco rilevanti, invece, sono le esperienze professionali della famiglia, in accordo con quanto già emerso in precedenza.

Anche riguardo a questi aspetti, emergono delle significative differenze in base alla nazionalità degli intervistati. Ad esempio, i cinesi considerano l’istruzione molto meno importante (media 4,8) rispetto a tutte le altre nazionalità. Questo risultato non stupisce se si considera il basso livello di istruzione raggiunto dagli imprenditori cinesi. I capitali iniziali sono meno rilevanti per gli egiziani e gli altri nordafricani rispetto agli altri gruppi considerati (rispettivamente, voto medio 5,3 e 5,5), i due gruppi nazionali che, insieme ai senegalesi, hanno contato maggiormente su capitali propri all’inizio dell’attività. Al contrario, i capitali contano di più rispetto al valore medio per cinesi (7,6) ed est europei (7,1) che hanno più frequentemente utilizzato prestiti di parenti e conoscenti o banche per l’avvio dell’attività e, quindi, l’onere della restituzione del prestito potrebbe aver contribuito ad una valutazione più elevata dell’importanza dei capitali iniziali. In effetti, tra chi ha ricevuto prestiti da amici o conoscenti, i capitali ottengono un voto medio significativamente più elevato sia rispetto a coloro che hanno utilizzato capitali propri che rispetto a chi ha chiesto un prestito alla banca147. La professionalità e l’esperienza contano meno per cinesi e senegalesi (rispettivamente in media 7,0 e 7,4), così come la conoscenza di italiani ( rispettivamente in media 3,9 e 5,9). Nel primo caso, i cinesi si contraddistinguono quale gruppo che ha impiegato in media meno anni dall’arrivo in Italia per aprire l’impresa, mentre i senegalesi spesso hanno già avviato altre imprese prima dell’attuale, quindi hanno iniziato l’attività autonoma (spesso ambulante) con poco o nulla esperienza nel settore come lavoratore dipendente. Nel secondo caso, quello della conoscenza di italiani, vedremo nel prossimo paragrafo se queste differenze sono

147 Il valore di F è pari a 3,66 con due gradi di libertà e significatività pari a 0.028

187

collegate al tipo di clientela e di fornitori a cui gli imprenditori immigrati si rivolgono, tenendo presente che cinesi e senegalesi operano rispettivamente nel commercio dell’abbigliamento e dell’oggettistica e dell’artigianato etnico.

La valutazione relativa agli elementi importanti per l’attività dell’impresa varia anche in base alle dimensioni della stessa. Ad esempio, chi ha un’impresa con almeno 5 dipendenti attribuisce un’importanza maggiore ai capitali iniziali (voto medio 7,5 contro il 5,5 di chi non ha nessun dipendente e il 6,9 di chi ne ha da 1 a 4148). Anche in questo caso, ciò può essere dovuto al fatto che, più spesso degli altri, questi imprenditori hanno dovuto chiedere prestiti a familiari, amici o banche. Inoltre, danno molta più importanza al sostegno della famiglia (voto medio 9 contro il 6,8 di chi non ha nessun dipendente e il 7,2 di chi ne ha da 1 a 4149) e alle tradizione e al sostegno professionale della famiglia (voto medio 7,7 contro il 5 di chi non ha nessun dipendente e il 5,8 di chi ne ha da 1 a 4150)

6. Andamento e criticità dell’attività imprenditoriale Sia riguardo ai dipendenti, sia riguardo al fatturato l’andamento delle imprese riflette nei

nostri dati il peso della crisi economica, utilizzando come termine di paragone la situazione di 3 anni prima (2007). La situazione attuale appare difficile, e le imprese che sono riuscite a mantenere un fatturato almeno costante sono una minoranza. Apparentemente meno difficile è la situazione relativa ai dipendenti (fig.5). Tuttavia, è bene tener presente che il 48% degli intervistati che hanno mantenuto costante il numero di dipendenti non ne ha nessuno. Il settore in cui la situazione, nel complesso, appare più favorevole è quello dei trasporti, meno quello che presenta le maggiori difficoltà è quello edile.

Anche nelle ore lavorate settimanalmente osserviamo delle differenze in base ai settori di attività. In media, gli intervistati lavorano circa 52 ore a settimana, Infatti, solo il 30% si limita alle normali 40 ore e anche coloro che lavorano da 41 a 50 ore sono solo il 15% degli intervistati. Ciò significa che la maggioranza degli imprenditori del nostro campione lavora più di 50 ore alla settimana. Tuttavia, mentre coloro che operano nel commercio (alimentari151, abbigliamento, oggettistica e artigianato etnico) e nei trasporti lavorano 60 ore e più, gli imprenditori edili e metalmeccanici lavorano in media, rispettivamente, 36 e 34 ore settimanali. Bisogna tener presente, però, che nell’edilizia si registra una variabilità molto alta152, dovuta al fatto che alcuni intervistati stavano lavorando poco o nulla nel periodo dell’intervista, mentre altri lavoravano molte ore.

Fig. 5 – Andamento del fatturato e dei dipendenti rispetto a tre anni prima (%)153

148 Il valore di F è pari a 4,82 con due gradi di libertà e significatività pari a 0.009 149 Il valore di F è pari a 4,26 con due gradi di libertà e significatività pari a 0.015 150 Il valore di F è pari a 4,47 con due gradi di libertà e significatività pari a 0.013 151 E’ bene ricordare che il comparto alimentare, oltre ai commercianti, include anche attività di ristorazione e bar. 152 La deviazione standard è pari a 26,5. 153 Le imprese nate nell’ultimo anno sono state assegnate alla categoria ‘costante’.

