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Roberto Leimer CONFUSIONE KAOS CASINO

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Roberto Leimer

CONFUSIONEKAOS

CASINO

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“Vasto, dentro un odor tenue vanito/ di catrame, vegliato da lelune/ Elettriche, sul mare appena vivo/ Il vasto porto si addorme.

S’alza la nube delle ciminiere/ Mentre il porto in un dolce scricchiolìo/ Dei cordami s’addorme: e che la forza/ Dorme, dorme

che culla la tristezza/ Inconscia de le cose che saranno/ E il vastoporto oscilla dentro un ritmo/ Affaticato e si sente/ La nube che

si forma dal vomito silente.”Dino Campana

Lo facciamo ora con gioia, per far circolare i morsi. La confusione il caos il casino, una strada ripercorsa al contrario senza linea di mezzeria. Pagine scritte a mano, a macchina, di getto, in notti disperate nel nero lucido della solitudine, piene di errori e strafalcioni, flash e abbagli. Blocchi ingraffettati, vivi di lotta quotidiana, passati agli amici per un consiglio un commento una correzione. Roberto voleva dare alle stampe la sua autobiografia, già avevamo fatto degli aggiustamenti tagli aggiunte. Questo libercolo-bastardo viene pubblicato grazie a chi, nello spirito dell’autogestione, ha fatto sottoscrizioni oppure ha prenotato le copie pagandole anticipatamente, individualità e realtà differenti, ecco i nostri fondi neri.Chi ha incontrato Roberto sulla sua strada non lo dimentica. Non dimentica paura, tensioni, rapporti, visioni, immaginario, ironia e sovversione.Buona passeggiata carogne!Sergio.APNEE autoproduzioni 2007. No Copyright!

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Confusione, Caos, Casino, sono i compagni esatti, visti e messi a fuoco nella vita che a 40 anni mi trova ad affrontare un bilancio onesto della mia realtà vissuta, che vivo, da vivere. Al di là della sublimazione e del pentimento. Confusione nell’adolescenza lanciata nel cammino della maturità, conseguita a prezzo stracciato e mai riciclata a prezzo standard. Un punto fermo di partenza non esiste, benché mi sforzi nel trovarlo scavando nel tunnel del passato a tal punto da essere bloccato dal casino, nel non riuscire a smuovere le barriere della memoria atrofizzata. La colpa di queste amnesie la posso tranquillamente trovare nella strada-maestra dell’ “ho vissuto”, in un crescente annullamento delle capacità intellettuali, morali e fisiche, attraverso orge demenziali a base d’alcool, droghe e psicofarmaci vari.

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Incominciai con l’alcool, soprattutto Cognac e vino, a trovare il coraggio e la forza di ribellarmi con fatti irrazionali all’educazione del Lei, del Perfavore, del Grazie. Al dover star zitto e ascoltare i più grandi. Al sesso vissuto ma vietato ai minori di 18 anni. Al peccato nelle acerbe masturbazioni solitarie e al sentirne il rimorso confessando a un Dio i torti commessi, comuni a tutti i mortali. Alla vita bigotta provinciale dove si nascondono i peccatori ma non il peccato. Al dopo-Carosello tutti a letto e ai giorni festivi consacrati con il vestito nuovo e le scarpe lucidate.Al non dire mai il perché, ma obbedire.Più prendevo coscienza di questi falsi conformismi di merda e più si manifestavano verso l’esterno i miei atteggiamenti provocatori contro tutti e tutto, in un contesto portato man mano all’estremo.I primi Cazzo e Vaffanculo detti con un senso di sollievo nel sentire che con queste parole rompevo l’etichetta dell’ educazione orale e morale impostami.Le balle dette, allora infantili, inventate sul modello dei grandi.I rientri a casa sempre più tardivi contro la tabella oraria del silenzio su ordinanza. Satanik e Kriminal letti con avidità nel cesso, unico luogo fra le quattro mura casalinghe rispettate su misura da tutti. I fumetti erano per me anche merce di scambio con sigarette poi fumate di nascosto con il timore di essere scoperto nel gusto del vietato.Tutti questi giochetti li potevo svolgere sempre meglio e soprattutto senza paura con l’ausilio di un bicchierino di grappa, poi col tempo senza più misura,via via che i

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problemi da affrontare o le decisioni da prendere aumentavano di valore e di pericolo.Gli atteggiamenti contro un certo vietato-fare, nascosti e mascherati con bugie, col tempo diventarono più intransigenti e intraprendenti. I simboli contro la famiglia, la società, la morale cristiana, l’ipocrisia piccolo-borghese, allora li identificavo, e non solo io, in modelli quali i Beatles e i Beatnik, nella Beat-Generation, farmi crescere i capelli, vestirmi con giubbotti militari e jeans scoloriti. Calzare stivaletti col tacco alto e partire alla conquista del mondo in Autostop, per andare non importa dove, per fare non importa cosa. L’importante era uscire fuori dagli schemi tradizionali e dall’educazione gallista e mammista. E questa trasformazione in me avveniva in un contesto contradditorio, dove mi vedeva da una parte un bravo ragazzo fino all’età di dodici anni, tutto famiglia e scuola, elogiato per l’intelligenza e l’educazione da conoscenti e maestri. Buon chierichetto per i preti. Per poi andare in direzione opposta, dove ne uscivo in un quadro ben diverso. Dall’ingrato al capellone, dal ribelle all’appestato, e come ultimo, dulcis in fundo, un esempio additato da non seguire.Fu proprio all’età di tredici anni che feci le prime importanti esperienze e le prime scelte di conseguenza, anche se in maniera confusa e immatura. Tutto con l’aiuto delle mie stampelle, nient’altro che bicchierini e pasticche.Conobbi Peter, vecchio pazzo mezzo rivoluzionario alla Che, mezzo filosofo-poeta da strada alla Allen Ginsberg. Mi fece provare l’ebbrezza e le stonature dei

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primi joint d’erba e merda, delle sbronze di vino, delle scopate con puttane e mi mise in testa la parola “Politica”, parlandomi di anarchia, del Che, della Rivoluzione Bolscevica, innaffiando tutto con la poesia e la narrativa della Beat Generation.Altro che caos per uno come me che usciva per la prima volta dal quadrato Famiglia-Chiesa-Scuola-Lavoro. Un mondo suggestivo, fantastico, l’avventura col punto interrogativo tutto da scoprire. Tredicenne sempre più anacronistico, contestatore di tutto e di niente, ribelle disperatamente a caccia di un qualcosa di diverso. Pacifista, anarchico irrazionale, accompagnato dalle ormai insostituibili stampelle.Era il tempo in cui ero nel giusto e i consigli, le critiche, erano delle condanne senza appello contro la mia libertà, il mio modo di essere, di vivere. Identificarmi con qualcosa o qualcuno per sentirmi adulto prima del tempo e contro il tempo nel bruciare tappe e nel forzarle.Così fra la compagnia di Peter e la mia fantasia rafforzata dall’alcool, in seguito mescolato con psicofarmaci e anfetamina, Io essere incompreso, Io giustiziere degli oppressi, Io ribelle delle piccole virtù, Io senza Patria né Padroni, presi a fuggire da casa per incominciare in autostop la Grande Avventura. Il grande salto verso l’ignoto. La Confusione, il Caos, il Casino.Il Beatnik ribelle col tempo divenne un estremista violento e il pacifista dei cortei non-violenti si trasformò in un rivoluzionario Guevarista e infine in un Anarchico anonimo, individualista.

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Non fu beninteso un cambiamento così radicale dal giorno alla notte, ma lo svilupparsi di situazioni imposte e cercate.Di scelte volute e obbligate, di crescita e prese di coscienza maturate o drogate. Di tutta una sequenza di fatti e di persone che aiutarono a sviluppare la mia personalità e di riflesso il rapportarmi con la società.Fu così che mi trovai, senza esattamente sapere il perché, a fare anche i conti, né voluti né cercati, con la repressione di Stato, con i suoi Tribunali, le sue Istituzioni chiuse o negate.Tutto ciò che andavo a cercare nel reale, nel rendere concrete le mie illusioni, le mie immaginazioni dell’Amore e della Non-violenza, del diritto alla Vita e alla Felicità, doveva fare i conti con uno scenario ben diverso da quello letto sui libri, da quello ascoltato, da quello sognato, da quello cercato. Come chi subisce quando apre gli occhi, la ricerca di me stesso vomitava la voglia di vivere. Sia ben chiaro che rifiuto di fare lo struzzo nascondendo le mie responsabilità. Come non faccio il palombaro, tipo psichiatri e simili, nel cercare nei recessi dell’ inconscio, o subconscio, il perché dei miei problemi, delle contraddizioni che vivevo allora, dell’esaltazione e della prostrazione dello stato d’animo. Del sadismo verso l’esterno e del masochismo verso me. Né cerco scusanti per ciò che combinai, nel dualismo fra il bene e il male o nell’emarginazione in cui sono andato incontro.Non posso neanche chiamare a testimoniare in mio favore le stampelle. Sarebbe una posizione comoda e falsa delegare a dei prodotti chimici i miei fallimenti.

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Anche se l’alcool e le droghe sono stati i miei più stretti collaboratori per più di vent’anni, ero io in ultima analisi che andavo a cercarmeli.Dunque, facendo un calcolo approssimativo, la prima volta o meglio il primo tentativo di fuga alla ricerca di indipendenza e autonomia, lo feci a dodici anni, con un compagno di scuola, tale Nico. E se parlo di tentativo sta nel fatto che nel giro di 24 ore fummo fermati da una pattuglia di P.S., in un buio pesto sull’Aurelia, in prossimità di Grosseto, mentre facevamo l’auto- stop in direzione Reggio Calabria. Diretti a casa dei nonni di Nico. E per me allora andare là o in un altro posto era indifferente. Ma il destino volle che l’avventura finisse con un ritorno disonorevole a casa, accompagnati da due poliziotti in borghese, dopo una notte ( la prima e non l’ultima ) in guardina dal Commissariato. Ricordo vagamente che di tutta la storia quello che mi colpì maggiormente fra tanta confusione, fu la contesa fra mia madre e quella di Nico davanti al commissario, fra urla e lacrime cercavano ambedue di dimostrare la nostra innocenza, accusandosi. Come se, incuranti delle ragioni della nostra fuga, cercassero nell’accusarsi e difenderci, di salvare il proprio onore o meglio quello del cognome. Questa scena l’ho ancora viva in me, per il disgusto che provai nel vedere che al posto di cercare di capire il perché del nostro gesto, per loro era più importante quello che la gente poteva pensare o dire, fregandosene del personale. Sta di fatto che ricevetti una lezione civile, e ciò de- terminò l’idea di scappare ancora appena trovata la possibilità. Nella testa non era

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cambiato un gran che. Avevo sempre il desiderio dell’avventura, del vietato, del non-normale.Conobbi Sandro sul lavoro, la scuola l’avevo lasciata, e subito legai con lui per il fatto che aveva le mie idee, leggeva il Che e Jack Kerouac, ascoltava la stessa musica, e prendeva anche lui l’anfetamina.Si andava forte insieme!Ma ahimè, scoprii più tardi che non era altro che un sacco di merda, pieno di bla-bla col coraggio di coniglio!Fra la prima e la seconda fuga passarono circa 6-7 mesi, che misi a frutto con altre nuove esperienze, facendomi una ragazza fissa, cambiando giro di amicizie e di luoghi. Anche se andavo sempre a lavorare ( le 1500 lire guadagnate alla settimana andavano a casa ) alla sera frequentavo la sede del P.C.I., dove con altri ragazzi si era data vita a un circolo della F.G.C.I. Più che di politica si parlava di musica rock, di figa, e ci si vestiva alla Che. Del Comunismo, di Lenin, della Rivoluzione e guerre Partigiane, Franco, dirigente del partito, di tanto in tanto ci dava delle nozioni storiche e politiche. Per me andare al circolo era un andare controcorrente a ciò che la scuola, l’oratorio, la famiglia, ci avevano inculcato. Era un senso di ribellione spontanea maturata nell’ignoranza e nella coercizione psicologica della realtà falsata, fattaci credere, che ribolliva nel cervello in maniera costante, e che ad ogni domanda offriva una risposta mai finale, che automaticamente immetteva un’altra domanda, e così via.Ribellione alla propria incapacità di realizzarsi in un ambiente ipocrita, dove la voglia di vivere era relegata

