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Francesco Lova Francesco Lova Francesco Lova Francesco Lova C C O O M M E E L L E E F F O O R R M M I I C C H H E E … guerra sul Don … guerra sul Don … guerra sul Don … guerra sul Don 1942 1942 1942 1942 - - - 1943 1943 1943 1943

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Page 1: COME LE FORMICHE · 3 FRANCESCO LOVA A chi mi ha aiutato, a chi mi aiuta a vivere. COME LE FORMICHE Romanzo Solo nel segno dell’Amore – che sia veramente Amore, cioè dono,

Francesco LovaFrancesco LovaFrancesco LovaFrancesco Lova

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PREMESSA

Il sergente degli alpini Lova Francesco, all’età di 23 anni, venne inviato in Russia, lungo la linea del Don. Assegnato al 5° Reggimento Alpini, prestò servizio presso la Compagnia Comando del Btg. Edolo. Partì da Almese, con la tradotta, il 21 luglio 1942 per la Campagna di Russia. Durante il viaggio in tradotta e mentre era sul Don fece da corrispondente scrivendo articoli che narravano le vicende della vita quotidiana che furono pubblicati sul “Corriere Valsesiano”. Gli articoli in questione sono ora in una raccolta intitolata “Notiziario di tradotta”. Al ritorno dalla Russia scrisse questo romanzo intitolato “Come le formiche”. In esso narra le vicende di un alpino che vive l’intera Campagna di Russia. Naturalmente non appaiono quasi mai i nomi dei personaggi reali e dei luoghi in cui si svolge la vicenda perché, in quel periodo, la censura era molto severa e c’era comunque la consegna del silenzio riguardo ai nomi. Sebbene in forma molto romanzata, si possono identificare molti paesi e rivivere le situazioni accadute a lui come a mille e mille altri alpini e soldati schierati sul Don. Il romanzo venne terminato il 26 agosto 1944, ma Francesco decise di proporlo ad un famoso editore italiano solo nel primo dopoguerra. Ricevette però una lettera di diniego in quanto era ancora troppo aperta e lacerante la ferita lasciata negli animi da una guerra disastrosa sotto tutti i punti di vista. Come commento alla lettera di rifiuto dell’editore egli scrisse sulla busta della medesima una sola parola: “clamoroso”. Si è visto poi che solo dagli anni sessanta hanno iniziato ad essere pubblicati libri e racconti relativi alla campagna di Russia e alla ritirata. Evidentemente i tempi erano maturi. Francesco purtroppo morì a solo 47 anni nel 1966. Questo manoscritto è stato ritrovato dai noi figli solo ora. Vogliamo renderlo noto affinché non si perda la memoria di quel che è stato, in particolare per le generazioni future con la speranza che nessuno più debba trovarsi a vivere situazioni simili.

I figli Paolo, Marisa e Maura Lova

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FRANCESCO LOVA

A chi mi ha aiutato, a chi mi aiuta a vivere.

COME LE FORMICHE

Romanzo Solo nel segno dell’Amore – che sia veramente Amore, cioè dono, gioia di donare – si può risolvere l’esistenza, sia individuale che sociale. Gli altri non sono che palliativi e trappole. Un giorno o l’altro lo scopriranno tutti. E non sarà tardi. Non è mai tardi, per chi vuole. Per chi sa volere. Le strade – anche se uno pensa talvolta di no – si ritrovano sempre, si uniscono sempre. Diventano una. E si cammina meglio, dopo. In serenità. Non ci si accorge neanche, e ci si trova in fondo, dove davvero si realizza il significato della vita. Gio. Stella

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I Andrea si rivoltò adagio nel letto, stese un braccio a mezz’aria, lasciandolo un istante sospeso, come per un disegno bizzarro, poi con una gamba cominciò a smuovere debolmente il lenzuolo. Aveva un gran caldo per tutto il corpo, e gli pareva che piccole gocciole di sudore gli scivolassero per lo stomaco, scorrendo lievi fra l’uno e l’altro pelo, sotto le ascelle e per i fianchi. Agitando il lenzuolo – pensò – posso anche far venire un po’ d’aria, qua sotto questa fornace; e badava a fare con grande cautela, perché l’agitare troppo veloce della gamba gli avrebbe procurato un fastidio non necessario, ammollandolo anche di più nel sudore. Erano goccioline calde, appiccicaticce, quasi untuose: lo stesso lenzuolo se n’era inumidito e dava uno sgradevole senso di soffocazione. Di accendere la luce, non ne aveva proprio voglia: già non sarebbe servito a niente davvero; e poi, avrebbe dovuto spingere troppo in là il braccio. Forse, si sarebbe anche dovuto spostare col corpo: e il pensiero stesso era faticoso. Comunque, era del tutto inutile! Un discreto e sommesso respiro cresceva ordinatamente al suo fianco. Era la Gisa che dormiva, la Gisa coi suoi floridi ventitré anni e col ventre che andava facendosi vieppiù turgido, per la creatura che sarebbe nata fra qualche mese. Andrea pensò che era pure una cosa sconcertante, questa, di una donna che, per farsi madre, deve trasformarsi in un goffo fagotto e deformarsi in quanto più attira l’uomo. E, pure, la Gisa era tanto contenta di questa sua condizione, che Andrea concluse che doveva essere giusto, sì: che era bene anche questo. Aveva in gola una grande arsura e si sentì improvvisamente preso da un urgente bisogno di qualcosa di fresco: in casa doveva esserci del ghiaccio … Movendosi con pigra tranquillità. Per non disturbare il sonno della moglie, si portò al bordo del letto, sporse verso il basso le gambe e le allungò fino a che i piedi, spuntati di sotto il lenzuolo, non ebbero trovato il pavimento. Indugiò un attimo a carezzare la morbidezza del tappeto, con un alluce, quasi a convincersi che non ci si pungesse. Poi sgusciò fuori con tutto il corpo mentre con la mano premeva il pulsante della boccia violastra che stava sul tavolino. Osservò un istante la Gisa che dormiva: si avvide, con un certo stupore, che il corpo di lei, nel ritmo del respiro, aveva strane vibrazioni, mai notate prima di allora. Si sorprese a pensare che, da qualche tempo, la donna gli sembrava piuttosto estranea: c’era qualcosa, in lei, che non comprendeva più. Forse non l’aveva mai compresa del tutto, ecco. E ne ebbe un’impressione vaga di sgomento e di disgusto. Infilò le pantofole e scivolò in cucina: il ghiaccio c’era, brava Gisa! La sete era tanta che non ebbe neanche la pazienza di prepararsi una qualsiasi bibita; preferì appoggiare la bocca avidamente contro il ghiaccio, succhiando come un bambinello. E le labbra, al contatto improvviso, parvero essere così aride che ne risentì un’arsura subitanea, come per fuoco. -Magnifico! – sospirò, profondamente ristorato. Poggiò la mano su una spalliera laccata di una sedia; ed anche il nuovo contatto, fresco, gli diede una confortevole sensazione di piacere. Si sedette, avendo cura che la lunga e leggera camiciona

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aderisse il più possibile al corpo. Teneva ancora in mano un frammento di ghiaccio e immaginò con un brivido che forse sarebbe stato gradevole soffregarselo sullo stomaco, sui pori dilatati dal calore. Poi, lo sguardo gli corse alle punte delle pantofole, e sorrise dei presuntuosi fiocchetti pervinca che le impennacchiavano. Stava meglio, adesso, perbacco! Anche il soffice sudore di pochi minuti prima se n’era andato? Si passò una mano tra i capelli arruffati, indugiando a carezzarne le pieghe e a ritrovarne la scriminatura; e decise di ritornare a letto. Spinse via la sedia, che ebbe un lieve sfrigolìo sulle piastrelle lucide del pavimento, mandò indietro le spalle di quanto fu capace e drizzò le braccia, stirandole con le mani a pugni debolmente serrati. Poi, si mosse adagio. La Gisa s’era destata. La luce, prima, per quanto difusa e tenue; e, dopo, il debolissimo cigolìo della sedia, erano bastati ad interrompere il suo sonno. Andrea pensò, prima ancora di parlare, ad una sensibilità straordinariamente acuta. -Sei sveglia? – le chiese e, intanto che formulava la domanda, si accorse che era stata sciocca, ma ormai … La Gisa, del resto, non rilevò alcunché di strano e, guardandolo coi suoi occhi chiari e grandi – così grandi, forse, per lo stupore del sonno interrotto: - Fa caldo, Andrea – mormorò – tanto caldo. Vuoi aprire le finestre? L’uomo si accostò ai vetri, già aperti, del resto (evidentemente se n’era scordata, la Gisa), e poi tornò al letto. Carezzò con uno sguardo di tenerezza la donna, che già aveva richiuso gli occhi ed il cui respiro tornava a diventare regolare nel sonno che il mattino neanche avrebbe ricordato di avere interrotto; scrutò per un istante la silenziosa penombra della camera, quindi si distese sopra le lenzuola. Diede ancora un’occhiata, furtiva e rapidissima, ai folti capelli scuri della moglie, che mandavano una fragranza troppo intensa di muschio selvatico, ed alla nuca che s’intravedeva sopra le spalle abbandonate. Sentì nascergli un gran desiderio di stringere a sé quel corpo caldo e vivo, ma si trattenne, turbato ancora una volta per quella deformazione che neppure il lenzuolo poteva nascondere del tutto e, con un nuovo sospiro, spense la luce. Decise che il mattino avrebbe detto alla Gisa di quei fiocchini stupidi che c’erano sulle sue pantofole, e pensò ancora che avrebbe provveduto a che il ghiaccio non mancasse mai, in casa, la notte. Il sonno l’aveva ormai superato da un pezzo, e si accigliò di non potersi riaddormentare: saranno state, forse, le tre. Suppose, per un istante, quanto sarebbe stato piacevole sdraiarsi sul fresco tavolo della cucina, lontano da quel violento odor di muschio che, attraverso le nari, gli penetrava nel cervello, sconvolgendolo, e nel sangue. -Gliel’ho detto, di non farne uso, per qualche tempo, se vuol stare tranquilla lei, e se vuole che io possa dormire in pace, la notte … Una gran voglia cresceva in lui, non contenibile, dell’amplesso con la sua Gisa. Si tormentò un momento, mordicchiando il labbro superiore, girò la testa dalla parte più lontana dai capelli odorosi, ma il profumo persisteva anche là. Era certamente meglio dormire; e serrò le pugna, concentrandosi tutto in questo pensiero: dormire. Poi, si voltò adagio adagio, la sua mano prese a carezzare quelle spalle tiepide che

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pulsavano di un fremito misterioso e, senza rendersene conto, si ritrovò, subitaneamente, tra le braccia della moglie, che rispondeva ai suoi baci con un gemito dolce e leggero, quasi un sospiro. II -Andrea, le sette. Aprì gli occhi e ritrovò, fisse nelle sue ancor piene di sonno, le limpide pupille della Gisa: -Sveglia, Dormiglione! Il sole è già qui che vuole entrare, e tu dormi ancora … La moglie si chinò sul viso di lui e gli schioccò un rumoroso bacio. Andrea, attiratala a sé, ne cercò le labbra mentre lei tentava (o fingeva) di volervisi sottrarre. Riuscì a trovarne la bocca per un istante, un istante solo, perché la Gisa si divincolò subito e corse via, coi capelli ancora disciolti, come la notte, canterellando qualcosa. Giunse la sua voce, subito, dalla cucina: -Il caffè è pronto! Appena sveglio, Andrea non aveva la capacità di riflettere con la stessa limpidezza che più tardi; tuttavia pensò che era proprio una cosa notevole, tanta allegria e tanta vivacità nella Gisa, nelle sue condizioni attuali. Si vestì in fretta, dopo un’abbondante abluzione, e corse di là, dove lei stava sfaccendando intorno al fornello e alla dispensa. -Marmellata o burro? -Quello che vuoi tu, Gisa. -Marmellata, allora. -Senti, Gisa, vieni qua un momento. – La voce di lui era risuonata seria. La donna si voltò sorpresa a guardare il marito che, seduto, dava un ultimo ritocco al nodo della cravatta. Gli si avvicinò, e Andrea se la fece sedere sulle ginocchia. La sua espressione non era ancora mutata. Gisa lo guardò fisso, interrogativa: -Cosa c’è, Andrea? Qualcosa che non va, forse? Il marito avvertiva in gola un che di acre, che gli impediva di parlare. E la voce, difatti, fu un po’ roca: -Lo chiameremo Luigi, come il povero nonno. Sei contenta, Gisa? L’attento stupore della donna si sciolse in un sorriso aperto, di gioia. Non era proprio bella, la Gisa, ma graziosa, sì. Molto. Quando sorrideva, poi, le spuntavano due fossette aggraziatissime, che lui indugiava sempre a carezzare, come se le scoprisse allora per la prima volta. -Come vuoi … - mormorò lei – è tuo figlio.- E poggiò il viso sulla spalla del marito. Fa veramente bene, ad una donna, sentire un uomo che la sostenga. E’ essenziale. Aiuta a vivere. La Gisa si svincolò, con occhi rugiadosi e ridenti, per avvicinare il canestro del pane e, intanto che Andrea lo affettava meticolosamente in tante piccole parti regolari, portò su di un vassoio la marmellata di mele e il burro. I pentolini del caffè e del latte gorgogliavano sul fornello.

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III L’ufficio era in centro, in un magnifico palazzone, in via Roma Nuova. Andrea richiuse la porta di casa, la fine ghiaia del vialetto del suo minuscolo giardino gli scricchiolò sotto i piedi; il cancellino cigolò aprendosi. Andrea diede una frettolosa sbirciata alla cassetta per la posta, fissata al pilastro; constatò con una certa soddisfazione che non ci fosse dentro nulla (del resto, a quell’ora, come avrebbe potuto esserci qualcosa? E poi, in verità, quel piccolo arnese verniciato di giallo, per la posta che i due giovani ricevevano serviva così poco …), e con la mano fissò il saliscendi. Sostò un attimo e si accese una sigaretta. L’autobus spuntò quasi subito, giù in fondo al viale di platani. Erano vecchie piante, quelle, e sembravano anch’esse stanche e sfiatate per il caldo eccessivo. Le foglie, appassite, avevano quasi l’aspetto dei cartocci di granoturco. Le gomme del pesante veicolo, che andava appressandosi, producevano un rumore strano e snervante, al contatto con l’asfalto. Pareva che vi si trascinassero sopra, rotolandosi con un sibilo flebile e lamentoso. Andrea scoperse che non aveva mai fatto caso a questo acuto sfrigolìo; poi, indugiò un momento a sogguardare le caviglie, nervose e ben delineate, di una ragazza troppo bionda, anch’essa in attesa. L’autobus si arrestò alla “fermata” che precedeva la loro. “Dev’essere molto giovane” pensò Andrea, che aveva concluso il suo affrettato esame, “diciott’anni, come massimo. Impiegata”. Le unghie, di un rosso acceso e un po’ volgare, avevano lo smalto fresco e odoravano ancora di acetone; le gambe, snelle e ben fatte, si drizzavano da scarpe alte, con la suola in sughero. Anche le unghie dei piedi erano al carminio, violente. Questione di gusti. Saltarono sul torpedone insieme, e il gomito della fanciulla, nudo, sfiorò una mano di lui, che ripensò alla Gisa, che stava sicuramente dandosi da fare in camera, in quel momento, cantando. Un anziano signore, dalla faccia straordinariamente viola, tutta bugne e grumi, stava seduto col giornale in mano, spiegato. Era tanto immerso nella lettura che non fece neppure caso al passaggio dell’odorosa impiegata. Andrea gli si avvicinò di dietro e sbirciò, dietro le spalle incurvate dell’uomo, i titoli oiù vistosi del giornale. Doveva esserci scritto qualcosa di estremamente interessante, se i suoi occhi, turbati, si accesero di colpo … IV Andrea aveva venticinque anni, venticinque anni – secondo la comune opinione di chi lo conosceva – spesi discretamente bene. La vita non è che una bilancia, infine, e si tratta di non far pesare noi stessi più del conveniente sulle spalle di chi ci passa vicino. Andrea, fin allora, se l’era cavata egregiamente, in questo senso. Uomo di mediocri risorse, di umore tranquillo e conciliante, non si era mai abbandonato a sogni troppo ambiziosi né l’avevano mai scosso i grandi orizzonti che normalmente esaltano la fantasia dei giovani.

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Lo zio Giuseppe avrebbe voluto, a suo tempo, che si laureasse. Non importa in quale disciplina, ma si prendesse una laurea. Era una sua idea che – ai tempi nostri – senza laurea si conclude poco, nella vita. Avrebbe affollato le campagne di contadini agronomi tutti quanti, per lo meno. Ma il padre di Andrea, Sebastiano, aveva tenuto duro. Da buon figlio della terra, non nutriva idee troppo vistose e voleva che il ragazzo fosse “a posto” quanto prima possibile. Poi, si sarebbe ammogliato, avrebbe avuto dei figli e sarebbe invecchiato serenamente, mettendo ogni giorno da parte quelle briciole che l’avrebbero mantenuto un giorno, perché “un padre mantiene dieci figli” era solito dire “ma dieci figli non manterranno mai un padre”; e di questo era convintissimo. Andrea aveva aderito all’intenzione paterna. Se avesse trionfato l’opinione dello zio Giuseppe, l’avrebbe fatta sua con uguali disposizioni d’animo. Era uno di quegli esseri che hanno bisogno di avvertire sempre, sopra di sé, un’autorità qualsiasi. Come un tralcio di vite, che vuole un sostegno; un giorno diventerà ramo fatto, solido per conto suo (ma pur sempre con un punto d’appoggio): ma ce ne vuole, del tempo! Andrea, quesiti del genere non se li era mai posti – perché era del tutto alieno dalle introspezioni – ma, se un giorno si fosse trovato a dover compiere da solo qualche atto di decisa determinazione, difficilmente se la sarebbe saputa cavare. Anche la Gisa, del resto, era stata la vita che gliel’aveva posta sul cammino: e lui l’aveva presa, così, con lo stesso entusiasmo ingenuo col quale avrebbe sposata un’altra qualsiasi ragazza. Se la Gisa – ch’egli aveva conosciuta già orfana di padre e di madre (il che aveva avuto notevole importanza nel sorgere dell’amore di lui) – non fosse stata onesta, ne avrebbe fatto un povero diavolo, come tanti ce ne sono, basta guardarsi attorno. Invece, la donna aveva molto buon senso ed un equilibrio non camune: e così lo indirizzava, pur senza dargliene l’impressione. Per questo, in fondo, erano felici: perché non avevano mai chiesto alla vita più di quanto la vita non paresse disposta a concedere. Alla Gisa, Andrea era confusamente grato di qualcosa, qualcosa che non sapeva definire bene. Però, non sempre dimostrava alla moglie questo suo sentimento; ne aveva pudore. E del resto, lei se n’avvedeva già bene, per conto suo, non aveva affatto l’intenzione di sollecitare delle dimostrazioni. Infine, lui di donne se n’intendeva assai poco. Al paese, le ragazze le aveva conosciute alla lontana; ed erano anche troppo sveglie, per la sua timidezza. Quando con Nerina aveva ritenuto, un giorno, di essere pazzamente audace, aveva dovuto scoprire malinconicamente che non le aveva insegnato proprio nulla di tanto nuovo… Delusioni amorose non ne aveva sperimentate mai. In città, nel periodo degli studi, era stato collocato in pensione presso una vecchia amica di famiglia, che lo controllava molto: per altro, lui studiava di buona lena, non aveva farfalle per la testa. Era interessante, però, come la signora Maria, in una città che pure era di rispettabili proporzioni, fosse sempre al corrente delle poche scappatelle del suo giovane ospite… E’ vero, d’altronde, che ci voleva assai poco a capirlo, perché Andrea, ogni volta che saliva alla “casa” situata non molto distante dalla sua piazza, rientrava così turbato e con una tale agitata confusione, che sembrava avesse scritto in faccia quel ch’era stato a fare. E questo fastidioso senso di mancare a qualche dovere – che non

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sapeva quale fosse, in definitiva – non se ne andò via dopo le prime volte, ma durò molto a lungo, che Andrea già stava per diplomarsi. Alla “casa”, una volta si era un poco innamorato di una ragazza carina e in carne, con degli occhi liquidi e fondi, che egli aveva ammirato gran tempo, in assoluto silenzio, come un gentiluomo antico ai giardini pubblici. Lilia aveva i capelli caldi, come di seta fine e viva, di un biondo meraviglioso, ma erano stati soprattutto gli occhi a sbigottire Andrea: due occhi intensi, che sapevano penetrarlo come spilli (s’era avveduta, Lilia, della simpatia timorosa e impacciata dello studentello?) e che riuscivano ad esprimere – nel momento più vibrante dell’abbandono – tutto un mondo di cose ignote e allarmanti, terribilmente belle. Non sapeva, Andrea, se quello sguardo costasse a tutti l’eguale moneta; ma forse, ad assicurarglielo, gliene sarebbe importato poco. Negli abissi sconosciuti dell’amore egli non osava inoltrarsi troppo. Non l’avrebbe fatto mai. Adesso, voleva bene alla moglie, sì, senza dubbio. Un bene da bambino buono, educato, di quelli che non infiammano e non bruciano. Non avevano scavato nelle loro anime quel solco di fuoco che talora si incendia tra due esseri umani. Si erano limitati ad amministrare in comune il loro bilancio: mangiavano a tavola insieme – e questo dava ad Andrea un senso di sicurezza nella vita e di piacevole benessere perché, di tutte le cose, nessuna gli sarebbe stata meno sopportabile che il consumare da solo i suoi pasti … Infine, la Gisa era la compagna delle sue ore più intime, quando metteva a nudo quella parte della sua anima che la sua congenita verecondia gli consentiva di scoprire. E, anche in questo, essi avevano trovato un’affinità imprevista. Quando ogni ragionamento veniva deposto, di fronte al corpo di lei palpitante, Andrea si sarebbe sentito pronto, perché quel possesso durasse sempre sempre, a qualsiasi atto eroico. Dimenticava allora il modesto impiego e le nessune aspirazioni, e gli bolliva dentro – o gli pareva, almeno – una gran volontà di conquiste, non importa quali. Ma, più tardi, col corpo spossato, anche tutte quelle determinazioni immaginarie si arenavano e poggiavano sul fondo. Come se fosse naufragato in un mare calmo e lagunoso e, dal fondo, respirasse ancora a sufficienza per non avere affatto il desiderio, con qualche bracciata vigorosa, di portarsi altrove. E dove, poi? Lui poggiava sul sicuro; ed il mare gli faceva paura, con la sua vastità assurda e senza confini. Quando non v’è ragione di essere insoddisfatti, un posto vale l’altro… E così, gli bastavano l’ufficio al terzo piano, lo scrittoio lucido ed il telefono a portata di mano; e le sue cartelle tutte a posto e tutte in ordine; e la “Olivetti” sulla quale la Nice tempestava sempre con irruenza chi sa che cosa, anche quando lui sapeva bene che non c’era proprio nulla da scrivere. Bella figliola, la Nice, bella davvero, anche troppo. Capitata per caso, anch’essa. Un pezzo di ragazza come quella, Andrea non se la sarebbe mai tirata vicino, in ufficio, di sua iniziativa. Ne avrebbe avuto timore. Tuttavia, siccome l’aveva recata il caso, avevano poi scoperto – di comune accordo – che anche così non andava affatto male, anzi! Ad ogni modo, il tradimento alla moglie (ma Andrea non osava definirlo così severamente …) non era affatto intenzionale. La buona fede di lui era così convinta che si sarebbe fortemente stupito se la relazione d’ufficio con la fanciulla

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fosse stata interpretata come cosa meno che logica. Tra l’amore per la Gisa e la “faccenda” della Nice, c’era un abisso assoluto. La bionda dattilografa non era affatto che gli facesse ritenere spezzati i doveri coniugali. La prima a dargli ragione, anche in questo, era proprio la Nice. Dunque? Del resto, si curavano poco, loro due, dell’aspetto strettamente sentimentale della “faccenda”. V Andrea non attese, quel mattino, che giungesse Nice per mandarla, come di consueto, a farsi comprare un quotidiano da sfogliarsi poi sommariamente: un pretesto, più che altro, per mandar fuori la ragazza qualche momento; le faceva piacere … Entrò, dunque, in ufficio avendo già il giornale in mano, spiegato, intento alla lettura. Aveva notato, nei giorni precedenti, che i titoli grossi avevano assunto tutti un’intonazione aggressiva. Ma la sua assoluta incompetenza, e più ancora il desiderio di starsene cheto nel suo guscio, l’avevano fatto sorvolare. Adesso, invece, no. Adesso, si doveva scuotere anche lui, di colpo. Sgradevolmente. Adesso, s’avvedeva anche lui che qualcosa di grosso stava maturando. Di molto grosso. La guerra era alle porte. VI La guerra! La parola gli martellò violenta alle tempie e sembrò scavargli un vuoto enorme nello stomaco. Non ne sapeva niente, lui, della guerra. Pure avvertì che qualcosa di mostruoso si era messo in movimento, inarrestabile, con l’impeto di un torrente infuriato che irrompa al basso, scrosciando: né ci sono argini costruiti dall’uomo che lo possano trattenere. Suo padre, Sebastiano Mestica, soleva anni addietro raccontare delle sue giornate sul Grappa e sull’Altipiano dei Sette Comuni. Aveva combattuto anche sull’Ortigara, suo padre, ed era stato fra i pochi superstiti (e se ne stupiva lui stesso!) non sacrificati, stupidamente sacrificati, sul “Calvario delle Penne Mozze”. Era stato decorato, allora, il soldato semplice Mestica Sebastiano; ma Andrea, con la sua faciloneria e col suo ottimismo semplice e ingenuo, aveva sempre considerato i nastrini paterni come una cosa logica, facile. E amava, adolescente, raffigurare il padre impegnato in una corsa lunga, fra i campi, con qualche fossatello da scavalcare d’un balzo; e lui, il figlio, corrergli a fianco, ed arrivare proprio a ridosso, anzi, qualche volta, batterlo sul traguardo: ecco, la decorazione paterna, avrebbe potuto guadagnarsela anche lui … E tutti quei discorsi scarsamente comprensibili, dove entravano trincee e mortai, gavette e pagnotta e pidocchi, un giorno li avrebbe potuti ripetere anche lui, tra lo scarso interesse degli ascoltatori d’obbligo …