Dipendent i

15

3154

Aumentato Diminuito Costante

Fatturato

16

60

24

Aumentato Diminuito Costante

188

Pure riguardo ai clienti e ai fornitori, vi sono importanti distinzioni in base ai settori di

attività. Nel complesso, la maggior parte lavora per clienti italiani (fig.6). Tuttavia, mentre coloro che operano nel settore edile, metalmeccanico e dei trasporti hanno quasi esclusivamente clienti italiani, molto più variegata è la clientela dei commercianti, che spesso si rivolgono sia a italiani sia a stranieri. Ciò accade nel commercio dell’abbigliamento e pelletteria (il 54% dei loro clienti sono esclusivamente stranieri o misti tra stranieri e italiani) e, in particolare, nel commercio alimentare e ristorazione (qui la percentuale di clienti stranieri o misti sale al 78%) e nel commercio di oggetti vari gestito dai senegalesi (i clienti non esclusivamente italiani sono l’85%). E’ in questo settore, dunque, che sono maggiormente presenti le imprese etniche, prossime o allargate, mentre negli altri casi le imprese sono quasi sempre aperte, secondo la tipologia individuata da Ambrosini (2005). Questo dato aiuta anche a comprendere come mai senegalesi e cinesi attribuiscono in media meno importanza alla conoscenza di italiani (si veda paragrafo precedente), che non sono determinanti per la propria attività né come clienti né, come abbiamo visto, come erogatori di capitali.

La stesse differenze in base al settore di attività si riflettono anche relativamente al numero di clienti. Infatti, la metà degli intervistati ha al massimo 5 clienti, il 16% ne ha tra 6 e 20, il 24% ne ha tra 21 e 100 e il 10% ne ha più di centro. Tuttavia, se la maggioranza delle imprese non commerciali ha per lo più fino a 5 clienti e raramente ne dichiara più di 10, tra i commercianti non vi è nessuno che dichiara meno di 6-10 clienti e la maggior parte ne ha molti di più. Tra l’altro, per molti esercizi commerciali (27) gli intervistati non hanno potuto rispondere alla domanda, dato un flusso di clientela altamente variabile.

Fig. 6 – Nazionalità dei clienti e dei fornitori (%)

67

77

72

711

19

10

0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

Clienti Fornitori

Italiani Stranieri Connazionali Italiani e stranieri

Un’ulteriore differenza tra questi due gruppi di settori riguarda la collocazione delle

clientela di riferimento. Mentre i commercianti si rivolgono prevalentemente al quartiere o al Comune dove è sita l’attività (ad eccezione del 28% dei commercianti di abbigliamento cinesi che vendono anche o prevalentemente all’estero), per le aziende metalmeccaniche, edili e dei trasporti i mercati sono più ampi e includono più frequente la provincia, la regione e le altre regioni.

Più differenziata è invece la situazione relativa ai fornitori. Anche in questo caso, i fornitori sono in maggioranza italiani (fig.6). I fornitori sono prevalentemente italiani, oltre che per la quasi totalità delle aziende non commerciali anche per la maggioranza dei commercianti alimentari (72%)

189

e per quelli dell’altro commercio (54%). Invece, tra i commercianti di abbigliamento, prevalgono i fornitori connazionali (68%). Sulla localizzazione dei fornitori, invece vi è una maggiore dispersione. Tuttavia, mentre negli altri settori i fornitori non sono reperiti oltre i confini provinciali, nel commercio dell’abbigliamento e nell’altro commercio i fornitori si trovano soprattutto in altre regioni italiane o all’estero. E’ in queste tipologie di commercio, dunque, che maggiormente si manifestano legami economici che possono essere definiti transnazionali che includono senza dubbio i rapporti con il Paese di origine (si veda a questo proposito il par.7), ma non necessariamente si limitano a questo.

Un altro aspetto relativo alla gestione dell’impresa che abbiamo indagato è l’utilizzo di nuove tecnologie o di pubblicità. Il 38% degli intervistati usa l’email nella sua attività, ma solo il 15% ha un sito internet, il 19% usa la pubblicità e il 17% utilizza un marchio che sottolinea la sua nazionalità. L’email è usata molto poco dai commercianti alimentari e da altri commercianti (non abbigliamento), mentre il sito internet è usato in misura maggiore dalle imprese edili, la pubblicità dalle imprese edili e dalle varie categorie di commercianti (un po’ meno quelli alimentari) e il marchio che sottolinea la nazionalità dai commercianti alimentari e da quelli dell’abbigliamento.

Nella gestione dell’impresa, la crisi attuale pesa molto, come abbiamo rilevato anche dal confronto con ricerche simili precedenti alla crisi (Chiesi, De Luca, Mutti, 2011).

Il peso della crisi si rileva non solo dall’analisi dei punti di debolezza, ma anche da quella dei punti di forza.

Nel primo caso, i nostri intervistati indicano come principali difficoltà la concorrenza di altre aziende straniere (46%) e italiane (20%), l’eccessiva dipendenza da un numero limitato di clienti (20%), l’accesso al credito (16%), mentre meno rilevanti sono la diffidenza della società italiana (11%), la scarsa conoscenza della burocrazia (9%) e, soprattutto, le scarse conoscenze professionali (1%). Oltre a quelli previsti, il 27% degli intervistati ha indicato altri punti di debolezza della propria attività. Nella maggior parte dei casi, gli aspetti segnalati sono riconducibili alla crisi economica oppure al ritardo nei pagamenti o alla scarsa affidabilità dei clienti. Altri aspetti segnalati sono le tasse troppo elevate, la difficoltà a stare al passo con l’innovazione tecnologica, difficoltà linguistiche, slealtà dei concorrenti. Tuttavia, è importante notare che il 9%, ovvero un terzo di coloro che hanno indicato ‘altro’ nella loro risposta, ha dichiarato di non avere particolari punti di debolezza.