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alla monotonia quotidiana dei doveri e dei pochi diritti. Diritti misurati con la condizione di classe che ti legava al potere piccolo-borghese clericale di cui la provincia era succube, nella sua miseria e nel suo benessere. Dal campetto dell’Oratorio ai club privati, dalle osterie alcolizzate ai bar di 1° classe. Fu anche a causa di queste contraddizioni sociali che nacque in me il rigetto verso l’accettazione passiva della falsa pace sociale. Nell’essere consumatori e consumati dai mass-media. E contro queste ipocrisie gli unici sfoghi, dettati dalla condizione dello status-quo di frustrazione erano l’andare a ballare per finire a far a botte con ragazzi di altre parrocchie. Truccare le marmitte dei motorini per lanciarsi in pazze corse nel dimostrare chi fosse il più forte, il più figo. L’organizzare club di Teddy Boys era la risposta ai club privati. Il girare con coltelli a scatto e pugni di ferro era la sfida contro la nostra paura. Questo non era altro che cercare di uscire dalla propria frustrazione per entrare in un giro più frustrante.Come le sbronze e l’impasticcarsi. Come andare a Genova in Piazza Tommaseo per sentirmi un vero capellone, fumando erba e merda. Fermare la gente facendo colletta con la scusa della fame, per poi andare a spendere il ricavato in fumo e alcool. Limonare le sbarbine seduti sul marciapiede scandalizzando la gente. Usare vocaboli volgari e bestemmiare per distinguerci col profano al linguaggio ufficiale puritano.Ma ciò non poteva appagare lo spirito ribelle, la mia anarchia, così un giorno di novembre del ‘66 scappai un’altra volta di casa con Sandro. Destinazione Torino

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con 2.000 lire in tasca e tanti sogni in testa. Arrivammo in una serata, dopo un giorno di autostop, il primo benvenuto che ricevemmo fu un freddo boia che ci entrava attraverso i nostri vestiti da clima mite del mare. Si dormì nel sottoscala di un palazzo attaccati a una caldaia accesa, al nostro risveglio si presentò, oltre a un panorama desolante, la nebbia piemontese e con ciò la resa incondizionata di Sandro. Piangendo mi annunciò che tornava a casa. Io no! Non accettavo la sconfitta, la resa di fronte all’incognita della metropoli, della strada, del cosa avrei fatto, mangiato, dormito. Io no! Orgoglioso fino al buco del culo non potevo e rifiutavo la resa. Non potevo distruggere i miei sogni, dovevo dimostrare agli altri che ero un diverso, un casinista. Insomma dimostrare che non ero un perdente. Che poi a me non me ne fotteva niente degli Altri, quelli che ti giudicano dal vestito, dal taglio dei capelli, da come ti muovi. Che ti condannano dal come parli, come reciti , quanti soldi hai. Gli altri pronti a sbranarti al primo segno di debolezza, a emarginarti se non segui le regole. Animali Anonimi che si aggirano nella foresta di cemento im-molata al Dio Moloch, al Dio Denaro, al Dio del Partito, al Dio della Menzogna e dell’Ipocrisia. Fantasmi senza nome che ti porgono una mano dove incomincia il loro interesse. Per poi darti un calcio in culo quando finisce. I Ponzio Pilato della legge del più forte, dello sfruttamento.Che non parlano mai con la propria coscienza. Che non sentono la propria voce. Che non vedono se non il proprio egoismo.

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Torino, allora come oggi, divisa dal conformismo, dall’arrivismo più bieco, più razzista. Dove, dai ghetti dormitorio della cintura alle soffitte di via Po, stavano stipati come bestie in vendita al primo padrone, meridionali e contadini, mentre la classe imprenditoriale dettava la sua ferrea legge del “Fiat voluntas mia”, ”Diviti et impera”. E il boom della civiltà del consumo erano le 500 e le lambrette, le lavatrici made Candy, le televisioni Phonola. Torino città intellettuale, dalla cultura ruffiana e bigotta, che iniziava a scontrarsi con la nascente sub-cultura Underground di sinistra dei Marcuse, Fromm, Reich, con la politica terzomondista di Mao, Fanon, del Che. Torino vibrante di Rock, Folk, Blues, Beat, dai Giardini Reali al Piper. Dalle cantine di Porta Palazzo, alle soffitte del centro. Musica della cosiddetta Beat Generation che affogava diabolicamente i Villa, le Pavone, i Morandi, prodotti annacquati di mammismo core e amore e non ti scordar di me.Torino era l’arrivo, la partenza del grande sogno che stava trasformando un provinciale timido, complessato, ignorante, in un uomo dagli ideali frustrati, senza immaginazione, pieno di nausea del reale, senza volontà di lottare, pessimista verso se stesso e il domani. Ma a quei tempi (ahi, che peccato di nostalgia fascista!) ero pieno di vita, di sogni, di ideali e.......dimentico che oggi ho 25 anni in più.Torino con le collette in Via Roma e il suo vino a Porta Palazzo. Con la sua anfetamina e fumo nel Piper e nelle soffitte. Le retate della Madama e il primo foglio di via con diffida dalla Questura. Le marce per la pace e per il Vietnam, le cariche della Celere. Era come vivere in

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uno sballo continuo fra il bere e il fumo, i casini e le sbarbine e più avevi la chioma fluente e vestivi alla Carnaby Street, più ti sentivi importante negli sguardi ora ironici, ora furiosi, ora perplessi della gente. Menefreghismo totale. Vivere alla giornata senza crearsi problemi per il domani. Domani puoi essere morto, allora mangiati un gelato, fatti una sana scopata e vai al cinema. L’importante era vivere nell’anarchia più reale.Ma come ogni favola ha una fine, così io tornai a posare il culo per terra. Fui preso dalla Madama in una delle tante retate fatte per reprimere il capellone, lo scomodo. In Questura constatato che mi pendeva una denuncia di scomparsa fatta da mia madre, mi riaccompagnarono a casa con la morale che infondo ero solo un ragazzino traviato da brutte compagnie e da questa nuova moda Beat. In casa scenate e pianti a non finire, con l’ammonizione per il futuro di non farlo mai più. I pugni battuti sul petto, che cosa ti abbiamo fatto, non meritiamo una simile gratitudine e finale dal barbiere per farmi rientrare nel mondo dei normali. Il tempo di farmi ricrescere i capelli, di combinare qualche casino e via un’altra volta con destinazione Milano.Il perché proprio Milano non lo ricordo. Posso solo ipotizzare che fu per gli indirizzi di amici che avevo, o il fatto che lì ci tenevo dei parenti, o tanto per cambiare d’aria. Quello che importa è che mi ritrovai a Milano fra la cacca dei colombi in Duomo, fra il bordello dei turisti, il casini del traffico e nel punto di incontro fra i Beat, in piazza Cordusio. Stavolta partii con più soldi in tasca e la prima spesa che feci furono una ventina di tubetti di metridina a 1.000 lire, il prezzo che ora ci

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vuole, se fosse ancora in circolazione, per comprarne sì e no 10 pastiglie. Così con la pila ben caricata, vagai per il quartiere di Brera alla ricerca di artisti pazzi, dormendo alla Stazione Centrale, mangiando alla mensa dei poveri o in un ristorante in via Torino a 350 lire fisse a pasto. Facendo la colletta in Duomo in compagnia di sbandati come me, stringendo amicizie con non importa chi. Cominciai a frequentare la Cava di Mondo Beat e a far parte di un movimento eterogeneo, fatto di pittori, scrittori, musicisti, pacifisti, anarchici, i cosiddetti arrabbiati della sinistra. Ma a dire il vero erano più incazzati pulotti e caramba, obbligati a fare appostamenti, controlli, retate. Di incazzati poi Milano era piena. Gli studenti contro il potere baronale delle Università e Licei. Gli operai delle catene di montaggio. Gli emigrati senza un alloggio decente. Gli intellettuali alla ricerca di uno sbocco politico-culturale nuovo. Gli artigiani che soffocavano nella morsa dello sviluppo capitalistico.E chi più ne ha più ne metta.Fra tutta questa ed altra incazzatura, mi stavo facendo anche un certo bagaglio intellettuale di sinistra, andando a incontri, dibattiti, tavole rotonde, meeting, manifestazioni musicali. Per un Vietnam libero e indipendente, per una scuola senza barriere di classe, contro l’alienazione e la mercificazione del lavoro, contro la repressione e la diffida. Mi infurbivo di più sulla vita, sul vivi e lascia vivere. E con tutto ciò una sempre più marcata dipendenza da anfetamina, alcool e fumo.

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Purtroppo non riesco a dare una continuità cronologica ai ricordi. Salgono a galla solo episodi frammentari e accavallati, ciò vuol dire che ho delle cellule cerebrali ormai irreparabilmente fottute. Episodi i più, che riesco a mettere in luce solo per la loro violenza, la loro intensità o per gli shock che mi procurarono. Come la notte che centinaia di carabinieri e poliziotti ci sveglia-rono con urla e calci nella tendopoli beat di via Ripamonti, ribattezzata dal Corriere della Sera “Barbonia City”, terreno che avevamo occupato per piantarci le tende e per viverci lontani dalla città, in santa pace. Anche se in poco tempo, oltre essere diventato un luogo di rifugio per ragazzi scappati di casa e di conseguenza di genitori alla loro ricerca, era diventato un baraccone da circo dove alla domenica venivano a guardarci, attraverso la rete, centinaia di turisti milanesi e dintorni. Fatto sta che dopo averci svegliato in modo violento, ci caricarono su cellulari e ci portarono in Questura centrale, mentre veniva dato fuoco a tutti i nostri averi. Tende, sacchi a pelo e zaini. Fu un grande spettacolo per i reporter dei quotidiani e della tivù di Stato. Del centinaio di ragazzi portati in Questura la metà fu riaccompagnata a casa. Altri furono schedati e cacciati con la diffida, e per gli stranieri il divieto di rientrare in Italia. La mia destinazione, essendo recidivo per le fughe da casa, fu la Casa di Correzione Beccaria, in faccia al carcere di S. Vittore. Così feci conoscenza diretta di come ci si sbarazzi facilmente di chi minaccia il Sistema e la buona coscienza.

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Ragazzi, cosiddetti Deviati Asociali, offerti in pasto a sadici parassiti nel nome pomposo della Giustizia e del correggere per rieducare. Montavano a guardia educatori-guardie ex-secondini o ex-caramba. Sociologi, assistenti sociali o psichiatri, si arrogavano il diritto di classificarti “Recuperabile” e quindi di passarti, dopo mesi, dal Correzionale all’Osservazione. Con il guadagno che dalle celle passavi ai cameroni con la divisa diversa. Se invece eri classificato “Irrecuperabile”, allora toccava aspettare la maggiore età per essere liberato.Altri ancora stavano negli uffici a dirigere la vita dell’istituto. Il Direttore con il diritto dell’ultima decisione. Il suo vice. Il cassiere o tesoriere, fra decurtazioni del budget amministrativo e furti ai soldi degli assistiti, per importanza veniva dopo il Direttore. Per poi finire, l’apparato del Tribunale dei Minori, dove il tuo nome era diventato una pratica burocratica con tanto di Dossier Personale da archiviare un giorno.Di quella esperienza, non l’unica, ricordo vagamente i circa due mesi che passai in Carceraria, con la sua cella che non aveva nulla da invidiare a quelle di Marassi, con la sveglia alle 7 per la colazione e i lavori di pulizia. Dopo il pranzo si andava nel cortile all’aria, per poi alle h.16 nell’aula ad ascoltare le cazzate di chi a turno ci voleva propinare principi di educazione Civile.Dopo cena una capatina in cappella per pregare (chi?), in sala ricreativa e infine accompagnato dall’ex-secondino di turno alle celle, con la stessa nauseante monotonia di tutti i giorni, rotta solo dai colloqui con i familiari , per chi li aveva, i colloqui con il sociologo e