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Adesso, invece, per la prima volta capiva. Con una tremenda confusione in testa, ma capiva. C’era qualcosa di molto diverso, di più doloroso e meno facile. Di più profondo e più umano: o più inumano. Ed ebbe il rammarico impotente di non averlo compreso prima, quando sorrideva svagato e distratto alle rievocazioni di suo padre. VII La Nice giunse all’ufficio con qualche ritardo. Aveva gli occhi più luminosi ed il colore delle gote, per l’eccitazione, era più acceso. Ma Andrea non notò né il ritardo né tutto questo. Era troppo intento a seguire quanto il cav. Lodovici gli andava spiegando, con voce sommessa e gesti concitati. Davanti ai due uomini, sul piano della scrivania, stava una piccola carta geografica, coi suoi colori variopinti e allegri. Ogni colore un passaporto, ogni colore la possibilità di una guerra. Che gran cosa, se un giorno le carte geografiche saranno tutte di un colore solo! Il cavaliere si infervorava, sembrava un tecnico giunto al suo grande momento, dopo tanta attesa; e ad Andrea si andavano svelando infiniti e preoccupanti misteri. L’indice del cav. Lodovici si appuntava sui confini orientali della Germania, e quindi scorreva rapido verso la Francia e le isole inglesi, e da un capo all’altro del Mediterraneo. Anche Nice si avvicinò in silenzio. VIII Dunque, la guerra sarebbe venuta. Per l’Italia non subito, ma assai presto. Su questo, il cavaliere non aveva alcun dubbio. Andrea si sorprese, smarrito, a pensare ai bambini in divisa che portavano marzialmente il loro piccolo moschetto per le vie della città. Una di quelle sfilate si era svolta anche pochi giorni prima. La ricordò con un senso di angoscia. Carezzando un’anca di Nice, slanciata e morbida, egli li aveva distrattamente osservati dalla finestra dell’ufficio, quegli adolescenti. E, nella sua irrimediabile noncuranza e superficialità, solamente questo aveva notato: che sembravano incredibili soldatini, che giocassero a un gioco troppo importante per loro. Il grigioverde di quei ragazzi non sapeva di fango e di sudore; non sapeva di fango e di terra. Era stato profumato, dalle madri, di buon odore di bucato soltanto. Ma questo. Andrea, non era in grado di saperlo. Gli era piaciuto riguardare i ragazzini che camminavano al passo, per quel tanto di spettacolare che c’era in essi. Andavano bene, quei bimbetti, allineati e coperti senza visibile sforzo. Ma non sembravano dei soldati. Anzi, aveva pensato che – in un certo senso – i soldati veri avrebbero potuto apprendere qualcosa da quei marmocchi, qualcosa che ai soldati normalmente manca: l’entusiasmo. Il grigioverde vero – quello del fante – forse smorzava gli entusiasmi e temperava gli slanci. O li fondeva in qualcosa di più potente, di diverso. Sono questioni complesse, queste, e Andrea non aveva affatto le idee chiare, al proposito: del suo periodo sotto le armi, le cose

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che più gli erano rimaste impresse erano state le mugugnate chilometriche, le “consegne” mai ben digerire e la storiella (ma non sempre storiella) della sentinella che sta fuori della caserma ad impedire che vi entri il buon senso … -Bello!- aveva esclamato la Nice lietamente, premendosi contro il fianco di Andrea nel vano della finestra, e cercando con una mano la sua. E non avevano trovato di meglio che ritirarsi per un fuggevole,stupido bacio. Dopodichè si erano immersi di nuovo nel loro lavoro, mentre la sfilata andava esaurendosi e si slontanava sempre di più il ritmo veloce della “bandina” degli avanguardisti. IX Adesso, anche quei ragazzi sarebbero partiti per la guerra. I più grandi, almeno. E gli altri avrebbero, forse, irragionevolmente rimpianto di essere nati in ritardo. Andrea, invece, no. Andrea pensò, allarmato, che, certamente, sarebbe toccato anche a lui partire. Partire, per chi sa dove! Andare, un numero nella massa uniforme. Una divisa senz’anima e senza colori, la sua. Senza vibrazioni e senza passioni, che non fossero di rassegnazione stanca e di sottomissione passiva alla volontà più forte di questa madre atroce, la “Patria” – questa creatura superba e irraggiungibile, fatta di tutto e di niente – che vuole le lacrime e lo spasimo di tutte le madri, che vuole la sofferenza ed il sangue, se non il cuore, di tutti i suoi figli. Si può veramente morire, per una bandiera? Cos’è una bandiera? Andrea sentì che forse non l’avrebbe compreso mai, se non l’aveva imparato fin allora. E, con un senso di ripugnanza appena repressa, pensò che la guerra, no, lui, la guerra non l’aveva voluta. Per niente. Stava cadendo dalle nuvole. E avrebbe dovuto farla. Lui non aveva dimostrato per la strade, negli scoppi di entusiasmo collettivo, più o meno frenetico e più o meno organizzato e comandato. Lui aveva vissuto al margine. Non aveva desiderato nuove terre e nuove glorie, non aveva urlato sotto le finestre di Consolati stranieri; non aveva pensato minimamente, lui, a tutto questo … Cosa si pretendeva, dunque, da lui? E in nome di quali diritti? Sta bene che la “patria” sia una convenzione sociale universalmente accettata e che i secoli hanno trasformato fino a farcela vedere non come necessità ma come istinto, come essenza fondamentale e verità che non si può ignorare: ma, in tutto questo, cosa c’entrava lui? Ed era poi davvero la patria o non piuttosto quel “partito” che si era trasformato in patria, a imporre tutto questo? Era iscritto, lui, a quel partito. Bella forza: se non fosse stato così, come avrebbe potuto vivere? Ma, da questo all’impegnare se stesso per la vita e per la morte, ce ne correva, perbacco, della distanza! A dire, si fa in fretta. Ma farle, certe cose, è un’altra questione. Se “l’uomo è lupo all’altro uomo” – come gli aveva ancora ripetuto dianzi il cav. Lodovici -, no, io non sono lupo, io non mi sento di uccidere, perché sono un timido, perché sono un pavido, diranno, ma io grido che non uccido perché non è giusto farlo, specie poi chi non si è mai sognato – ch’io sappia – di farmi del male.

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X Orrore del sangue, terrore del sangue. Troppo, troppo se n’è già sparso nei secoli. L’umanità ne è impregnata e ne gronda da millenni. Ne è perennemente dolorante. Caino ha ucciso Abele: il sangue del prossimo, dunque, è una tragica necessità istintiva e primordiale? Cos’aveva fatto, Abele, per essere scannato dal fratello? Era stato più di lui buono. E, così, i buoni soccombono. I buoni e i diseredati. E i “fessi”… E Andrea, che il sangue degli altri non lo voleva, gli dava il vomito solo il pensarci, avrebbe dovuto, per questo soltanto, offrire giocondamente il suo? Anche Romolo aveva ucciso Remo, per la sua orrenda sete di dominio, e nelle scuole si esaltava il fratricida. Culto di violenza, che finirà tragicamente per i sacerdoti. Stava così bene, Andrea. La sua vita tranquilla, serena. Nessun desiderio eccitato o convulso. L’ufficio, la casa, la saltuaria partita a biliardo, la scampagnata di fine settimana con la Gisa. Ma, perdio, l’uomo non ha dunque forse diritto – con tutti i doveri che gli hanno assegnato – a una qualche pausa breve di azzurro e di pace? La Nice che lo carezzava sulla fronte e gli si stringeva al fianco, poi correva di scatto alla macchina, vi introduceva un foglio e batteva rapida: “Ti voglio bene, come amo il sole”. Quanta vita, nei suoi occhi, e che fremito nelle sue carni ancora un po’ acerbe ma tanto assetate di amore, cretina! Cretina anche lei, sì. Tutto questo, repentinamente essere annullato, spazzato via. Terre mobili, cadere nel vuoto e sprofondare in un abisso senza fondo. E la maternità della Gisa: e la creatura che doveva venire? Cosa veniva a fare, quello, al mondo? Se il corpo della Gisa si era sformato, Andrea riusciva ad intuire, anche se confusamente, il prodigio di quest’amore che s’incarna e diventa figli. Ma che i figli nascano per finire in guerra, o senza poter vedere un giorno il padre finito in guerra, è contro natura. Non può essere che sia così. È il mondo, allora, che è montato male. Ed egli andarsene. E tutto crollare vertiginosamente intorno e dentro di lui. Acqua che cresce alla gola, un cappio che si chiude e stringe, pazzamente. No, non poteva, non doveva essere così. Non può essere, questo, il significato e lo sfocio della vita. Una volontà, infine, ce l’aveva egli pure. L’uomo è di passaggio su questa terra, ma chi sa? Deve pur esserci il modo di potersi posare sul sodo. Non siamo, così, subitamente, selvaggina ansante e braccata! La GUERRA! Oltre a tutto, suo padre aveva provato nelle carni il sapore acre del piombo tedesco; e lui adesso avrebbe dovuto stringere loro la mano e camminare al loro fianco, senza neppure conoscerne il motivo. No, lui voleva troppo poco bene ai tedeschi, perché questo fosse comunque possibile.

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XI Si sentì invadere da un’angoscia greve, che non sarebbe andata via più: non vi sarebbe più stata, mai, tanta luce che bastasse. Accese macchinalmente una sigaretta, ma non sapeva di nulla. Si guardò attorno, come spaurito: e tutto gli sembrava freddo, arido, strano, quello che ieri era familiare, accogliente, bello. Lo urtò, con disagio, una mensola lucente, nichelata. Nice lo guardava di sotto le lunghe ciglia arcuate. La osservò come non l’avesse vista mai prima: e non avvertì alcun stupore di sentirla lontana e sconosciuta. Chi era, infine, lei? Gli sembrava di essere stranamente immenso e che le cose, intorno a lui, rimpicciolite, appartenessero ad un mondo irreale, come nelle fantasie di Gulliver … Lui guardava dall’alto, ed ogni oggetto aveva proporzioni piccolissime, in un’atmosfera pesante ed immobile nella quale il pensiero stesso di muoversi o di respirare appariva pazzesco. Oppressione fisica, non solamente morale. Avvertiva dietro di sé uno spazio cavo ed enorme, una vastità vuota e senza confini. Potersi voltare indietro … : c’erano i suoi giochi di quand’era bambino, e tanto verde, e tanto cielo chiaro, sfilacciato da nubi bianchissime … Il resto, gli occhi lo guardavano come fosse il ricordo di un sogno di altri tempi, remoti, frantumati per sempre, senza rimedio. Sedette allo scrittoio, e poggiò la testa nella conca delle mani aperte, come in una cuna. Una rosa calda, scarlatta, odorava tenuemente sulla camicetta bianca di Nice. Sapeva vestirsi, quella ragazza, per piacere agli uomini! Fuori, il sole incominciava nuovamente a scottare. XII Una greve sonnolenza, innaturale, si era adesso impadronita di Andrea. I sensi gli sembrava che non avessero mai percepito con tanta intensità: eppure, le palpebre gli calavano sugli occhi. La Gisa, di là, stava sparecchiando, e lui era sprofondato in una molle poltrona. Era la Gisa che l’aveva voluta acquistare, per lui, subito dopo il matrimonio, quella poltrona di gommapiuma. Non si armonizzava affatto col resto del salottino, ma ci si stava veramente bene. Con la sua cara sposina rannicchiata fra le braccia, aveva tanto sognato, là seduto. Ora, stava sbriciolandosi tutto. Lasciò scorrere lo sguardo sui piccoli mobili – sembravano l’opera di un artefice bizzarro per un gioco di bimbi! – e si soffermò a considerare un’acquaforte dai colori troppo vivaci. Una marina, con uno sbruffo impetuoso di acqua schiumeggiante su di una scogliera. Il cielo, sanguigno, degradava in un blu forte, violento. Andrea e Gisa non si erano ancora detti una sola parola, del grande argomento della giornata. Andrea provò a pensare che la donna non ne sapesse ancora nulla, ma

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gli pareva impossibile, e respinse l’idea. Ad ogni modo, decise che per il momento avrebbe taciuto. Quando proprio fosse necessario parlarne, le avrebbe detto che erano tutte storie e che “la cosa” si sarebbe risolta in fretta, non avesse alcun timore … E lei avrebbe creduto, o avrebbe finto di sì. Se poi gli fosse toccato rivestire il grigioverde, l’avrebbe portata, prima, al Cascinone, dai genitori. E la mamma l’avrebbe preparata e sostenuta nella maternità; e papà Sebastiano le avrebbe raccontato, rassicurandola, che la guerra non è poi sempre brutta come si dice: “Usavano anche i gas, quando ci fui io, ma a casa sono ritornato lo stesso, vedi?”. Così le avrebbe detto, e le avrebbe spiegato che è un po’ dura, sì, ma che – quand’è passata – in fondo in fondo non dispiace esserci stati, è una grande esperienza. Avrebbe sicuramente finito, Sebastiano, per tranquillizzarla del tutto. Era limpida, la buona Gisa, come l’acqua pura di una polla sorgiva; e la fiducia che essa aveva nella vita commosse Andrea. Lei, povera donna, cosa ne sapeva delle cattiverie e delle perverse malvagità degli uomini e di quelle accozza glie di uomini che sono, in definitiva, gli “Stati”, con quelli che li comandano? XIII Il torpore che gli pesava sugli occhi si accentuò insensibilmente, le palpebre si serrarono e Andrea si afflosciò nella poltrona. La Gisa, che aveva terminato di là in cucina, lo sorprese assopito, col viso un poco reclinato sulla spalliera. Era venuta reggendo con le mani un vassoio: un vassoietto per due, in legno, ricordo di una gaia domenica a Courmayeur. Sopra i colori vivaci di due ingenui pupattoli ilari erano le tazzine fumanti del caffè già zuccherato. Molto zucchero, per Andrea, e non troppo caldo. Gli piaceva così. Le labbra della Gisa si mossero in un tenue atto di tenerezza; e la sua mano sfiorò, senza toccarli, i capelli un po’ ricciuti dell’uomo. Nel gesto, pure così semplice e usato, qualcosa di nuovo e di più grande si rivelava in lei: la madre che andava diventando, che andava crescendo insieme al figlio che recava in grembo. Sedette accanto ad Andrea, curando di non provocare il più piccolo rumore. Il caffè si sarebbe sfreddato, pazienza! Si carezzò un avambraccio, carnoso, vellutato, mentre si restringeva graziosissima nelle spalle e sorrideva all’uomo come se, sveglio, la stesse cercando con occhi amorosi. Diceva, Andrea, che così gli piaceva tanto. E lei, in cambio di tanti piccoli baci, gli donava la tazzina di caffè … Di solito, era così; ma stasera era tutt’altra cosa. La Gisa si passò una mano nei capelli: erano fini, di un castano caldo, dorato. Ebbe gusto a sentire un po’ di male. Dunque, tra breve sarebbe stata la guerra … E Andrea non gliene aveva detto nulla. Gliene fu grata, la Gisa; sapeva che quel silenzio l’aveva dovuto far soffrire. Da quando l’uomo era rincasato, la grande parola era stata sospesa nell’aria, smorzando ogni loro discorso, attutendo ogni loro gesto. Entrambi, però, avevano

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taciuto. Timore, reverenza, in ciascuno, del dolore dell’altro. Già, quale avrebbe potuto essere, la reazione? La Gisa fissò gli occhi in avanti, su di un punto qualsiasi della tappezzeria. Ma non vide il gran fiore rossiccio che le stava dinanzi. Rivide le scene di guerra di una pellicola cui aveva assistito con Andrea qualche tempo prima. Reticolati divelti, sullo schermo, e schianti furibondi e boati assordanti. Un elmetto che sporgeva a fior di terra e lo scroscio rabbioso delle mitragliatrici. Sgnaulii che fanno rabbrividire, e un cielo scuro e fisso, immobile; un brivido di nebbia che saliva da qualche parte, dal terreno rotto, sconvolto. Andrea le aveva detto, con un sorriso tranquillo, di buona ironia: “Vedi, questa è la guerra fatta su misura, dai registi. Ed è sempre così, la guerra del cinematografo, coi soliti ingredienti: normalmente c’è anche il cane che corre a portare gli ordini, tra i fiocchi bianchi degli scoppi. In pratica, dev’essere ben diverso …” Già … in pratica. Diverso. Si può morire. Si muore. Sono i nostri uomini, all’atto pratico, che vanno, che si macerano in un budello che può diventare ad ogni istante il loculo definitivo; che corrono all’assalto o che cercano con affanno un riparo sotto lo schiocco felino della mitraglia. E non sempre il riparo è lì, che ti dia salvezza. E il rotolare sibilante dei grossi proiettili in arrivo ti agghiaccia il sangue nelle vene e pare ti spezzi i timpani. Il tempo, allora, è senza fine … Il grosso fiore rossiccio della tappezzeria, che ora la Gisa distingueva a malapena nell’opacità del suo sguardo, le parve un crisantemo appassito; e una mano di ferro le serrò la gola. Come se si trattasse di un fiore triste, di morte, su di una tomba lontana, che sorgesse irraggiungibile, fra brume sconosciute e remote. Uno stupore freddo le penetrò le ossa, e le oscurò gli occhi un velo sottile di lacrime. Tra di esse, a stento, incominciò a discernere ancora – dapprima vagamente e poi con sempre maggior precisione – i contorni delle cose che la circondavano. Il tavolinetto di vimini, sopra un tappeto di filo ricamato, metteva in mostra una cuffietta azzurra, di lana, non del tutto terminata … lo sguardo della donna vi indugiò un momento, poi si posò su Andrea, il SUO Andrea. Le parve di scoprirlo per la prima volta. Era tanto generoso, tanto forte e buono, lui. Sempre pieno di riguardi, di delicatezze: forse un po’ bambinone … Ma anche per questa sua caratteristica gli voleva bene. Per questo, e per il suo modo bizzarro e facile di vivere distrattamente la sua giornata. Forse aveva ragione lui, di vivere così, senza approfondire le cose; le brutture del mondo, le sfiorava appena: non ne nasceva alcuna contaminazione. Lo considerò attentamente, nella penombra del salottino. Una sottile ruga, appena accennata, gli increspava la fronte. I capelli erano lucidi e freschi. Come le erano piaciuti, mio Dio, quei capelli, da subito; e come amava indugiare a carezzarne le pieghe o a sconvolgerle, quando un amplesso più forte mordeva loro le carni … La scriminatura, sulla destra, contribuiva a rendere il viso anche più giovanile. E la piega della bocca era lieve, dolce; e le labbra, piuttosto sottili, appena arcuate un poco … Il respiro dell’uomo era appena percettibile: e la Gisa ripensò con intensità alla prima notte che si era svegliata nel buio, avvertendo accanto la presenza del corpo di

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lui, amato ma ancora così estraneo. Quel respiro, allora, le era sembrato tanto forte da destare echi insospettati e vasti sin nella sua più gelosa intimità … Due anni che vivevano insieme, ed ora stava per essere madre! Due anni. No, la vita non poteva essere tanto crudele. La morte non gliel’avrebbe potuto strappare. Lo sentì con certezza assoluta. Perché Andrea non era solamente suo, era anche di suo figlio, del “loro” figlio. L’uomo se la trovò improvvisamente fra le braccia, spinta da uno slancio incontenibile. Aperse gli occhi e l’abbracciò, sbigottita; era tutta un fremito. Il caffè, sul vassoio, aveva smesso anche di fumare, oramai. Non furono necessarie parole, fra la Gisa e Andrea. XIV Le ore si succedevano, sempre uguali, e nulla ne interrompeva il monotono andare. Gli avvenimenti gravitavano sempre più pericolosi. Ogni ora nuova che giungesse poteva essere la definitiva, quella che condannerebbe l’umanità alla nuova tragica prova. Ma il disastro insensato, per questa misera carne umana, non avrà dunque mai tregua? I ricordi più lontani, le tracce più remote, della storia, della preistoria, della leggenda, del mito, ci parlano di gente che si ammazza. Che sia proprio una necessità irrimediabile? È vero, allora, che siamo, per istinto, indotti al male. È vero, allora, che è insopprimibile la legge, che è indispensabile la pietà religiosa, che non si può prescindere da una convenzione sociale – comunque definita – che moderi e raffreni, e che costringa e indirizzi i nostri pensieri, prima ancora che le azioni, per impedire ai più incontrollati istinti di scatenarsi in tutta la loro crudezza! Si lavora per anni ed anni. Ci si affanna per secoli e per millenni: e lo sfocio infallibile è la guerra. Con gli altri e con se stessi. Una conclusione pazzesca, che l’ipocrisia e l’interesse velano di idealismo per i gonzi. Troppo profondo, il male, per essere eliminato? Proprio in tutti noi, nelle radici del subcosciente, quelle che neanche sappiamo? Più l’umanità si proclama progredita, più è orientata a distruggere. Cos’è, infine, questo esaltato progresso umano, frutto amaro dell’affanno di cento, di mille generazioni? Cos’è, se non vestire un’infame nudità di primitivi rapaci e fierissimi con una veste “tecnica” decente e presentabile? Se non il mascherarsi di belletti e di aromi, per nascondere la colpa e rendere meno sfacciata e meno pesante l’impostura? Abiti eleganti,, profumi piacenti; e, sotto, la ruvidezza e gli istinti bestiali di prima, di ieri e di sempre, affinati e resi sempre più perversi anche per la vergogna medesima del volerli celare, agli altri e a se stessi. Progresso … Ma come, se la messe prima e più copiosa è sempre questa: la corsa a chi più sarà in grado, domani, di annientare. È una squallida sete di dominio. Di dominio e di ribellione. Una sete diabolica. Umana. Pure, non è che tutti, tutti quanti abbiano l’animo abbrutito. Ci sono anche i buoni, che vedono il pericolo; gli onesti ed i pochi coraggiosi che osano additarlo; i saggi

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non perversi, che si estraniano quanto possibile dalla società, per non partecipare alla sua sozzura. E la società, questi, di norma li mette al bando. E chi vuol vivere con essa deve in qualche modo lordarsi e volere con esse il male, o compierlo anche contro la propria volontà. Succede che anche chi sarebbe stato buono, repentinamente può allora sentirsi posseduto dalla lontana ferocia primigenia (l’istinto di conservazione?), e diventare come gli altri, peggio degli altri, talvolta, per reazione. Di apostoli della redenzione, pochi ne restano. Di quelli in buona fede, s’intende. E, quei pochi, delusi, non seguìti, derisi,del tutto deboli e impotenti. L’umanità – nella sua orgia di vizio – non vuole ascoltare altre parole che lodi e incensi; non chiede alcuna esca, che non sia fonte di nuove libidini; non desidera altro progresso, se non quello di schermare meglio le sue nuove e più di sfrenate lussurie. Beati, forse, veramente beati, coloro che se ne stanno in disparte, che “possono” stare in disparte, e non ne sono toccati. Sconvolto e pervertito, il mondo va per la sua strada disonesta, e li ignora. Beati essi! (Ma ve ne sono, poi, davvero, sia pure fra le tribù meno “civili”?). XV Notizie che corrono, allarmanti e frenetiche, nate chi sa dove. Si incrociano e si sovrappongono in un caos crescente. Prima ancora della guerra guerreggiata, sono già i primi allarmi, i primi attentati: quelli più cattivi, perché rivolti contro la tranquillità onesta delle genti oneste. La ridda sembra impazzire. La radio incomincia a spandere il suo sottile malessere, che penetra nelle fibre più recondite: un veleno fine fine, che si insinua senza che tu te ne renda conto, e che ti prende tutto. Ti rovina l’appetito, il cervello, il cuore. Una radio. Due radio. Venti. Mille. E, tutte, una voce uguale e diversa. Una parola di sfiducia o di speranza. Di delusione. Di abbattimento. Scoraggia. Esalta. Insinua. Entusiasmi. Frenesie collettive per le strade e le piazze. Grida rauche. Inni, inni, inni. Bandiere. Gagliardetti. Radio-Londra, Radio-Monteceneri, Radio-Roma, Radio-Varsavia, Radio-Berlino, Radio-Parigi, Radio-Mosca. Come discernere il vero dal falso, l’onesto dal disonesto, se ciascuno reca acqua al suo mulino? Se ti vietano un’audizione, la ascolti più volentieri: ed il turbamento che te ne proviene è anche maggiore. Le notizie e le voci corrono, si urtano, si spezzettano, si accavallano. Come orientarsi? Si vocifera di incidenti, di sangue, di bandiere vilipese. Di onori da difendere e di interessi da tutelare. Sete di sangue e di dominio, più forte di tutto. Su tutto. Se ti infangano l’onore, se te lo stracciano a pezzettini – e tu sei debole -, stai a nicchiare, fingi di essere distratto. Ma se tu sei forte – o ritieni di esserlo - … allora il tuo onore va lontano, si fa schizzinoso, bisogna scriverlo a lettere maiuscole, è sacro. E i tuoi interessi valgono ancora di più. Fai la voce grossa. Speculi sulla miseria, sulla paura, sulla pazienza, sull’onestà degli altri. Ingigantisci la tua voce. Altoparlanti. Megafoni. Radiodiffusioni. Emissioni, emissioni senza tregua, a getto continuo. Ogni due ore, ogni ora, ogni mezz’ora. E atti di pirateria. Il mondo ne è istupidito.