Riguardo ai punti di forza, specularmente alla domanda precedente, in questo caso segnaliamo che il 7% degli intervistati dichiara di non avere punti di forza, anche a causa della crisi. Il punto di forza principale è invece la buona reputazione (48% degli intervistati), a seguire la qualità dei prodotti/servizi (45%), al terzo posto i prezzi bassi (38%), al quarto posto la flessibilità, intesa come la capacità di variare i ritmi di lavoro e di seguire le esigenze del cliente, e, infine, il fatto di poter mantenere bassi i costi (13%). Nel nostro campione, la strategia di offrire prezzi bassi è utilizzata soprattutto da coloro che operano nel commercio, sia alimentare che abbigliamento. In questi settori, vista l’elevata concorrenza e sostituibilità dei beni offerti, è più difficile costruire una buona reputazione e cercare di ottenere la fedeltà dei clienti. Tra gli aspetti indicati liberamente dagli intervistati, segnaliamo l’onestà, la puntualità, l’affidabilità, l’unicità del prodotto.

L’enfasi sulla propria onestà contrapposta alla slealtà dei concorrenti ci porta ad analizzare il problema della concorrenza. Benché il 41% degli intervistati dichiari di non avere particolari problemi di concorrenza, il 27% teme soprattutto la concorrenza degli altri stranieri, il 15% dei connazionali e solo l’11% degli italiani. Infine, il 6% dichiara di temere la concorrenza di tutti. A temere i connazionali sono soprattutto cinesi e marocchini. Mentre i senegalesi temono soprattutto la concorrenza asiatica, cinese in primis. Queste risposte suggeriscono che, nella percezione degli intervistati, il mercato in cui operano vede prevalere nettamente gli operatori stranieri sugli italiani. Gli italiani, anche quando sono presenti nello stesso settore, non sono visti come immediati e diretti concorrenti. L’unica parziale eccezione è presente nel settore dei trasporti, in cui il 21% degli intervistati dichiara di temere la concorrenza italiana.

190

La situazione economica delle imprese appare dunque estremamente diversificata. Ciò dipende sia dai diversi settori in cui operano gli imprenditori, che sono investiti dalla crisi in maniera differente, sia dalle strategie che i singoli mettono in campo. Ad avere meno problemi di concorrenza sono infatti tendenzialmente coloro che puntano più sulla qualità dei prodotti e dei servizi e sula buona reputazione, piuttosto che coloro che mantengono bassi i costi154.

Nonostante queste indicazione, nei rapporti con gli imprenditori, italiani o connazionali, prevale la collaborazione e non la concorrenza. Con gli italiani, il 68% degli intervistati ha rapporti di collaborazione, l’11% di concorrenza ed il restante 21% dichiara di non avere alcun rapporto. Con i connazionali, il 58% degli intervistati ha rapporti di collaborazione, l’11% di concorrenza ed il 31% non ha rapporti. La concorrenza con gli italiani, viene ribadito anche qui, è maggiore per gli imprenditori nei trasporti, mentre coloro che non hanno nessun rapporto sono soprattutto i commercianti di abbigliamento. Riguardo ai connazionali, invece, la concorrenza è elevata nel commercio alimentare ed i rapporti sono minori nei trasporti e nell’altro commercio.

L’importanza dei rapporti con gli italiani nel corso della propria attività verrà evidenziata anche nel prossimo paragrafo.

7. L’ambito relazionale e i contatti con la madrepatria Abbiamo indagato, nei paragrafi precedenti, il ruolo che la famiglia, ma anche gli amici e i

connazionali, hanno avuto nel percorso migratorio e nell’avvio dell’attività imprenditoriale. In questo paragrafo soffermeremo la nostra attenzione sul ruolo delle relazioni sociali in senso ampio, includendo non solo familiari amici, ma anche chiunque sia stato in qualche modo utile nello svolgimento dell’attività imprenditoriale, comprese le associazioni di categoria e di altro genere.

Tab. 7 – Utilità delle relazioni sociali per l’attività imprenditoriale

(Voto medio - scala da 0 a 10)

Voto (DS) Relazioni con italiani 6,2 (3,6) Relazioni familiari 5,9 (3,9) Relazioni con connazionali non parenti 4,5 (3,4) Relazioni con associazioni italiane 2,9 (3,3) Relazioni con altri stranieri 2,7 (3,0) Relazioni con associazioni di connazionali 1,6 (2,0)

La valutazione generale dell’utilità delle diverse relazioni per l’attività imprenditoriale è in

tutti gli ambiti abbastanza bassa (tab.7). Ciò è dovuto in parte alla frequente convinzione da parte di molti intervistati di aver costruito la propria attività da soli, senza l’aiuto di nessuno. A seconda della categoria di persone considerata, da un quinto ad oltre la metà degli intervistati hanno espresso un voto pari a ‘1’, alcuni addirittura ‘0’ (categoria inizialmente non prevista nel questionario). La categoria più utile è comunque quella degli italiani, seguita dai familiari e dai connazionali. Le relazioni con i familiari sono ritenute più utili da coloro che sono arrivati in Italia più recentemente (dal 1998 in poi)155.