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la violenza quotidiana che regnava al Beccaria, fra punizioni corporali, botte fra di noi o per sfogo o per il rispetto del gruppo.Quando uscii dopo due mesi, al posto di essere rieducato, avevo nella testa solo tanta rabbia repressa e una ribellione da far esplodere.Dopo un periodo più o meno lungo ritornai a Milano con l’entusiasmo e la rabbia della mia età. E ritornai giusto in tempo per vivere la straordinaria esperienza dell’inizio del magico ‘68, che non solo cambiò radicalmente il modo di pensare, di vivere, nei rapporti di classe e di potere, di religione, di un’intera gene- razione, influenzando di fatto le altre che verranno, ma posso dire con certezza che cambiò anche il mio stile di vita e di pensiero-azione. Sessantotto magico della Statale, Cattolica, Manzoni, ecc... Con le occupazioni, sit-in, assemblee, cortei, e le manifestazioni piene di gioia e rabbia. Con i katanga del Movimento Studentesco, con l’eskimo e le spranghe in mano. Le molotov contro la 2° Celere Padova, i sampietrini nelle tasche, con i fazzoletti e le bandiere rosse-nere al vento.Delle prime fermate spontanee e blocchi di produzione nelle catene di montaggio della Fiat, dell’Alfa e del Pirellone, per un lavoro umano, contro lo sfruttamento e l’alienazione del ciclo produttivo continuato. Contro le gerarchie di fabbrica e l’immobilismo sindacale. Sessantotto magico della contestazione globale alla politica serva del padrone, alla cultura schiava dei baroni. Della rimessa in questione dei metodi educativi della famiglia, dei tabù del sesso, della religione di classe, dell’imperialismo yankee nel terzo mondo e

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nell’Indocina. Del mostro capitalista sfruttatore fascista, della guerriglia Guevarista, di quella urbana di Marighella, di quella cattolica di Padre Torres.Della rivoluzione in Vietnam e di zio Ho col nipote Giap, e della Rivoluzione culturale della Cina di Mao. Sessantotto che ti lasciava poco da respirare e ancor meno da pensare. Dove nessuno si salvava e nessuno era immune o vaccinato da quella forza che straripava dalle università e dalle fabbriche europee, dai campus degli States, dai Pueblos Sud-Americani alle risaie vietnamite, fino alla lotta contro il Colonialismo nell’Angola e Sud-Africa. Era un Terremoto Umano e Proletario che allora la classe politica bollava come lotta degenerata di una gioventù che aveva perso il rispetto verso i propri padri, verso i valori sociali e spirituali, verso la Patria. Senza morale, senza costume.Gli stessi politici che a distanza di vent’anni, oggi, commemorano il ‘68 con elogi di giusta ribellione e discorsi di democrazia gratuita. Ma si sa che una volta passata la paura di perdere prestigio e poltrona, e i fantasmi sono ormai esorcizzati e beatificati, allora tutto ciò diventa patrimonio culturale. E’ il recupero della democrazia.Bob Dylan, Jimmy Hendrix, i Beatles e Jim Morrison affogavano a tempo di folk, rock, blues i vari San Remo, Cantagiro e Festival caserecci stronzi. Ma fu anche un anno da non dimenticare per il mio ricovero in manicomio complice un super dosaggio di anfetamine che mi portarono a uno stato comatoso e confusionale davanti alla Stazione Centrale di Milano e da lì con l’ambulanza ad Affori. Uscito da questo ricovero, non

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poco tempo dopo, mi si chiusero alle spalle i cancelli di una Casa di Rieducazione, a Genova. In parole povere il sessantotto mi si aprì sotto i più entusiastici auspici e terminò dentro le Istituzioni Negate dello Stato. Quel che oggi si chiama Ospedale Psichiatrico o Neuro grazie alla legge Basaglia del 1970, ieri si chiamava semplicemente Manicomio. Beninteso come è d’abitudine di ogni governo che si voglia, fatta la legge si scopre l’inganno. E l’inganno nella Basaglia sta nel fatto che è cambiato solo il nome del ricovero, perché l’ambiente e le strutture, a parte i pochi luoghi tipo Trieste, sono gli stessi di una volta. Luoghi dimenticati dagli uomini e da Dio. Oltre a lucrarci sopra servono solo a isolare, nascondere soggetti scomodi e asociali, per salvaguardare la Coscienza Cattolica di una Repubblica fondata sul furto e sulla divisione di classe.Come Dante: “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”, legato a una barella feci il mio ingresso nel Manicomio di Affori, fuori Milano. Il primo flash di quando ripresi coscienza fu, a parte le cinghie che mi legavano al letto, il viso grinzoso dal naso adunco di un vecchio che ridendo senza denti ripeteva con ossessionante monotonia: “Sono Orso Bianco, sono il capo e da qui non ne uscirai mai più.” E giù una risata. Quelle frasi senza senso mi facevano andare in paranoia insieme alla impossibilità di muovermi. Dov’ero? Cosa ci facevo così legato?Impotente di zittire quel bastardo di un vecchio e di mettere a fuoco questo casino, erano gli interrogativi a cui mi sforzavo di dare un senso logico, una dimensione reale. Ma erano sforzi vani e senza risultato. Nella

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stanza c’erano sei letti, una tavola di metallo e le sedie in mezzo, tutto piombato al suolo. Una lampada fissata al soffitto, delle sbarre alle due finestre e l’anonima porta. Per finire i muri avevano la pretesa di essere bianchi e dulcis in fundo non poteva mancare l’onnipresente crocefisso anch’esso fissato alla parete.Queste furono le prime impressioni di una situazione, né cercata, né voluta, e altre sorprese mi avrebbero fatto compagnia nei 45 giorni vissuti in Manicomio. Sorprese nel conoscere la metodologia della cura fatta sulla pelle, o meglio, sul cervello a persone normali che avevano solo il torto di essere di peso alle loro famiglie, di condurre una vita fuori dagli schemi.Alcolizzati, barboni, drogati, giovani con sindrome depressiva sfociate in manifestazioni di auto-violenza, vecchi con manie persecutorie. Gente con questi sintomi se ne trova a migliaia ovunque, invece che rinchiusa qui al servizio della moralità e della medicina discriminante. Costretta a essere selezionata dal campo della diagnosi comportamentale. Ovvero cavie per psichiatri, socio-logi, professori, fino al medico della Mutua.Imparai che l’intelligenza viene misurata attraverso un test e il suo punteggio finale. Una dottoressa ti mostra delle macchie nere su un foglio bianco e tu devi dire cosa ci vedi. Una casa, una farfalla, una montagna. Via libera all’immaginazione.Un’altro camice bianco ti poneva delle parole cretine a cui dovevi dare subito una parola abbinata. Città-Case. Strada- Macchine. Donna-Letto. Ancora un’altra prova con domande sulla tua vita, sul tuo personale, lavoro, famiglia, sesso. Oltre a questo c’erano anche prove

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fisiche, sedute per capire le tue reazioni muscolari e nervose, l’encefalogramma, una terapia a base di psicofarmaci, bromuro, fleboclisi, porcherie simili che ti tenevano compagnia giorno e notte. Altra sorpresa era l’ora dell’aria in giardino dove gli elementi più pericolosi, secondo gli infermieri, venivano legati alle panchine o agli alberi. Anche le urla delle persone legate ai letti di contenzione, improvvise crisi nevrotiche, non importa a che ora, tentativi di fuga o suicidio.Ma per fortuna tutto era sotto controllo medico e per chi dava segni di squilibrio oplà, era pronto un sistema di prevenzione fatto di camicie di forza, massicce dosi di calmanti, docce fredde e celle imbottite e poi c’era sempre il pezzo forte del menù: l’elettroshock. La stanza dove veniva praticato stava in una posizione strategica, a metà del corridoio della corsia, e sembrava messa lì a monito per i pazienti che durante il giorno era- no costretti a passarci davanti. Queste terapie di prevenzione e urto non guardavano in faccia nessuno, né per età, né per sesso.Ricordo un vecchio calabrese, analfabeta, abbandonato dalla famiglia. Anche un ragazzo di 15 anni che nella sua vegetale esistenza fra quattro mura, ogni tanto senza preavviso, si tra- sformava in un animale braccato da fantasmi e allucinazioni, correva come un disperato nascondendosi sotto i letti gridando: “No, no, non voglio! Vattene maledetta, vattene!”Tremante e bagnato dal sudore, era terrorizzato perché la Maga Circe voleva trasformarlo in un maiale. Dove e perché avesse subito questo trauma non lo avevano

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ancora capito, nonostante fosse lì da più di un anno. Ricordo un’altro che veniva legato al letto ogni notte perché aveva tentato di ammazzarsi. Un’altro ancora che quando incominciava a sbavare e singhiozzare veniva portato nella cella imbottita per evitare ag-gressioni violente verso il suo prossimo. Ci sarebbero altre storie da testimoniare, ma la bestialità più abnorme era lo stesso ambiente allucinante con le sue terapie di merda che ti portava a dare segni di squilibrio, anche se eri entrato sano. Figurarsi per uno che entra all’età di 15 anni che segni può lasciare, ci sarebbe da scrivere un altro libro. La bibliografia di denuncia e contro i manicomi è sterminata, anche il cinema se ne é occupato, quindi non mi sembra il caso, archiviamo la faccenda con la mia uscita, cartella medica alla mano, quoziente di intelligenza 136, sopra la media normale. E come il vecchio detto popolare mette in guardia, “Dalla padella alla brace” , io ho solo da cambiare le parole in “Dalla struttura sanitaria, alla struttura di disGrazia e inGiustizia, cioè dal manicomio alla Casa di Rieducazione.Il bello della storia è che questa volta non avevo commesso nulla, nessun reato per finire nella mano del Tribunale dei Minori di Genova. Sta di fatto che poco dopo il rientro a casa, dove trascorrevo le giornate fra alcool, anfetamine e occasionali sniffi di coca, mi arrivò una lettera che mi ingiungeva di presentarmi al Tribunale di Genova dove si riuniva una Commissione di Tutela o Vigilanza, e nella stessa lettera mi si confermava che ero da quel momento sotto la custodia di un assistente sociale, tale Carla.

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Che cazzo volessero non ne avevo la più pallida idea, e al primo momento mi salì un rifiuto spontaneo dall’andarci, poi, sotto pressione dei familiari, acconsentii. Presi appuntamento per telefono e così mi recai nell’ufficio di questa Carla il pomeriggio barcollante dal veleno ingoiato per meglio fare la sua conoscenza. Accoglienza cordiale, tutta sorrisi dalla sua parte, reticenza dalla mia. Età circa 30 anni, alta, capelli lunghi e una gran parlantina a 32 denti in mostra. Dopo parole e sorrisi convenzionali finalmente scoprii questa messa in scena. Ero stato chiamato dal Tribunale per una riunione di Camera di Osservazione sul mio caso, e da lì i giudici dovevano trarre le conclusioni se dar- mi in prova ancora alla mia famiglia, ma sotto il loro controllo, oppure mandarmi in un istituto. Bene o male erano queste le due alternative che avevo davanti, non certo allettanti per il mio futuro. Varcai il portone del Palazzo di Giustizia in via S. Lorenzo verso le h. 17 e percorrendo il grande atrio entrai dentro la sezione minori dove fui preso dal panico e se non fosse stato per Carla sarei certamente scappato dal quel luogo che sapeva tanto di Inquisizione. Era una sala enorme, altissima di soffitto, con poca luce. E lì in mezzo stavano cinque persone mai cagate. Si presentarono.Uno era un giudice, poi uno psichiatra, un operatrice sociale, uno scribacchino e uno che, oltre a non presentarsi, non aprì mai bocca. Saluto freddo come l’ambiente. Mi fecero accomodare fra lo psichiatra e la Carla, mentre il giudice incominciò a elencare tutta la serie di misfatti e reati che mi avevano condotto fra le loro braccia. Poi iniziarono a parlare del mio caso fra di

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loro, come se io fossi lì solo per fare da soprammobile o bella statuetta. Parlarono delle mie fughe, della droga ,dei capelloni, della mia famiglia, dell’educazione, del carattere e si chiesero se potenzialmente ero un soggetto ancora affidabile ai genitori o occorreva altro per la mia crescita. Alla fine, dopo aver letto la cartella clinica del manicomio, mi fecero uscire con la persona che non aveva mai aperto bocca. Nell’attesa fumai una sigaretta dopo l’altra e dopo mezz’ora mi fecero rientrare. Si alzarono dalle sedie foderate e il giudice con l’aria di chi non gliene frega niente sentenziò che visto gli atti eccetera eccetera, che dopo aver ponderato ecc., visto e considerato che ecc., mi lasciavano per un periodo in prova ancora presso la mia famiglia e che una volta a settimana dovevo presentarmi dall’assistente sociale, oltre che beninteso confidavano in una mia buona condotta.Fuori dal Tribunale quella stronza della Carla mi disse: “Spero che questa volta ti comporterai bene, dunque lo sai quale sarà la tua destinazione”. Puàh, che merdoso ricatto!Mentre galleggio nel passato mi risalgono dei flash, senza ordine cronologico.Come quella notte a Milano, quando i fascisti di S. Babila fecero irruzione nel Verziere, il vecchio mercato ortofrutticolo abbandonato da tempo e occupato da barboni e capelloni. Con spranghe e coltelli al grido di “Duce Duce” ferirono in maniera grave due di noialtri. La polizia al posto di dargli la caccia fermò noi, tutti quanti, portandoci in Questura, mentre i giornali riportarono la notizia come una rissa scoppiata fra