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Ti protegge la tua stessa audacia proterva. Ti dà l’impunità la tua stessa vigliaccheria di aggressore che agisce a colpo sicuro, sui più deboli. E le folle brulicano per le strade e le piazze. Si imbestialiscono dinanzi ai radiodiffusori. Cercano sui giornali le notizie, come gli ubriachi il vino; e le notizie nuove sono sempre già superate, se ne vogliono altre, come gli ubriachi il vino non ancora bevuto, che è più buono dell’altro, perché fa aumentare la sbornia di un altro po’. Non si tenta neanche più di ragionare. Manca il tempo. La radio e la stampa non tacciono più. Nessuno più riflette. E poi riflettere sarebbe inutile, se non addirittura pericoloso. Ore da scalmanati, queste! Ore di fuoco. Le fisionomie si sono indurite. Le parole, eccitate, rincrudiscono. Carte geografiche. Crocchi di persone che gesticolano ad alta voce, tutte insieme. Ciascuno parla, e nessuno lo segue. Ma cosa importa? Ciascuno ha detto la sua. E parlare è necessario, buttare fuori, sfogarsi. Chi non lo può fare in pubblico, lo fa in casa, e mastica amaro. Le sue parole sono di condanna: guai, se lo sentissero! Carte geografiche. Strateghi eccezionali che tracciano i più disinvolti piani operativi. Occhi spalancati intorno alle indiscrezioni buttate lì, sommesse, come per sbadataggine. Una carta sopra un tappeto verde, sembra caduta per caso. Guerra-lampo. Spilli che forano i cerchietti e i quadratini delle città. Ogni spillo, migliaia di morti, cumuli di distruzioni, urla straziate di dolore. Ma pochi ci pensano. Segreti riservatissimi … che ciascuno conosce. Bluff … o poker di assi? Un imbizzarrirsi collettivo, penoso. E, intanto, l’umanità incomincia un’altra volta a scannarsi, e le madri a gemere la loro seconda morte. La diplomazia non serve più. Ha lasciato agli “stati maggiori”. E questi, che da gran tempo si sono preparati e hanno predisposto le loro pedine, ragionano a mente fredda. I loro calcoli non sono più di parole, di sorrisi, di finzioni, di intrighi più o meno trasparenti. Algebra. Calcoli di forza. Niente sentimentalismi, numeri, numeri, numeri, trigonometria. Cannoni. Navi. Carri armati. Baionette. Aerei. Siluri. Fusti di benzina. Motori. Riserve e munizioni. Precisa, somma assoluta del maximun che ogni Stato può dare, al disopra dei calcoli, balza fuori la data della nuova tregenda di sangue. Gli “ultimatum” nel volgere di brevi ore si fanno più aggressivi. Le dichiarazioni di guerra, ormai, pare servano più a poco. Ogni cosa è diventata priva di valore, ed i “patti” si stracciano come la carta del formaggio. Il primo sangue arrossa la terra, assetata di ben altro. Quanto ce ne vorrà, a fecondarla tutta? Nessun “centro internazionale di statistica” l’ha mai calcolato, ma il soldato lo sa, il soldato che la intride di se stesso. Si rattrappiscono i primi morti, poveri cadaveri già martoriati tante volte. Uomini cadono inerti, smarriti, le braccia tese verso l’alto per una suprema invocazione, per l’ultima vana ricerca di uno spiraglio di luce. Tardi, troppo tardi. Sulle soglie paurose del buio. E le folle, intanto, brulicano per le strade e le piazze. Scrosci di applausi insani, commenti ad alta voce. Parossismi violenti di gente che non ha più cervello o cuore: ha solamente muscoli e nervi, nervi tesi. Domani si prostreranno. Ma oggi il sangue

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scorre più veloce. Forse perché, tra non molto, imbeverà una landa sconosciuta; ma sarà a grumi, ormai. Le rotative straripano e inondano le folle coi loro inchiostri inviperiti. La radio non tace più. Notizie, notizie, notizie. Una ossessione. Non si ragiona più. A domani, intontiti, il risveglio. Una cosa tremenda. XVI Per la pesante ansia che si viveva, unica tregua (o non esca?) erano ormai i comunicati relativi alle operazioni. Era l’unica realtà brutale alla quale appigliarsi – nella dolorosa angoscia subentrata all’euforia balorda – per essere davvero certi che la carneficina fosse proprio ricominciata. Anche il più lussuoso e di sfrenato nazionalismo – che fino a ieri la guerra aveva invocato, esasperandosi addirittura nell’attesa – anch’esso, ora, taceva. Incombeva una tregua, muta e solenne, pavida inconsciamente del domani, con quel che di tragico e di luttuoso avrebbe fatalmente portato. L’ignoto era alle porte, un ignoto pauroso; e l’esistenza, infine, sulle soglie dell’irreparabile, ci si accorgeva essere troppo ricca di piaceri, di agi lieti e di svago sereno, oer rinunciarvi a un tratto. E rinunciarvi, oggi, vuol dire per sempre, nella vita di un uomo. Non ci sono prove di appello, quando si tratta dell’esistenza. È un’intera generazione, che se ne va. Quelli che torneranno – se torneranno – porteranno negli anni, sul viso e nel cuore le stimmate non cancellabili. La spensieratezza se ne va, e l’esperienza subentra al suo posto: un’esperienza non raccomandabile. E con essa, il calcolo, la ponderazione, la freddezza. Così, una volta di più, una generazione sarebbe partita bambina da casa e sarebbe ritornata monca e adulta, cogli occhi scavati sotto la fronte, il gesto misurato e scaltrito, e la voce fatta più profonda, umile o prepotente. Se ne sarebbero andati quasi fanciulli; e sarebbero ritornati uomini fatti. Non pochi, invecchiati troppo presto o rovinati senza rimedio. Altri sarebbero rimasti, in qualche parte, straziati, a concimare la terra, una terra qualsiasi di un paese remoto. Il loro seme umano scatenerebbe domani un’altra lotta non meno feroce? È la ricorrente fatica di Sisifo, per la quale si paga perennemente il pedaggio di una redenzione che non verrà. O verrà chi sa quando. XVII Non tutti gli uomini, pur angosciosamente ripiegandosi su se stessi nella riflessione alla quale nessuno sa sottrarsi nell’imminenza delle prove supreme, non tutti forse si rendevano ben conto, al momento, della vastità che avrebbe assunto la nuova catastrofe. Una speranza, caparbia e puerile, riusciva ancora a rasserenare gli animi: in condizioni altrettanto drammatiche e compromesse, meno di un anno prima, a Monaco, la guerra era stata bloccata sull’orlo del precipizio, come per miracoloso intervento. Perché la cosa non si sarebbe potuta ripetere ancora una volta? La “storia” non torna, purtroppo, due volte sui suoi passi, non è fatta per rivolgersi indietro. Ogni

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suo gesto è solo, non soltanto, ma ben di rado gli uomini ne sanno imparare la lezione… Forse, la mano di Dio solamente avrebbe potuto cambiare il corso degli avvenimenti. Ma i fomentatori della guerra, i veri responsabili, avrebbero dovuto essere inceneriti, perché fosse troncato il loro slancio: contro la cattiva volontà degli uomini, neanche può intervenire Iddio. Giudica, e poi ti attende, quando che sia. Via libera, dunque, alla bufera! E perché una voce di uomo possa un giorno levarsi a porre tregua, a far tacere le armi abbaianti, bisognerà prima che i cannoni abbiano esaurito il loro slancio o di tanto, almeno, l’abbiano indebolito, da permettere che la parola umana nuovamente possa sovrastare la loro, ormai arrochita. Eppure … , eppure la fiducia di interi popoli, una commovente fiducia fatta di tutto e di nulla, continuò per più giorni ad illudersi. Finchè la esaurì, schiantandola come un virgulto troppo svelto una giornata di gelo che torni, una notizia ufficiale che spezzava ogni superstite speranza. Si affermò che non era stato tralasciato un ultimo tentativo per buttare un ponte, un ponte lieve, sottile, di vetro, sulle cui arcate trovassero modo di stendersi la mano e di guardarsi negli occhi – non umettati di sangue, ma lacrimosi di desiderio e di azzurro – gli avversari dichiarati. Ma le cannonate, il ponte l’avevano spazzato via, prima ancora che sorgesse … Ed allora anche quelli che, incredibilmente, sull’onda facile della retorica dominante avevano fino a un’ora prima stimata la guerra come “la più bella, anche se la più rischiosa delle avventure”, anch’essi avvertirono in sé che le ore nuove avrebbero recato soltanto doni di morte, e per un tempo senza limiti netti. Solamente i più giovani – ma non tutti! – nulla o ben poco compresero, e nelle città gridarono la loro febbre, l’impulso ragionante dei loro anni non responsabili. Chi aveva alimentato il loro avvampare, ora vi spargeva sopra altro pazzo fuoco … Ed il popolo silenzioso, il popolo che nelle carni e nel cuore serrava il marchio di una guerra finita or ora, li stette ad osservare sbigottito, impotente. Erano i suoi figli, a stento riconoscibili, questi giovanetti che tumultuavano cantando, che schernivano ed inneggiavano alla morte, senza sapere cosa fosse, né cosa fosse la vita. Chi li aveva così cresciuti? Colpevoli, quei figli? Di quale colpa, se non quella di aver assimilato quanto era stato loro insegnato da chi aveva tradito le loro più genuine aspirazioni? E le madri, intanto, ritrovavano – nelle chiese lasciate troppo a lungo deserte – le misteriose vie mute del colloquio col Signore. Sguaiate anch’esse – troppe – forse senza ben rendersene conto, nella loro ostentazione irriverente di mondanità, nelle vernici e nella vampa di profumi più indicati al postribolo che non alla parrocchia. Sulle pianure aperte della Polonia, la guerra menava ormai i suoi forsennati manrovesci. Tragici, nella loro corrusca inutilità, squadroni di cavalleggeri si scagliavano alla carica – nel sogno impossibile di una resistenza a tutti i costi – contro le corazze superbe di un avversario troppo forte: come buttarsi contro il Destino, nell’illusione penosa di arrestarne il corso. Nel gesto impotente di una spada vibrata, nel sole vivo di agosto, contro un’orrenda massa di acciaio irta di cannoni scroscianti, l’umanità rivide tragicamente se stessa,

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condannata a spezzare, perennemente, l’inflessibile catena della cattività cui il prepotente inchioda il debole. E fu la certezza che, per ognuno, a scadenza breve, l’ora sarebbe venuta. I popoli si stavano mettendo in fila, allo sportello. Uno dopo l’altro, per ciascuno il turno sarebbe venuto. XVIII Non ci fu – come molti avevano creduto di prevedere – la mobilitazione generale. Né parve imminente l’entrata in guerra di tutti i possibili contendenti. Nel mondo c’era, per il momento, la claque. C’erano state, è vero, le dichiarazioni ufficiali con le quali la Gran Bretagna e la Francia avevano impegnato le loro armi e la loro parola. Ma, forse, il senno avrebbe ancora potuto sospendere il fatale urto, anche se ciascuno avvertì, dovunque, il tremendo pericolo dell’ameba prussiana che, nel suo dilatarsi senza limiti, avrebbe finito per travolgere tutta l’umanità, se questa fosse rimasta passiva. L’irragionevolezza non disarmò le speranze. I buoni osarono ancora sperare che la malvagità non avrebbe trionfato una volta di più. A Roma, e la propaganda ufficiale non mancava di rammentarlo ad ogni occasione, si lavorava con la stessa alacrità di prima – sfida fiduciosa alla guerra (o inganno consapevole) – per preparare una “esposizione universale” per la quale era stato inventato il nome bene augurale di “Olimpiade della Civiltà”. Diceva, la criminosa propaganda: “La civiltà, in Roma originatasi, che in Roma ritorna, in Roma che sulla guerra domina – signora – e sulla pace delle genti …” . Dunque, non era tutto perduto, ancora. Ed in Roma, nella sua ieratica riservatezza, risiedeva il Sommo Pontefice. Anche questo doveva pur avere un suo significato preciso – pensava il popolo; ed anche dalla non belligeranza illusoria dell’Italia non pochi, troppi, trassero motivo di conforto per un fanciullesco filo di speranza. E poi … e poi, si parlava anche di Marconi, come no? Si era diffusa in molti – nata chi sa come, alimentata da chi, poi l’impressione di un gran sipario che nascondesse segreti micidiali, da sbigottire l’universo. Dietro l’Italia, parve a molti che vi fosse il peso di un’incognita: forse, la chiave di volta di tutto quanto. XIX Per Andrea, l’esistenza continuava senza visibili mutamenti. Dopo il primo, penosissimo smarrimento, una calma atona si era impossessata di lui. Come vivere in uno spazio irreale, e le ore scandite soltanto – ad intervalli piatti e larghi – dalla luce periodicamente risorgente dal buio della notte. Lui era vuoto di qualsiasi pensiero, come un pellegrino che si ritrovi – né sa come – in una vastità che non ha confini e confonde la sua mente col cielo che non finisce mai intorno, o con la natura dovunque uniforme.

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La gioconda facilità quasi fanciullesca, con la quale era vissuto fin allora, riebbe finalmente il sopravvento. Non poteva, la sua semplice coscienza, essere turbata in profondo dagli avvenimenti che avvelenavano l’aria. Neppure la convinzione del cav. Lodovici – la solo persona con la quale si intratteneva sugli argomenti della giornata – convinzione che l’Italia sarebbe assai presto scesa in guerra; neanch’essa riuscì più a scuoterlo come gli era successo in un primo tempo. Si era rassegnato ad una quiete fredda e un po’ a fior di pelle, e dopo la ribellione impossibile sognata nella prima baraonda degli annunci di guerra, aveva ripreso il suo normale ritmo, privo di orizzonti e di tonalità vivaci. Tanto, non ci sarebbe stato altro da fare … Una sola determinazione aveva preso, del tutto platonica: che avrebbe tentato, con ogni possibilità, di mutare le cose qualora gli fosse toccato, un giorno, di partire per il fronte. Non era una cosa eroica, ma pensava Andrea che era superbamente cretino colui che fa la guerra volentieri. Infine, suole dire il popolo (e un fondo di ragione, evidentemente, c’è) che a combattere, in linea, ci vanno solamente e sempre i medesimi: i fessi, e (bontà loro) i generosi oppure i pazzi. Tutte qualifiche alle quali Andrea rinunciava senza rimpianti. Avrebbe fatto valere il suo diploma; e, in qualche ufficio, un buco dove ficcarsi l’avrebbe pur trovato. Non è poi così disgustosa la qualità dell’imboscato, specie per i protagonisti! Risolto il suo problema sul piano teorico, Andrea ritornò a vivere quasi come prima: era un uomo troppo comune per avere pensieri grossi. Ritrovò piacere a sorbire una birra ghiacciata; riscoprì, come se si trattasse della prima volta, ma con un sapore più raffinato, la morbidezza meravigliosa delle spalle di Nice; ritrovò, con la Gisa, la serena consuetudine di prima, non più velata da ombre sospese. Il fardello vivo della maglie era ancora cresciuto; e si avvicinava, rapido, il momento in cui la donna si sarebbe sgravata. Tutto, oramai, era già, in lei, della madre. Lo sguardo, che si posava al grembo con infinito compiacimento, nella penombra del salottino. Il bacio, nel quale si indugiava con un abbandono nuovo al rientrare di Andrea dall’ufficio … Ogni movimento, ogni cenno avevano in lei, ora, qualcosa di nuovo, di indefinibile. Andrea la sentiva assai più bella – nonostante quel ventre grosso, che non gli andava proprio giù – e tanto più in alto di lui, nel suo mistero. E fu con un certo stupore che un giorno considerò che, in fondo in fondo, la sua “faccenda” con la Nice non era del tutto lodevole. Ai suoi occhi, la Gisa rappresentava, adesso, qualcosa di tanto grande, da riuscirgli addirittura incomprensibile. E, a volte, gli pareva che fosse tanto innamorata del figlio che si formava in lei, da sentirsene quasi ingelosito, come offeso nei suoi diritti legittimi di uomo arrivato prima. XX Piovigginava, quella sera; un’acqua finissima e impalpabile sfocava i contorni delle cose. Si era ai primi di settembre. Il cielo, scoloritosi insensibilmente fino a un bianco lattiginoso, pareva si stesse liquefacendo, infradicito. Dopo una giornata così,

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c’era quasi da disperare che tornasse il sereno … Le foglie delle “serenelle” del giardino, già verdi di un colore stanco e untuoso, sembravano anche più abbrunite; e gli stessi fili d’erba che la piova avevano atteso a lungo, nel recente caldo, come una liberazione, parevano appassire, adesso, sotto le gocciole fini, e volersi celare sottoterra, in quell’umidiccio che li rendeva marcescenti. Andrea rincasò, annoiato da una giornata che non finiva più, con un’indolenza pesante nelle membra e sugli occhi. L’asfalto rifletteva, plumbee, le immagini liquide delle persone che passavano sulla strada, rade e frettolose come per un’ignota paura che le cogliesse, fuori di casa, un’ombra più densa. Come tutti i giorni, al noto squillo di campanello, la Gisa gli venne incontro, strascicando un poco i passi sulle pantofole. Aveva gli occhi più vivi, quasi una rugiada fresca li avesse lavati allora allora. Da ogni suo gesto traspariva un’eccitazione inconsueta. Si strinse forte a lui e invece di offrirgli, come ogni volta, le labbra, gli si abbandonò tutta, grevemente, reclinandogli il capo su di una spalla. Prima che Andrea potesse aprire bocca, la donna, con nella voce un tremito nuovo, gli mormorò- mentre le sue mani gli attanagliavano le spalle ed essa si staccava impetuosamente da lui: - Andrea, oggi è come fosse nato nostro figlio! Oggi, per la prima volta, l’ho sentito in me, vivo … XXI È una cosa immensa, la vita che viene. La fecondazione che germoglia nella carne viva dalla quale trae, come il seme nella terra, la sua elementare forma. Il cencio di anima sbrindellata di Andrea si vestì a festa, nuovo come la vita nuova. Suo figlio, il loro figlio! Ed era già vivo! La realtà presente, assoluta, era ben più forte di ogni male che ci fosse al mondo e che turbasse gli animi. Suprema è la bellezza della vita che si rinnova e che in noi ritorna, per continuare la nostra. Rubare, a un tratto, nelle miserie che s’affollano intorno, un briciolo purissimo di felicità. Fermare il tempo, fissarne una dimensione e coglierla per sé, mettersela nel cuore, che ci possa riscaldare con la sua presenza, sempre, nel domani popolato di ansie … Cosa sono mai, allora, la guerra, la morte, la stessa vita nostra? Nel cielo piatto che si confondeva coi contorni delle cose, nel crepuscolo stagnante ed opprimente, era sorto un sole sconfinato, in un azzurro tanto libero da non potervi affissare lo sguardo. Andrea e Gisa si sentirono soli, nel mondo, come non lo erano stati mai – ma soli senza paure, senza ombre, senza incertezze che li avviluppassero. Soli, ma sicuri, senza che fossero necessari gli altri uomini con le loro povere cose. La loro orgogliosa gioia – che solamente gli occhi riuscivano ad esprimere, e le dita intrecciate e strette alle dita – era la medesima, primitiva e limpida, degli antichi abitatori delle selve, i quali – per la loro vita, per le loro esaltazioni e per i loro abbattimenti – non avevano certo necessità di testimoni.

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La città, coi suoi rumori, e l’universo tutto sparirono dalla loro mente. Riempiva gigantescamente di sé, ogni cosa ed ogni pensiero, il figlio, il figlio vivo, che avrebbe vagito fra breve al sole. XXII La Gisa stava armeggiando intorno al fornelletto, e Andrea la aiutava volonterosamente a preparare il caffè. Lei avrebbe bevuto (aveva la testa un po’ pesante) un po’ di camomilla, ben calda. -Sarebbe necessario, Gisa, riprendere in esame l’idea del viaggetto al Cascinone... La donna si assicurò che il fornelletto per l’espresso funzionasse bene, ed indugiò ad osservare le gocce dell’aromatica bevanda, che cadevano nella tazzina, in un breve alone di vapore. L’argomento del Cascinone era già stato tirato in ballo una volta, ma con scarso risultato. Lei non ne era davvero entusiasta. Pure, bisognava giungere ad una conclusione. Le sue condizioni lo imponevano. Fra on molti giorni, anche un semplice e comodo viaggio avrebbe potuto essere imprudente. -Vedi, Gisa, sarebbe utile proprio. Staresti bene, non ti mancherebbe nulla. E anch’io sarei più tranquillo … L’espressione della moglie non diceva niente di incoraggiante. Ma Andrea continuò lo stesso, cercando di mettere nelle sue parole tutta la forza di persuasione di cui era capace. Gli argomenti, la donna li conosceva già. Anche se lei la pensava, forse, diversamente, sarebbe stato davvero necessario che si trasferisse – almeno qualche settimana prima della data prevista – nella casa paterna di lui, nella bassa novarese. Certamente, non sarebbe stata cosa del tutto piacevole e allegra, il vivere, disabituata, nella pianura, avendo come orizzonti i filari dei pioppi e dei salici che limitano le risaie, i campi di granturco e le marcite. Ma anche là ci sarebbe tanto sole, tanta luce, tant’aria sana e pura. E tanta quiete, soprattutto. Il figlio, poi, doveva nascere nella casa dei padri. Andrea, inconsciamente tradizionalista e conservatore, non ne sapeva individuare bene il motivo, ma sentiva che “doveva” essere così. C’era, in lui, sotto la scorza del cittadino, la voce antica e perenne della terra. -Non ti mancherà alcuna cosa, lo sai bene. Tutto quello che vuoi … - Le donne, al “Cascinone” (un nucleo di cinque o sei case, con stalle, silos, magazzini, bestiame, centinaia di galline, oche ed anitre; e mucchi di ragazzini razzolanti sempre, come pollastrelle inquiete), tutte un po’ legate da vincoli di parentela dalle origini remote ma sempre valide, le sarebbero state premurose compagne nella vigilia ormai breve. Sebastiano e Domenica – la simpatica e cara mamma Minghin – avrebbero accolta la gestante con la trepidazione affettuosa che si ha per una figlia che ritorna finalmente, dopo tanto tempo. L’anima semplice e limpida della Gisa, i suoi modi cordiali e schietti avevano conquistato i due vecchi fin dal primo incontro. Nessuna cura le sarebbe mancata, nessuna delle comodità essenziali. La vita, al Cascinone, era organizzata come si fosse in città.

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-Papà ha fatto mettere l’acqua anche in camera, lo sai. Ed ha ceduto anche in questo: gabinetto all’inglese, come qui a Torino … La Gisa sorrise lievemente, sferruzzando attorno a un oggettino di lana bianca, che andava prendendo forma sotto le sue mani. Ne sarebbe venuto fuori un giubbettino, piccolo piccolo. Lo avrebbe guarnito, poi, di rosso vivo. Il tavolino da lavoro era ingombro di trine, di nastri, di sete, di pizzi, di lana, tanta lana. Candida. Soffice. Morbida. Azzurra, bianca, rosa. Anche rosa, sì, perché non si sa mai. Doveva essere un maschietto, ma … -Là, c’è il latte caldo, appena munto. Altro che questo di città che, con la scusa della pastorizzazione, non sa più di niente … e le uova fresche, ma fresche davvero. E cibi sani e genuini. Poi, ti vogliono tutti bene; è tutta una grande, sola famiglia. Qui si vive, invece, estranei fra estranei, in un alveare i cui membri si ricercano,si congiungono, si … amano e si odiano soltanto in quanto abbiano interesse a farlo. Già, solo per interesse … Gisa confermava, in silenzio. Andrea, rinfrancato, si sentì sulla strada giusta. Mise fuori l’ultima parte della sua perorazione. -Io ti raggiungerò ogni sabato, il pomeriggio. Parto da Torino alle dodici e trenta, e prima delle sedici sono lì. Mi attenderai fuori, sullo stradone. Resteremo insieme tutto il resto della giornata e tutta la domenica, e passeggeremo un poco, se tu vorrai, verso il Roncaccio magari o la Villata, adagio adagio, perché tu non ti stanchi. E il lunedì, di buon mattino, ripartirei … Si sarebbe levato di buon’ora. Pur essendo un discreto dormiglione (era tanto gradevole, il calduccio del letto!), l’idea lo solleticava e gli faceva piacere. Come se fosse tornato ragazzo, avrebbe infilato, a buone pedalate, i pochi chilometri che lo separavano dalla stazione. Conosceva la strada metro per metro, tutti i fossi e tutte le buche! E, prima, si sarebbe sciacquato ben bene la faccia, lavandosi gli occhi sotto lo scroscio della fontana, alla pila in mezzo al cortile. Pierino sarebbe stato già in faccende, a quell’ora, Pierino che nessuno sapeva dire con precisione quanti anni avesse. Andrea l’aveva sempre conosciuto così – piccolotto, un po’tondo, con la faccia tutta smussi e gli occhi nascosti chi sa dove - ; Pierino, che aveva in testa un cencio unto di berretto, sempre quello!, e che sarebbe stato assai difficile scoprire addormentato ad una qualsiasi ora sia del giorno che della notte. Forse, cavallante, come i cavalli dormiva in piedi. Un giorno, nella stalla, l’avrebbero trovato morto, come se dormisse. Ma quel giorno era lontano ancora … Finchè durassero tabacco e vino, Pierino non sarebbe morto, di sicuro. Per la Gisa, la mancanza di Andrea sarebbe stata compensata dall’affettuosa tenerezza dei familiari; e per la mancanza della Gisa, Andrea, beh, pazienza! Avrebbe sofferto parecchio, ma si rassegnava alla necessità. Si rifarebbe, a suo tempo! -E, intanto, tu avrai tutte le cure di questo mondo – il dottor Destefanis in cinque minuti è lì, ed è un dottore in gamba -, meglio che in una clinica specializzata, dove tutto è bello, ma freddo ed estraneo; tutto preciso, ma senz’anima e senza calore … La Gisa, che non aveva smesso di agucchiare intanto, era soddisfatta, in fondo, della soluzione. I suoi parenti più vicini distavano parecchio, e li aveva conosciuti così poco; la sua famiglia era la famiglia di Andrea. Va bene così.