Le due categorie meno utili sono le associazioni italiane e le associazioni di connazionali. Osservando però la dimensione aziendale, si note però che le aziende con almeno 5

dipendenti considerano più utili sia le relazioni con i familiari (il voto medio è pari a 8, rispetto a 4,7 di chi non ha nessun dipendente e 6,2 di chi ha 1-4 dipendenti156) sia quelle con le associazioni di connazionali (il voto medio è pari a 2,6, rispetto a 1,9 di chi non ha nessun dipendente e 1,1 di

154 Queste differenze, pur non irrilevanti in termini percentuali, non sono però statisticamente significative. 155 Il valore di F è pari a 3,7 con 2 gradi di libertà e sig=0.026. 156 Il valore di F è pari a 8,1 con 2 gradi di libertà e sig=0.000

191

chi ha 1-4 dipendenti157) e italiane (il voto medio è pari a 4,4, rispetto a 2,9 di chi non ha nessun dipendente e 2,6 di chi ha 1-4 dipendenti158) L’altra eccezione è rappresentata dagli intervistati di Trento, che attribuiscono alle associazioni italiane un voto medio pari a 5,6159. In effetti l’importanza delle associazioni di categoria per i trentini è visibile anche nella gestione dell’attività aziendale.

Infatti, se nel complesso, il 65% degli intervistati lascia gestire la propria contabilità a consulenti italiani, il 4% a stranieri ed il 26% ad associazioni di categoria, considerando solo gli intervistati trentini questa percentuale sale raggiungendo il 45%.

Anche osservando la percentuale di iscritti alle associazioni di categoria si nota la peculiarità trentina. Nel complesso, il 40% degli intervistati è iscritto ad una associazione.. Tuttavia, a Trento, dove l’Associazione degli artigiani e piccole imprese è molto rappresentativa, il 79% degli imprenditori sono iscritti ad una associazione di categoria. Solo un intervistato, residente a Prato, è invece iscritto ad un’associazione economica di imprenditori connazionali. Un po’ più elevato è il numero di iscritti ad associazioni ricreative, religiose, culturali di connazionali: si tratta di 31 intervistati (15%). Le associazioni religiose sono prevalenti (14 iscritti), seguite da quelle culturali su base nazionale (13 iscritti), tra cui spiccano quelle senegalesi (8 iscritti). Infine, 11 intervistati (5%) è iscritto ad associazioni culturali o sportive italiane. Sia in riferimento alle associazioni culturali di connazionali sia considerando le associazioni di categoria italiane (gli unici due tipi di associazioni con un numero non trascurabile di iscritti) si nota che coloro che sono arrivati in Italia prima del 1990 sono più spesso iscritti ad una associazione rispetto a quelli che sono arrivati in seguito. Come già emerso in precedenti ricerche, sono coloro che hanno già superato la fase dell’inserimento lavorativo e sociale che partecipano più frequentemente a questo tipo di iniziative (Ambrosini, 2008).

L’appartenenza associativa ha anche un legame significativo con l’andamento dell’impresa, come sottolineato nel capitolo relativo agli imprenditori immigrati a Trento. Infatti, chi è iscritto ad una associazione (di qualunque tipo, anche se sappiamo che per lo più si tratta di associazioni di categoria) ha più frequentemente una crescita di dipendenti (24% contro il 7% di chi non è iscritto ad alcuna associazione160) e di fatturato (25% contro 7%161).

Oltre ai contatti formali o istituzionali, abbiamo chiesto agli intervistati di riferire l’esistenza di persone che si sono rivelate utili nella gestione dell’impresa (tab.8). Osservando le risposte degli intervistati, emerge senza dubbio l’importanza degli italiani, che sono sempre la categoria più numerosa, tranne nel caso dei soci (dove prevalgono i familiari) e delle persone da assumere (dove prevalgono i connazionali. Il reticolo più numeroso è quello relativo alle persone da cui l’intervistato ha imparato molto per la gestione dell’azienda, composto prevalentemente da italiani, ma anche da familiari (il 69% degli intervistati ha citato almeno una persona in questo ambito). Al secondo posto troviamo le persone a cui è stato chiesto un prestito (il 57% degli intervistati ha avuto bisogno di prestiti, si veda tab.5), che sono prevalentemente italiane. Si tratta però spesso di impiegati e dirigenti bancari, persone con cui i rapporti sono prevalentemente formali e talvolta solo sporadici. Il reticolo più piccolo è quello relativo al reclutamento del personale.

Interessante è anche il fatto che solo il 12% degli intervistati non ha citato alcuna persona che è stata in qualche modo utile nella sua attività. Quindi, al di la delle valutazioni soggettive espresse genericamente dagli intervistati sull’utilità delle diverse relazioni sociali, la maggior parte di essi ha ricevuto aiuto, consigli o insegnamenti da qualcun altro. Coloro che “hanno fatto tutto da soli” sono, alla luce di questi risultati, una minoranza.

157 Il valore di F è pari a 7,1 con 2 gradi di libertà e sig=0.001 158 Il valore di F è pari a 3,2 con 2 gradi di libertà e sig=0.042 159 Il valore di F è pari a 42,1 con un grado di libertà e sig=0.002 160 Il χ2 ha un valore di 12,66 con due gradi di libertà e una significatività pari a 0.002 161 Il χ2 ha un valore di 11,24 con due gradi di libertà e una significatività pari a 0.004

192

Tab. 8 –Incidenza delle reti sociali dell’intervistato (valori assoluti)162 Totale163 Familiari Connazionali Italiani Altri

stranieri Soci 63 45 18 3 5

Persone da cui ha imparato molto 138 52 28 70 7 Persone che hanno indicato collaboratori

34 6 20 12 6

Persone a cui ha chiesto prestiti 115 30 11 65 (prev. Banche) 0

Altre persone rilevanti 51 22 6 24 0

Totale 401 155 83 174 18

Per concludere la nostra riflessione sul ruolo delle relazioni nella gestione dell’attività

aziendale, analizziamo l’incidenza dei rapporti d’affari con la madrepatria. Solo il 16% degli intervistati intrattiene rapporti d’affari con aziende del Paese d’origine. La maggior parte di questi acquista beni o servizi, ma vi sono alcuni intervistati che invece vendono prodotti e servizi ed altri fanno investimenti. Ad avere rapporti con il Paese di origine sono prevalentemente cinesi e senegalesi. L’aspetto transnazionale dell’attività imprenditoriale è più evidente per le attività commerciali non alimentari, mentre per gli altri settori o nazionalità, benché non manchino casi di interesse (ad esempio nell’edilizia), il fenomeno rimane estremamente marginale. 8. Le prospettive future

Abbiamo visto che la situazione delle imprese, di fronte alla crisi economica, non è facile e, in alcuni settori, gli imprenditori intervistati appaiono particolarmente in difficoltà. Cosa prevedono per il futuro?