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capelloni. Rivedo la mensa dei poveri vicino alla Stazione Centrale, la scodella di minestra calda e il pane con la mortadella. Il concerto di Jimmy Hendrix al Piper finito con il primo buco di eroina. Gli sniffi di coca occasionali nel quartiere di Brera e la ciucca colossale al concerto dei Beatles, a Genova. La manifestazione pacifista organizzata da Mondo Beat contro la diffida e i fermi di polizia. Noi si offriva dei fiori alla gente mentre venivamo caricati dagli sbirri. Le scopate con la Susy fra mille promesse mai mantenute. Le lacrime di Maria fuggita da casa con me e portata alla Casa di Rieducazione Nazareth di Torino. La Paola, dolce puttanella, che non aveva problemi a portarsi a letto chi per lei era più beat. Ricordo le eterne collette, dove non importa, ovunque.I furti fatti a discapito dei froci e delle auto di notte.Bistecca che mi passava la metridina perché si era innamorato e regalandomela pensava di riuscire a farmi. Fantasmi dimenticati, bruciati negli anni che vanno dal ‘64 al ‘68, mi accompagnano nella solitudine di merda che vivo attualmente. Come molti altri. Nel ricordarli provo fitte di nostalgia paragonandoli alle generazioni di oggi, smidollate, senza fantasia e ideali, piene di diritti e pretese senza aver minimamente lottato e sofferto.Da Carla ci andai si e no per due o tre mesi, a sorbirmi le sue cazzate. Finché con le palle in giostra e pieno di alcool e anfetamine scappai un’altra volta di casa, mandando a farsi fottere i buoni propositi e le promesse, per andare a Parigi senza sapere il perché. Avevo una tale confusione e una carica. Arrivai giusto in tempo per

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assistere al funerale del Movimento della Gauche Proletariénne e alla vittoria della repressione statale e gollista.Non fu uno spettacolo edificante, anzi il solo girare per il Quartiere Latino ti metteva una tristezza indescrivibile addosso. Le strade squassate, i muri anneriti, le scritte rivoluzionarie salva- tesi dagli imbianchini comunali e dal nero bruciato dei candelotti e delle molotov. Dove una volta pulsava l’energia di una nuova generazione che lottava e cantava per una società nuova, ora trovavo solo i passi svelti dei viandanti che suonavano marce funebri e addii sommessi.Conobbi una ragazza svizzera, studentessa di qualche liceo, e con lei fu un’avventura strana, senza pretese né promesse.Stavamo bene insieme fumando merda, bevendo pastis e facendo all’amore nel suo mini appartamento. Non so cosa trovasse in me, ma sta di fatto che mi mantenne economicamente senza chiedere niente di complicato in cambio. Durò un mese, poi volle che l’accompagnassi a casa sua. Arrivati a Basilea, senza fare tante parole né complimenti mi scaricò dalla sua esistenza nella piazza centrale che in italiano ha il nome di “Piazza dei piedi scalzi.” Che ridicolo, oltretutto non sapevo un accidenti di tedesco, ma ebbi un colpo di culo nel conoscere Mario, cameriere immigrato, che mosso dalla pietà mi regalò una cinquantina di franchi per far ritorno in Italia.Nella confusione totale che stavo vivendo, prendevo i passaggi delle auto senza avere una direzione precisa, e senza che me ne importasse un gran ché. Vivevo in una dimensione talmente incasinata da non sapere con chi

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parlavo, di cosa parlavo e dove andassi. Non so come mi ritrovai a Lugano, ricordo che venni condotto alla Gendarmeria per accertamenti, espulso dalla Svizzera con la diffida per tre anni timbrata dietro la carta d’identità e accompagnato al confine italiano dove mi consegnarono ai poliziotti di frontiera. Seppi più tardi che a Lugano si erano dati appuntamento, per un convegno non autorizzato, il Movimento Anarchico di casa nostra , quello elvetico e quello francese.Dovevo avere proprio un aspetto da bombarolo.In Questura stessa storia di merda, con relativi controlli, la notte passata in guardina e l’immancabile ritorno a casa accompagnato da due angeli custodi.Mi accorgo di quanti pochi momenti belli e felici abbia ricordato a favore invece di ricordi fottuti di pessimismo. Il negativo è quello che più è entrato in me, mettendo in minoranza quello che di positivo c’è stato. E’ la personalità che mi sono formato, attraverso esperienze dove la paura ha lasciato il posto alla diffidenza su tutti e tutto. Il rancore al posto dell’amore. L’egoismo all’altruismo. Il pessimismo all’ottimismo. Quel pessimismo che mi ha portato a fare delle scelte sballate sapendo in anticipo ciò che mi arrecavano. Nel cercare l’annullamento totale e in diversi casi cercare consapevolmente la morte, come soluzione finale. Nell’isolarmi dalla realtà vivendo in una magica campana artificiale, fregandomene di tutto. Nella paranoia di sbagliare anche nelle cose più semplici, nel cercare quelle difficili sapendo in partenza del fallimento. Nella paura di avere rapporti semplici con la gente, dell’incertezza nel portare avanti legami

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sentimentali mettendoli sul materialismo del sesso e di quel che potevo trarne di guadagno. Nel terrore della solitudine di essere me stesso, con i propri difetti, limiti, casini, ma vivendo con una personalità sdoppiata e ambigua. Queste riflessioni sul chi ero, o meglio chi sono, non fanno altro che accrescere il vuoto e la nausea che sento intorno.Cazzo quanto mi sono e mi sto complicando la vita al posto di rovesciarla o seppellirla, al posto si uscire da questo fottuto pessimismo e incominciare ad essere più ottimista con me stesso e il domani...cazzo quanto!E’ come ieri quando la Carla mi chiama nel suo ufficio al rientro dalla Svizzera e con un raggiro di parole mi porta alla Casa di Osservazione per minori a Pontedecimo. E con la scusa che sarei rimasto lì pochi giorni in attesa di una stabile sistemazione altrove. Avevo talmente il morale a terra che accettai. Avevo fatto una cazzata e oltre a maledirmi non so quante be-stemmie le tirai dietro. Appena Carla mi scaricò davanti all’ufficio del direttore fui preso in consegna da una persona che si qualificò come educatore Mastropasqua e mi disse di seguirlo. Stando dietro al suo camminare strascicato, dovuto ad un incidente d’arma mentre era in servizio nella polizia giudiziaria, lo seguii in una specie di cameretta e lì mi disse di spogliarmi di tutti i vestiti chiedendomi il numero della mia taglia. Andò ad aprire un armadio da dove cavò un completo di lanaccia grigio con relative camicie crema e un altro completo di panno blu, con delle magliette marroni e celesti. In più mi diede un paio di scarpe da nonni con lacci e un paio da ginnastica. Era la divisa ufficiale dell’Istituto ed io ne

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ero entrato a far parte con tutti gli onori e oneri. Mi sequestrò i pochi soldi e i documenti e sempre con il suo passo strascicato mi accompagnò nel cortile di ce- mento, sottostante all’edificio, dove stavano una ventina di ragazzi a giocare e oziare. Stavo lì a guardarli, ancora senza capacitarmi di cosa ci facessi, cercando con lo sguardo la figura della Carla per dirle che me ne andavo via. Ma la puttana era già partita lasciandomi come un pacco postale arrivato a destinazione. Mi sentivo un animale in gabbia. Era come se il Beccaria non lo avessi lasciato mai, come se Francia e Svizzera fossero solo un incubo. Mi svegliai subito quando cominciarono a chiedermi il nome, delle sigarette, il perché ero finito lì e le soli- te stronzate che si domandano quando sei dentro. Mi svegliai alla svelta nel capire che anche qui c’era il solito gruppetto di prepotenti che comandavano sotto gli occhi compiaciuti degli ex-secondini, ora educatori all’ombra del direttore che incuteva paura e rispetto, tipo Duce. Mi svegliai presto per capire che se volevo vivere l’unico mezzo era il farsi rispettare con la violenza, che ne dessi o ne prendessi di botte era uguale, il linguaggio del carcere non cambia. Non importa come venga chiamato o dove si trovi. Mi svegliai presto per capire che l’avevo preso in culo con la vaselina monopolio di Stato.Le strutture, il ritmo delle giornate, la repressione intesa come rieducazione, il sentirsi a tutti gli effetti prigionieri e giocare alla spietata legge della prepotenza e dei sopprusi quotidiani, era simile al Beccaria. Anche se non si dormiva in celle singole ma in camerate da 10 letti.

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A parte le due celle che servivano per i reati più gravi, tipo la fuga, il furto, il rifiuto agli ordini, ecc... Anche se non c’erano mura da cinta o sbarre. La domenica si andava a messa e al cinema del quartiere, tutti vestiti con la divisa grigia, e potevi andare fuori in permesso con i genitori. Potevi comprare sigarette con i soldi personali e due volte al mese si guardava la tele fino alle h.22.30. Anche se il numero dei ragazzi era inferiore al Beccaria l’ambiente era bastardo uguale, violento e repressivo.L’occasione per fuggire era a portata di mano tutti i giorni...sì ma dove? Chi scappava faceva sempre poca strada con la divisa addosso. Lo trovavano in Via Prè o nei vicoli vicino al porto. Alla stazione di Principe o intento a fare l’autostop. E chi riusciva a uscire dalla città, niente paura, prima o poi lo pescavano a casa sua, in qualche banda di periferia o a compiere una rapina. L’andare a messa o al cine la domenica in fila come appestati, fra i sorrisi ironici e le risatine della gente del luogo, o le mamme che ci additavano come cattivo esempio, non si può chiamare vita. Sì! Si aveva la libertà di fumare come turchi, secondo le condizioni economiche, ma alla prima infrazione verso le strutture o i capoccia, levavano le sigarette anche per dei mesi. La prostituzione era una fonte di sopravvivenza per i più deboli, i più poveri. Si prostituivano per un pacchetto di sigarette, per avere protezione, per avere lavori meno pesanti o altri favori. Francesco, dodicenne meridionale di S. Remo, marchettaro di richiesta con alle spalle fughe continue dalla famiglia che lo trattava al pari di uno schiavetto, con botte e digiuni quotidiani. Maurino,

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che per 5 sigarette era disponibile per fare pompini. Anch’esso dodicenne meridionale, messo dentro per piccoli furti. Michelino, quindicenne settentrionale di Milano, alla sera tarda lo si vedeva entrare furtivo nella camera dell’educatore Mastro per uscirne a notte inoltrata. Finito dentro per intervento diretto dei genitori, come punizione per aver rubato in casa.Per via dell’età, io andai a dormire nella camera dei grandi, dai 16 ai 18 anni. I cosiddetti duri, quelli che dettavano la legge del più forte, quelli che erano a contatto diretto con educatori e direttore nel dare manforte al rispetto dell’ordine e della gerarchia. I più gran figli di puttana!Da parte mia cercavo di fare i cazzi miei senza andare a cercare delle grane. Strinsi subito amicizia con il Lungo, per via della sua statura, che venuto a conoscenza dei miei trascorsi a Milano e soprattutto del periodo passato al Beccaria, suo precedente istituto, mi prese per così dire sotto la sua protezione, facendomi fare conoscenza del gruppo e facendomi entrare a farne parte. Dico fortuna perché mi facilitò ad ambientarmi senza tanti problemi, e sfortuna perché mi coinvolse nella sua fuga con risultati poco allegri.Un altro colpo di culo lo ebbi nel saper giocare bene a pallone, cosa che mi fece entrare nelle simpatie del Direttore, tifoso della Juve e con il pallino di formare una squadra di calcio competitiva per poter partecipare ai vari tornei calcistici della provincia.Tale simpatia mi fruttò in seguito più libertà di movimento sia all’interno che all’esterno. Cosa che mi permise di far entrare delle anfetamine, fumo e alcool ,

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comprate in farmacia e bar, di nascosto. Mi permise di far uscire delle lettere senza la censura del Direttore. Fare telefonate personali e per terzi. Tutto questo accadeva dopo 4 mesi senza aver mai avuto la possibilità né di ricevere o fare telefonate, né scrivere o ricevere posta. Mesi che mi videro diventare di giorno in giorno sempre più figlio di puttana, più menefreghista e immischiato in faccende fuori dai regolamenti. E così diventato capitano della squadra, grazie ai meriti atletici (sic!), cominciai ad avere occasioni di uscire a far delle spese o commissioni per il personale, baciato dalla fiducia acquisita. Al Lungo maturò l’idea della fuga organizzata dall’esterno, e chi meglio di me poteva dargli una mano in una simile impresa? Sulle prime ero riluttante ad aiutarlo per paura di perdere i pochi privilegi conquistati, oltre da quello che mi sarebbe capitato in caso di fallimento. E di fallimenti ne avevo già visti parecchi. Poi, sotto pressioni, minacce e leccate, accettai senza molto entusiasmo.Il piano di fuga era a dire il vero molto semplice. Consisteva nel fare una telefonata ad un suo amico di S. Remo, dargli l’ora (mezzanotte), il giorno e il mese in cui doveva trovarsi davanti all’entrata dell’istituto con dei vestiti di ricambio. Visto così era facile come un giochetto da bambini, anche perché a mezzanotte finiva il giro d’ispezione delle camere e per quello che avrebbe combinato una volta fuori aveva già avvisato via lettera il suo amico. E così nel mese di aprile la fuga avvenne senza incidenti di percorso. Brindammo tutti : “Lunga vita per il Lungo.”