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XXIII Riuscirà mai a sapere, l’uomo, quello che vuole? Adesso che la Gisa era disposta ad andarsene, Andrea sentì che un gran peso gli era caduto “sulle” braccia. Precisamente. Quello stesso peso dal quale aveva creduto di alleggerirsi, era invece aumentato. Gli succedeva, da un po’ in qua, di contraddire le proprie azioni col proprio pensiero, talvolta. Di non capire bene quel che volesse; e di essere molto scontento di se stesso. E un’ansia si impadroniva di lui, inspiegabile, che prima non aveva mai conosciuta. Cos’è, cos’è dunque – si sorprese ad interrogarsi – questa nostra esistenza sconcertante, per la quale ad ogni ora soffriamo cose nuove? Cos’è mai, se non un’infinita, continua contraddizione di noi stessi col mondo e di noi con noi stessi? Ricerca. Ricerca a non finire. E chi sa di che cosa. Inquietudine. Noia di ciò che è tuo e desiderio di quanto non possiedi. Stupore che non finisce mai. È come la questione delle donne. Ne vedi una bella, e la vuoi. Ma quando l’hai tenuta un po’ fra le tue braccia ed hai esaurito o soddisfatto temporaneamente le tue voglie di maschio, non sai più che fartene. Ne cerchi una nuova, la cerchi forse senza saperlo. Dai il braccio a lei, che ti dona il suo amplesso, e intanto misuri con occhio indagatore e malizioso le gambe di un’altra, le anche di un’altra ancora, i seni puntuti di una terza … Dimentichi facilmente che quello che vai cercando è sempre la medesima cosa. Varierà la forma, saranno diversi gli atteggiamenti e le circostanze, che ti renderanno l’una più dell’altra desiderabile. Ma una, una sola, sempre, è la conclusione. Per quello che è cosa materiale, almeno. E perché, Andrea, pensi a queste cose, mentre sta preparandosi a nascere tuo figlio? Tu l’hai voluto, ‘sto figlio che viene, Andrea. E adesso non ti spiacerebbe tenerlo, per un po’ ancora, lontano. Tu, senza averne completa coscienza, ne hai quasi paura. E così ti dà un po’ sui nervi anche il ventre della Gisa. Non gliel’hai detto, ma fra le ragioni per le quali la vedi volentieri al Cascinone, c’è un po’anche quel grosso ventre, che ti dà proprio sui nervi … Chi sa perché te la vai raffigurando nell’atteggiamento di allattare il bambino … Il pensiero ti dà un senso di vertigine: c’è della tenerezza, incantata, e c’è un incoercibile fastidio. Ti ha fatto padre! Gliene sei così grato che ti si inumidiscono gli occhi; e tu la mandi via … Pensi che, all’ultimo momento, la tratterrai. Ma non ne sei ben sicuro. Povero Andrea, sei sbalordito di questa confusione che hai in testa. Non ti era mai successo alcunché di simile. Ma non ci puoi fare nulla, assolutamente. Neanche tu ti raccapezzi, nelle cose tue. Non lo sospetti, ma ciascun uomo, al mondo, in più di una circostanza è tutto un guazzabuglio di incongruenze come tu sembri, a te stesso, in questo momento. Ci vuol pazienza. Ad un certo punto, ne scoprirai le ragioni,e ti metterai in pace. Poi, subito dopo … una ragione nuova butterà forse tutto all’aria un’altra volta, e ricomincerai daccapo.

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XXIV Nel tardo sole dell’ultimo settembre, che era tornato a far festa – dopo alcune giornate di grigiore – sul raccolto che stava compiendosi, la grande aia del Cascinone era tutta piena di movimento. Due carreggiate profonde, ma ben rassodate, vi entravano dai campi per livellarsi col cemento battuto dell’aia. Leo, il bastardone del scior Sebastiano, dormicchiava sdraiato al margine di un campetto, dove le stoppie erano rimaste dritte dopo la mietitura. Seguiva con occhio distratto il dondolare di alcune anitre, ed ogni po’ si scuoteva per acchiappare al volo una mosca più fastidiosa delle altre. Cane per tutti gli usi, Leo. Capace di scovare e tenere in caccia per tutto il tempo necessario qualsiasi lepre, anche astutissima. E buon guardiano di casa. Bastardo, nato da chi sa quali incontri, perpetuava la sua gloriosa specie – che sfugge ad ogni classificazione sia pure approssimativa e scoraggia ogni indagine – scappando intrattenibile a ridosso di tutte le cagne dei dintorni e di passaggio. Sapeva il fatto suo e, con la coda, socchiudendo appena un poco un occhio sornione, trinciò improvvisamente l’aria, dando una staffilata ad una mosca importuna. Poi si grattò pigramente con una zampo, sotto la pancia. La Pina uscì lenta di casa, e ristette ad osservare gli uomini, che scaricavano i covoni del riso. Aveva superato i settant’anni, e recava un secchio in mano. Andava alla pompa, a tirare acqua. Piccola, incurvata come un cartoccio dagli anni e dal lavoro senza tregua di una vita semplice e assidua, spariva nel grembiulone nero rappezzato, che le scendeva fino alle caviglie. Dall’ampio fazzolettone smunto, che le copriva i pochi fili grigi, superstiti di quella che era stata una capigliatura esuberante, spuntavano tante grinze secche e vizze e due occhietti vispi e mai fermi. La bocca era sdentata. Non si ha tempo, in campagna, per dentisti e dentiere. Spese matte, si dice. A passetti corti, la Pina si avvicinò alla pila dell’acqua. Poggiò il secchio sui traversini di ferro della vasca di cemento, afferrò con tutt’e due le mani la maniglia della pompa e incominciò a smuoverla ritmicamente, in su e in giù. Lo stantuffo, compresso, soffiava come un fuoco di rovi. Era faticosa, per lei, quella manovra, ma le pareva di ricordarsi un po’di quando, con slancio ben differente, il suo braccio sembrava scagliato a buttare in là, riprendere e ritirare indietro con vigore quel pendolo di ferro, e l’acqua veniva giù a un tratto – preannunciata da uno sfruscio – scrosciando impetuosa. Un clacson vicino la fece rivoltare all’improvviso verso lo stradone, e le mani le rimasero appese, a mezz’aria, nel gesto interrotto. Anche gli uomini smisero di lavorare per andare incontro all’automobile, una “Ardita” nera, lucente, che si era fermata accanto al portico. Rimasero ai loro posti soltanto quelli ch’erano sui carretti, in piedi sui covoni del riso, appoggiati alle forche, col corpo teso in avanti, come delle prore di tante navicelle. La Gisa si scosse e sollevò la testa dalla spalla di Andrea. Smontarono nella vita dell’aia.

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Un ocone, adirato per la presenza estranea dell’automobile, che gli era passata vicinissima spaventandolo molto, stava ancora manifestando gagliardamente il suo sdegno, con un berciare petulante. Un coniglio, sbattute con energia le zampe posteriori sul terreno, scomparve chi sa dove, in un angolo scuro, col cuore in tumulto. Leo, che l’automobile aveva avvertita – con le orecchie drizzate a sentire le novità di passaggio – ancor prima che svoltasse dallo stradone nella corta carrareccia, limitata dal sambuco e dal biancospino, si sollevò pigramente, scotendosi di dosso la polvere e le mosche più cocciute. Fiutò l’aria e, poich’ebbe riconosciuti i nuovi arrivati, si mosse anch’esso festosamente ad incontrarli, ficcando il muso curioso fra le gambe degli uomini e, con gioiosa malizia, agitando le vesti delle donne radunate attorno all’automobile con la quale la Gisa e l’Andrea erano arrivati. XXV La signora Domenica stava, con altre donne, su di un ampio solaio ad appendere, a grappoli, le pannocchie di granturco perché – con una buona aerazione – si essiccassero più presto. La tromba dell’automobile, il trepestio ed il successivo vociare lieto e animato, la trassero a guardare sull’aia, da un finestrone scrostato ai bordi, privo di vetri e di telaio. Stava correndo giù per le scale quando incontrò – che saliva come uno scoiattolo – Giacomino, corso prima di tutti a chiamarla mentre gli altri ragazzini, eccitati dalla novità, facevano cagnara. -Mamma Minghin, correte giù subito … - le parole gli uscivano smozzicate, per la corsa e la furia di dirle tutte d’un fiato. E intanto che la donna stava dicendo: -Ho visto, ho visto – e lo spingeva al basso, che le sbarrava il passaggio, continuò gesticolando concitato: - … il signor Andrea e la signora Gisa. Con una macchina tutta nera e lucida! – aggiunse di slancio. Mamma Minghin lo sorpassò finalmente in fondo alle scale, spingendolo a lato con decisione, e corse verso l’uscio di casa, dove già stavano dirigendosi Sebastiano, con le maniche rimboccate, la Gisa, Andrea e, a qualche passo di distanza, l’autista del noleggio, il quale aveva rapidamente valutati i vantaggi del ricevimento e non aveva alcuna intenzione di esserne escluso. Abbracciò la nuora con un gesto ampio e le stampò due grossi baci sulle gote, senza riuscire, nella commozione, ad articolare una sola parola. Poi rifece coscienziosamente la cosa col figlio, e riuscì alla fine, varcando la soglia, a buttare fuori: -Bravi, proprio bravi, che siete finalmente venuti … Sebastiano aveva un gran daffare a stropicciarsi le enormi mani. XXVI Tutto il resto del Cascinone tornò alle proprie occupazioni, commentando ad alta voce l’arrivo degli ospiti; le donne erano più liete e loquaci, per la novità.

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Indugiarono solamente le ragazzine e i maschietti – una frotta! – a considerare con infinito, umile desiderio la lucentezza della vernice e, attraverso i cristalli, le imbottiture interne, il volante, tutti quegli accidenti di bottoni, di orologi e di leve, ed il pupattolo di “panno-lenci” appeso al finestrino posteriore. Un autentico sogno. Lino disse, convinto: -Dev’essere una dodici cilindri. Ma Giacomino, svelto, che aveva 13 anni, sentenziò con sicurezza: -È una Fiat, asino. – L’aveva letto sui paramozzi delle ruote. Gli altri lo guardarono con malcelata invidia; e lui levò con un dito la polvere da un parafango, mandando giù la saliva per la lucentezza che aveva scoperto anche là sotto. XXVII Mentre calavano le prime ombre della sera, e nella casa si faceva festa, la Gisa riandò col pensiero alle accoglienze ricevute, e se ne sentì tutta riconfortata; non che ne avesse dubitato, ma le faceva bene l’esserne così certa, ora. Erano davvero persone care, di una semplicità così franca. Si sarebbero fatti in quattro, e non badavano che a scusarsi, cara gente, della loro troppa rustichezza. -Dovrai avere pazienza, Gisa. Qui è tutto alla buona. Ma quel che conta, è un piatto di buona cera … Ti aspettavamo da tanto tempo, non siamo che due poveri vecchi, noi! Mamma Minghin, anche più grossa nell’enorme grembiulone bianco che aveva subito cavato dal cassettone, correva affannata dai suoi figlioli alla cucina dove, nel gran forno, stava indorandosi – a fianco di un’oca succulenta – una torta di quelle che sapeva fare lei nelle occasioni speciali, da leccarsi le dita, proprio. Andrea e Gisa, nel semplice salottino, in penombra per il primo velo della sera che scendeva, si presero per mano come due ragazzini. -Sono contenta, sai, Andrea. -Starai bene, qua. Mi spiace soltanto di non potermi prendere anch’io un po’ di ferie, in santa pace. È una vita semplice, ma bella. Non avevano altro da dirsi. Qualche raccomandazione, al più. Si misero a considerare, con incredibile attenzione, una vecchia oleografia, che raffigurava il porto di Genova. C’erano tanti alberi di navi, ed i colori erano sbiaditi e irreali. Le prospettive si accavallavano allegramente, con assurdi accostamenti. La veduta, evidentemente, era stata ricavata con più giunte, da differenti punti di vista. Un pendolo, che allungava il suo braccio instancabile fuori da una scatola di legno traforato, dava forma al tempo, macinandolo con la sua voce sempre uguale. Tic-toc. Tic-toc. E l’eco che ne nasceva si propagava immensamente intorno. Segnava il giorno e la notte. Il lavoro e il riposo. Tutta la misura di questa vita. Ad ascoltarne le pulsazioni, pareva che ogni tocco seguisse all’altro, nella sua scia appena smossa, per una volontà dura di sopravvivere e continuare quelli, ormai spenti, dei quali soltanto più restava un ricordo confuso alle orecchie. Continuare. Rinascere. Come, forse, i figli continuano i padri. I figli, nati non per loro volontà e per vivere un giorno la loro esistenza, ma generati – forse – per questo

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inconscio egoismo di ciascuno, che di sé resti qualcosa quando lo stame sia finito della nostra giornata, e che duri – di là da noi – che ci illudiamo capace di ereditare, col nostro sangue, quel che noi fummo o pensammo. Un’inverosimile pretesa, si direbbe, di durare oltre la vita a ciascuno concessa. XXVIII Nella notte imminente, dietro la siepe di sambuco, Giacomino stava spiegando alla Livia – dodici anni appena compiuti, molti capelli neri, un musetto di leprotto ed un personale che, nella sua aggraziata acerbità, prometteva che la ragazza sarebbe stata, un giorno non lontano, slanciata e piacente – il mistero, per quel che ne sapeva lui e con le parole più adatte che riusciva a mettere insieme, di quel rigonfiamento della sciora Gisa, che tanto aveva interessato la ragazzaglia. Neppure al cinema, avevano mai visto qualcosa del genere! Gianni, che aveva chiesto spiegazioni alla mamma – il solito stupido, lui – s’era preso un robusto schiaffone. Davvero doveva ben trattarsi di cosa molto ghiotta, se i grandi non ne volevano dire nulla. Parlava a voce bassa, Giacomino, trasalendo delle sue stesse parole; e la Livia ascoltava tutta trepidante e smorta quelle cose che le davano un senso di vertigine e di sgomento. Livia e Giacomino “facevano all’amore”, come dicevano loro. Lei si sedeva sulle sue ginocchia, e si carezzavano le mani. Qualche volta si abbracciavano forte e “si baciavano”, sfiorandosi le labbra, mentre l’emozione faceva battere i cuori in modo precipitoso. Ne sentivano il pum-pum gigantesco, e avevano quasi paura di se stessi. A Livia si empivano gli occhi di lacrime, e scoloriva tutta; poi avvampava violentemente e le scottava la faccia mentre Giacomino guardava ostinatamente in terra, tutto confuso e mortificato. Ma una cosa come questa, che la interessasse e la impressionasse in tale misura, la fanciulla non l’aveva mai scoperta. Cioè, qualcosa di simile le era successo soltanto una volta: quando aveva intravista, in un cespuglio di un fossato vicino, Giacomino completamente nudo, nell’atto di rivestirsi dopo un bagno. Si baciarono, dunque, come le altre volte, ma intuendo che l’amore era una cosa molto diversa da quella fin allora immaginata. Poi, Giacomino la lasciò sola. Doveva rigovernare ancora i maiali, prima di cena. Ed era già tardi. Nell’ultima luce del tramonto, Livia riflettè un poco, poi si considerò attentamente, slacciandosi sopra il petto il vestito di cotonina rossa. Indugiò al seno, appena accennato, e lo carezzò lievemente, fremendo di un piacere ignoto ed elementare, per il fresco contatto della mano ruvida sulla pelle liscia e calda. Ne rabbrividì un poco … Poi, si toccò i fianchi, a convincersi della loro slanciata esilità. C’era un mistero, una fonte che esse non era ancora riuscita a individuare. Ma decise ugualmente che non le sarebbe mai successo che le si deformasse il ventre così come aveva visto alla signora Gisa. Aveva pur detto, Giacomino: -Un giorno capiterà anche a te, quando avremo dei figli anche noi.- E le parole le erano colate sul filo della schiena, traendone dei brividi. Si erano stretti anche di più, entrambi spauriti di quest’immensa cosa che è il

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mistero della vita … Ma non era possibile, no; lei non voleva avere la pancia così grossa. Mai. Piuttosto, ne avrebbero fatto senza oppure, un figlio, lo avrebbero magari comprato in qualche posto dove li vendono. Non devono poi costare tanto cari, se tutti ne vanno a prendere: Dicono, i genitori, che i figli si comprano … e a questo, lei, un po’ ci credeva ancora, anche se Giacomino – il galletto, lui, di quel minuscolo pollaio rurale! – l’aveva tante volte assicurata che sono tutte fole, come quella del Gesù Bambino, della Befana e delle streghe. Si finge di crederci, perché conviene. -Ma intanto – concluse la Livia – per il sentiero della brughiera, dove le streghe ci sono davvero, neanche lui c’è mai passato, di notte … XXIX Andrea ritornò in città – all’ufficio quotidiano – il giorno successivo, a sera tarda. Era stata una domenica di festa grande, al Cascinone; ed anche la Gisa era stata di ottimo umore. La campagna, la terra, ti vengono incontro con una disarmante sincerità; non hanno bisogno di apparenze lusingatrici. La fragranza delle lenzuola, ruvide un poco, ma di tela odorante di spigo e di bucato … La cucina, troppo grande ma non fredda, con l’enorme camino dagli alari lucidi come le borchie di un salotto di città … I comignoli alti sui tetti, con le tegole inverdite, negli anni, dal muschio … L’animazione straordinaria di tante persone, tutte liete e robuste, tutte affaccendate in un’elementare ma rigida organizzazione lavorativa che nessuno impone agli altri, ma ciascuno a se stesso, come legge alla quale non si sfugge … Vali per quel che sei. Non inganni nessuno, qua. Entrandovi, ci si sente come purificati; e una nuova fiducia alimenta il cuore. Il buon Sebastiano non stava più nella pelle, per la contentezza: -Ti ho già detto tante volte di chiamarmi soltanto “papà”, beh, “papà Bastiano”, se proprio non ci riesci. Quasi quasi, sarebbe bene incominciare a chiamarmi “nonno”. Nonno, sicuro!- Pareva ringiovanito di molti anni, nella gioia di questa grossa ghiottoneria che la Gisa, questa bella Gisa gli andava, nella sua casa, preparando: mettere al mondo un bimbo, sangue del suo sangue. E questo bimbo – o una pupetta, chi sa? – egli presto lo solleverebbe sulle sue forti mani callose. Sarebbe un cosino dritto sulle gambotte grasse grasse, pieno di vita e di malizia negli occhietti furbi. E crescerebbe, e lo chiamerebbe “nonno”, e gli tirerebbe i lunghi baffi brizzolati. Glieli tirerebbe forte, ma non sentirebbe alcun male lo stesso, il nonno! Anzi, gli spiacerebbe se non li tirasse forte … Intanto, la Gisa era qui, figliola tanto attesa e desiderata! -Sicuro, Andrea l’abbiamo avuto tanto poco con noi, ‘sto benedetto ragazzo! Quando faceva le elementari, stava via tutto il santo giorno, al paese, e, quando rincasava, era tutto per i compiti e la lezione. Era bravo, sai. Faceva tutto da solo. A me avrebbe potuto raccontare qualsiasi cosa volesse. Io, ai tempi, ho fatto … la seconda “sotto i gelsi”. Avevo nove anni non compiuti, e già mi toccava di lavorare duro. Altri tempi. Altra vita.

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-Poi, l’abbiamo mandato qualche anno a Novara, qui non c’erano più scuole. Veniva a casa solo per le feste, e d’estate. Sembrava un cavallino sbrigliato: sempre in giro per i campi, come un vero coniglio selvatico. Infine, è venuto a Torino … Prima la scuola, e poi c’eri tu, da girarti attorno. E poi vi siete sposati, e ci vediamo così poco … -Doveva esserci quest’occasione, finalmente. Una benedizione, Gisa. Una benedizione vera del Cielo. I figli sono ricchezza e salute. Sono pane e sale, i figli. Alla Minghin e a me il Signore ha concesso Andrea soltanto, ma avremmo voluto andarne a prendere di più, sai. Sono vita, i figli, sono gioia, anche se fanno tribolare. Se non fosse così, cosa saremmo al mondo a fare? Siete giovani, voi due, e per grazia di Dio non avete per la testa certi grilli stupidi che incominciano ad arrivare anche in campagna. Una volta le case erano piene di figlioli; adesso, uno, due, al massimo tre. Colpa di chi? Paura che manchi il pane? -Pensateci su, voi due, e ad ogni vocina nuova che mi chiamerà un giorno “nonno”, io vi benedirò. E intesterò a quella creatura un pezzo del Cascinone. Oh, è giusto che sia così … È tanto largo, il mondo, e su questa terra c’è da mangiare per tutti: basta avere della buona volontà e della fede, quella che avevano i nostri vecchi e che noi andiamo perdendo, purtroppo … Guarda ‘sti beceri che vengono su adesso, privi di creanza e di rispetto. Io ho sposato la Minghin, che ci davamo del “voi” e, quando ci parlavamo insieme, avevamo tanto timore che non sapevamo mai cosa dirci. Pure, vedi come andiamo d’accordo, dopo tanti anni? Questi che crescono, a quindici anni la sanno anche troppo lunga: ‘sti screanzati ancora privi di barba e ‘ste pettegole che sulle labbra mettono delle impiastricciate, dove c’è ancora il latte della mamma. Pensa che la Minghin pianse tutto il giorno, la vigilia del matrimonio, pensando a quel che le sarebbe successo la notte. Le pareva una cosa inaudita … E papà Sebastiano traeva di tasca la pipa antica, dal colore scuro della ruggine: -Dì, Gisa, non ti dà mica fastidio? -No, no, papà. Fuma pure. Non soffro. Ed allora la caricava accuratamente, dopo averla raschiata con una limetta e averne buttato fuori il fondo del tabacco. -Ti piace la lepre, Gisa? E non ti fa mica male, no? Perché voglio andare a prendertene una. Domani no, perché c’è il riso del Cògolo, domani. E vado a dare un’occhiata ai lavoranti. Non per mancanza di fiducia, sai, ma è necessario: le cose vanno sempre meglio, dove arriva l’occhio del padrone … E dopodomani, di buon’ora, vado via col Leo. Un’oretta, al massimo. E, se mi va bene, conto di portarti a casa un paio di fagiani. Da quelle parti là ce ne sono sempre. Interveniva, a questo punto, la Minghin, che non stava in ozio un istante, aveva quante cose da sbrigare: -Bastiano, ma lasciala in pace un momento, povera Gisa. Non le dai neanche il modo di fiatare … E alla Gisa, che protestava ridendo: -Sai, Gisa, parla poco, di solito, Bastiano. È che, adesso, è tanto contento di averti qui con noi, che non riesce più a stare zitto. Scommetto che verrebbe a dormire nel letto accanto al tuo, per tenerti più compagnia. Eh sì, devi proprio prometterci che, dopo, resterai qui a lungo, e che poi verrete

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molto, qua da noi. Potreste starci sempre. È tutta una casa vuota – noi, poveri vecchi, a cosa serviamo ancora? -, una casa grande che vi aspetta. È tutta roba vostra, qui. Dovrete ben imparare per tempo a mandarla avanti voi … Così viveva, la Gisa, la sua vigilia, felice nel sole dei campi e nel caldo affetto della famiglia, dando intanto forma e anima – cogli occhi e col pensiero – al suo nascituro; e già lo vedeva nella vita e se lo raffigurava, uomo o donna che fosse, scortandolo con l’ansia che solo una madre conosce. Mamma Minghin, in gran segreto, lavorava a un paio di babbucce da pupattolo. D’accordo con la puerpera, intanto, predisponeva fasce e drappi e biancheria per la cuna che il Gaudenzio stava fabbricando con le sue esperte mani di artigiano. XXX Il treno partì, quel mattino, che Andrea dormiva ancora. Passò fischiando acuto e lamentoso per la pianura inondata di nebbia. Chi sa se il sole, crescendo, l’avrebbe diradata tutta? Troppa, ce n’era. Fredda a pungente. Pierino, nella stalla, stava strigliando il Moro. Lo carezzava, di tanto in tanto, sul collo e sulla fronte liscia e tiepida, e gli mormorava parole affettuose: -Bravo, Moro; bravo … Senti anche tu che arriva il freddo? Già non si respira altro che nebbia, fuori di qua dentro … L’aria, di là dai vetri, era opaca. Il Moro lo guardava coi suoi occhi grossi e sinceri, acquosi, e scrollava le orecchie biascicando dei fili di fieno. Certamente capiva le parole di Pierino. Ne conosceva il passo, la voce, la mano sul collo, il colpo di redini, ogni inflessione del parlare. Se era di umore buono o no. Se aveva bevuto. Qualche volta Pierino raccontava, proprio a lui, anche una vecchia storia, confusa e appassita, dove ricorreva il nome di una certa Marina. Una storia lacrimosa. Succedeva quando il cavallante aveva alzato un po’ il gomito e rientrava col berretto sgnaccato più del solito sulla fronte. Si lasciava andare su di un gran mucchio di fieno, qualche volta anche alla base della mangiatoia, e parlava. Parlava per lunghe decine di minuti, con voce spenta e velata, fino a quando l’ultimo borbottìo triste si confondeva con l’ansare del sonno che era venuto ad incollargli le palpebre. Allora, russava sgangheratamente. -Brr, non si scherza stamattina -. Dalla fessura di una porta non bene accostata entrava un filo di freddo rapido. Pierino l’andò a serrare con cura, quindi afferrò una bracciata di fieno e incominciò a distribuirlo nella greppia, a tutti i suoi amici, con una manciata in più al prediletto Moro. Sapeva di secco e di umido insieme, quel fieno. Era buono. XXXI E Andrea continuava a dormire, di un sonno serrato. L’ovatta fredda che c’era all’esterno conciliava col tepore delle coltri. Il dottor Destefanis l’aveva informato, il giorno prima, che il parto era imminente, questione di giorni o forse soltanto di ore.