Fig.7- Prospettive future per l’azienda (% - risposta multipla)

50

7

20

14 1511 13

0

10

20

30

40

50

60

Aziendarafforzata

Cederàazienda a

terzi

Aziendachiuderà

Chiuderàquesta,

aprirà altraazienda

Attività indiversosettore

Lavorocome

dipendente

Azienda aif igli

Metà degli intervistati è abbastanza ottimista, poiché ritiene che la propria azienda uscirà rafforzata dalla crisi (fig.5.13), l’altra metà invece, considera diverse alternative. Un intervistato su

162 La somma delle singole categorie è superiore al totale perché si poteva fare riferimento a più persone per lo stesso ambito. 163 I totali corrispondono al numero di intervistati che hanno citato qualcuno in ciascuna delle categorie indicate. Non sono equivalenti al totale di riga. In alcuni casi, infatti, sono state citate più persone nella stessa categoria, mentre nel caso dei prestiti alcuni non hanno voluto specificare la nazionalità delle persone che hanno fornito il prestito.

193

cinque pensa che presto l’azienda chiuderà, per evitare altre perdite. Tra questi, la maggior parte spera di trovare un lavoro migliore come dipendente, ma altri pensano comunque di aprire un’altra attività, oppure di spostarsi in un altro settore. Nel complesso, la possibilità di cambiare attività è spesso vista come probabile, insieme alla cessione dell’attività ai figli. Meno probabile è la possibilità di cedere l’azienda a terzi.

I più ottimisti riguardo ad un rafforzamento dell’azienda alla fine della crisi sono i commercianti nell’abbigliamento e gli edili, mentre i più pessimisti sono i metalmeccanici e, soprattutto, i commercianti di altri prodotti (non abbigliamento e non alimentari). Questi ultimi sono, al contrario, i più propensi a chiudere l’azienda, ad aprirne un’altra (insieme alle altre due categorie di commercianti) o a proseguire l’attività in un altro settore (insieme ai commercianti di abbigliamento). Infine, gli imprenditori edili sono quelli più propensi a passare la gestione dell’attività ai figli.

Tuttavia, nel complesso circa un intervistato su quattro vorrebbe che i figli proseguissero l’attività, mentre oltre i due terzi degli intervistati vorrebbero che i figli trovassero un lavoro diverso e solo il 3% vorrebbe che tornassero in patria. Ad auspicare una loro futura gestione dell’azienda sono soprattutto gli edili, come già emerso nella domanda precedente, e i commercianti di abbigliamento.

Oltre la metà degli intervistati (53%) non pensa che le donne della propria famiglia potranno avere un ruolo di responsabilità in azienda, il 25% invece sostiene il contrario e il 22% risponde che le donne hanno già un ruolo di responsabilità in azienda. Queste ultime due opzioni sono scelte in prevalenza dai cinesi, gruppo in cui anche i dati statistici mostrano una quota rilevante di imprenditorialità femminile.

Infine, abbiamo chiesto agli intervistati di suggerire eventuali politiche o iniziative che potrebbero sostenere gli imprenditori immigrati (fig.8). Non tutti gli intervistati hanno suggerito qualcosa, ma circa tre intervistati su quattro hanno suggerito iniziative utili per semplificare ed agevolare la loro attività. In realtà, non sempre si tratta di suggerimenti, ma anche di denuncie di episodi di discriminazione o diffidenza nei loro confronti in quanto immigrati. In molti casi, però, i loro problemi e difficoltà sono comuni alla maggior parte dei piccoli imprenditori.

Fig. 8 Politiche ed iniziative utili per sostenere gli immigrati (valori assoluti)

26

29

20

11

22

9

28

Offrire + informazioni e corsi Politiche x immigrati/imprenditori

Diffidenza degli italiani Ridurre tasse

Finanziamenti Controlli

Recupero crediti

Le iniziative più frequentemente suggerite riguardano informazioni e corsi che gli

imprenditori immigrati ritengono utili per la propria attività. Oltre ai corsi di italiano e di formazione per la gestione dell’attività, uno dei problemi più segnalati in questo ambito sono le

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diverse norme che bisogna conoscere. Al secondo posto, troviamo indicazioni relative a politiche da attuare, come la semplificazione amministrativa ed in particolare del permesso di soggiorno. Tuttavia, vengono suggeriti anche interventi più ‘attivi’, come la promozione di incontri tra imprenditori e la costituzione di reti tra imprese. Inoltre, vengono chiesti anche più diritti politici (possibilità di votare) e previdenziali (trattamento pensionistico fruibile anche tornando a vivere nel Paese di origine). Un'altra difficoltà segnalata da alcuni imprenditori è la diffidenza e le discriminazioni subite dagli italiani, sia dalle istituzioni che dai privati. Oltre a questi aspetti, più marcatamente peculiari del vissuto dell’imprenditore immigrato, numerosi sono anche gli imprenditori che, non diversamente dagli autoctoni, chiedono una riduzione delle tasse e agevolazioni finanziarie e creditizie. Infine, meno frequenti ma sempre riconducibili a problemi comuni a tutti gli imprenditori, sono l’invocazione di maggiori controlli per evitare comportamenti sleali (ma un paio di persone chiedono invece minori controlli, chiamando in causa di nuovo la discriminazione verso gli immigrati) e di un aiuto per recuperare i crediti e i pagamenti dei clienti che tardano ad arrivare. 9. L’importanza della dimensione di impresa Dal momento che diverse ricerche (es. Codagnone, 2003) hanno messo in discussione l’utilizzo del termine ‘imprenditore’ per delle realtà che di fatto spesso sono assimilabili al lavoro autonomo, prima di concludere la nostra analisi vorremo focalizzare l’attenzione sulla dimensione d’impresa. Come abbiamo visto in precedenza, il 36% degli intervistati non ha nessun dipendente, il 52% ne ha da 1 a 4 e il 12% ne ha 5 o più.