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Ma si era fatto il conto senza l’oste, e l’oste non era altro che il Direttore, che al suo solito modo da inquisitore alla Gestapo, interrogò uno a uno tutti noi, finché raccogliendo voci a destra e manca, ricostruì l’episodio della fuga anche se ancora gli mancavano i nomi dei complici . Ma di vita libera il Lungo ne ebbe poca, fu arrestato durante una rapina a una oreficeria e rispedito in istituto. Non fu lui a cantare i nomi dei complici, ma uno di noi che per paura di essere smascherato commise l’infamia. Oltre alle botte e la cella di isolamento per una settimana furono tutti trasferiti in istituti peggiori. Io no. Fu il calcio che mi salvò, il direttore ebbe paura di perdere il capitano della squadra e sfigurare nel torneo che si doveva tenere in giugno. Ma mi vietò di uscire da solo, mandandomi in tilt. La vita continuava a girare volente o nolente, così ritornai alle vecchie abitudini, alle risse, a cercarmi la vita non importa come. La legge della galera non ammette repliche. L’unico incentivo che mi gratificava era il pallone, con ciò arrivai al mese di agosto in cui potei usufruire di un permesso di 15 giorni da trascorrere a casa mia. Sempre sotto osservazione del tribunale.Furono 15 giorni di merda, di sbronze, d’impasticcamenti, di confusione totale. Ritornai in istituto come un burattino senza fili, senza voglia di darmi una mossa. Ero rimasto il più anziano del gruppo ma non me ne fregava niente di sfruttare la situazione per vivere meglio. Ero come morto.

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Intanto il 1969 era iniziato e continuato nel caos mentale più fottuto, chiuso in un istituto non ero cambiato in meglio.Anzi più si andava avanti e più peggioravo. Ingoiavo tutte quel- le caramelle per avere un aiuto a sopportare una realtà di merda, per farmi coraggio ad accettarla in uno stordimento letale. Caos nel non sapere più cosa volevo, il perché vivevo. Caos nel mio isolamento, accettare passivamente situazioni da vomito. E questo caos continuerà a farmi compagnia dopo il 1976, quando giunsi alla fine della mia fallimentare militanza politica nella cosiddetta Lotta di Classe per la Rivoluzione Proletaria.Sprofonderò nel casino più totale, più demenziale.Giocherò tutti i giorni autodistruggendomi con buchi d’Ero, Morfina, Coca. Come uno Zombi!Tornando ai fatti dell’estate del ‘69, il destino volle, o fu l’iter burocratico, che in settembre mi fecero una Camera di Consiglio presso il Tribunale dei Minori, lì mi venne detto che per continuare il mio recupero, visto che la famiglia era impossibilitata nel seguirmi, avevano scelto un posto ideale per il mio carattere. Un posto a conduzione familiare, senza istruttori né divise. Dove forse potevo trovare il terreno ideale per il mio reinserimento sociale. Il luogo era chiamato “Focolare”ed era uno dei primi che apriva in Italia in via sperimentale. Non è che mi dicesse molto in quel momento. Andare in un posto o in un altro col morale che avevo era tutta la stessa merda. Il mio pessimismo sarà smentito. Il Focolare si trovava dalla parte opposta all’Istituto, pur essendo nella stessa Genova. Era

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completamente opposto in tutto e per tutto. Era una ex villa di periferia, senza celle né cancelli. Senza guardiani né paranoia da punizioni. Era come un flash allucinante dopo un viaggio paranoico. Eravamo cinque ragazzi arrivati dai vari Istituti Correzionali del nord e anche se non ci conoscevamo ci accomunava un senso di solidarietà contro l’esterno, miseria spirituale, rabbia antica repressa, incredulità e timore sulla nuova destinazione.E mentre prima, chiusi fra quattro mura, sognavamo di fare e disfare una volta fuori, ora la situazione nuova ci prendeva tutti alla sprovvista. E poiché vivendo con l’esterno ci veniva a mancare il nemico da eliminare, conosciuto nella figura del giudice, del direttore, dell’educatore e del poliziotto, questa ansia la si sfogava, la si ritorceva contro noi stessi con risse per motivi futili. Tutto accompagnato dal solito linguaggio del vaffanculo che cazzo vuoi figlio di puttana, bagaglio culturale della Rieducazione Istituzionale.Insomma eravamo un’accozzaglia di rifiuti sociali, giuste cavie per far fallire ancora prima di decollare l’esperimento dei Focolari, osteggiato già alla sua partenza dalla maggioranza degli psichiatri, associazioni, educatori e giudici, ancora prigionieri della vecchia mentalità educativa fascista, oltre che bloccati dalla paura di perdere potere e privilegi da questa innovazione riformatrice. Quelli che volevano portarlo avanti erano individui usciti dalla contestazione del 68 con posizioni critiche, per cambiamenti radicali del sistema educativo degli istituti.

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Fu per me un’esperienza irripetibile. Mi portò una certa razionalità e responsabilità nella vita, ed anche un certo equilibrio e lucidità. Riuscii a maturare degli ideali, una coscienza politica e un’esperienza ricca di vita, che mi aiutò molto nella crescita di una personalità autonoma, che era quella che mi mancava.Di quei due anni vissuti al Focolare ricordo con piacere che riuscii a tenere lo stesso lavoro in una ditta facendo il pulitore di metalli, con serietà e coscienza. Riuscii a coinvolgermi nei problemi sociali ed economici della società, fino allora identificata come il nemico principale di tutti i miei casini. Trovai inoltre il gusto di vivere in modo attivo e delle persone che lasciarono un segno nella mia crescita umana. Ma la cosa più importante fu che da anonimo casinista irrazionale, coinvolto in fatti, situazioni, cambiamenti socio-politici di cui non riuscivo a dare una definizione concreta, una sua giusta dimensione, né a sapere a quale livello misurarmi, trovai delle risposte a tali interrogativi che mi frustravano, nel non sentirmi parte viva, concreta, creativa, a quel che fino ieri avevo vissuto.Per ritornare al Focolare debbo dire che oltre a essere diverso dagli altri Istituti sia come struttura che vita all’interno, intesa come non struttura chiusa, e libertà di movimento all’interno dove c’era solo da rispettare gli orari del pranzo e una certa ora di rientro alla sera concordata, era anche diverso a livello di controllo da parte di personale di sorveglianza. Vale a dire che non c’era la solita figura del Direttore Padrone, degli Educatori Picchiatori, ma al loro posto si trovava a livello di Responsabile un uomo aperto, simpatico,

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spontaneo, che ci teneva molto ad avere con noi un rapporto basato sulla fiducia, collaborazione reciproca e amicizia. Come per gli educatori che non erano nient’altro che studenti di sociologia e teologia e stavano con noi come collaboratori del Responsabile. Per questo ed altro erano visti da noi, i primi tempi, con scetticismo. C’è da dire in ultimo che insieme al responsabile, di nome Lino, viveva anche sua moglie Rita e il loro piccolo Matteo di 2 mesi. Oltre a non darsi mai arie, né a farci pesare l’essere moglie di Lino, per noi era una carissima amica con la quale parlavamo volentieri dei nostri problemi sentimentali e sessuali.Invece della nostra banda di asociali ricordo, anche perché con loro vissi momenti di lotta politica e poi insieme in un apparta- mento, Angelo di Milano che da dannato donnaiolo e pazzoide per il Rock finì col sposarsi, padre di due bambini e serio operaio militante del P.C.I. Antonio, leccese, sempre col sangue in ebollizione in cerca di risse e furti. Genovese di adozione, taciturno e semiserio, quando si incazzava era meglio stargli alla lontana. Alla ricerca disperata della sua Rivoluzione, prima da anarchico individualista, poi in Lotta Continua, e per finire impiccato in cella, reo di appartenere alle B.R., mai provato.Con loro vissi momenti fantastici e altri difficili per 2 anni di fila. Poi c’era Giovannino, calabrese di Milano, col suo sorriso da eterna presa per il culo. Menefreghista e alieno a tutti i tipi di autorità. Veloce di mano e di gambe, nemico giurato degli sbirri, ma nello stesso tempo allegro, altruista e un caro amicone, sempre pronto a mettersi nei guai per gli amici. Massimo,

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effeminato marchettaro e borsaiolo di Milano, falso con se stesso e gli altri. Pieno di paure verso i sentimenti e le cose semplici. Queste erano le persone che formavano la Famiglia. Persone non più viste dal lontano 1970. In quanto all’aspetto sociale, ognuno di noi cinque aveva un lavoro con relativo stipendio che ci tenevamo, amministrandocelo. Ognuno di noi aveva le sue amicizie esterne, i suoi amori, i suoi casini, tanto che la vita comunitaria per quel poco o tanto tempo che si trascorreva insieme, ci rendeva ogni giorno più amici, nel vero senso della parola.Queste improvvise libertà nei fatti, e il nuovo ambiente, mi la- sciarono per i primi tempi disorientato e insicuro ,come pure il lavorare con regolarità in fabbrica, con i suoi tempi si produzione, la sua sirena, il suo cartellino da timbrare e le sue contraddizioni. Poi superato l’empasse iniziale, la voglia di conoscere nuove esperienze ebbe il sopravvento. All’interno del Focolare, in certe serate, si davano appuntamento cattolici di sinistra del P.C.I., dello PDUP, preti scomodi alla Don Milani, studenti e operai di vari comitati di quartiere, Don Gallo con S. Benedetto al Mare, ecc.ecc. Discutevano di problemi sociali, quali l’emarginazione dei giovani, del movimento operaio, del nuovo ruolo della Chiesa, delle lotte di liberazione del terzo mondo, della politica in generale. A questi incontri cercavo sempre di essere presente, perché sentivo che mi aiutavano a uscire dalla confusione vissuta fino a ieri, a indirizzare le mie incazzature verso obbiettivi concreti.