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Così aveva telegrafato per l’ufficio, ed era rimasto. Aveva tenuto compagnia alla Gisa per un po’, poi si era sentito d’impaccio ed aveva vagato per la campagna, nel pomeriggio appena velato di una nebbia che dava sonnolenza. Era parecchio inquieto. Come riuscisse la Gisa ad essere tanto serena e tranquilla, proprio non riusciva a comprenderlo. Lo tormentavano delle paure assurde: -Non si può mai sapere, come si risolvono certe cose … È vero che tutti erano perfettamente calmi, dal dottore alla levatrice a mamma Minghin, ma quando l’ignoto reca con sé – sia pure una volta ogni cento, una volta ogni mille – il dono macabro della morte, oh, allora il cuore batte più forte a misura che a questo ignoto ci si approssima. Si concludesse bene in fretta, ‘sta faccenda che lo sfibrava. Subito, possibilmente. Non è vero che soltanto le donne hanno le doglie del parto … La Gisa pareva lontana da ogni pensiero, e sembrava che la sua unica ansia fosse quella di percepire esattamente ogni più piccola vibrazione della nuova vita – lontana e remota nonostante la sua presenza concreta – e di astrarsi tutta solamente nella forma alla quale stava dando gli ultimi ritocchi. Aveva creato intorno a sé tante dimensioni, nelle quali vivere fino al primo vagito. Molte settimane addietro, Andrea l’aveva sorpresa una sera in estatica, vigile contemplazione di certe immagini di bimbi. Lei supponeva, certo, che le giovasse … a scegliere. E Andrea si era ben guardato dal toglierle la puerile e gelosa illusione che la sua volontà di madre davvero sapesse – da quelle fotografie di bambini tutti belli, rosei, paffuti – modellare meglio l’incerto nucleo che portava in grembo. In fondo in fondo, forse un po’ ci aveva creduto anche lui. Fra quei musetti di creaturine, ce n’erano di quelli così cari … XXXII Quando Andrea finalmente si riscosse, doveva essere giorno già inoltrato. Da fuori gli giungevano, smorzati, i rumori della vita nella nebbia. Aperse gli occhi con cauta pigrizia, quasi temendo che la luce improvvisa li offendesse. Ma la luce era scarsa e sospesa. Si ritrovò nel suo letto di quando era studente: per non disturbare il riposo della Gisa, aveva dormito nella sua cameretta di un tempo. In essa, tutto era come allora; mamma Minghin ogni giorno era solita entrarvi, a spolverare, come se Andrea ci fosse sempre, ma non aveva spostato mai neppure una sedia. Andrea incominciò a vestirsi. Lo sguardo gli corse, sul pavimento di grosse mattonelle rossicce, fino al cassettone di legno di noce ed alla breve fessura tra di esso e il muro. Ricordò di quando vi aveva nascosto, precipitosamente, una piccola fotografia avuta da Nerina. Sorrise. La traeva di là prima di andare a letto e se la metteva sotto il guanciale, non prima di averla regolarmente baciata. Lo stampo delle sue labbra era ben visibile, sul lucido della foto. Tutte le sere, così. Nel periodo di vacanze, no; ma quando andava a scuola, quante volte, allora, sulle labbra insensibili di quel cartoncino gli era sembrato di ritrovare il sapore dolcissimo e misterioso di altre labbra vere, carnose e calde, piegate spesso ad un malizioso

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sorriso di canzonatura … Chi sa dov’era, adesso, Nerina? Da anni non l’aveva più vista. Chi sa se, ritrovandola, l’avrebbe riconosciuta. XXXIII Andò in cucina in maniche di camicia, coi polsini slacciati e le bretelle penzoloni. Mamma Minghin gli si fece incontro: -Riposato bene? -Sì, mamma, grazie. Dorme? Si è lamentata? -No, stai tranquillo. Dorme che è un amore. -Tranquillo, sì, ma … -Telo dico io, non pensarci. Cosa ne sai tu? Se ti assicuro io che tutto procede bene … Ci vuol più poco, sai … -So che è anche nelle tue mani … Si avvicinò alla grande stufa. Il caldo era molto confortevole. Da un quadretto un po’ annerito dal tempo e dal fumo lo guardavano le fotografie incollate di tanti parenti. Fa piacere e dà malinconia, in certi momenti. C’era anche lui, là in mezzo, pupattolo nudo e poi più grandicello, vestito alla marinara. Un obiettivo ci coglie così, ad un certo punto, e poi il tempo cammina, e noi diventiamo ben diversi … -Hai appetito? -Non tanto, mamma. Ho dormito molto, stamattina … - Si stirò un poco, provandone piacere, quindi accostò al tavolo una sedia di legno. La madre gli riempì di latte una grossa scodella e gliela mise davanti, con del pane sfornato da poco, che crocchiava ancora per il calore racchiuso sotto la crosta. -Ha detto anche la Laura (era la levatrice) che può darsi davvero che sia un maschio, e che dev’essere bello grosso .. – si fermò accanto a lui. -Ti ricordi - gli disse – di quando me ne facevi qualcuna grossa, e poi mi chiedevi perdono? Io, per un po’ facevo la sorda, e dopo ti prendevo fra le braccia; allora, tu, piangendo mi promettevi che non l’avresti più fatto.- Tacque un istante, commossa. –Anche adesso me n’hai Fatta una grossa – gli prese la testa fra le mani e gli carezzò i capelli con tenerezza – però non ti chiedo di non farlo più … La felicità di essere nonna da un momento all’altro le faceva ridere gli occhi, luccicanti. Se avesse potuto partorire al posto della Gisa, per toglierle ogni sofferenza, l’avrebbe fatto senz’altro. XXXIII Uscì, Andrea, immergendosi nella nebbia densa. La si poteva tagliare col coltello, a dieci passi non avresti intravisto una casa. Era pesante e umidissima, come una coltre bagnata che gravi sul corpo. Gli oggetti, intorno, erano spariti, nessuna sagoma era più riconoscibile. Anche i rami degli alberi avevano una forma diversa, d’altri tempi. Ci si sentiva sperduti e soli.

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Ad Andrea era sempre piaciuto, camminare nella nebbia. Da ragazzo amava diguazzarci, e gliene derivava un gusto elementare e stranissimo, forse perché ciascuno, nella nebbia, vive per sé solo, se vuole. Il mondo, non visto, è come se non esistesse più; e pare di continuare un’esistenza sospesa ed antica. Quando scomparirà la nebbia, bisognerà riprendere l’andare di ogni giorno; in essa, invece, uno può anche rappresentarsi – almeno una volta! – non per quello che è, ma per quello che gli piacerebbe essere. Può fantasticare e raffigurarsi a piacer suo, non secondo il giudizio degli altri. Anche la voce non è più tesa e vibrata. Siamo un soffio. Un punto vivo. Una dimensione. Ritrovare (o perdere) se stessi è più agevole, perché nessuno ti scruta. Ci si sente sicuri ed in pace; lo stesso universo non turba più, perché lo identifichi in te stesso, ugualmente libero e sconfinato. XXXIV Un gatto grigio gli passò rapidissimo a pochi centimetri dai piedi, come un’ombra più scura e, per il movimento, più percettibile delle altre. La Gisa era a letto, vegliata da mamma Minghin. Anche l’ostetrica era in casa: il suo intervento poteva rendersi necessario da un momento all’altro. Andrea, svuotato dall’ansia snervante, si tuffò nella campagna per una stradicciola dei carri. Il terreno era sodo, appena appesantito superficialmente dall’umidità. Un passo dietro l’altro, senza rumore, come calzasse scarpe di felpo. Camminava senza meta. Intorno a lui, un silenzio impenetrabile. Qualche cespo sorgeva a lato della strada, improvviso; qualche piloncino di pietra segnava i limiti dei campi. Da ragazzotto, Andrea aveva pensato, una volta, che poteva essere divertente, lo spostarne uno; e ci si era provato. Ma non era riuscito neppure a smuoverlo, era troppo radicato. Si fermò vicino a un fosso, e buttò nell’acqua la cicca della sigaretta. La brace sfrigolò vivacemente per brevi istanti, poi anche la carta si inumidì, divenne trasparente. Il mozzicone si smembrò lentamente, infilando una svolta. Un passerotto passò via pigolando, intimorito. D’improvviso egli avvertì l’avvicinarsi di qualcuno. Lo percepì, più che sentirlo realmente; e inconcepibilmente fu preso da uno sgomento illogico, come di fanciullo sorpreso con un giocattolo bello, ma proibito. Un’ombra si avanzò, priva di contorni, nella bambagia infreddolita. Quasi si urtarono. Era Nerina. XXXV Era da molti anni che non si vedevano. Pure, si stettero a guardare come se si fossero lasciati la sera prima. -Ciao, Andrea, come stai? Aveva gli occhi ardenti e i capelli le spiovevano sulle spalle. -Che bella sorpresa, Nerina!- le strinse forte la mano, che sentì, calda, volitiva, nella sua: -Quanto tempo che non ci si trovava …

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-Tre anni e mezzo. Da quando te ne andasti a Torino. Ti sei fatto ben prezioso, da allora. Già, sei diventato un “cittadino” e non ti sei ricordato più di noi … - rise, mettendo in vista la dentatura sana, provocante. Andrea protestò, intanto che andava esaminandola. Si era fatta donna, e come! Lo si vedeva bene anche nel vestito molto semplice. Un corpo slanciato, ma non magro. Sodo. Le labbra – quelle labbra di carne, che l’avevan tenuto sveglio di notte – erano come una macchia rossa nel viso abbronzato. La carnagione era quella di prima, morbida a viva. Andrea ne ebbe un senso di lieve disagio. -Debbo farti le mie congratulazioni: ho sentito dire che sarai padre, in questi giorni. Sono davvero contenta. Bravo. - La voce di lei era risuonata sincera, ma ad Andrea parve ugualmente di essere colto in fallo. Forse, per l’impressione di trovarsi soli nell’universo, loro due, con la nebbia che invisibilmente li fasciava e avrebbe potuto indurli a ricercarsi quali un tempo erano stati … E il ricordare medesimo sarebbe potuto essere pericoloso, anche per i pensieri soltanto che avrebbe recato in sé. I sensi hanno la loro parte, una parte molto grande, che non di rado ha il sopravvento anche sopra la ragione. Andrea tentò di allontanarsi da lei. -E tu, Nerina, quando ti decidi a sposare? Sarebbe tempo, no? Hai quasi ventidue anni, se non sbaglio … -Ventuno appena passati. Ma non ci penso. Sto bene così, uccel di bosco: respiro il mondo! Tu dici bene, ma credo che sia difficile ch’io mi sposi presto, anche se non manca chi mi vorrebbe -. Tacque un istante, fissandolo; poi: -È tanto bella la mia vita, così. Un giorno mi deciderò, ma non so quando. Se sarà un po’ tardi, vuol dire che, invece di fare io la mia scelta, mi metterò in fila con quelle che stanno in attesa. Il primo che càpita, e che non sia storpio, me lo prendo. E buona notte. Rise di gusto, di un riso schietto e comunicativo. Era sempre stata allegra, Nerina, da quando aveva aperto gli occhi. -Mi accompagni, Andrea? Vado fino alla Villata e, per far più presto, passo traverso i campi. Certo che … se ti vedessero con me, soli – aggiunse, mentre un lampo malizioso le balenava negli occhi – potrebbero pensare male. Ma c’è la nebbia, e poi … Una scrollata di spalle, e via. S’inoltrarono fra le stoppie. Il cervello di Andrea lavorava a rilento, imbarazzato. Camminavano alla pari, chiacchierando di tante cose piccole, insignificanti. A una buca del terreno, la giovane posò malamente il piede e lui, sorreggendola, sentì il calore del suo braccio, un calore che aveva conosciuto, un invito meraviglioso che non sarebbe più stato per lui … Ebbe l’impressione che ogni cosa si dilatasse, sospesa, nell’imminenza di qualcosa che stava per succedere. Ma non accadde nulla. Solo sentì, pur tentando inutilmente di ignorarlo, che il sangue pulsava con ritmo più serrato, per quel contatto della mano con quella carne viva, quella carne calda e pronta, che un giorno era stata sua. Quel giorno era di parecchi anni prima, ma gli parve ieri. La cosa era grave. E, fatto anche più grave, Andrea continuò a tenere con la mano il braccio di lei, né essa lo ritirò. Il loro andare era adesso uguale, ed il movimento pareva creare le note di un’armonia ignota e sconcertante.

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Si fermarono dopo non molti passi, al limitare di un fossato, sotto un salice dal tronco contorto e rattrappito. Nerina aveva una scarpa piena di terra, ed era ancora tutta di buonumore per il piede posto in fallo. -Se non ci fossi stato tu, sarei caduta- disse, e lo fissò con occhi intensi, quasi a sfidarlo. -Ti devo proprio essere riconoscente, potevo anche prendermi una storta … Sedette sopra un mucchietto di sarmenti, mentre Andrea accendeva una sigaretta, senza alcun motivo. -E una, a me, non me la vuoi dare? – gli chiese Nerina, mentre con le mani tentava di slacciarsi la scarpa. Traendosi accanto il piede, intanto, la gonna aveva superato il ginocchio di parecchio di più del conveniente, e Andrea fremette a quell’intimità che si andava palesando. Uno sgomento infantile si impadronì di lui, intanto che pensava: -Diamine, come fosse la prima volta che le vedo una coscia … Le porse la sigaretta, come un tempo, e soffregò il fiammifero, poi si chinò ad accendergliela. Il profumo della femminilità di Nerina lo investì in pieno in questo gesto. Sentì i capelli di lei a contatto del viso, e non ragionò più. Il mondo fu tutto là, di colpo, in quell’alone bigio di nebbia: una femmina ed un maschio che si ritrovano, dopo un’ansia inconsapevole, durata troppo tempo, e che ora si rivelava in tutta la sua pienezza. Andrea le cercò la bocca, con l’affanno di un lattante che ricerchi la mammella della madre. E Nerina si abbandonò tutta alla foga dei suoi baci. Anzi, la infuriò più ancora. Il suo corpo era caldo come, d’estate, una striscia di sole sulla sabbia fine. Parve loro che da sempre si stessero attendendo sotto quel salice sconosciuto; e Nerina sentiva confusamente che stava, a modo suo, vendicandosi di qualcosa. E questo le accresceva anche di più la passione. XXXVI Si ritrovò solo, Andrea, nella nebbia che accennava a diradarsi un poco. Solo, e assurdamente senza colpe. Strappò un filo di erba ingiallita, lo spezzò con le unghie e se lo mise fra i denti, come uno stecco. Sapeva di antico. Era una reminiscenza di altre giornate lontane, quando soleva masticare uno stelo di fieno appena seccato, odoroso, intanto che girovagava – adolescente inquieto – per i campi accaldati dell’estate. Quel che provava, ora, era molto strano: rammarico, forse; ma rimorso, no, no sicuramente. Il rimorso è un’altra cosa. Ogni cosa si era svolta all’infuori della sua volontà e della sua stessa immaginazione, come fosse preordinata ed impossibile ad evitarsi. C’è una donna, una donna della quale quasi neanche più sospetti l’esistenza. E invece ti sta attendendo. Nella nebbia. Non lo sa neppure lei, ma è così. E anche tu. Vi ritrovate, e succede quel che era scritto. Calcoli non ce ne sono stati. Ci volevano proprio tante circostanze, per un incontro del genere: il luogo, il momento, la nebbia, l’attraversare i campi, quel piede che va a inciampare, il desiderio di una sigaretta … Non cercava scusanti, Andrea, cercava solamente di mettere ordine nelle sue idee.

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La sua volontà non era esistita, né a spingerlo né a trattenerlo. Era avvenuto quasi per disposizione esterna, non per impulso personale: come avere sete, sete da tanto tempo, senza neppure saperlo, e scoprire ad un tratto un’invitante sorgente. Aveva bevuto, nella conca della mani … E non avvertiva colpa, non deplorava nulla, pur avvertendo lucidamente che, qualora avessero saputo, le leggi degli uomini lo condannerebbero. Già, la “morale”! Le condanna, la morale, certe cose, ma non le conosce. Avrebbe dovuto essere nei suoi panni uno dei suoi possibili giudici: cosa avrebbe fatto? Suole, il mondo, gridare allo scandalo per le debolezze – ma, secondo natura, sono poi debolezze? – di chi infrange le sue ipocrisie, quando sa perfettamente, in assoluta falsità, che solo le circostanze lo hanno distratto dal medesimo “errore”. E, nel coro delle lamentazioni, è avvertibile un fondo innegabile di evidentissima invidia … E con la Gisa? Che c’entra: l’episodio non turbava e non intaccava minimamente né la moglie né il legame di Andrea con lei. Anzi, ne fissava meglio i limiti. XXXVII Leo venne incontro ad Andrea, scodinzolando lieto. Strofinò il muso contro i suoi calzoni, e lui lo carezzò un po’ sui peli ruvidi. Dopo pochi passi, si ritrovò nel cortile del Cascinone. Si fece avanti, un po’ impacciato, anche Serafino, complimentandosi. -Di che cosa? – interrogò Andrea sorpreso. E lo guardò fisso, scrutandolo. -Ma del maschio che è nato, diamine! Andrea gli rispose due parole qualsiasi, e filò in casa. C’era ancora un gran trambusto, in un’atmosfera di letizia. Passando per la cucina, Andrea scorse delle bacinelle d’acqua e sentì un gran calore umido. La Gisa, come lo vide entrare nella stanza, si sollevò un poco nella luce fiacca, puntellandosi debolmente su un gomito. Gli sorrise. Era pallida, abbandonata nelle membra; tutta la vita le era negli occhi. La voce le uscì in un soffio, felice: -Un maschio proprio. Guarda com’è bello: ti piace? La creatura era al suo fianco: un ordinato pacchettino di fasce candide, dalla forma oblunga. Ne usciva, verso l’alto, una macchia più scura, dal colore più violetto che rosso. Quell’involto era vivo. Era il loro figlio. Mamma Minghin e la signora Laura erano molto affaccendate. Sebastiano entrava, si soffermava un istante, in adorazione silenziosa, e poi usciva in fretta per tornare subito dopo. Tutti si felicitarono vivamente con Andrea, anche il dott. Destefanis, il quale pareva anche più rubicondo e cordiale del consueto. E Andrea avrebbe voluto dire che lui non c’entrava proprio per nulla e che, se il bambino era bello – gli restava, però, un mistero, come lo potessero affermare con tanta sicurezza – e pesava quattro chili e due etti, proprio non era per nulla merito suo. Tutti uscirono, finalmente, e lo lasciarono un momento solo con la moglie, che gli tese le braccia. Per la camera c’erano ancora sentori grevi e tiepidi. Si abbracciarono

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senza una parola e Andrea sentì sulle sue gote il viso di lei, bruciante. Pallida com’era, pareva che ardesse. Ed egli pensò ad un cero, che brucia e si consuma per la luce stessa che alimenta. La sfiorò con le labbra sui capelli e la fronte, come compiendo un rito. E la Gisa lo volle accanto a lei, seduto sul letto. Osservarono insieme il frutto che fecondava la loro unione; ed i loro sentimenti, senza che lo sapessero, erano contrastanti. Mentre la donna lo avvolgeva con uno sguardo di inesprimibile affetto e di orgoglio, Andrea, pur avvertendo come suo quel piccolo coso vivo, lo riguardava con uno stupore sorprendente: quello, dunque, sarebbe diventato un uomo, il pernio del loro domani … Sembrava incredibile. Il cosino si mosse un poco, come traversato da un fremito. La lieve crepa delle labbra si dischiuse nella prima voce. Ne uscì un belato indistinto, che prese vigore subito, ingigantendo. Un vagito acuto corse per la stanza. La signora Laura entrò al richiamo, con mamma Minghin, eccitata come se la maternità fosse stata sua; e raccolsero sulle braccia quel vociare nuovo, trasportandolo di là, nella cucina calda e vasta, perché anch’essa ne raccogliesse la prima eco bene augurale. La Gisa accostò ancora il viso a quello del marito. Chiedeva, umile, soltanto questo premio alla sua sofferenza benedetta: una carezza, la carezza della guancia del suo uomo sulla sua. E, nel suo amore bello, provò un’infinita gratitudine per quest’uomo, per questo bambinone giocondo e sereno che le aveva riservato la suprema gioia ed il supremo spasimo di diventare madre. Andrea lisciò adagio i capelli di lei, sfatti e sudati. L’incontro con Nerina, vivo ancora nei sensi, non gli passò neanche per la mente, a turbare la dolcezza di quegli istanti. Desiderarono, entrambi, che durasse così, all’infinito. XXXVIII Il sole era succeduto, improvviso, al grigiore di tante giornate ottuse. Ritornò limpido l’azzurro, di una tonalità levigata e trasparente per l’aria diventata più fredda e più pura. La natura si andava cristallizzando, e, per alcuni mesi, avrebbe riposato. Si era seccate l’erba, pur sulle radici; e, nei fossati, non c’erano più le rane, a riempire lo spazio del loro rauco gracidìo immutato: erano volontariamente scomparse sotto la scorza del terreno, per starvi al calduccio. Volavano soltanto più i corvi, neri e fitti, stridendo: avevano preso dimora fra i salici e gli ontani. Le carreggiate si erano indurite, cementate, ed ogni pozza era vitrea. Il sole, che tornava a sprazzi avari dopo lunghe pause, non riusciva più a sciogliere la terra, ne traeva soltanto dei lucidi riflessi. Si avvicinavano le feste di Natale, e già nell’aria si respirava l’atmosfera gioconda dell’attesa. Fra i tacchini era già stato adocchiato da ogni famiglia il più grasso, che avrebbero particolarmente ingozzato, perché figurasse trionfalmente sulla mensa natalizia. Le mamme e le nonne elaboravano le liste delle vivande e verificavano la complicata ricetta del dolce, intanto che le giovani pensavano all’abito nuovo ed ai balli di San Giovanni e di San Silvestro: al suono della fisarmonica si sarebbe danzato in un grande stanzone a pianterreno, un magazzino lasciato sgombero, per

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l’occasione, dalle patate. Sarebbero diventati allora di pubblica ragione tanti sentimenti fino allora imprecisi e più o meno … clandestini. Gli uomini tiravano i conti dell’annata, imprecando all’erario. Ed i bimbi, tornando da scuola e inventando le birbonerie nuove, rimuginavano il testo della lettera col bordo ricamato che avrebbero mandato, fra non molti giorni, a … Gesù Bambino. Lettera di assoluta sincerità ma non priva di interesse: frammezzo alle oneste preghiere ed ai proponimenti d’obbligo, sarebbero balzati fuori, a bruciapelo, i desideri di tanti mesi … Il minuto Luigino si avviava a diventare un gagliardo prepotente. Le sue mani annaspavano furiose, e cantava di voce acutissima e vibrata se, affamato, non aveva pronto in seno della madre. Sazio, dormiva placidamente. E tutta la casa di Sebastiano, e una bella porzione delle case accanto, giravano attorno a lui. La Gisa pensava di trattenersi ancora un po’ al Cascinone: troppo porto si farebbe ai due vecchi, lasciandoli così in fretta, e prima delle feste. Così era stato deciso di restare là almeno fin dolo l’Epifania. Il bambino, allora, avrebbe più di un mese e mezzo; si potrebbe riparlarne, anche in rapporto alla temperatura. IXL Lo portarono a battezzare una domenica di sole limpido e freddo. La Gisa, inquieta per via del freddo, si era adattata con qualche esitazione a lasciarselo portare via. Anche lo stesso contatto della fredda acqua lustrale gli avrebbe potuto nuocere. Era grosso come un pugno: di quali colpe bisognava lavarlo, con tale urgenza, piccolo innocente? Neanche i denti aveva, per mordere; le unghie, per graffiare, però, sì … Lo avvolsero in morbidi pannolini, personaggio straordinariamente importante, adagiato su di un piumino intiepidito. E lo racchiusero ben bene in una ricchissima fascia, tutta trapunta a mano. Se lo prese la mamma Minghin, che non l’avrebbe ceduto a nessuno, per tutto l’oro del mondo. Sulla macchina chiusa – fatta venire dalla più vicina autorimessa – presero posto Andrea, Sebastiano, la Minghin e quattro marmocchi, due maschietti e due femminucce, un po’ impacciati e intimiditi nel vestito della festa. Erano stati buoni per otto giorni, per conquistare quel premio. E adesso se ne stavano zitti, schiacciati dalla loro stessa importanza. Capitarono sul sagrato nell’animazione del pomeriggio domenicale. C’era per l’aria uno scampanio festoso, argentino. Sembrava che le squille si propagassero in un’atmosfera fragile, di cristallo tintinnante. Qualche curioso li seguì in chiesa. C’era anche Nerina, con un abitino troppo leggero. Sulla soglia, li attendeva il sacrestano. I Vespri sarebbero cominciati tra breve, ed il prete aveva fretta. Era sempre un po’ nervoso e soleva volgere la testa di scatto, sospettosamente, a guardarsi le scarpe, mentre un tic divertente gli arricciava in modo grottesco il naso grumoso, un po’ avvinazzato. Di persona era mingherlino, incavato; e strascicava i piedi, per la mancanza di abitudine al camminare. Odorava lievemente di muffa e di chiuso, come i libri ingialliti della sua biblioteca.