Tab. 9 – Necessità di prestiti dichiarata dagli intervistati in base alla nazionalità degli intervistati (% - tranne ampiezza reti)

Nessun dipendente

Da 1 a 4 dipendenti

5 dipendenti o più164

Ampiezza media reti165 2,00 2,19 3,48 Clienti in altre regioni/estero166 20 18 48 Un solo cliente167 24 14 0 Non teme nessun concorrente 32 44 52 Punto di forza qualità prodotti/servizi 27 54 64 Punto di forza: mantenere bassi i costi 21 7 12 Fatturato costante o in crescita168 34 40 60 Pensa che l’azienda uscirà rafforzata dalla crisi169

38 52 76

Vorrebbe che i figli in futuro gestissero azienda

8 28 52

N 71 104 25

Nel par.5 abbiamo visto che la dimensione di impresa era legata ad una diversa valutazione delle relazioni familiari e delle relazioni con associazioni italiane e di connazionali. In effetti, nel complesso, al crescere della dimensione dell’impresa aumenta l’ampiezza delle reti sociali utili per l’attività imprenditoriale (tab.9). Rimandando ad ulteriori analisi l’interpretazione di questo

164 In questa categoria sono state incluse anche le imprese scelte nel campione in quanto imprese di successo e, quindi, con un numero di dipendenti generalmente superiore a 5 ( si tratta di 5 imprese in tutto). Tuttavia, anche escludendo queste 5 imprese, i risultati non cambiano in modo significativo. 165 Il valore di F è pari a 8,87 con 2 gradi di libertà e significatività pari 0,000. 166 Il valore del , χ2 è pari a 10,71 con 2 gradi di libertà e significatività pari a 0,005 167 Il valore del , χ2 è pari a 46,93 con 14 gradi di libertà e significatività pari a 0,000 168 Il valore del , χ2 è pari a 18,86 con 4 gradi di libertà e significatività pari a 0,001 169 Il valore del , χ2 è pari a 11,11 con 2 gradi di libertà e significatività pari a 0,004

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risultato, ci limitiamo qui a sottolineare che la dimensione di impresa non è solo collegata ad un’ampia dotazione di capitale sociale, ma permette di osservare meglio come i lavoratori autonomi o le micro-imprese reagiscono alla crisi economica. Un primo aspetto considerato è che le imprese con 5 dipendenti o più hanno più frequentemente clienti situati al di fuori del contesto locale, quindi in altre regioni o anche all’estero. Inoltre, le imprese con più dipendenti hanno generalmente più clienti rispetto alle imprese più piccole. Nessuna impresa con almeno cinque dipendenti ha un solo cliente, mentre un quarto dei lavoratori autonomi vive una situazione di mono-committenza. Le imprese più grandi riescono dunque a competere e ad adattarsi a mercati più variegati e geograficamente distanti e non dipendono da un numero limitato di clienti. In effetti, gli imprenditori temono meno la concorrenza di altre imprese rispetto ai lavoratori autonomi, segno di una presenza sui mercati più consolidata. Del resto, i primi rispetto ai secondi, indicano anche più frequentemente la qualità dei prodotti/servizi come punto di forza, mentre indicano meno la possibilità di mantenere bassi i costi. Le imprese con dipendenti (e, soprattutto con almeno 5 dipendenti), sono dunque imprese con un migliore posizionamento di mercato ed una competitività basata più sulle proprie capacità imprenditoriali che sull’autosfruttamento. Peraltro, che la situazione di queste imprese sia migliore rispetto a quelle senza dipendenti emerge anche dal dato sulla crescita del fatturato rispetto a 3 anni prima, nonché dalle previsioni per il futuro dell’azienda. I micro-imprenditori sono più ottimisti rispetto ai lavoratori autonomi circa il proseguimento ed il rafforzamento della propria attività e considerano più frequentemente l’azienda come un patrimonio familiare, un investimento per il futuro dei propri figli, senza necessariamente sperare che questi riescano a trovare un lavoro diverso dal proprio. E’ dunque nelle imprese con dipendenti (quelle che a pieno titolo sono definibili come ‘imprese’e non come mero lavoro autonomo) che riscontriamo con maggiore evidenza la presenza di progettualità e di strategia imprenditoriale, ed una maggiore capacità di offrire risposte adeguate alla crisi economica. 10.Conclusioni Nella ricerca Il profilo nazionale degli imprenditori immigrati sono stati affrontati temi molto diversi, che ripercorrono il percorso migratorio e imprenditoriale dell’intervistato. Anche se le caratteristiche socio-demografiche degli imprenditori e le strategie di avvio dell’impresa variano molto in base alla nazionalità degli intervistati, per altri aspetti, legati alle caratteristiche e all’andamento dell’impresa, le differenze emerse appaiono maggiormente legate ai diversi settori di attività.