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Non so come fu o come avvenne l’incontro con dei compagni di Lotta Continua, incontro che mi coinvolse per 6 anni in una militanza politica al suo interno. Ricordo vagamente che fu Sergio Battaglia, tutt’ora ergastolano in carcere per banda armata (XXII Ottobre) rapina e concorso in omicidio, che una sera ci portò nella sede di L.C. di Cornigliano, per partecipare a una riunione politica.Fu forse per l’atmosfera carbonara, per il modo semplice e spontaneo di come fummo accolti, per il tipo di linguaggio o dialettica o per la figa che c’era, che mi sentii attratto da tale gruppo, anche se la mia preparazione politica era fatta solo di una rabbia emotiva della strada.Date, nomi, luoghi e fatti più o meno importanti, avvenimenti, situazioni si sono accavallati, superati, mescolati, precipitati,confusi fra di loro. E’ impossibile porli in perfetta sincronia e continuità perciò lascio perdere di rompermi il culo nel farlo, scrivo tutto quello che mi verrà in testa, i flash del passato.I primi tempi della mia militanza politica li vivevo senza turbare né rompere con l’ambiente del mio lavoro, né con quello del Focolare. Mi rendevo disponibile nelle ore libere a svolgere volantinaggi davanti alle scuole, nei quartieri, nelle fabbriche, nella vendita militante del giornale e nelle riunioni. Dato che la maggior parte dei compagni in L.C. erano studenti e intellettuali ed io uno dei pochi che lavorava, il mio ruolo o figura di rappresentante della classe operaia mi poneva al centro di una certa attenzione di privilegio agli occhi del gruppo. Ero portato alle riunioni di vari comitati di lotta,

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nelle occupazioni delle scuole, nelle assemblee sindacali e di partito. In poche parole ero strumentalizzato ai fini della politica del gruppo. C’era di positivo che smisi d’impasticcarmi e di usare anfe, tanto ero preso dagli avvenimenti in cui mi trovavo. Continuavo a bere per superare l’insicurezza, la timidezza del provincialotto che era ancora in me, bevevo ad ogni occasione che mi si presentava. In casa di compagni, ai concerti rock, sulla spiaggia, continuavo a fumare canne.Cazzo! Sto affogando nel casino mentale più totale. Ricordi, immagini, sensazioni, mi sento come una scheggia impazzita, vita sconclusionata, incasinata, dove il tutto sta in un continuo movimento caotico senza soste per riprendere fiato. Ho talmente vissuto intensamente quel periodo che a volte è come se tutti questi flash di memoria che vengono e vanno non fossero miei, ma di tante altre persone messe insieme. Merda in che casino mi trovo senza via d’uscita. Ho vissuto come tanti altri quei momenti di angoscia, di smarrimento che furono causati dalla strage di Piazza Fontana, dall’assassinio di Pinelli, dall’arresto di Valpreda e tanti altri compagni anarchici. Quei momenti di rabbia nel vedere chiaramente nello Stato l’autore diretto della politica della strategia della tensione, degli opposti estremismi, dei suoi sicari fascisti e delle coperture dei servizi segreti nelle stragi di stato. Quel senso di disgusto nel vedere tutti i partiti schierarsi in difesa delle strutture, della Costituzione, lasciando nella merda della repressione migliaia di compagni che voleva- no solo giustizia e democrazia diretta. Non ho l’acume, né la penna critica intellettuale dei vari

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Bobbio-Scalfari-Bocca, che avendo vissuto quegli anni da spettatori, hanno la capacità di analizzare, sezionare, criticare con lucidità opportunistica tutti i fenomeni transitori e duraturi della politica nostrana. Purtroppo o per fortuna non li ho vissuti da critico neutrale e sinistroide a secondo dei casi, con l’imperativo di avere l’analisi logica a tutto ciò che è successo, fornendo alibi sia a sinistra che a destra. Ero, e sono ancora, uno dei tanti che crede nella violenza di massa e individuale quale risposta alla violenza del Potere in tutte le sue forme. Che crede nell’Anarchia quale fine per un mondo senza classi sociali, senza sfruttamento, in una coesistenza pacifica e armoniosa. Che crede ancora nella solidarietà spontanea, nel rispetto umano e nell’Amore. Anche se ciò, attualmente nei fatti della resa dei conti fine XX secolo, sono utopie da sognatore fuori. Non me ne fotte un cazzo se passo per un emerito rincoglionito, a lungo andare due saranno i casi: l’autodistruzione del genere umano o la convivenza pacifica in un mondo senza Stati, Religioni, Sfruttatori, Intellettuali.Così ora mi sono ritirato in buon ordine da sconfitto sul mio presente a leccarmi le ferite con la filosofia umile del non me ne frega più un cazzo di quello che succederà. L’unica cosa che tengo a fare è di non coinvolgermi più nei problemi sociali e nella politica come feci una volta e che non mi si rompano più i coglioni! Chi vivrà vedrà, di sicuro noi saremo già morti ed è già tanto. E’ da tanto tempo che non mi sfogo più, ma quel che è peggio, è altrettanto tempo che non rifletto più su dove e come sto vivendo. Ho talmente

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esercitato il cervello dal ‘75 in poi a cancellare la memoria - rido beffardamente - che mi accorgo di esserci riuscito, impotente di fronte al risultato.Che importanza può avere adesso ciò che è successo ieri? E’ un interrogativo che mi sto ponendo scuotendo la capoccia stancamente. Che senso ha ridare vita a scheletri e voce a bocche da tempo morte, quando tutto intorno è solamente silenzio e merda? Che significato può avere ancora l’idea anarchica quando si sta vivendo solo nell’egoismo e per l’egoismo bastardo? Che senso ha tutto ciò mentre fuori suonano delle campane a lutto? Forse il senso può essere solo uno: vivi per te stesso e lascia vivere, tanto se prima non hai cambiato un cazzo, lo stesso non lo cambierai ora.Poso la penna e nello stesso tempo mi sento vuoto, senza più energie, senza più voglia all’improvviso di continuare a camminare a ritroso nel tentativo di ricomporre il puzzle del passato. Domani sarà un altro giorno da vivere, con le sue incognite e la sua realtà. Oggi quel che è stato è stato. Rimango realista sulle mie capacità e limiti di non saper comandare né gestire il domani in qualunque forma si presenti. Quello che potrò affrontare e cambiare lo farò in piena coscienza. Quello che non potrò cambiare... l’importante è non costruirmi più castelli in aria e angosce inutili.Per il momento scrivo solamente l’ora, il giorno, la data e poi....in culo a tutto e buona notte.Il 13-08-91 alle h.24,50.

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E’ un mese che ho interrotto la ricerca del tempo perduto e mi sto accorgendo di quanto sia distante il passato, di quanto in me è cambiato il modo di pensare, di comportarmi, di vivere, di bestemmiare. A volte mi sembra che la realtà in cui sto vivendo a Chiavari ora, la vivi un’altro Roberto. E’ come se vivessi in un’altra dimensione, pur essendo cosciente che tutto ciò che esiste intorno a me esisteva già anni fa, con le stesse persone, le stesse vie e monumenti, le stesse chiese e lo stesso viavai monotono delle passeggiate serali nel centro, gli stessi negozi che hanno subito delle trasformazioni, cambiato di nome. Come pure i bar, le osterie, i ristoranti e la vecchia ma confortevole stazione che vomita al mattino orde di studenti per i soliti istituti d’avviamento e superiori.E questo mondo provinciale, ritrovato tale e quale a come l’avevo lasciato, al posto di darmi conforto e protezione mi fa sentire inutile, senza idee e iniziative, come mi lasciano indifferenti vecchi amici e conoscenti che mi salutano, che mi chiedono come stai e quale

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buon vento ti ha portato qui. Quasi a dirmi ma che cazzo sei ritornato a fare, non vedi che non è cambiato una sega, se non per chi è morto di overdose, aids, alcool. Per chi si è sistemato e ha famiglia o per chi è stato sfortunato e si ritrova un fallito. Mi lasciano indifferente e mi infastidiscono. Allora mi vien da pensare se sono io o se sono loro, o se siamo tutti cambiati in vecchi rottami aggrappati ai ricordi del passato e a contare i morti.Cazzo come mi sento vecchio a soli quarant’anni! In che cosa ora sono cambiato? Forse perché ho un lavoro di merda che difendo coi denti, mentre una volta me ne sbattevo le palle e ci lottavo contro? Forse perché ho una donna fissa con la paura di perderla, mentre prima ero per l’amore universale e cosmico? Forse perché ora sto attento a come spendo i soldi, al contrario di quando più ne avevo e più ne spendevo in cazzate?L’opposto della persona ribelle, contestatrice e antisociale, alla ricerca disperata di un’ Utopia a uso e somiglianza delle mie idee. Bisognerebbe prendere dal passato ciò che è utile e positivo per il presente e nello stesso tempo non commettere più gli stessi errori, non creando situazioni negative simili. Se fosse così semplice. Il vivere è un’interrogativo costante fatto dal dilemma eterno nella lotta fra il Bene e il Male, fra l’Io e gli Altri. E le scelte in quale misura sono libere e in quale condizionate?TUTTE LE COSE VENGONO DAL NULLA.TUTTE LE COSE RITORNANO NEL NULLA.E da bravo testa di cazzo che sono continuo a scavare, come una saggia talpa ieri sono andato alla biblioteca

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locale per trovare aiuto nella mia ricerca, attraverso la lettura dei numeri dei quotidiani nelle pagine della cronaca cittadina. E’ un metodo che dà risultati, fatti e misfatti, articoli da cronaca nera e rosa, inaugurazioni, celebrazioni, matrimoni e morti. Mentre cercavo l’articolo concernente il mio ricovero alla neuro per uso di stupefacenti, mi sono imbattuto in un altro con tanto di mia foto. Si parla di quando finii in galera con altri dodici compagni per interruzione di comizio pubblico fascista, resistenza e oltraggio e violenza alle forze dell’ordine ecc... E ciò mi ha stupito, non tanto per la notizia di cronaca che già avevo letto a suo tempo, ma per la data dell’aprile 1972 che credevo fosse quella del mio ricovero alla neuro. Così ho fatto la scoperta dell’America nel riuscire a dare delle date certe a situazioni ed esperienze vissute che fino a poco tempo fa bollivano in pentola.Mi è venuta voglia di ridere al pensiero di come eravamo così presi dalla militanza politica da credere che il fermare un desolato comizio fascista, oltre che abilitarci agli occhi dell’opinione pubblica come dei rivoluzionari comunisti, era un atto dovuto e obbligatorio per dimostrare e insegnare cosa era l’antifascismo militante nei fatti e non nelle parole commemorative. Anche la maniera infantile di come preparammo la protesta, nel darci appuntamento direttamente in piazza all’ora del comizio e di vedere lì sul posto se necessitava il nostro intervento. Del come trovammo la piazza piena di poliziotti, con quattro vecchietti nostalgici del fascio e i soliti topi di fogna conosciuti da tutti. Nonostante lo squallore del comizio

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in numero di persone, nonostante la presenza massiccia e provocatoria della polizia, nonostante noi eravamo quattro gatti, da bravi coglioni ci mettemmo a cantare Bandiera Rossa dando adito alla polizia, che non aspettava altro, di caricarci e arrestarci tutti, dando una propaganda gratuita al comizio. Questo era il quadro politico rivoluzionario di una provincia bigotta e conservatrice e tale quale la ritrovo oggi, impregnata nel suo qualunquismo-menefreghismo-arrivismo da lacché baciapalle dei preti.Così sfogliando le cronache di anni fa, ritrovo nomi e fatti dimenticati, posso vedere che fine hanno fatto compagni di giochi e di scuola, amici di risse e avventure, fantasmi di lotta politica e di droga. I più sono caduti nella merda delle galere, nelle liste necrofile, nell’anonimato senza speranza. I meno sfortunati hanno posizioni d’impiegati grigi, di salariati comunali, artigiani, professori, manovali, segretari e assessori. A cosa serve quindi andare a cercarli ora, quando ognuno di loro ha chiuso un capitolo di vita e ne ha riaperto un altro, per chi è ancora vivo, s’intende. Mentre per altri il grande libro del l’esistenza sulla Terra si è chiuso incompiuto.Per fortuna i ricordi non si fermano in questa piccola fottuta provincia, ma spaziano in altri luoghi, nomi diversi e realtà differenti. Come trascorsero in fretta e con quale intensità gli anni in Lotta Continua, nella militanza politica fatta di cortei, manifestazioni, scioperi, occupazioni di scuole e case, botte coi fascisti e botte prese dai pulotti. Anni dove tutto era politico e niente era per- sonale. Dove si