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Li accolse con un sorriso melenso e con gli occhi bassi a terra, non celando – nel parlare affrettato – il suo disappunto, perché erano in ritardo di una decina di minuti. Complimentò velocemente Andrea, Sebastiano e la mamma Minghin (nonni e padrini, naturalmente): -Come lo chiamiamo, dunque, ‘sto giovinotto? Luigi? Bel nome, nome di un gran santo … E si volse al sacrestano per non so quale aggeggio del quale aveva necessità. Interruppe le preci già iniziate per richiamare vigorosamente uno dei marmocchi che stava scalando la pila dell’acqua santa, col lodevole intendimento di scoprire cosa contenesse. -Ego te baptizo in nomine Patri set … La mano esile e quasi secca del prete tranciava lentamente l’aria. Andrea si sorprese a vagare, dietro quella mano, per luoghi sconosciuti. Di là da essa intravedeva Nerina, la quale seguiva la scena con grande attenzione. Cos’è mai uno spruzzo d’acqua, per mondare un innocente da un male ch’egli personalmente non ha commesso? Pure, c’era qualcosa di solenne, in questo rito: qualcosa che egli non riusciva ad afferrare compiutamente, ma che incuteva un certo rispetto, una certa reverenza. Misteri, dicono. E Andrea non era nelle disposizioni più adatte per indagarli. Da ragazzo, aveva appreso vagamente qualcosa, in proposito: ma forse troppo poco, e male. Ed il ricordo che ne aveva, adesso, era indistinto. Tutto quel che sapeva, di cose di chiesa, era – a stento – qualche preghiera, con le parole latine storpiate. La penombra della parrocchia lo induceva a non pensare troppo. Certo, però, nessuno vorrà negare che l’acqua purifichi … Senti, Nerina, noi – per questo prete – siamo in peccato. Peccato mortale, fin qui ci arrivo anch’io. Vieni qua, allora, Nerina. Vieni, che provi a battezzare anche noi due, ancora una volta. Chi sa? Basterà tutta l’acqua della pila a lavarci completamente? Dopo il lavacro, resterà ancora nelle mie carni il tuo fremito, e nelle tue il pulsare del mio sangue? Bisognerebbe provare, per saperlo. Se resterà, è inutile, Nerina, che lui ci voglia purificare. È come lavare la faccia e poi scaricare carbone, subito dopo. Anzi, lavarla intanto che c’è in giro una nube di polverone nero. Serve a qualcosa, Nerina, tutto questo? Ma che idea: noi non siamo mica briciole di carbone, siamo frammenti umani. E allora, che si fa? E poi, di battesimo se ne può avere che uno solo … Questa faccenda misteriosa, Andrea sentì che forse non l’avrebbe saputa risolvere mai. E comprese anche che l’avrebbe discussa ancora, con se stesso, adesso che gli si era affacciata per la prima volta. Forse ci sarebbe voluto un bagno completo, per la purificazione degli adulti: ma, allora, si sarebbe disvelata la pelle fine e odorosa del corpo di Nerina. Meglio non pensarci. Chi sa, poi, perché sei venuta in chiesa a farmi nascere in testa certe cose? Non potevi evitarlo, Nerina? Certo, tu non hai pensieri di questo tipo … Luigi, piccolo uomo lungo una spanna e mezza ed entrato ormai nel consorzio umano con atti di nascita e di battesimo pienamente in regola, scoprì i suoi occhietti grigi e si spaventò di quel borbottio allarmante che lo sovrastava e delle gocciole

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fredde che gli bagnavano il viso. Pianse dirottamente, facendosi paonazzo, e si calmò solamente nel movimento che gli comunicavano le braccia della nonna. Riuscirono nel sole. La società umana contava ufficialmente un membro in più. XL La marmaglia era eccitatissima e sfuggiva fra le gambe degli uomini, cercando di evitare, con scarti radissimi, che qualche scapaccione giungesse a segno. Sebastiano uccideva due maiali. Erano bestie magnifiche, che avevan trufolato, fin ieri, col grugno a fior di terra sull’aia e attorno lo scolaticcio delle stalle. Grossi, tondi, panciuti, stavano ancora brontolando nello stabio dove erano stati isolati la sera precedente. Non sospettavano nulla di quel che li attendeva, uscendone: che li avrebbero abbattuti con un secco colpo di mazzetta e che li avrebbero appesi, per squartarli nel sottoportico. E se ne stavano tranquilli, ignari. Ma i ragazzi lo sapevano bene, e non stavano più nella pelle. Le grosse pentole d’acqua erano già a bollire sul camino. Erano già pronte le secchie di smalto che si sarebbero riempite di sangue fumante e denso. Ed erano già tese, pendenti da una trave, le corde che avrebbero fatto cigolare le carrucole. Si trasferirono tutti a fianco del porcile, quando Pierino venne, insieme a Giacomo, per trarne fuori le due vittime. Lo stalliere era più vivace del solito, quel mattino, e si stropicciava le mani, strizzando gli occhi furbescamente. -Ehi, voi, attenti a non lasciarveli scappare!- ingiunse. E tirò il catenaccio, che si sfilò cigolando lamentosamente. Pierino curvò la schiena e si spinse dentro, borbottando. Con gran manate fece uscire i porcelli, che da soli non si sarebbero mossi. Era calduccio, lo stabio, e c’era ancora qualcosa, nel trogolo, per aver voglia di andarsene fuori … I ragazzi, a questo punto, erano diventati improvvisamente importanti: avevano il compito di guidare i maiali sotto il portico. E se quelli si fossero adombrati, urtandoli nella loro cieca corsa, sarebbe stata cosa poco simpatica, anche se la paura si sarebbe, subito dopo, risolta in una risata allegra per il … pericolo scampato. Non successe, però, nulla di anormale. Grugnendo un poco, riottosi, si incamminarono dondolandosi nella direzione voluta, per il corridoio dei ragazzi. Sebastiano spedì il primo all’altro mondo, mentre Giacomo stava già legando il secondo per le zampe posteriori. Ed il maiale protestava forte, soffiando fuori un barrito intermittente, quasi volesse, col fiato, cacciare lontano tutti quegli impertinenti marmocchi che lo indignavano furiosamente. Si acquetò un attimo; e stupì di avvertire un oggetto freddo e puntuto carezzargli il ritto della fronte. Gli occhietti cisposi e maligni si fecero attenti. L’ansia della marmaglia era al colmo. La mazza piombò, violenta e sicura, sulla testa del chiodone, che schiantò l’osso e si confisse profondamente nel cervello, come se fosse stato di burro. Gli occhietti si dilatarono un attimo, smisuratamente, e luccicarono increduli; poi si serrarono stretti. Non grugnì neppure: spacciato. Si afflosciò pesantemente, mentre il sangue cominciava a sgorgare.

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-Tira! Oooh … issa! E restò là, penzoloni, con la testa in giù e le zampe posteriori tese e slargate. Le orecchie parevano trasparenti, così rosee. Il sangue – che un coltellaccio era andato a cercare nel collo – spiccava a fiotti nella secchia. L’odore dolciastro e caldo venne alle nari dei fanciulli, dilatandole, eccitate per qualcosa di ignoto e di velenoso che entrava in loro, insieme alla vista di quel sangue ancora vivo e caldo, tanto caldo che mandava vapore. L’altro maiale era già steso sul tavolaccio e gli stavano rovesciando addosso dell’acqua bollente, per radergli le setole. Fra una settimana sarebbe stato Natale. XLI Nell’ufficio di Andrea c’era, quel giorno, un’insolita animazione. Un’atmosfera da salotto, ma con qualcosa di più intimo, di più ristretto e cordiale. Oltre ad Andrea ed alla Nice, c’erano il cavalier Lodovici, scapolo senza rimedio, e Bianca, la sua personale segretaria. Una striscia di sole entrava dalla finestra, ed il suo raggio chiaro era calduccio e morbido, come dolci erano le foglie dei platani. Si era ai primi di giugno. Nell’inusato convegno, venivano festeggiate le prossime nozze di Bianca. La figliola era spigliata e prelevava con ritmo veloce i pasticcini di un fornito vassoio. Il tavolo di Andrea era ingombro di bottiglie e di calici. Sopra una cartella di cerato nero stava ritto, come un fungo, un tappo. -Dunque, signorina Bianca, è castano o biondo, il fortunato mortale? -Macchè: capelli neri come l’inchiostro. -Già – gracidò la voce acidula del cavaliere – già, se fa il carbonaio non può essere che nero, evidentemente … Bianca non se la prese. Il suo Gianni era davvero impiegato presso una grossa azienda di carboni e legna. Fece una smorfia graziosa, sorridendo al suo interlocutore: -Sì, il carbonaio, proprio. E a lei, cosa gliene importa? Ha da piacere a me, mica agli altri. Visto che lo sposo io … -Guardala, guardala come si risente. Bella prepotente! Fa così anche con lui? -Tutte le volte che è necessario. E questo è niente! – aggiunse osservandosi le unghie lunghe, di un vermiglio aranciato. È un’arma pericolosa, l’unghia della donna… -Dica un po’, Bianca, e ‘sto viaggio di nozze, dove lo facciamo? Mari o monti? – e subito, senza attendere la risposta: -Io, me ne starei a casa mia. Va bene che io non farò mai la grossa stupidata di sposare (mi scusi, ragioniere; mi perdoni, signorina) ma, se mi capitasse, vorrei davvero non muovermi da casa. Trasse un grosso sigaro e lo accese con cura meticolosa. Un po’ panciuto com’era e col viso tondo e largo, un sigaro in bocca lo completava. -Proprio – riprese – è cosa che non mi andrebbe giù, quella di regalare la prima notte al letto ignoto e cigolante di un albergo qualsiasi.

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-Sì, dice bene, lei – era la Nice, ora, che parlava – ma, il mattino, gli occhi dei conoscenti chi glieli leverebbe di dosso? Sarebbero lì, come altrettanti spilli, a frugarvi sotto, a mettervi a nudo, per il gusto di vedervi in faccia quel ch’è successo. Io, per me – e rise forte, schietta – sono sicura che mia madre se ne starebbe tutta la notte contro la nostra porta, a scrutare il nostro respiro. Se solo mi sentisse muovere, avere la voce un po’ agitata – che so io, può capitare – sarebbe capacissima di sfondare l’uscio, per accertarsi che non mi sia successo del male … - e la Nice allungò la mano maliziosa verso il calice dritto sulla base del copialettere. Bianca si volse ad Andrea: -Ragioniere, me la dà una sigaretta?- Ne scelse una, con le dita sottili e, accendendola a quella di lui, gli si accostò col viso. Odorava intensamente di femmina giovane e in buona salute. Aveva i capelli ambrati e le labbra vermiglie, tumide. Le entrò del fumo in un occhio, che si fece lucidissimo: -Fuma, ragioniere, la sua signora? Ma il cavaliere aveva intanto attaccato una barzelletta un poco grassa sulle prime notti di matrimonio; e le due ragazze, fingendo di disinteressarsene, lo stavano a seguire con la più grande attenzione. Era narratore ameno e pieno di brio: aveva un repertorio inesauribile. -A proposito di … rottura di pignatte – riprese – ci sono luoghi dove ancora si conserva una strana usanza. Il mattino dopo si espongono i lenzuoli … -Come, si espongono?- incoraggiò Andrea. La Nice stava contemplando, sopra il ginocchio slanciato, una calza che andava lentamente smagliandosi; e Bianca seguiva le volute di fumo della sua sigaretta. Cercava di formarne degli anelli, ma non le riusciva. -Già, si espongono. Ma non a tutti, intendiamoci. Un’esposizione per modo di dire. Le si lascia lì, perché i genitori possano assicurarsi che tutto è stato … in perfetta regola. -E, dica, cavaliere, se rotture non ci sono state, come va a finire? Creda: usanze rischiosa, queste, buone per tempi andati. -Certo, neanch’io metterei la mano sul fuoco, oggi come oggi, per troppe diciottenni … Bianca lo zittì, con vivacità: -Senta, cavaliere, cosa crede, che tutti siano … come lei? E la smetta con certe storie … -Sì, sì, la smetto subito. Però, vede, ragioniere, come sono ‘ste donne: tutte santerelle, timide e innocenti, poverine! Fanno finta di indignarsene; e, invece, sono lì tutt’orecchi. La Bianca, quando siamo soli, me ne racconta lei di quelle che non stanno né in cielo né in terra … Dica che non è vero, se può: quella delle uova di elefante e della proboscide, chi me l’ha detta? La bruna protestò energicamente: -Di quale proboscide parla, che non ne ho sentito mai neanche parlare? E poi, venga qua a farmi fare certe figure, lei …- e continuò ad inseguire il fumo azzurrognolo, che saliva nel fascio di sole. -Come, non lo sa? Lacuna gravissima, signorina mia … si vede, allora, che me l’ha raccontata qualcun altro. Ad ogni modo, non è male se gliela dico, eh! Così la potrà mettere in commercio anche lei e, se solo questa le mancava, avrà completata

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la collezione … - e, ridendo bonariamente, il cavaliere incominciò a narrarla, col suo fare colorito e vivace. XLII Un brusio indistinto e difforme cominciò ad agitarsi per l’aria; e nel volgere di pochi minuti crebbe smisuratamente. -Una nuova dimostrazione!- brontolò il cavalier Lodovici, ma non ebbe voglia di alzarsi dalla sedia. Gli stavano davanti le belle gambe della Nice, scoperte fin quattro dita sopra il ginocchio, certo per inavvertenza … Non era davvero il caso di muoversi; tanto, dimostrazione più, dimostrazione meno! Nessuno dei quattro raggiunse la finestra: erano abituati, ormai, alle cose del genere. Aprirono una nuova bottiglia di moscato. Il tappo scoppiò via fragorosamente, saettando contro una parete. Il rumore si confuse con il frastuono che veniva su dalla strada. Da qualche giorno la città era eccitata in modo inverosimile. Aveva la febbre. Masse di giovani tumultuosi percorrevano le vie, ma il tumulto era ordinato, pareva scorresse in un alveo. Agitavano bandiere e portavano in giro scritte, cartelloni, caricature. Inneggiavano alla guerra. I cartelli, accuratamente montati, li portavano generalmente degli sbarbatelli ai quali altre persone meno giovani avevano insegnato che quello era il modo migliore – in quei momenti – per servire la patria. Nel loro fervore, i giovinetti si entusiasmavano di quel gesto come di un atto eroico e di una sfida. I cortei apparivano a qualsiasi ora, ma era evidente che doveva esserci stata un’iniziativa a preordinarli, se la gran parte dei dimostranti normalmente vestiva una divisa. Sfilavano cantando e gridando, per superare con la voce l’incertezza che si sentivano dentro, e si fermavano davanti ai Consolati di certi Paesi per qualche fischiata in coro e per qualche urlaccio, oppure davanti alla federazione fascista, dal cui balcone un fervorino in aquila e orbace dava nuova esca al loro fuoco. XLIII La dimostrazione, stavolta, sembrava differente dalle solite. Non c’erano soltanto studenti, a sfilare. Anche molti uomini di varia età erano in mezzo a loro: e camminavano al passo, come già fossero inquadrati da una legge militare. Probabilmente, ben pochi sapevano con precisione quel che volessero. Come trovarsi in mezzo ad una tempesta, e da questa essere trascinati. Opporsi non è possibile più: la lotta isolata non è solamente pericolosa, è semplicemente inutile. C’erano anche dei musicanti, i quali a gran fiato suonavano inni rapidi e tempestosi. E la folla cantava. La voce era stata, dapprima, incerta; poi, aveva preso forma, si era fatta coro, rauco e forte. Molti occhi erano lustri, per l’eccitazione. Il corteo che era sfilato sotto le finestre di Andrea giunse a Porta Nuova, interrompendo la circolazione dei tram e di ogni veicolo. Il vigile non potè fare altro

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che segnare verde. Alle svolte di “importanza storica”, cosa contano un semaforo ed il suo manovratore? Ritornarono per via Roma, facendo risuonare duramente i passi. Le volte dei portici, incalzate, echeggiavano di canti marziali: anche i passanti più pacifici si fermarono al loro passaggio. In quell’andare violento e scomposto c’era qualcosa di irrimediabile. La cupa decisione della guerra era nell’aria, impossibile non rendersene conto. La gente cominciò, senza ben saperne il motivo, a convogliarsi verso le grandi piazze, dove nessuno si meravigliò di trovare gli altoparlanti in efficienza. Inni. Canzoni. Inni ancora. Fanfare, col loro ritmo agitato: un ritmo che ti avvelena e ti trasforma. La massa è tutt’un brusio. E la sua voce va ingigantendo da un momento all’altro, pare il brontolio sordo di un tuono lontano. Negli animi, un’ansia, uno stringimento acre, che prende alla gola; uno stupore doloroso, che provoca la necessità di gridare, di strepitare, di scambiare comunque una parola con la persona che sta più vicino. In cuore c’è un’amarezza eccitata, una specie di sconquasso incredibile che neppure gli occhi riescono a tradurre. E, ad un tratto, ciascuno zittisce, sospeso nell’attesa della condanna che sta per essere pronunciata. Adesso quasi tutti comprendono che è una condanna, ma è piuttosto tardi, non c’è più niente da fare. Chi avrebbe potuto scongiurarla, si è ben guardato dal farlo a tempo. E i pentimenti postumi non serviranno a nessuno. Anche la voce del radio-cronista non è più quella composta e … commerciale di pochi istanti prima. La parola è alla guerra, ormai. Un destino tremendo, ancora una volta – e non importa il perché – vuole tutto di un popolo. Sangue, lacrime, illusioni. La tragedia è maturata. XLIV Le giornate che seguirono, Andrea le passò in uno stato deplorevole di sbalordimento e di malessere. Ciascuna ora che veniva avrebbe potuto portargli l’annuncio doloroso che lo sbalzerebbe nella grande avventura, che lui non aveva mai neppure sognata. Non riusciva più a guardare il suo bambino senza che un’irritazione sorda lo invadesse, contro tutto e contro tutti: gli uomini, che vivono solamente per la ferocia di scannarsi; le cose, che durano impassibili nella loro veste perenne e atona di indifferenza; Iddio stesso, che permette che tutto questo si verifichi. Gli era sembrato di precipitare in fondo ad una voragine. Le pareti, ferocemente levigate, non consentivano neppure di pensare all’ascesa. Il fattorino, un vecchio umile e rispettosissimo, era entrato nell’ufficio – il giorno fatale – come uno scalmanato, senza chiedere permesso, senza bussare alla porta. Aveva la voce stanca e remota, ed il viso più scolorito del solito. -È scoppiata la guerra- aveva buttato là. Poi, ricordandosi che stavano facendo festa, si era tirato indietro, uscendo di traverso, con le mani in mano, inutili, e l’espressione incitrullita. Sapeva, purtroppo sapeva, lui, cosa significa la guerra.

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Il cav. Lodovici, Andrea, la Nice e la Bianca erano rimasti a guardarsi, senza profferire parola. Ciascun cervello si era fermato per un’infinitesima frazione di tempo e s’era messo, subito dopo, a vorticare furiosamente. La Nice, alzandosi di scatto col viso imporporato e brandendo il calice: -Facciamo un brindisi?- aveva proposto; e, senza attendere conferma, aveva strillato: -Viva la guerra!- buttando subito in gola, d’un fiato solo, tutto il suo vino. Gli altri l’avevano imitata, increduli di se stessi. Ma quel grido e quel vino, ad Andrea erano rimasti nella strozza. Cretina, cretina, cretina. Aveva taciuto, ma dentro di lui c’era una gran voglia di gridare qualcosa di violento, qualcosa di importante e di assurdo. A schiaffi l’avrebbe voluta prendere, e batterla fino a sentirla singhiozzare forte, fino ad averne le mani indolenzite. Aveva sorriso, invece, con una faccia da completo idiota. A casa, la Gisa gli aveva detto poco. -Ho saputo, purtroppo. È già da tempo che lo si sapeva. Adesso ci siamo. Lo aveva baciato con occhi miti, e aveva ripreso a fare il bagnetto a Luigino. La scadenza, dunque, era arrivata addosso, stavolta. Quel che la moglie pensasse e avesse in cuore, Andrea non se lo chiese neppure. Gli passò per la testa che, forse, la maggior parte dei sentimenti della moglie erano adesso per il bambino: in fondo, meglio così. Andarono a dormire prima del solito. La radio trasmetteva parole roventi e canzoni di guerra: ascoltare era peggio. Ci voleva quiete. Silenzio. Molto silenzio. Per riflettere, e ritrovarsi un poco. Ciascuno si spogliò come se l’altro non esistesse per nulla. Spensero la luce senza essersi scambiata una sola parola; soltanto si mormorarono la buona notte. Il bambino dormiva nella sua cuna. Lui poteva dormire, non capiva ancora niente, fortunato lui. Nel buio, parve ad Andrea di essersi immerso in un’acqua scura e pesante, sprofondato senza alcuna via di uscita e senza più alcun raggio di speranza e di salvezza. Il respiro della Gisa, vicinissimo, gli sembrò una cosa incredibile, mostruosa e senza senso. E c’era anche un bambino, lì, del loro sangue. Cos’è un figlio? Unisce o allontana, un figlio, in determinate circostanze? La sveglia batteva il tempo, senza pause. Perché tutto questo? Questa vita fittizia di pace, questo sospetto di normalità come se si trattasse di un giorno qualunque … C’è la guerra, oggi. C’è la guerra. La guerra! Allungò un poco un braccio e ritrovò, fra le dita, i capelli di quella donna che egli aveva voluto per tutta la vita, come l’olio ricerca lo stoppino, e non sai quale sia più necessario, chi in definitiva sia origine di luce. Quale duri di più. La donna gli si accostò. I loro corpi si conoscevano in ogni piega e in ogni sfumatura, anche lievissima. E questa medesima intimità fisica era, adesso, dolorosa e amara. Tacevano entrambi. Si presero per mano, come se camminassero. Nel buio. Il letto si era fatto verticale, e li spingeva in avanti. Lo stare fermi non era più concesso. Possono, due esseri umani, avere prodigiosamente uguali pensieri? Da ogni parte il buio era fitto, pauroso. Impenetrabile. Andare dove?

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Le loro dita s’intrecciarono, nello spasimo di trattenere quel grido che l’ignoto pretendeva dalle loro anime sgomente. Un mobile scricchiolò in modo sordo; e la sua voce risuonò vasta come nel vuoto. La Gisa abbandonò la testa ricciuta sulla spalla di lui; sulla spalla di lui, che era forte, che era un uomo. E le lacrime le scesero sul volto, in un silenzio religioso. Sembrava un pianto consolato, di liberazione da una pena antica, che la donna avesse portato in sé fin dalle origini. Parve, ad Andrea, che quel corpo fosse leggerissimo, da sollevarsi come un giunco, alto sulle braccia, per gioco. La nudità calda della moglie non gli faceva nascere alcun turbamento, alcun desiderio. No, non è vero che a letto si risolve sempre tutto, tra un uomo e una donna. La sentiva fragile, tutta stretta a lui, come una foglia disseccata nel vento dell’autunno. Se il picciòlo si stacca, la foglia se ne va via, incerta e senza vita, nella polvere secca o nel fango. Non ha altra scelta. Avvertì il fremito delle narici di lei ed il pulsare più affrettato di quelle membra che erano sue, come il cuore che racchiudevano. La Gisa, forse, stava per piangere un’altra volta: e questo pensiero lo spaventò. Posò con delicatezza le labbra sulla guancia di lei, su gli occhi ardenti come per febbre, poi incominciò a parlarle adagio adagio, acquistando man mano sicurezza sempre maggiore, come fossero due bambini che da tanto tempo non si ritrovavano ed hanno tante confidenze da farsi, le confidenze di tante paure sofferte o immaginate, e di tante gioie anche. XLV Erano appena riusciti ad addormentarsi, e dormivano di un sonno pesante e inquieto, quando un rumore insolito ruppe l’aria: una vibrazione metallica sospesa e lontana, che si alternava con rombi più vicini e distinti. Gli aerei, evidentemente, vegliavano sulla scura notte di guerra della città addormentata. Ad intervalli irregolari uno sprazzo di luce giallastra e intensa scendeva dall’alto. Si incendiava, a un tratto, e veniva giù dondolandosi, a lunghi balzelloni, appeso ad un piccolo paracadute che ne frenava la discesa. I bengala si susseguivano nel cielo rischiarato, e chi li vide andò a letto tranquillo: si trattava, senza dubbio, di esercitazioni notturne. Non pochi stettero a guardare col naso all’aria – dalle strade e dalle terrazze – i fasci che piovevano giù, sparsi da un’invisibile mano, come stelline stanche di un equilibrio durato troppo. Repentinamente il silenzio fu lacerato da uno scoppio così furibondo che sembrò voler squassare ogni cosa. Il fragore si ripercosse sinistramente, facendo sobbalzare la città. Altri scoppi violenti seguirono nello spazio di pochi istanti. È la guerra che viene dall’alto, nel riposo della notte, su chi non ne ha colpa. Andrea e la Gisa si svegliarono di soprassalto. La donna gridò qualcosa di sconnesso, con voce acuta. Un ronzio agghiacciante vibrava nei loro orecchi. Si precipitarono alla cuna: il bimbo dormiva, ignaro, coi pugnetti tesi nel vuoto. Un terrore agitato si impadronì di loro; Andrea tentava invano di mantenersi e dimostrarsi calmo. Si vestirono sommariamente intanto che la luce si spegneva da sola, ed uscirono intontiti nel giardinetto, col Luigino ravvolto nelle sue coperte. La

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donna si accorse, stupita, che stava ancora strillando, senza un motivo. Tacque. Sedettero sulla panca del pergolato di glicine: l’aria era satura del loro profumo dolciastro. -La maschera!- gridò Andrea, e corse in casa, al buio. La Gisa si mise a piangere silenziosamente. Il bambino non aveva ancora interrotto il suo sonno. Andrea tornò fuori col pacchetto in mano. A cosa gli sarebbe servita, la maschera? Già non ne conosceva neppure l’uso … Aveva la testa in fiamme e provava un senso di vertigine. Strinse a sé la moglie. Poteva seguire distintamente i battiti sordi e disordinati del suo cuore. La donna tendeva le braccia in avanti, con su l’involto vivo del bambino, come per un’offerta. Sembrava si fosse cristallizzata in quell’atteggiamento e non fosse più in grado di alcun gesto. Aveva gli occhi sbarrati. Qualche richiamo angosciato giunse fino a loro dalle case vicine, insieme allo scalpiccio affrettato di molti passi. Una bambina singhiozzava forte, e quel pianto era una cosa viva e vicina, da potersi toccare allungando una mano. Furono sentite sbattere delle porte, ed un’automobile nera passò sfrusciando, silenziosa come un’ombra, a fanali spenti. Aveva qualcosa di assurdo e di spettrale. Il vuoto stellato era dominato tutto da un rombo lontano e diffuso, onnipresente; e le luci giallastre e spietate continuavano a venire giù, con una lentezza esasperante e col loro chiarore crudo, che illuminava a giorno le cose, traendone visioni biancastre e macabre. Nuovi fragori scossero la terra, fino a che un ringhio rabbioso si levò verso il cielo, tracciando steli di luci colorate, come scie della mano bizzarra di un alchimista di colori. La contraerea si era finalmente decisa a sparare: e la volta celeste fu tutta corsa e puntinata di fili sottili e di vampe rabbiose e prepotenti, che squarciavano la notte. Ma gli aerei incursori erano ormai lontani. Andrea e Gisa si guardarono con occhi sbigottiti e lustri, come destandosi da un incubo feroce e crudele. Come raccapezzarsi? Restò, nel silenzio stupito e tranquillo del giardino, soltanto l’odore penetrante delle glicine. XLVI Rientrarono in casa barcollando. Il bambino, intanto che lo stavano rimettendo nella cuna, si svegliò improvvisamente e si mise a frignare con voce stridula, stonata. A stento lo calmarono col poppatoio. Andrea si sedette sul letto e stette un attimo a guardarsi. Sentiva freddo alle gambe: scoprì di essere in mutande. Sulle spalle, invece, sopra la camicia da notte aveva infilata la giacca. Si grattò dietro un orecchio e fu profondamente sbalordito che tutto fosse ritornato calmo e silenzioso come prima. La Gisa aveva indosso un lieve accappatoio ed i capelli le ricadevano in disordine sulle spalle. Era graziosa anche così, col viso attonito e spaurito. Ma Andrea non se ne accorse, in quel momento.