Arrivati in Italia per la presenza di parenti o connazionali, ma anche per la relativa facilità di ingresso, gli immigrati intervistati hanno generalmente trovato occupazione (magari non la prima, ma quantomeno l’occupazione prevalente) nel settore dove poi hanno deciso di aprire la propria attività. Ciò ha permesso loro di acquisire esperienza e professionalità. Sono pochi, invece, coloro che hanno iniziato subito un’attività in proprio. In prevalenza si tratta di senegalesi che spesso hanno cominciato il loro percorso lavorativo in Italia come venditori ambulanti. Le motivazioni per l’avvio dell’attività in proprio sono generalmente collegate al desiderio di migliorare la propria situazione dal punto di vista economico o dell’autonomia o della valorizzazione delle proprie competenze. Sono, invece, relativamente pochi i casi in l’attività autonoma ha rappresentato un’alternativa alla disoccupazione o un ‘suggerimento’ del precedente datore di lavoro. La dotazione di capitale umano varia molto in base alla nazionalità degli intervistati: i cinesi non solo hanno un più basso titolo di studio, ma conoscono anche meno lingue straniere rispetto agli altri gruppi nazionali considerati. Riguardo, invece, alle risorse di classe, la maggior parte degli intervistati proviene da famiglie in condizioni economiche rispetto alle altre. La famiglia allargata rappresenta non solo un punto di appoggio nel percorso migratorio, ma anche un’importante risorsa

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in termini economici (soprattutto per ciò che concerne i cinesi) e di manodopera (non solo tra i commercianti di abbigliamento cinesi, ma anche tra gli edili e i trasportatori). Il capitale economico è costituito spesso, soprattutto all’inizio dell’attività da dotazioni e risparmi propri. Tuttavia, nel corso dell’attività aumenta il ricorso a prestiti. Le richieste di prestiti alle banche sono più frequenti tra gli est europei. In alcuni casi, lo scarso ricorso ai prestiti bancari è giustificato da motivazioni culturali (soprattutto da parte degli egiziani), in altri si privilegia il ricorso alle reti familiari e di parentela (nel caso dei cinesi). Riguardo al capitale sociale, nelle reti degli imprenditori prevalgono i contatti con gli italiani, anche se i familiari confermano la propria importanza. Nonostante gli imprenditori spesso dichiarino di aver fatto “tutto da soli”, emerge dai dati raccolti la notevole importanza delle altre persone soprattutto nella gestione dell’attività aziendale. Si tratta però solitamente (tranne nel caso trentino) di contatti informali, di persone con cui l’imprenditore ha lavorato o con cui ha legami di amicizia o parentela. Le associazioni e le istituzioni sono spesso assenti, solo un terzo degli imprenditori è iscritto ad un’associazione di categoria e pochi ne riconoscono l’utilità. Non stupisce che tra i principali suggerimenti proposti dagli intervistati per migliorare la condizione degli imprenditori immigrati vi siano la richiesta di fornire maggiori informazioni, di organizzare corsi di formazione, di aiutare gli imprenditori a fare rete. Gli imprenditori chiedono di non essere lasciati soli ad affrontare la crisi, di trovare delle soluzioni comuni e condivise.

La crisi. Tra gli imprenditori immigrati prevale la fiducia, anche se la situazione non è facile e in alcuni settori il calo dei dipendenti e del fatturato è notevole. Per il futuro non manca l’ottimismo, la voglia di resistere, eventualmente cambiando attività. Ma sono proprio pochi quelli che preferirebbero tornare al lavoro dipendente. La crisi viene affrontata meglio dalle imprese (relativamente) più grandi: questo è quello che emerge dal nostro breve approfondimento sul ruolo della dimensione di impresa. Le imprese più grandi puntano più spesso sulla qualità del prodotto fornito che sui prezzi bassi, temono meno la concorrenza, hanno più spesso un fatturato costante o in crescita e sono più ottimiste per il futuro. La forza e solidità dell’impresa, nonché l’orgoglio dell’imprenditore stesso nei confronti della propria attività è testimoniato anche dal fatto che molto più frequentemente si prevede di lasciare la in futuro la gestione dell’impresa ai figli. Come già sottolineato da Chiesi nel secondo capitolo del presente volume, è dunque auspicabile che le imprese immigrate crescano, che puntino su prodotti di qualità e non sulla competizione di prezzo, che escano dal circuito della mono-committenza e che diversifichino la loro clientela sul territorio. Per fare questo, come efficacemente illustrato dal caso trentino, potrebbe essere utile una maggiore rappresentatività delle associazioni e la creazione di consorzi e reti tra imprese, come del resto auspicato dagli stessi intervistati. Ma questa è solo una delle possibili strategie da intraprendere.

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11.Considerazioni sugli imprenditori di successo Antonio Mutti (Università di Pavia)

Questo capitolo si concentra sull’analisi di una serie di interviste condotte su imprenditori di successo, non solo appartenenti alle aree territoriali analizzate nei capitoli precedenti.

Va subito precisato che la definizione di imprenditore immigrato di successo qui adottata riguarda quelle imprese che occupano personale dipendente (stabile e/o occasionale) non esclusivamente familiare di almeno 3 unità e che hanno dato buona prova di profittabilità in un ragionevole lasso di tempo (almeno 5 anni). La seconda precisazione riguarda la rappresentatività degli imprenditori intervistati. Vista l’assenza di data base adeguati di queste figure imprenditoriali, da cui poter estrarre un campione, le nostre 8 interviste non sono per nulla rappresentative dell’imprenditorialità immigrata di successo in Italia. Ci siamo basati sulle indicazioni fornite dai premi Money Gram 2010 attribuiti a imprenditori immigrati di successo. Ma, soprattutto, siamo dipesi dalla disponibilità degli imprenditori che hanno accettato di farsi intervistare. Accanto al questionario comune ai lavoratori autonomi intervistati abbiamo affiancato un questionario semi-strutturato che permettesse all’imprenditore di esprimere in modo più aperto e diffuso valutazioni sulla propria reputazione. Le interviste sono state somministrate agli imprenditori nel corso del 2010 nelle sedi delle imprese.