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cercava un’alternativa a tutto il sistema sociale, e dove il sociale era collettivo. Dove le malattie del leaderismo e del protagonismo partorivano nuovi personaggi e ne uccideva- no altrettanti. Dove lo spontaneismo era la forza motrice e l’intellettualismo ne era il freno. Quante persone hanno creduto che la Rivoluzione era ormai vicina e per questo ci hanno rimesso la vita, la testa. E quante altre ancora ne hanno trovato vantaggio facendosi una posizione.In poche parole alla fine del 1977 mi ritrovai un fallito stanco di lottare, vuoto di volontà, con una gran confusione in testa e un matrimonio senza neanche averlo consumato, fatto in un mo- mento di delirio esistenziale. E quel che è peggio, in compagnia sempre più stretta della siringa. Con la droga pesante feci il mio salto di qualità nel senso più negativo e nefasto che si possa pensare. Come posso affermare in tutta tranquillità che da quel anno, fino al 1985, fu una Lotta Continua ma diversa dalla militanza. Una Lotta Continua per procurarmi la droga, per vivere nella droga e per farla finita insieme alla droga.So per certo che avevo già rotto con L.C., con l’attivismo politico, anche se continuavo a tenere rapporti occasionali con le nuove e ultime realtà uscite dalla sinistra extra-parlamentare, quali “Il Proletariato Giovanile”, “Gli Indiani Metropolitani”, i Radicali e Movimenti Gay e Femministe.Ormai vivevo dentro il mio guscio fatto di solitudine e frustrazione, scandito da orari e azioni monotone, come recarmi al presidio dell’ospedale tutti i giorni alle ore 13 a ritirare i 60 mg. di metadone che, con l’andare del

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tempo, cambiai con la morfina 002 a mantenimento di 10 fiale al giorno. Recarmi alle USL una volta al mese a rinnovare il programma, per poi andare dal dottore a farmi fare la ricetta per stupefacenti. Svegliarmi tutte le mattine immancabilmente al suono delle campane che scandivano le 5, per andare nel cesso, tremante a vomitare la notte passata nel dormiveglia causatomi da 20 e più Reipnol presi per combattere l’astinenza e l’ansia. Frequentare i soliti bar primadell’apertura della farmacia alle 8:30 , bere grappe e vino nel l’attesa spasmodica di cacciarmi il veleno nelle vene. Girare come un sonnambulo senza meta, nell’attesa che scendesse l’effetto della droga, per trovare un cesso qualsiasi pronto a rifarmi un’altra pera. Avevo l’idea fissa di riuscire ad amministrarmi le fiale fino al giorno dopo, ma inevitabilmente mi ritrovavo alla sera con l’incubo di un’altra notte a secco. Girare poi fra i Pronto Soccorso degli ospedali vicini e recitare la parte del pazzo in astinenza in cambio di una o due fiale di Eptadone. Questa recita mi andò bene per i primi anni, mi presentavo con un foglio del Servizio per tossicodipendenti in cui stava scritto di prestarmi le dovute cure di soccorso in caso di astinenza. Poi il gioco finì, sia per il cambio di guardia alle USL, sia per il crescente numero di tossici che andavano a rompere le palle.Ormai vivevo in un incubo reale, fatto dalle giornate che passavo nei giardini o nelle piazze con gli altri tossici. Fatto di notti a bere e impasticcarmi, stando come un cane mi giuravo che tanto domani l’avrei smessa con la droga. Quante palle mi raccontavo per non ammettere la

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mia sconfitta. L’impossibilità di vivere senza ero. E quante palle dovevo raccontare a mia madre, agli altri, per procurarmela. Avevo una tale fantasia che a volte credevo pure io a quello che raccontavo. Se i primi tempi riuscivo a gestirmela e a sapermi mascherare, con l’andare del tempo persi qualsiasi rispetto per me e di conseguenza per gli altri. Oltre al rispetto di me stesso, persi anche il lavoro, gli amici, la stima della gente, la famiglia e infine la donna. Con la Gabry si può dire che arrivai a toccare il fondo della non esistenza da fogna. Che ricordi posso avere della mia tossico- mania attiva se non quelli più negativi ?I sempre più numerosi ricoveri in ospedali per disintossicarmi, che finivano invariabilmente in fallimenti continui. Il vendermi tutto ciò che più mi era caro, e non solo il mio, per pochi grammi di roba. L’inventare palle su palle nel giustificarmi e nel trovare il capo espiatorio del mio fallimento. Nel trovarmi in situazioni e luoghi con vuoti di memoria allucinanti. Fare all’amore e lasciare le cose a metà senza più né la voglia, né la forza per continuare. Sentirmi dire cose da me commesse senza neanche sapere che giorno fosse. Svegliarmi da un coma durato quattro giorni per bestemmiare contro il dottore che mi aveva salvato la vita. Odiare la gente perché non mi capiva, non mi aiutava, mi emarginava, quando ero io, Roberto, quello che rifiutava di capirmi, di aiutarmi, di amarmi, e godevo nel sentirmi emarginato, odiato, crogiolandomi nell’autocommiserazione del vile vigliacco.Te lo giuro Gabry! Domani smetto di drogarmi, mi cerco un lavoro, mi lavo, metto la testa a

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posto...domani. Ma adesso prestami 50.000 lire che sto male.Te lo giuro mamma! Domani mi faccio ricoverare, mi rimetto in salute e ritorno il Roberto di una volta...domani. Ma adesso dammi 50.000 lire che sto male.Te lo giuro Roberto! Domani vado in comunità a riabilitarmi ...domani. Ma adesso mi sparo l’ultima pera che sto male.Un domani che si è protratto per otto lunghi eterni anni, interrotti dagli spasmi dell’astinenza, dai semi-coma demenziali, dai tentati suicidi, dagli sballi meno frequenti, dalla convivenza stressante con la siringa. Una fuga quotidiana da me stesso, cosciente e calcolata nei minimi termini, sull’orlo della pazzia. Vigliacco nel non avere il coraggio di soffrire, di assumermi le responsabilità dei disastri causati. Ma soprattutto nel rifiuto totale di riconoscere onestamente il mio fallimento.A pensarci ora, a distanza di sei anni, mi stupisco di ritrovarmi ancora vivo, lucido, fisicamente a posto, anche se sono cambiato come persona, come mentalità. Ricordo che la molla che scattò in me, per uscire dal tunnel, non fu una decisione maturata, una presa di coscienza nel dire basta. Ma fu un incidente banale di percorso che bloccò il cammino verso l’autodistruzione, verso la morte. Entrai nella Comunità di Recupero “Le Patriarche” più per disperazione che per scelta personale. Disperazione, quando al centro per tossicodipendenti mi dissero del l’arrivo di una circolare ministeriale che sanciva la fine delle terapie di mante-

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nimento a base di morfina entro l’anno. Quella notizia piombatami sulla testa alla fine di novembre ebbe un effetto tale da farmi entrare in una paranoia allucinante. Dal cosa farò senza morfina, al come me la procurerò. Interrogativi agghiaccianti senza risposte. Il solo pensiero di vivere senza la dose quotidiana era una morsa ferrea che mi attanagliava lo stomaco e il cervello. Come procurarmela nella condizione vegeta- le da zombi in cui vivevo? Non avevo più niente da vendere, né immaginazione per pensare, né forza per reagire. Ero ridotto a un legume strizzato, da gettare via nel cesso. Fu questo incidente che mi fece dire sì alla Comunità. Non tanto per la convinzione di guarire ma per prendere tempo, con la solita filosofia del poi si vedrà. Mi fecero ricoverare in ospedale per fare degli esami richiesti e nel giro di 15 giorni avevano già la mia destinazione. In un centro di prima fase (disintossicazione e riabilitazione) in Francia, a Le Puy, vicino a St. Etienne.Vennero a prendermi due amici del dott. Conti, responsabile delle USL, direttamente all’ospedale alle 5 del mattino. Passai a casa a ritirare il sacco d’indumenti preparatomi da mia madre e dopo averla salutata, fra lacrime e raccomandazioni, partenza verso l’ignoto. Era il 22 dicembre del 1985. Il viaggio non fu certamente allegro. Nella paura di uscire di testa prima di arriva- re, mi ero fatto una scorta di morfina e di ero, sicuro che senza sarei impazzito. I due che mi accompagnavano, un compagno e una compagna di Democrazia Proletaria, fecero di tutto per aiutarmi a uscire dal mutismo imbambolato in cui mi ero chiuso per cercare di pensare

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il meno possibile. I loro tentativi cozzavano nelle poche risposte confuse che davo a causa del continuo scoppiarmi la scorta di roba. La prima fermata la facemmo al Centro di Novi Ligure, dove dei ragazzi spagnoli ci diedero dei documenti da dare all’arrivo, alcuni di loro li rincontrai anni dopo, mentre quel centro fu chiuso nel giro di pochi mesi. Da lì si arrivò alla stazione di Torino, dove, lasciata la macchina si prese il treno. Del viaggio ricordo, da come ero fatto, che mentre il treno correva in avanti io credevo di tornare indietro. Dovevo sbattere gli occhi con forza per rimettermi nel giusto ritmo della corsa. A Le Puy si arrivò alle h.24, si prese un treno per Retournac e finalmente al Centro, in piena notte, come un vagabondo senz’anima. Mi mollarono davanti al portone, andandosene dopo essersi sincerati del mio ingresso. Non ebbi mai modo di ringraziarli né allora, né mai. Spero che il loro entusiasmo altruista nell’aiutare il prossimo sia ancora vivo. Ricordo questi episodi per via della lucidità datami dai gran buchi fatti prima dell’arrivo. Poi è solamente nebbia, tempesta e merda per più di un mese.Ora la Comunità la vedevo peggio di una galera, con due persone che 24 ore su 24 mi stavano sempre tra i coglioni e non mi mollavano mai, neanche quando andavo al cesso. Ogni aiuto farmacologico e alcolico rifiutato, sostituito da sei tisane di erba durante la giornata, ogni due ore. Con l’effetto di andare in diarrea e vomitare di continuo, fra i sorrisi compiaciuti e pacche sulle spalle dei miei angeli custodi. Stare in piedi per fare non importa cosa, forse lunghe camminate nei

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boschi senza fine dalle h.7 alle h.21. Le uniche pause erano la colazione, i pranzi, la merenda e le riunioni dell’Ovni, alla sera. Cioè 13 ore in piedi a lavorare o camminare, 3 seduto, più 8 ore a letto dove per i primi dieci giorni non riuscii mai a dormire, ma a sonnecchiare fra mille incubi. Il sentirmi abbracciato e baciato da tutti quelli che incontravo, accompagnati dalle solite frasi del ça và?, Fuerza tio che te passa!, Comme t’appelle toi?, Da donde vienes ? E se erano italiani, dal dove vieni al come ti chiami, dal cosa ti bucavi al tieni duro che se è passato a me, passerà pure a te. Ma la frase più ricorrente era domandare una sigaretta, l’unica droga consentita (sic!) oltre al caffè. Sempre se si avevano i soldi personali che, insieme ai documenti, alle medicine, lamette, rasoi, colonie, coltelli e tutto ciò che era offensivo e autolesivo, ti venivano sequestrati e messi in ufficio a tua disposizione, sempre previo l’ok dei responsabili. Se trovavano della droga al tuo arrivo veniva gettata nel cesso in tua presenza. La vita era sincronizzata a tempo d’orologio, divisa in attività con tanto di responsabili in tutte le salse. Le riunioni da tenersi alla sera dove si doveva discutere se vi fossero dei problemi personali, dell’organizzazione delle attività del giorno dopo, di come era trascorsa la giornata e di come andavano avanti le attività e se c’erano dei problemi. Tutto parlato, chi più chi meno, in francese per rispetto al fondatore, appunto francese. Infine domandavano a noi nuovi arrivati (sevrages) come stavamo, dei nostri problemi, di cosa avevamo bisogno. Ci furono due cose che mi fecero andare in bestia a tal punto da chiedere i

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documenti per andarmene, cosa che mi negarono adducendo tale comportamento al mio stato fisico-mentale minato dall’astinenza. Le due cose furono: la perquisizione corporale alla ricerca di droga nascosta e il continuo massaggio di cervello sulla figura del Fondatore e degli Anziani, sul loro esempio, sulla fiducia che bisognava dargli e che se stavo qui a salvarmi la vita lo dovevo a Lui e a Loro. E non solo a parole facevano questo massaggio, in tutte le stanze, meno che nel cesso, erano appesi ritratti con i loro volti sorridenti, tipo Stalin, Mao e dirigenti del Partito. La perquisizione non la volevo fare perché mi ricordava troppo il carcere e dopo la mia richiesta di andarmene si arrivò a un compromesso, cioè mi guardarono solo i vestiti, le mutande e le ascelle. Per quanto riguarda il lavaggio del cervello, andai in tilt con una crisi di nervi che mi portò a una crisi di Titania, seguita da altre due nei giorni successivi. Non me lo menarono più con Lucien il fondatore. Con Renè, Titti, la Lola, Salva, Jean-Yves e Germano, gli anziani tossici recuperati e rimasti in comunità per salvare i tossici che arrivavano. A parte che fuori sarebbero stati dei falliti senza il potere che avevano dentro. Per farla breve, anche se ci vorrebbero delle enciclopedie per spiegare la vita e il funzionamento delle Patriarche, in comunità ci stetti cinque anni e non sempre nello stesso posto. Feci la prima fase in Francia, a Le Puy, Les Camptes, La Mothe. La seconda fase in Belgio, a Phalenstere, Bruxelles, Gent, Anversa, dove studiai da elettricista senza mai conseguire il diploma, poiché i Centri in Belgio furono chiusi per frode verso