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-Se ne sono andati- fece lei, e la sua voce era una cosa estranea. Veniva chi sa da quale remota lontananza. Le parve di non essersela ascoltata mai, prima di allora, con quel timbro. Andrea assentì con un cenno del capo. Poi: -Non ho più sonno- disse. E aggiunse sottovoce, quasi parlasse a se stesso: -Come si fa, adesso, a dormire? E chi sa se non tornano … -Vieni in cucina, Gisa, a bere qualcosa ... Andarono di là, lasciando aperte le porte, per sentire se il bambino piangesse. Lui trasse dalla dispensa il fiasco del vino e ne mescè in due bicchieri, a mezzo; poi li riempì con acqua. Il marmo e la lacca verdognola e lucida del tavolo erano cose fredde e sconosciute, estranee come non le avessero mai vedute prima. Aprirono la finestra: c’era una calma solenne,interrotta solo da qualche luce di candela o di torcia elettrica. Si appoggiarono al davanzale e quel contato freddo li richiamò alla realtà. -Sarà così tutte le notti?- chiese la Gisa a bassa voce. Era una domanda senza risposta, e Andrea tacque. Si limitò solamente a sfiorarle i capelli con una guancia, provandone un gusto nuovo. Poi vi posò sopra le labbra, senza baciarli. Nella vita, quando tutto intorno sembra crollare, è grande cosa per una donna, sostenersi ad un uomo. Al suo uomo. Ma se l’uomo cede egli pure, cosa succede, cosa succede, allora? Il rubinetto dell’acqua, non ben chiuso, lasciò cadere una grossa goccia, che risuonò con rumore insospettato. Un grillo cantava il suo verso da qualche parte, in giardino. Andrea accese una sigaretta. XLVII I danni dell’incursione erano stati minimi: qualche edificio un po’ sbrecciato, alcune buche, pochi morti e qualche ferito. Erano balzati dal letto, che le prime bombe stavano già cadendo. Erano corsi giù con orgasmo, col cuore in gola. Mentre traversavano la strada per raggiungere il rifugio dirimpetto, un sibilo agghiacciante li aveva paralizzati: il sibilo frenetico di un ordigno che stava precipitando col suo peso micidiale di ghisa e di esplosivo. La bomba era caduta a pochi passi da loro. Una sventagliata aveva scrollato le tegole di alcuni isolati. Una grondaia pendeva, giocando all’altalena. Alcune imposte furono scagliate a distanza. Un tinnire violento di vetri che s’infrangevano seguì la scossa, ed un violento rigurgito d’aria sventrò le saracinesche. Una piova fitta e bruciante bucherellò tutta una facciata, mentre un grappolo di schegge investiva in pieno i disgraziati che stavano traversando la strada. A due passi dal ricovero un uomo cadde con un urlo folle nella strozza. Un bolide tagliente e infuocato gli fischiò alle orecchie e gli portò via, netta, tutta la mandibola. Rimase, osceno, soltanto il palato superiore, tutto dilacerato. Del naso non restava più che un grottesco mozzicone sanguinolento. Le vittime furono composte in un ospedale cittadino. E qualcuno si recò a vederle, pietoso, ma anche per curiosità inguaribile. Per vizio. Per pettegolezzo. Anche

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l’uomo dal viso orrendamente sfigurato era morto quasi subito. Il sangue che gli macchiava i vestiti era intriso di polvere e aveva fatto delle gran patacche dure, dal colore rugginoso. Di altri, la stessa identificazione era stata laboriosa. Una donna, al posto del cranio, aveva tutt’una poltiglia atroce di sangue e di cervello. Ne uscivano, come da una pannocchia di granturco, ciocche giallastre di capelli. La città, pur commovendosi per questa terribile novità, non si turbò troppo. Lavò le macchie del sangue, rappezzò i muri e turò le buche del selciato. E tutto finì lì. XLVIII La vita trascorre, ed il suo andare non ha tregua. Verrebbe voglia, talora, di uscire in strada, di sedersi un momento sotto un albero, all’ombra, per ascoltare soltanto il mormorio del vento fra le fronde. Far tacere anche se stessi, per non avere ragioni di turbamento. Dimenticare che c’è, d’intorno – che ti scruta, ti respinge, ti sprona, ti calpesta e ti denuda – tutta una società per la quale e nella quale l’esistenza continua con tutte le sue norme tradizionali o nuove, e con tutte le sue povere ipocrisie … Ma non si può. Ciascuno in quella società vive, inutile magari a se stesso e – anche non volendolo – ne è fatalmente trascinato. La ruota gira ed il suo giro è senza fine. Lo stordimento, il brivido improvviso di tutta una città, sono cose di poco conto; durano una frazione brevissima di tempo. Cosa può mai significare la morte di uno, o di venti, o di mille, quando costoro fanno parte di una famiglia tanto numerosa e affrettata che ha – o sembra avere –, come preoccupazione peculiare, l’ansia che le ore assegnate per il godimento sono sempre troppo poche … Nello smarrimento della prima incursione, Andrea aveva deciso che la Gisa e il bambino si trasferissero, subito subito, al Cascinone, lontano da ogni terrore e da ogni pericolo; in quanto a lui – se le cose si fossero messe veramente male in città – avrebbe fatto in modo di raggiungerli stabilmente al più presto. È una bela cosa, l’impiego: ma, e la pelle? Il rimanente della paurosa notte l’avevano passato in agitazione. Fin verso la prima luce del mattino erano rimasti là, al davanzale, in uno stato d’animo che nessuno dei due avrebbe saputo analizzare. Come se stessero insensibilmente naufragando e quella lastra di granito, fredda ma salda, fosse una sicura boa di ormeggio. Nessuno dei due, forse, pensava seriamente alla possibilità che gli aerei ritornassero, pure non si mossero di là. Vicini, silenziosi, respiravano l’uno l’anelito dell’altro; ed Andrea ebbe, più nitida di ogni altra volta, l’impressione della padronanza assoluta di quella donna, corpo e anima e tutto. Lo scopriva in condizioni tanto anormali da averne un’amarezza accigliata, quasi un senso di delusione e di collera. Sentì, con lucidità sicura e preveggente, che “sua” come in quegli istanti, la Gisa non l’aveva avuta mai, non l’avrebbe avuta più. E neppure lui sarebbe mai stato altra volta così prossimo a lei. L’acqua di un fiume che scorre non è mai quella di prima. Il brusio lieve dei cespugli e quello più vivo dei platani, avevano qualcosa di fluido e di arcano: sembravano il ricordo di una voce perenne tante volte ascoltata, ma con più distrazione. Perché, perché non l’aveva mai raccolta, quella voce, prima

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di allora? Che pena, scoprire di essere differenti da come ci si credeva, scoprire che è tardi, che non si può tornare indietro (si può tutt’al più sognare di poterlo fare; ma ben di rado è poi possibile riuscirvi). Il cielo si stava schiarendo, nell’imminenza della giornata nuova, quando finalmente tornarono a letto. Luigino aveva sulle labbra una piega sottile: un sorriso di candida innocenza. Cosa ne sapeva, quel cosino là, della guerra, delle bombe, di quello che può dire il brusio delle foglie? Quei problemi, avrebbe tempo ad affrontarli, quando fossero passati molti anni. Adesso, la questione era di farglieli passare. IL Documentari cinematografici. Radio. Giornali. Fotografie. Parole, parole, parole. Fiumi di inchiostri e rotoli chilometrici di carta. Occhi eccitati e sguardi dolorosi. Parole di sconforto e frasi roboanti, che turbano tutta un’umanità. Il respiro si è fatto più pesante, più greve, acre. Prima era necessario l’ossigeno puro. Adesso, per vivere, sembra sia necessaria un’atmosfera densa e avvelenata: evoluzione anche fisiologica… Nelle notti si udiva, dalla camera di Andrea, vicinissimo e impetuoso, un fragore serrato. Un rotolare violento e stridente passava sull’asfalto, un trascorrere di ruote e di cingoli. Dava le vertigini. Anche le lunghe file dei muli, col loro scalpitare veloce, avevano qualcosa che faceva trattenere il fiato. E gli uni e gli altri andavano verso le Alpi. Nel turbamento di Andrea, una domanda gli martellava dentro: -Ma perché non mi chiamano? Perché non mi chiamano ancora? Non che lo desiderasse, tutt’altro; ma, almeno, si sarebbe forse risolata la penosa crisi che stava attraversando. O dentro o fuori, non con un piede posato di sghembo in terra e l’altro sospeso a mezz’altezza, incerto se andare avanti o tornare indietro. Trascinarsi e guardarsi attorno spaurito … Incertezza. Ma, fin che fosse stato a casa, c’era il tetto sicuro; e la colazione e il pranzo ad ore convenienti. E la premura della Gisa. E Luigino che faceva pipì, e la poltrona comoda e il letto molle. Tutta un’esistenza quale durava da anni, ricca di tranquilli affetti e cara di consuetudini. La Nice. Nerina. Chi ne sapeva più nulla, di Nerina? Si può, a un tratto, buttare un ponte nel vuoto e correrci sopra, incontro a che cosa, rinunciando a tutto quello che hai consumato anni ed anni per metterti insieme, che fosse per te solo? Mi sono fatta la mia famiglia, piccola ma mia. Mi sono tolto per quanto possibile dal resto del mondo, senza dare fastidi ad alcuno. E, adesso, eccoci qua! C’è uno “stato civile” che mi ha registrato. C’è un esercito pronto ad afferrarmi. Cosa se ne fanno, di uno come me? La guerra, per farla, bisognerebbe sentirla almeno un po’, altrimenti … Se non hai il carbone adatto, se non hai il ferro adatto e tutto il resto che occorre, dì un po’, con che cosa vuoi mai ottenere l’acciaio? Ne uscirà qualcosa che volerà in pezzi al primo scossone.

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Una donna, che sembrerebbe poi tanto poca cosa una donna, se non ti va, se non la senti, non la prenderai mai, neanche se te n’implorasse. Così, di me, cosa se ne possono fare? Ma non le capiscono, ‘ste cose così elementari? Teneva per sé, Andrea, le sue riflessioni catastrofiche. Non avrebbe potuto confidarle ad alcuno. Non si sa mai. E neanche si chiese se fossero in molti, a pensarla come lui. L La lotta si accese sulle Alpi, lungo tutto il confine con la Francia. Anche gli elementi naturali parteciparono al cozzo degli uomini e delle armi. Piogge sferzanti si abbatterono insieme ai grossi proiettili. Cadeva la neve, sulle cime più alte, e la nebbia scendeva e saliva dalle gole delle montagne, a confondere il cielo con la terra. Il trapasso era breve, invisibile: come dalla vita alla morte. Come formiche, gli uomini serrarono sotto nello scenario irreale. Avevano dormito per parecchi giorni sulla paglia bagnata e puzzolente della tenda o sulla terra nuda, sulla madre terra alla quale forse stavano per ricongiungersi definitivamente, che si rinserrasse sopra di loro. Si appostarono dietro le creste e nei valloni dirupati, intanto che scoppiava l’uragano. Gli echi dei monti centuplicarono la voce degli scoppi, e le prime granate giunsero sui gruppi degli uomini. Venivano giù sibilando la morte, e quei poveri puntini scuri e vivi, tutt’un fardello di ansie che recavano con sé e che dietro di loro lasciavano, si confusero con le scarpate ripide, con gli strapiombi protettori, con i cespugli, dove ce n’era. Poi, venne l’ordine di portarsi avanti. C’era, tutt’intorno, come una ridda di morte invisibile che viene. Avanti, avanti ancora. Contro gli uomini che sparano e contro la natura, che sembra fatta apposta per impedire il cammino. Avanti, nella luce opalescente delle giornate nebbiose e nel buio infido delle notti squarciate, a tratti, dai boati e dalle vampe. Formiche umane sbattute, da un Destino più forte, a cozzare fra di loro, per un fittizio domani. Andare all’attacco fra i dirupi e le cengie. Farsi sotto alle cannoniere, che sputano acciaio rovente. Intercettare con le membra spezzate la sventagliata della mitraglia … Si può ammazzare un innocente? Si può andare all’assalto, allo scoperto, col fiato mozzo, e avere forza sufficiente a tenersi anche solo in piedi? E scagliare, con l’anima, l’ultima bomba che spazzi via quell’arma e i suoi serventi? Si può. Si può morire con sulle labbra un grido di sfida. Con negli occhi una vampa di fiamma. E avere il gesto assurdo, o solenne e maestoso, come quello di un sacerdote che amministri i sacramenti. Battesimo di sangue. Cresima di sangue. Nozze di sangue. E la morte non è più quest’orrenda sfinge, che fa tremar d’ignoto a sfiorarla soltanto. È la pace che viene.

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Viene e ti adagia, una pace sconfinata. Ti depone sopra un letto di rododendri o di frantumi scabri di roccia scalpellata dalle schegge. Ti copre di neve o di nebbia. La natura è tutto un tempio, immenso ed arcano. Vale di più un fiore di arnica che non mille corone di garofani odorosi o di crisantemi tristi. Non ci sono campane che suonino a morto. Non organi. C’è la voce del cannone, che accompagna nel trapasso. C’è il canto feroce di un fucile mitragliatore; l’a-solo rabbioso di una mitragliatrice. E c’è soprattutto la retorica della gloria, con le sue sconsolanti conseguenze … Formiche umane che vanno, e non sanno il perché. E, per una che cade, altre balzano in piedi, accanite, tenaci. Il terreno s’insanguina, diventa sacro, sacro alla vendetta. Ed il sangue si vendica, ferocemente, con altro sangue. Una faccenda ben triste e deprimente. LI L’eco della battaglia non giunse nella città, pur tanto prossima, se non con le ripercussioni lontane di un avvenimento scontato, anche se capace di tenere in sospeso il respiro della gente. Un’ombra più scura si andava addensando, un’ombra che neppure il sole dell’estate sarebbe riuscito a diradare e intiepidire. Ma gli animi della retrovia, del cosiddetto “fronte interno”, non ebbero un’ apprensione eccessiva perché la Francia, dal confine svizzero alle Fiandre, già stava tutta franando, in un crollo senza precedenti, per la sua insospettata rapidità. A non tutti, forse, passò per la testa che l’entrata in guerra dell’Italia aveva tutte le caratteristiche di un gesto proditorio, di una botta vibrata senza scrupoli alle spalle di un lottatore già sfiancato e crollante. La moralità, la si tocca, solitamente, soltanto quando lede i propri interessi. Fu di sollievo, anzi, che la battaglia fosse stata incominciata proprio quando l’avversario non sarebbe stato più in grado di opporre velleità positive di ritorsione. Così, si era garantiti! E, per gli egoismi, sarebbe stata nuova spinta a osare. Per i tentennanti, una ragione in più per deporre le titubanze. Per tutti, motivo di festa a buon mercato. Chi non compra a prezzi fallimentari, diamine? “OCCORREVANO QUATTRO MORTI, PER PRESENTARSI CON ESSI AL TAVOLO DELLA SPARTIZIONE!” La “storia” è quello che è; e di solito chi la redige ha vissuto ben lontano dagli avvenimenti dei quali parla e giudica (superflue, no, le dissertazioni relative ai critici ed ai filosofi ed ai cerebrali della storia? Ci son dozzine di trattati in tutte le lingue che arzigogolano su piacevolezze del genere … ). E, di solito, chi la redige ha le sue brave ragioni – anche se il più delle volte inconfessabili – per sostenere determinate argomentazioni più volentieri che altre. La storia di ieri ci si immagina debba servire per oggi e per domani (e poi i fatti dimostrano che non serve mai a niente … ): necessariamente la si deforma, fin che le coscienze saranno quelle venali durate finora.

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Ma quelli che vissero le giornate delle Alpi; quelli che sulle nevi e nella tormenta invocarono, rannicchiati dietro a un sasso, Iddio, la Madonna e tutti i Santi, e la morte, sì, anche la morte, che avesse pietà di loro e se li portasse via; quelli sapevano e sanno ciò che si ebbero di fronte. Li avevano avviati, gregge ordinato di rassegnate formiche forzatamente “guerriere”, e ad un certo punto: -Ragazzi –avevan press’a poco detto - ragazzi, voi sapete che la Francia è finita. L’armistizio è questione di ore. Ed essi esultarono, i soldati che battevano i denti nelle divise ammollate dalla pioggia. C’era un freddo cane, ma sarebbe per poco ancora. Presto un bicchiere riconfortante di vino, nella gloria facile di una vittoria non combattuta, li riscalderebbe. Poi li informarono che, qualora sparassero – ma probabilmente non sarebbe stato necessario, dovevano recuperare i bossoli vuoti i quali, se no, venivano addebitati. Ebbero voglia di bestemmiare fuor dei denti, i soldati che prendevano una lira al giorno di “soldo”; ma, di fronte a una guerra che finisce prima ancora di iniziare, chi se ne frega dei bossoli vuoti a venti soldi l’uno? Se proprio ce li farete pagare, datemene di cassette da buttare via, che pago anche le pallottole, se lo volete! Faccio il ladro, per pagarle! E intanto da lontano giungeva, di tratto in tratto, un rombo isolato di cannone. Ma sembrava d’essere ad un’esercitazione soltanto, i colpi erano radi e pochi. Scendeva la sera. Dissero loro che sarebbe stato meglio: -Non si sa mai … Qualche colpo disperso, che non sa dove andare a finire …- di calcarsi sul cranio l’elmetto. La rivelazione era nell’aria, e nella notte scoppiò la tempesta. Ma l’avversario che stava di fronte, mai e poi mai l’avrebbero battuto – o, almeno, sarebbe stata bestialmente dura –, se non avesse supinamente accettato il suo stanco destino. Le torrette dei forti erano quasi tutte intatte, e le riserve appena appena intaccate. Viveri e munizioni ce n’erano, da durare chi sa fin quando. Per gli attaccanti, invece, la storia sarebbe un poco diversa … Queste cose, non tutti ancora le sanno. E pochissimi le sapevano allora, quando le città – colte in ritardo – andavano assumendo l’assetto di guerra col ritmo sgomento e febbrile di chi sente l’acqua che cresce, che cresce alla gola, e non c’è più verso di restar su dritti. Le lampade furono incappucciate, assunsero l’aspetto di lanternari funebri; le pomposità gioconde e luminose degli annunci e delle insegne al neon furono votate a dissolversi e scomparire non appena giungevano quelle ore nelle quali, per il passato, erano solite avere vita. Ogni riflesso festoso e vivo scomparve. Anche le vie già tutte abbaglianti di luce e vivide, più di ogni altra, di colori e di gente in lieto movimento, anch’esse divennero opache e tristi, come una straduzza malfamata e qualsiasi di sobborgo. Camminarvi, nelle ore notturne, pareva assurdo, come vivere un sogno balordo. Ogni strada, ogni piazza, un grigiore ed una malinconia che serravano la gola. I portici si addensarono di ombre. Fatti, forse, più accoglienti per le coppie randagie. Ma non era necessario: esistono ovunque tante camere d’albergo o d’affitto

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e – per chi vive come gli uccelli – tanti giardini e prati, fitti di solitudine facilmente equivoca e di silenziosa discrezione. Apparvero i primi cumuli di sacchetti di sabbia, le prime grandi “R” dipinte in bianco su sfondo nero – un segno di lutto a colori invertiti – per indicare dove, sotto le case, i proprietari si erano illusi di aver trasformato in rifugio antiaereo la cantina; e non si rendevano conto che, con le loro ridicole quattro travi di sostegno e di copertura, l’avevano invece trasformata in una grottesca trappola per i nuovi topi di questo progredito secolo della tecnica. La colpa non era loro, evidentemente, chè anzi tentavano di rimediare come meglio potevano; la colpa era di chi si era buttato nella guerra pensando che i suoi avversari, per contrastarlo, nel raggiungimento dei suoi “immortali destini” e delle sue “mete luminose”, avrebbero usato come massimo … il manico della scopa. Con lo stesso ordine di idee, superficiale ed incosciente, si scavarono alcuni giardini delle pubbliche piazze per ricavarne delle trincee ricoperte d’un fragile soffitto di terra appena sostenuto da una leggera intelaiatura di legno. Antischegge, forse, ma se una bomba pur modesta fosse piombata giù anche a qualche distanza, chi li avrebbe rivisti più i disgraziati “trinceristi”? La fossa diventerebbe sepolcreto … Intanto, serviva magnificamente ai ragazzini più audaci per giocarci a rimpiattino, alle peripatetiche come base operativa, e per le feci ai soliti maiali notturni, che non mancano mai, a nessuna latitudine. La gente, intollerante di serietà e di costrizioni, per non farsi troppo “cattivo sangue”, continuava a divertirsi come prima, più di prima anzi, specie nelle città, con un desiderio più rabbioso, data la precarietà in cui viveva. Chiusi i balli pubblici, nacquero quelli privati. Succede, talora, che il singulto di un saxofono abbia voce più forte di quella di un mortaio; più simpatica, innegabilmente. Facciamolo suonare, dunque! E siccome non è a dirsi che debbano farsi dei cambi svantaggiosi, c’erano stati i grandi previdenti, che incominciavano ad ammucchiare soldi in barba a chi ci lasciava la pelle. S’inaugurava la prima modesta serie dei “surrogati”, la prima schiera di “borsaneristi”. Ne spunterebbero, poi, in quantità eccezionale, con un crescendo vertiginoso: una fungaia immensa e floridissima. LII Con la facile conclusione della lotta sul fronte occidentale, la guerra entrò in una fase nuova. Gli avversari rimasero a guardarsi, dall’una e dall’altra parte del fosso. Si trattava, per l’uno, di saltare di là. Per l’altro, di impedire che il balzo si verificasse. L’alternativa si capì assai presto che non avrebbe avuto soluzione, che cioè ciascuno sarebbe rimasto dov’era. E quel che successe, poco dopo, fu completamente imprevisto. Sorpresa, ancora una volta, e non l’ultima. La gente continuava a vivere in un’anormale tranquillità. Solamente quelli che ne erano stati scottati direttamente erano in grado di valutare quel che era maturato e quali sorbe, con ogni probabilità, sarebbero ancora venute.

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Passò l’estate, e l’autunno giunse – stagione dei raccolti – foriero di nuove scosse e, stavolta, ben tremende davvero, rispetto a quelle già traversate dall’Italia. Una nuova via maestra si aperse alla morte, e la porta si spalancò all’improvviso, che nessuno l’aveva immaginata. La retorica ufficiale proclamò trionfalmente che sarebbe stato un roseo camminare, su l’ali della facile vittoria. Si sarebbe dimostrato al compare dei baffetti che anche di qua si era capaci di fare le grandi cose, e come! Ed infatti, doveva diventare in breve un sanguinoso raspare nelle nevi e per le rocce e i valloni … Fu un balzo veloce, all’inizio, su per le giogaie brulle e impervie del Pindo e dell’Epiro. La gente, per la verità, non riusciva a comprendere che ragioni ci fossero per fare la guerra alla Grecia; ma di lumi nessuno gliene dava a sufficienza. E, d’altronde, sarebbe stata una marcia veloce, una manifestazione di potenza, un’edizione in più della “guerra-lampo”, la guerra di moda. Ma il risveglio venne presto, feroce e brutale. Partite per sorprendere l’avversario e batterlo, e frantumarlo, prima ancora che avesse il tempo di capire cosa stesse rovinandogli addosso, le esigue Divisioni furono abbrancate esse stesse in una morsa assolutamente non prevista. I monti giallastri, ricoperti soltanto di una scheletrica vegetazione arborescente, alla partenza erano apparsi completamente sgombri. Ma, d’improvviso, una mitragliatrice schioccò il suo ticchettio lacerante sul davanti delle colonne impegolate nel dedalo delle vallette e sui pochi, malagevoli sentieri. Come per eco, altre armi si scossero sui fianchi; altre ancora, chi sa come, aprirono il fuoco alle spalle. Da qual parte spuntavano mai fuori? Anche i mortai scagliavano da qualche luogo nascosto il loro uragano micidiale, e vuoti sanguinosi si apersero. Dietro alle colonne di prima schiera, non c’era praticamente nessuno. Un vuoto tragico. Se il breve diaframma avanzato si fosse spezzato, guai a quei pochi che invano tenterebbero di arginare la valanga che ne discenderebbe! La cosiddetta opinione pubblica, partita con la lancia in resta ed i voli lirici in punta di penna, fu traversata da un’ondata di costernazione, che fu impossibile ignorare, anche ufficialmente. Cosa stava mai succedendo, in Albania? Un’Unità solidissima, spintasi troppo addentro, si trovò circondata appieno. Solo con un ardimento incredibile riuscì a svincolarsi e a riportare indietro i suoi monconi martoriati. Più che sdegno, nel Paese, fu lo sconforto che prevalse. Lo Stato Maggiore, intanto, tentava l’estremo rimedio. L’avversario, ritenuto debole e battibile al primo urto, si rivelava più forte dello stesso attaccante: e bisognava a tutti i costi fermarlo. Il fante ancora una volta era necessario, il fante fangoso e umile, quello che ci lascia sempre la ghirba senza aver mai pensato alla guerra. Il fante, che venisse a scavare la terra e ad abbrancarvisi. A trasformarsi egli stesso in terra, una terra straniera che non gli diceva niente, che lui non la sentiva e non la capiva assolutamente. Ma lo Stato Maggiore decise che doveva farsi il “muro”, doveva erigersi una barriera non superabile. E ci vollero gli alpini.