Tab. 1 – Caratteristiche degli imprenditori di successo intervistati Sesso Provenienza Età Sede

impresa Tipo di attività Anno

fondazione Numero

dipendenti Di cui italiani

M Egitto 55 Mi Serramenti in alluminio 1985 4 stabili, 8 saltuari

1 sta. 4 sal.

M Egitto 46 Mi Lavori stradali 2001 12 stabili, 1 saltuario

1 sal.

F Colombia 45 Mi Impresa di pulizie 1998 28 stabili 2 sta. F Albania 50 Mi Mediazione culturale 2006 25 saltuari 6 sal. M Croazia 36 Tn Costruzioni edili 2002 19 stabili 10 sta. M Romania 37 Tn Carpenteria metallica 2005 3 stabili 0 M Romania 49 Mn Commercio all’ingrosso di

alimentari 2006 2 stabili,

4 saltuari 0

M Senegal 37 Ct Importazione e commercio all’ingrosso di pesce

2001 3 saltuari 0

1. Le condizioni di partenza Un dato comune ai nostri intervistati è costituito dalla buona dotazione iniziale di varie forme di capitale. Il discreto capitale economico familiare, denunciato da condizioni economiche di partenza in media più elevate di quelle degli abitanti nel luogo di origine della famiglia e dalla presenza di parenti che svolgono attività imprenditoriale nel paese d’origine o in Italia. Il capitale umano di buon livello, caratterizzato da titoli di studio di scuola media superiore (4 intervistati) o universitari (4 intervistati) associati a una buona padronanza della lingua italiana e spesso anche di altre lingue. Il capitale sociale esteso costituito non solo dalla struttura familiare e parentale, ma anche da una significativa presenza di italiani. Dopo una fase iniziale di lavori precari e diversificati, l’aiuto alla costituzione dell’impresa passa senz’altro attraverso il sostegno economico familiare. Si assiste però anche alla presenza di italiani nella veste di imprenditori (presso cui hanno lavorato e acquisito le competenze professionali) o conoscenti che aiutano il neoimprenditore a mettersi in proprio e a ottenere fidi bancari. Le banche locali sono presenti nell’esperienza di questi imprenditori, e svolgono un ruolo molto importante ai fini del loro successo imprenditoriale.

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2. La costruzione della reputazione La buona reputazione è il frutto di un duro lavoro di emersione aiutato dalla presenza di connazionali e di italiani. La qualità del prodotto, la puntualità nell’esecuzione dei compiti e nei pagamenti, la fissazione di prezzi equi, oltre che un rapporto collaborativo con le maestranze vengono considerati i principali fattori di successo dell’impresa. Gli intervistati appaiono visibilmente orgogliosi di essere imprenditori immigrati di successo e di essere riusciti a conquistare una buona reputazione tra clienti e fornitori. Questo orgoglio e ottimismo portano a non percepire significative minacce alla reputazione. Certo, vengono individuate situazioni di concorrenza sleale (specie da parte di altre etnie, ma senza che si sia in presenza di un vero e proprio conflitto interetnico) o di maldicenze volte a danneggiare la reputazione, ma nel complesso esse sono considerate poco efficaci. Una reputazione faticosamente conquistata nel tempo non può essere distrutta da maldicenze perché l’imprenditore può contare su una rete di fornitori e clienti che hanno consolidato la fiducia nei suoi confronti e svolgono la funzione di diffusori della fiducia e della buona reputazione. La concorrenza elevata viene, dunque, combattuta essenzialmente sulla qualità del prodotto offerto. La crisi economica attuale è valutata come minaccia alla solidità aziendale a causa della potenziale insolvenza dei clienti, più che della diminuzione del lavoro. Questo senso di sicurezza e auto-gratificazione, indotto dal successo professionale, porta anche a minimizzare il pregiudizio etnico. L’esistenza di diffidenza e razzismo (soprattutto all’inizio dell’attività lavorativa) non viene però negata. Essa è piuttosto minimizzata per due ordini di ragioni. Il primo è dovuto al fatto che alcuni italiani sono stati cruciali ai fini del successo imprenditoriale dei nostri intervistati. Il secondo, invece, appare più il frutto di una sorta di rimozione del problema da parte di chi ha finito per godere, rispetto ad altri immigrati, di una situazione privilegiata sotto il profilo della riuscita economica. 3. Amicizie e vita sociale Il successo professionale e la buona reputazione hanno senza dubbio favorito un maggiore inserimento sociale dell’immigrato. Però prevale tra gli intervistati la tesi secondo cui un buon inserimento sociale costituisce un prerequisito del successo, e cioè che, nella loro esperienza, esso ha preceduto la possibilità di diventare imprenditori di successo. È significativo rilevare che 4 imprenditori maschi su 6 hanno sposato un’italiana. Va inoltre sottolineato che, pur dichiarando la presenza di alcuni amici italiani, oltre a familiari e connazionali, la vita sociale e associativa di questi imprenditori appare limitata. Questo limite viene giustificato dal carattere pervasivo dell’attività lavorativa. È la mancanza di tempo che impedisce una maggior attivismo sociale. Che sia questa la ragione vera, o che piuttosto nasconda una reale difficoltà di integrazione sociale, sta di fatto che i nostri imprenditori appaiono segnati da un buon inserimento nelle attività economiche, un’autostima elevata, ma una scarsa partecipazione sociale. Queste caratteristiche paiono accumunare maschi e femmine.

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