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lo Stato. Poi tornai in Italia, girai in tutti i Centri e appartamenti che l’associazione aveva, a Cozzo vicino Pavia, Milano, Napoli, Roma, Carbonia, Verona, Genova e Torino. Per finire la riabilitazione andai in Canada, a Montreal e Quebec, con una sosta nei Centri di Watton e Nominigue.Fine del vagabondaggio alle Patriarche con ritorno a casa, a carico di mia madre. I primi due anni la retta di soggiorno fu pagata dalle USL e gli altri tre restanti li passai a livello di responsabile di vari servizi locali, l’ufficio ammissioni, la contabilità, i contatti con le isti-tuzioni religiose, con le strutture scolastiche, l’ufficio sovvenzionati e responsabile degli italiani all’estero. Senza mai percepire uno stipendio, attingendo dalla cassa per gli spostamenti, il vestiario, le sigarette e voci minori.“Le Patriarche” ha una gerarchia di potere a piramide, dove alla base ci sono i tossicomani in cura, poi man mano che si sale si trovano strutture di gestione e controllo a livello periferico con relativi responsabili di zona, regionali e nazionali e membri dell’esecutivo e del direttorio internazionale,con sede a Valencia. Il Direttore Internazionale non è altri che il fondatore del- l’associazione, il famoso Lucien Engelmayer, tutte le decisioni vengono prese da lui. I cinque anni che vi trascorsi mi servirono a risolvere il problema droga e altri problemi collegati a livello psicologico, ma l’autonomia decisionale, la gestione economica, il reinserimento sociale, la libertà di movimento e di scelte, le dovetti conquistare fuori dalla comunità perché al suo interno non avevi e non ti davano alcun spazio, se

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non quello della subalternità verso la struttura e il suo unico Padre-Padrone-Santone-Lucien Engelmayer.Ci deve essere qualcuno o qualcosa, non so dove, dentro di me, che ha fatto si che in questo momento io possa scrivere, respirare,fumarmi una sigaretta a mente lucida e con il fisico all’80% ancora sano, perchè se guardo indietro a distanza di un solo anno, mi rivedo ancora un’altra volta nella merda più totale.Tornare a casa dopo anni di sacrifici e trovare attorno solo indifferenza, timore, falsità. Dalla famiglia, dagli amici, dalle strutture pubbliche che a parole mi avevano promesso un loro aiuto nell’inserimento sociale, ma che di fatto fecero i Ponzio Pilato.Fu una mazzata, non disponevo di nessuna misura di autodifesa, nessuna forza per reagire. Reagire contro le USL, che al posto di aiutarmi nella ricerca di un lavoro, mi dissero che per il mio bene era meglio che ritornassi in comunità. Contro la famiglia, che invece di incoraggiarmi nel momento di maggior bisogno, mi sbatte fuori di casa dopo appena dieci giorni.Per finire ai cosiddetti amici: “ Forza Roberto, se ci sei riuscito con la droga ce la farai anche ora. Lavoro? E’ ancora tanto che lavori io, ma appena sento qualcosa te lo faccio sapere! E’ un casino non posso ospitarti, sai anche volendo ormai ho una famiglia e non saprei dove metterti. Vai in comune cazzo, lì sono obbligati ad aiutarti. E poi è un tuo diritto!”W L’IPOCRISIA!!!!!!!!In un mese mi trovai col culo per terra a dormire sulle panchine, mangiando dai frati, vivendo di elemosine e di quel poco aiuto di mia madre.

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Al posto di mandare in culo tutto e tutti e pensare solo a me stesso, tornai ad avere la mentalità del tossico di una volta, con tutte le sue conseguenze. L’unica variante fu che al posto della siringa ci misi la bottiglia, costava di meno e non dovevo sbattermi più di tanto per cercarla e farmela. La vecchia mentalità perdente del dare la colpa alla famiglia, alla gente, alle istituzioni, era la scusante per non assumermi le mie responsabilità. L’autocommiserazione, considerarmi una vittima, colpevolizzare il resto del mondo del mio fallimento, era più facile che accettare la realtà in quanto tale. Non mi interessava come mi ero ridotto in così poco tempo, né di quello a cui andavo incontro. Ero uno zombi e l’unica compagna era l’autodistruzione e il resto era merda. Il solo guardarmi allo specchio mi faceva vomitare, ero solo come un cane e me ne compiacevo.Questo delirio durò circa cinque mesi e sarebbe continuato fino alla morte prematura se non si fosse interessata di me una volontaria cristiana, M. Teresa, facendomi accogliere presso una struttura del “Villaggio del Ragazzo”, con lo scopo di un mio recupero. Dopo Le Patriarche fu un altro colpo di culo che mi salvò la pelle. Sia il fondatore del Villaggio, don Nando, sia M. Teresa erano vecchie conoscenze d’infanzia. Feci tre anni di asilo, cinque di elementari e due di medie con loro. M. Teresa prima di essere volontaria, era maestra. Ironia della sorte gli unici che mi aiutarono materialmente furono i nemici di sempre, i servi della Chiesa.A Mucini, in Toscana, nella tenuta di don Nando, passai sei mesi di assoluta tranquillità, in armonia con la

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campagna maremmana, silenziosa e suggestiva, isolato dal resto del mondo. Gli unici contatti esterni li avevo quando al sabato si andava a passeggiare a Massa Marittima, il martedì e venerdì sera quando con Giuliano, vecchio compagno di sbronze, si scendeva in taxi a Follonica a partecipare alle riunioni di Alcolisti Anonimi. La pace del luogo e i consigli degli amici di A.A. ebbero un effetto balsamo che saprà di miracolo (sic!) nel riuscire finalmente a trovare una filosofia di vita dove al centro esiste solo il mio IO EGOISTA e tutto il resto viene dopo. L’Io deve lottare innanzitutto per se stesso nel cercare, giorno dopo giorno, un proprio benessere, equilibrio, autonomia, serenità. E deve difendere tutto questo da qualsiasi pericolo esterno. Non è come sembrerebbe un fregarmene dei problemi, anzi, se non riesco a risolvere i miei problemi sia esistenziali che materiali certamente non potrei essere di aiuto a nessuno. Il passato è stato quello che è stato. Il futuro sarà quello che sarà. Il presente è quello che vale realmente. E’ inutile piangere o accusare quando non si può più tornare indietro. E’ stupido fare progetti o dare per scontate delle situazioni quando domani può essere cambiato tutto o puoi essere morto. Quello che conta è affrontare l’oggi accettando sia i momenti buoni che quelli bastardi. Ma con ciò senza dover rinunciare a lottare e senza dover delegare.

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* La seconda parte non si trova più. Roberto ci stava lavorando e non è escluso che sia finita nella rumenta.Seguono due suoi articoli.

Per ricordare un futuro.(da “Maccaia”n° 1, zine)

Ieri volevo fare la rivoluzione ora e subito. E se poi non si realizzava subito, non importava. Di tempo ne avevo parecchio da spendere, così potevo permettermi il lusso, in fabbrica o in prigione, di aspettare.Oggi fare la “Rivoluzione” è un’utopia e ne sono consapevole.

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Ma ciò non toglie la certezza che prima di tutti e tutto c’é la libertà, la dignità, la difesa della mia identità di fronte ai continui revisionismi a danno dell’autogestione della propria vita.Il tempo si dice é galantuomo, dà e toglie senza guardare in faccia a nessuno. Un giorno ti riempie di gioia e un’altro di tristezza. Un momento credi d’aver raggiunto la felicità e un’altro ti trovi sommerso dalla merda. Credi d’aver trovato la tua dimensione umana e dopo ti trovi nella confusione totale. Hai trovato l’amore....e dopo come lo odi. E’ un eterno yin-yang, luce-buio, vita-morte, per cui il tempo è un gran bastardo figlio di puttana che ti lascia sognare non più di tanto per poi farti ritrovare col culo per terra e la bestemmia in corpo.Il tempo è buono e odioso, amorevole-implacabile, è un politico onesto nell’oratorio e corrotto nel conto in banca, è un prete che predica la solidarietà per poi chiudere in faccia la porta della chiesa ai senzatetto.E’ una favola dove il vissero felici e contenti non accade mai, è un gran contapalle che ti riempie la testa di buone novelle e quando apri gli occhi vedi solo gli orrori della miseria umana.Il tempo dopo tutto, se ci pensiamo, siamo noi...sei tu che non opponi resistenza e ti lasci trascinare lamentandoti della mala- sorte. Sei tu che non lotti per quello che sei, per quello che vali, ma ti lasci plagiare, corrompere, guidare, perchè è più comodo di lottare. Sei tu che giochi con l’amore dimenticando che dal- l’altra parte c’é una persona che non gioca ma ci crede.Il tempo è fatica se si sta seduti senza reagire, è egoista come noi, e non possiamo poi pretendere che sia generoso.E’ una prigione se non cerchi l’impossibile, una noia se manchi di fantasia, una paranoia se lo vivi artificialmente.Il tempo siamo noi che lo costruiamo, lo distruggiamo per poi maledirlo, invocarlo mentre lui ci volta con un sogghigno le sue spalle da gran figlio di puttana che non è altro.

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Il tempo è come l’anarchia: implacabile, mutevole, mai fermo fra correnti di idee, tempestoso nell’azione, dolce comel’amore.

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A ciascuno il suo niente.(da “Mareggiata” n° 1, @zine, 1998.)

Ansia, angoscia ribelle alla ricerca di dare una risposta prima ancora di verificare la domanda nei fatti concreti.La lasci sola in balia di paranoie, insicurezze, pessimismo, creati dall’incertezza se saremo più o meno capaci di mettere nel reale la nostra fantasia, la nostra creatività rivoluzionaria.Reale di.....comunque vadano a finire le storie dobbiamo essere capaci di realizzarle.Reale nel.....saper gestire i risultati, qualunque esito essi danno o in qualsiasi direzione essi vanno.Reale nel.....acquistare la consapevolezza delle nostre forze, dei nostri limiti, delle nostre vittorie e delle sconfitte.Reale nel.....sapere accettarle in qualsiasi forma risultino alla fine, senza dare per scontato che esiste una fine.Reale con.....la volontà di cambiare dove siamo presenti, la critica dove non ci siamo, aspettando di cogliere l’occasione, in ogni caso nessun rimorso.Reale nel.....gioire, soffrire, rischiare, osare.Reale nel..... non sentirsi mai degli sconfitti, ma saper essere ottimisti nell’essere stati capaci di affrontare le delusioni.Reale nel.....trovare risposte concrete ad altrettante domande posteci da noi stessi, obbligati dall’esterno, con ottimismo-cinismo di cui siamo capaci, senza cadere nell’infantilismo delle polemiche, virtù dei frustrati.Reale nel.....imporci la forza dove ci manca il coraggio delle azioni per trasformarle in momenti di lotta.

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Reale nel.....guardare in faccia i problemi, anche quando fanno male, e affrontarli per quel che sono, senza costruire scusanti o incidenti di percorso precostituiti, virtù degli opportunisti.Reale nel.....essere dei buoni critici di noi stessi, senza farci influenzare dalle critiche gratuite altrui, ma saper muovere delle critiche senza dare per scontato un giudizio finale, valutando la realtà in maniera distaccata dal nostro personale o lasciandoci travolgere dalle passioni.Reale nel....fermarci per tirare un respiro e vedere cosa abbiamo conquistato al nemico per ripartire a conquistare ciò che ancora ci manca.Reale è la stessa vita che ci impone di fare delle scelte radicali senza vie di comodo, compromessi, se si vuole essere coerenti con la nostra storia.Reale è.....tutto ciò che ci fa sentire vivi e ci permette di vivere per un futuro di liberi e uguali.Sta a noi poi scegliere in quale Reale vivere..........la nostra ANARCHIA.

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