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Li portarono giù, con ogni mezzo più rapido. Per mare, una parte, e – malsicura l’insidiosa traversata sulle navi – a gruppetti nei marsupi dei grossi velivoli da trasporto. Nel ventre delle grandi macchine alate dalla sagoma un po’ goffa e buffa, salirono col viso sì, è vero, preoccupato, ma anche un po’ ingenuamente lieto per questa straordinaria novità che toccasse, a truppa costantemente condannata a macinare la terra, di volare per aria, stavolta, incontro alla guerra imposta da chi comandava. Ma già nel viaggio i visi andarono facendosi più cupi mentre, seduti sullo zaino, si tenevano abbrancati con una mano a qualcosa di fisso e, con l’altra, incollata davanti alla bocca, si sforzavano di non eruttare la scatoletta e la pagnotta buttate giù di furia sulla tradotta e non ancora digerite. Furono scaricati intanto che da non troppo lungi giungeva intermittente la voce della lotta; e non ebbero neanche il tempo di stupirsi per tutto quel che andava succedendo, che furono indrappellati, e, senza tante storie, “mandati su”. C’era da tamponare, se pure si era in tempo. Ragazzi che nei loro venti anni non avevano forse fatto un viaggio di duecento chilometri tutto in una volta, eccoli qua, in meno di quarantott’ore, scaraventati dalle montagne di casa a queste giogaie strane, di là dal mare. Scaraventati là per morire. Non c’era neppure il tempo per chiedersi il perché. Ma la patria, perché la si va a difendere tanto lontano? La soglia di casa, il proprio paesello, la mamma, la moglie, i bambini, la fidanzata, la chiesa, il cimitero … O che non basta, forse, tutto questo, per definire la patria? C’è davvero qualcosa di più? E che cosa, nel caso? Qui parlano una lingua che non è la tua, e non ti vogliono nemmeno vedere. Né gli uomini, né le donne, né i bambini, che sono sempre amici dei soldati, i bambini … cosa ci han mandati a fare, qui? Non è possibile che c’entri la patria, in tutto questo, né altre cose comprensibili. *********** Piove. E lasciamo che venga! C’è da portarsi sotto. Andiamo. Dare il cambio al …° reggimento. Ma, a chi, a chi dare il cambio, per la miseria, se il reggimento qui non c’è … Dove sarà mai andato a finire? C’è uno, qui, che dice che abbiamo sbagliato strada … Come, la valle più a destra? Ostrega, ma chi ci vede di notte? Specie quando non si sa neanche dove si deve andare a sbattere. Ci hanno detto di venire per di qua … Sei davvero sicuro, tu? Ma qui, davanti a noi, perdio, ragazzi! Quelle mitragliatrici non sono per nulla le “breda”. Chè, giù le teste! A terra, mondo boia, se no stavolta l’è tardi davvero. Tenente Rollèda, ripieghi dietro quel costone, se no ci fan fuori tutti. Anche i mortai ci volevano, cristo. Ostia, se sparano bene. Ma di dove sparano? E ‘sto reggimento del cavolo, dove mai sarà andato a finire? Contrastare di giorno, ma di notte tagliare la corda. Come fidarsi a stare lì, nell’oscurità piena di insidie, quando la topografia dei luoghi è del tutto un mistero e s’incomincia a sentir sparare sui fianchi? Questo, non è fare la guerra. È farsi uccidere come tanti fessi.

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La linea, a poco a poco, si assesta. Si stabilizza. Giungono armi. Giungono uomini. Si muore meno di ieri. Tenente Rollèda, quanti ne mancano, oggi, già meglio. Signorsì, signor maggiore. Viene il fango. Ci voleva anche lui. Ci si annega dentro. Senza scampo. I muli affondano fino al ventre, ma vanno. Chi mi parlerà ancora male dei muli, gli rompo la faccia … E i soldati dietro a loro, abbrancati alla coda. Bestemmie, moccoli da spaccare il cielo, che la finisca di piovere, almeno. E preghiere. Invocazioni sgomente sull’orlo del trapasso, nel brivido ultimo del sangue che se ne va via per conto suo, per una via inusata, e non c’è alcun mezzo per trattenerlo. Ma le sanno, ‘ste cose, quei porci che fanno la politica? -Dillo, Stefano, a mia mamma, che muoio senza maledire nessuno. Ci pensi lei ad Antonia. Io, non posso più … E uno ancora, uno dei tanti, giace nel pantano vischioso e tenace. Finirà mai, questa belletta negra e gialla e molle? Sì, che finisce. Viene la neve. Guerra di posizione nella neve. A metri, si è accavallata sulle montagne. Par d’essere nel paese delle fiabe. Si vive in certe caverne che hanno la trasparenza azzurro-verdognola. Se non sparassero, sarebbe magari bello, vivere qualche giorno così. La natura, intorno, è un incanto. Ma sparano. Ma il caffè non arriva. E non arriva neanche la scatoletta, altro che i viveri di conforto! E le calze sono fradice, e nello zainetto non ce n’è più. Lo zainetto… Dove sarà mai, lo zainetto? E le scarpe sono inzuppate anch’esse. Di fuoco acceso, chi sa fin quando non ne vedremo più. Oh, avere una bella stufa rovente e un tazzone di vin-brulè! Sentinella, di notte. Due metri di neve. Ogni tanto un boato, uno schianto. Ci si abitua presto. Fa una vampa dove arriva, tutto lì. Però bisogna battere forte i piedi, se no sono fastidi grossi. Anche le mani, nei guanti bagnatissimi, non stan poi tanto allegre. Scaldiamole un poco. Ficcarle in tasca o intiepidirle con l’alito? Toh, anche i piedi, adesso, sembrano meno diacci! Pensiamo un po’ a casa. Cosa farà, la Nella, a quest’ora? Forse non dorme; mi sta scrivendo. Forse mi prepara un pacco. Forse mi fa un paio di calze di lana! Toh, Nella, ti mando un bacio, adesso che nessuno mi vede … Cade una goccia di pianto sulla guancia. Toglierla subito, se no si fa di ghiaccio sulla barba incolta. Sembriamo dei selvaggi, che allevino pidocchi … Chi sa come va, la scuola di Bepi? Al mattino, la sentinella, coi piedi congelati, viene avviata al basso. Quanti, così? LIII Andrea uscì dall’ufficio in anticipo, col volto più allegro del solito. L’indomani sarebbe stato il compleanno della Gisa, e quindi bisognava festeggiarlo degnamente. La moglie desiderava da un pezzo di avere una bella pelliccia, e questa sarebbe stata l’occasione buona. Si era già ai primi di febbraio, ma poco importava. Meglio tardi che mai …

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Entrò in un negozio scintillante, dove tutto aveva un aspetto di favola. Un uomo, là dentro – anche una donna, talvolta – si sente sempre un po’ sperso, tra i sorrisi delle commesse sofisticate ed i manichini che incutono rispetto con la loro fissità irreale. Gli si fece incontro una signorina, togliendolo dall’impaccio: -In che cosa possiamo favorire il signore? La giovane aveva un grembiule nero e lucido, che la rendeva appetitosa e le disegnava la linea del corpo abbastanza ben modellato. La luce bluastra che pioveva dai riflettori traeva tonalità calde dai suoi capelli ramati e le ombreggiava il viso con molta grazia. -Ecco, io vorrei una pelliccia. Bella. È per una signora … - Andrea capì che stava diventando ridicolo, che era incapace di esprimere quello che desiderava, e buttò fuori tutto d’un fiato: -Senta, signorina, una pelliccia bellissima, una volpe argentata, azzurra, qualcosa di molto fine, insomma, senza spendere un capitale … Io non me ne intendo assolutamente. Devo fare un regalo; già, un regalo a mia moglie … La ragazza lo condusse in un salottino tutto specchi, luminosissimo, pieno di riverberi di luce viva e tiepida. Da certi armadi che parevano autentiche casseforti vennero fuori morbide e lucenti meraviglie. Venne anche un’altra signorina, più anziana, che aiutò ad illustrare i pregi dell’una e dell’altra, il colore, la tonalità calda, l’effetto sicuro e tante altre cose complicate. La scelta fu abbastanza sbrigativa e non fecero neppure molta fatica ad accordarsi sul prezzo (nei negozi di abbigliamento femminile gli uomini sono clienti graditi perché, tranne rarissime eccezioni, non fan perdere tempo, si accontentano facilmente e pagano senza tirare). Alla cassa gli chiesero l’indirizzo, per il recapito col fattorino. Andrea pensò di scrivere in fretta due righe, da mettere nello scatolone. Poi cambiò idea: -La porto io, grazie.- E uscì giulivo, col suo tesoro sotto il braccio. Acquistò ancora dei dolci e un grosso mazzo di garofani rossi: piacevano tanto, alla Gisa! Poi, salì sull’autobus con tutti i suoi bagagli. Era felice e leggero, come un ragazzino in vacanza. Stava annottando quando giunse a casa, prima dell’ordinario. Il cigolìo lieve del cancello fu avvertito dalla moglie prima ancora della consueta scampanellata. Corse ad aprire, la donna, col Luigino al seno, e si trovò lì il marito, che aveva sulle labbra un sorriso gioioso e un po’ imbarazzato, e le mani piene di roba. Lo accolse con un vociare lieto e lo abbracciò col braccio libero, intanto che lui si sbarazzava dei pacchetti e posava lo scatolone. Poi gli cedette Luigino, che aveva il viso serio, preoccupato. -Cosa c’è qui dentro, Andrea? -Una cosa, sai … Guarda, guarda se ti piace. -Prima i fiori. Oh, che belli! Grazie, Andrea - e lo baciò, tutta eccitata, su di una guancia. Poi slegò lo scatolone e lo aperse, dando in una sbalordita esclamazione. Passò la mano, con desiderio intimidito, sulla molle pelliccia; poi si volse verso di lui con gli occhi luccicanti.

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-Per me … - mormorò deglutendo. –Chi sa quanto … - e non le riuscì di articolare una sola parola di più. Entrambi si sentirono diventati più importanti di prima. Anche Luigino battè le manine, ridendo tutto contento. La sua preoccupazione di prima non aveva più alcuna ragion d’essere: la pipì tiepida ormai aveva trovato ricetto nella tasca del papalino … ************* Sembra una cosa banale, ma succede quasi sempre così, quando uno proprio non ci pensa. Pochi giorni dopo, Andrea veniva richiamato alle armi. LIV Il sottotenente degli alpini Andrea Mestica, tirato a lucido e un po’ impacciato nella divisa nuova di zecca, uscì dalla caserma nel tardo pomeriggio. La sentinella s’irrigidì nel saluto, quindi riportò l’arma al fianco, battendo forte il piede sulla pedana di legno, che risuonò sordamente. Il giovane sottotenente aveva la testa indolenzita. Traversò l’asfalto e si fermò sotto gli alberi del viale, ancora privi di foglie. Accese una sigaretta, poi si diresse macchinalmente verso la fermata del tram. Gli passò vicino un alpino che portava sotto il braccio una borsa di pelle e che lo salutò con quella strana forma di rispetto confidenziale e un po’ insinuante che gli scrivani dei “comandi” sanno avere con qualsiasi ufficiale, anche mai visto. La carrozza tranviaria non era ancora in vista. Andrea si voltò a riguardare l’edificio militare seminascosto dall’intreccio dei rami ancora spogli. Col suo colore rossiccio, aveva qualcosa di molto triste e rassegnato: il suo aspetto non era davvero molto confortevole. Andrea vi era entrato poco prima, con un diffuso senso di malessere … forse per i piedi che gli stavano piuttosto stretti negli stivali. O, più probabilmente, perché, di là da quella soglia, c’era ad attenderlo l’ignoto, con tutto quello che comporta, di fascino e di paure. Di paure, soprattutto, per lui. Per l’androne squallido e vasto era salito alle strette scale: tutta una rampa di gradini consumati e piuttosto sfuggenti, che si inerpicavano verso l’alto, poco rischiarati e malinconici. Un grosso maresciallo, che stava seduto dietro uno scrittoio ingombro di scartoffie e che non si era manco sognato di scomodarsi al suo entrare, saputo di quel che si trattava, aveva bofonchiato: -Ah sì, sapevo, sapevo … Ed aveva continuato a scribacchiare chi sa che cosa. Poi aveva rialzato il cranio piuttosto levigato, per aggiungere: -Attendete pure qui. Il signor colonnello verrà fra pochi minuti- ed aveva ripreso a compilare meticolosamente un modulo. Aveva le orecchie larghe e grasse ed una scrittura esile, a svolazzi minuti. Dopo un quarto d’ora, trascorso senza che il colonnello si facesse vivo, aveva aggiunto, quasi con degnazione, come se l’intruso gli gravasse sulle punte dei piedi: -Si vede proprio che il colonnello oggi viene più tardi.

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Meglio uscire, da quell’ufficio. Il cranio lucido del grosso maresciallo era riuscito terribilmente antipatico ad Andrea. Ci avrebbe pestato sopra i pugni. E, forse, quello sarebbe risuonato come una zucca vuota e secca. Aveva traversato il ballatoio. Vicino ad una porta, sulla quale c’era la scritta “Magazzino”, sporgeva la mensola in legno di uno sportello praticato curiosamente nel muro, come se si fosse trattato di una biglietteria. Era presente, per tutto, un sentore greve e acido di pagnotta andata a male, di briciole, di chiuso, di muffo, di calze sporche. Andrea era passato in un lungo stanzone, dove un soldato stava radendo la barba ad un suo compagno. Intingeva il pennello nel coperchio malconcio di una gavetta e si vedeva che doveva essere del mestiere, da come brandiva il rasoio. Altri soldati erano seduti su alcuni sgabelli e giocavano a carte sui tavoli di legno grezzo, bordati da una consistente reggia di ferro. Giocavano a soldi, quelli che ne avevano. Altri leggiucchiavano, risolvevano parole crociate o scrivevano cartoline in franchigia. Quando era entrato Andrea, un ufficiale sconosciuto, avevano alzato il capo, a considerarlo con una cert’aria di sospetto … Poi si erano messi tranquilli, come prima. Là dentro, i sentori sgradevoli erano anche più aspri, e a quello del fumo si confondeva quello che persiste, stagnante, dove molti corpi, in grigioverde, vivono in comune: qualcosa di dolciastro e acetoso, tiepido. I “castelli” di legno si drizzavano in fila, a due piani di altezza. Sulle travi più grosse erano appuntati i cartellini coi nomi, cognomi e gradi degli “inquilini” rispettivi. I materassi erano costituiti da pagliericci poco consistenti, poggiati su una rastrelliera orizzontale di listelli. Coperte, lenzuoli, zaini, tutto era disposto in modo uniforme, disciplinatamente. Ecco, ciascuno di quei soldati aveva un letto soffice, a casa; e il lusso di un guanciale, e le carezze di una mano femminile. Almeno una, sicuramente. E gli occhi buoni della mamma, o della moglie, o della sorella. Anche per Andrea era stato così, fino al giorno prima. Adesso,invece, chi sa cosa potrebbe succedere. Forse … poteva anche darsi, già!, fra pochi giorni le sue membra istupidite sarebbero sulla terra nuda dell’Albania, dove si sta facendo la guerra, dove uomini ammazzano altri uomini senza un motivo al mondo … Un brivido era corso per le ossa, ad Andrea. Ma la ribellione era impossibile: se bastasse dare in escandescenze, perché le cose si modifichino, ci sarebbero occasioni in cui una mezza umanità urlerebbe esasperata ai quattro venti. Si era scosso quando tutti gli alpini della camerata erano scattati in piedi, facendo precipitosamente sparire le carte da gioco: qualcuno batteva i tacchi sul corridoio. Un grande silenzio era intervenuto, repentino: era arrivato, evidentemente, il Colonnello. Andrea era stato introdotto quasi subito; e le presentazioni ed il colloquio erano avvenuti con rapidità. Alle prime incerte parole di Andrea, il colonnello aveva già incominciato il suo discorso: -Dunque, lei, da quanto tempo è congedato? -Oltre cinque anni, signor colonnello; dopo la prima nomina … -Bene. Resterà qui, per intanto. Così ha tempo ad orientarsi un po’. Passerà alla Compagnia Deposito.

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Andrea avrebbe voluto chiedergli qualcosa di più, dirgli qualcosa ancora, pur senza avere idee precise in proposito. Aveva sentito con grande precisione che dalle parole e dall’umore di quell’uomo dipendeva il suo domani, immediato e futuro. Ma non aveva avuto tempo ad aggiungere altro: l’udienza era finita. Il colonnello ormai aveva premuto un campanello: -Si metterà a disposizione del capitano Mazzaretti. Passi da lui domattina, nel suo ufficio. E Andrea si era ritrovato nel corridoio, come spinto fuori da una mano più forte. Il programma della presentazione, che aveva tanto rimuginato nelle giornate precedenti, era andato a farsi friggere in quattro e quattr’otto. -Mah, staremo a vedere. Intanto, la Compagnia Deposito da qui non si muove … Fuori dalla caserma, riguardandola, si sentiva ancora un po’ trasognato per la velocità dell’incontro e di tutto quanto. Aveva l’impressione di trovarsi ai limiti pericolosissimi di un ingranaggio sconosciuto ed implacabile. Si trattava, adesso, di non cadere fra le ruote, di non farsi trascinare nel risucchio. Di aprire bene gli occhi e di girare a tempo con tutto il meccanismo, pena il rischio di esserne stritolato o travolto. LV Ci riuscì egregiamente. Non faticò molto a comprendere qual era il momento di scattare e quale, invece, di “fare il morto”. Imparò che i superiori basta prenderli per il loro verso. Che non sono poi così orsi. Che hanno le loro debolezze ed i punti particolarmente sensibili al solletico ed alle carezze. Ciascun uomo avendo infiniti punti deboli, non è molto difficile – appena ci si impieghi un po’ di acume – saperli individuare, e cercarne profitto. Ci si mette nella loro orbita, si segue la loro scia. Si rinuncia al gioco dei “perché”, magnifico fin che si vuole, ma che rende ostile tutta un’umanità. Rendersi preziosi e via via necessari ed indispensabili è cosa che anche ad un individuo mediocre può riuscire bene, e talora anche senza eccessivo sforzo di meningi. Andrea, annullata la proprio personalità, si rese conto che – per non essere allontanato dal Deposito – gli bastava entrare, per il momento, nella “manica” del suo capitano: rendersi in breve insostituibile, insomma! Da zelante impiegato quale sapeva essere per una consuetudine ormai da anni, trovò modo in pochi giorni di introdursi abilmente nei delicati segreti del carteggio: gli bastarono alcuni permessi supplementari ad un sergente maggiore e ad un paio di graduati … Una volta, poi, che si fosse ben impratichito, sarebbe diventato un secondo “ecce homo”, un “sotto-dio” della Compagnia: l’impresa erano in più di uno a tentarla, ma ne valeva la pena. Del resto, se fosse stato necessario, avrebbe anche fatto istruzione ai soldati, nel vasto cortile, gridando come il più paesano dei caporali. Pur di restare lì. C’era il “pallino” della disciplina, al Deposito. E Andrea imparò ad affibbiare robuste “consegne”, evitando però, con la più grande cura, di punire quelli che godevano di particolari posizioni. Per un fenomeno molto comune e diffuso di

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vigliaccheria, Andrea non sentiva affatto sminuita la sua autorità, chiudendo un occhio per costoro. Non si sa mai: possono avere, talvolta, l’occasione di un risentimento; e un nome o una frase buttati lì, come per caso, davanti a un superiore, possono essere raccolti e diventare, senza che uno se lo aspetti, la fonte di tanti grattacapi. -Un sottotenentino per i complementi … Mah sì, mandiamoci quello, che sembra tanto un galletto! Eh? No, no. Meglio, se del caso, pagare anche il cinema, agli inferiori, per far pesare loro – che se ne ricordino – la propria benevolenza. Se sei utile, se ne ricorderanno: se non per gratitudine, per tornaconto. E intanto, con la più oculata cura, evitava di entrare comunque in contatto con tutto quanto riguardasse le armi ed il loro impiego. Che diamine, pensava, un ufficiale che non conosca bene neanche la “breda”, non lo si potrà mica mandare al fronte, così, sui due piedi … Riuscì a farsi dare un cadreghino dietro uno scrittoio. E un giorno – non avevano certamente fatto danno certo burro e certi salamini del Cascinone – trasferì gloriosamente nell’ ufficio Amministrazione le sue qualità tecniche di contabile. Avere il padre proprietario di una fattoria in campagna, non aveva mai supposto che potesse essere così importante! A quel punto, la sua depressione incominciò a scomparire. La guerra durasse pure: lui era a posto, e non si sarebbe mosso più. Succede talvolta che gli invii regolari di ghiottonerie tesserate contino anche più delle autorevoli raccomandazioni dei vari papaveri … Così, si sarebbe trasformato – e di esempi ne aveva tanti, intorno, e per copiare non è necessaria una grande fantasia – in una delle tante ventose che, non importa dove e come, una volta aderite ad una sedia, non le si stacca più. Se si alzano, la trascinano seco. Come dell’edera, si dice: dove mi attacco, muoio … Soltanto se avesse commesso qualche grossa balordaggine, ma molto grossa veh, avrebbe potuto correre seri rischi. Ma una volta che si entra in determinati meccanismi, l’impadronirsene ed il controllarli con sicurezza diventa un giochetto. L’amministrazione militare, per buona fortuna, era congegnata tanto bene che nessuno l’avrebbe mai potuto cogliere in castagna. Neanche l’ultimo ed il più fesso dei caporal maggiori (ma la sanno tanto lunga, tutti quanti!) si farebbe pescare in fallo. Inoltre, il sottotenente Mestica aveva questo innegabile vantaggio, su molti colleghi: di essere amministratore preciso, zelante e rigidamente onesto, anche se in seguito gli capitò, poi, di dover qualche volta “lasciar correre”. Questione di unto, coi tempi che correvano, perché le ruote non cigolassero! Come agevolmente fin dall’inizio aveva saputo acutamente discriminare tra i soldati punibili e non, così anche questo diventava un gioco infantile, man mano che vi si impratichiva. Un vero e proprio divertimento. La sua coscienza si era andata trasformando in qualcosa di molto elastico; ed aveva pronta la giustificazione, per zittirne i malumori: c’era di mezzo la sua personale conservazione e il desiderio, a tutti i costi, del quieto vivere. Se poi il

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prezzo era quello di mandare altri a farsi impallinare al suo posto, non era colpa sua. Non poteva provvedere, evidentemente, a salvare se stesso ed anche gli altri … LVI Andrea, uscito dall’ufficio, si ritrovò, di sotto, col tenente Zanaldi. Era da alcune settimane che si erano conosciuti e – siccome avevano un buon tratto di tram da percorrere insieme – era nata fra loro una certa familiarità. Solevano pagarsi il “ponce” a vicenda, e il caffè; e un paio di volte erano stati al cinema insieme. -Oh, giusto te!- gli fece Zanaldi. -Ti stavo appunto cercando. Stasera, hai qualche impegno? -È giovedì, avrei da scrivere a mia moglie. -Ci sono cose grosse, stasera. Meglio dei bombardamenti aerei, stai tranquillo. Cose allegre. C’è in vista una festicciola coi fiocchi. Il viso lungo e glabro di Zanaldi era compiaciuto. Una fossa più profonda del solito gli staccava il mento, appuntito, dal labbro inferiore. E gli occhi erano eccitati per la golosa faccenda in cui poteva attirare l’amico. -Ecco, io veramente non avrei gran voglia di muovermi, stasera. Ho anche comprato un romanzo nuovo … -Sì, il romanzo … Dà retta. Si tratta di non essere preti. Non è questione di averci voglia o no. Non essere ridicolo ad attaccarti all’ombra di “mia moglie” … Se fai così e pianti il muso, ci guasti la serata e ti fai mandare al diavolo: meglio se non vieni, allora. Puoi anche giuggiolarti in pace il tuo romanzo! Ma, ohè – e qui strizzò un occhio – alla moglie, te lo dico io, ci penserai poco. Non ti resterà il tempo e il fiato. -E come sarebbe, ‘sta festa? -Quattro pastorelle da sgranocchiare; c’è da berci sopra, buono e abbondante. E il tutto con radiogrammofono e certe figliole che … ti dico io, roba da sultani!- e portò alle labbra, riunite, le punte delle dita, schioccandovi sopra un bacio fresco. Allontanandosi dalla caserma, avevano ormai superato la fermata del tram. Continuarono un altro tratto a piedi. -E perché proprio io? -Sei un tipo adatto, mi sembra. E ti svaghi una volta. -Sta bene. Ci vengo. Ma non sia una fregatura … -Se lo è, ti pago da bere, d’accordo? Allora … mi passi a prendere verso le ventuno, nella mia camera. Ci saran delle maschiottine, vedrai … una “cannonata”! LVII Andrea fu puntuale, e Zanaldi gli venne ad aprire in maniche di camicia. Le bretelle gli spenzolavano giù, e stava dandosi gli ultimi ritocchi: era di turno il nodo della cravatta. Nella camera c’era un ameno disordine. Un tavolinetto rotondo era ingombro della più svariata mercanzia. Alla rinfusa, ci stavano sopra delle lettere, una boccetta d’inchiostra, una sveglia in stile moderno, un barattolo dischiuso di crema per barba,

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un paio di polsini grigioverde, un “Manuale di Regolamenti”, dalla copertina gialla, un romanzo aperto sul quale posavano una minuscola armonica a bocca ed un fischietto di bachelite. Sul letto erano sparsi vari indumenti, ed anche il marmo del comò offriva uno spettacolo non meno interessante, ingombro com’era di cravatte, guanti e boccette. Da un cassetto semichiuso sporgeva il nastro stupidamente roseo di un sospensorio. Zanaldi, là dentro, si muoveva con la più grande disinvoltura. -Se ti vuoi preparare una tazza di caffè, lì c’è la macchinetta con tutto l’occorrente- e gli indicò un altro tavolino. -Però, vedi di far presto, che sono subito pronto- e ficcò una mano in un cassetto, a colpo sicuro, traendo miracolosamente una vistosa spilla, che appuntò alla cravatta. Quindi trasse una fialetta di profumo, se ne fece cadere alcune gocce su di un palmo aperto e si soffregò energicamente il viso appena sbarbato. -Accidenti, se brucia!- Le gote avevano assunto un incarnato più vivo, come scottate. -Ti serve?- e tese la boccetta ad Andrea. Pochi minuti, e uscivano nella notte. Viaggiarono su di un tram, fino al capolinea. Indi, camminarono ancora a piedi almeno per cinquecento metri. Costeggiarono un fossatello che si snodava fra i prati e le case basse, vecchie. L’acqua lucesceva un poco, bluastra e nera, riflettendo la remota luce delle stelle, e se ne scorreva via silenziosa, torbida, come fuggendo nella notte per qualche colpa. Giunsero, finalmente, ad una siepe che delimitava un sentieruolo. La interrompeva un cancelletto di legno. Entrarono in giardino e si arrestarono sotto un piccolo portico. Nell’ombra, era emerso un villino a due piani. Zanaldi aveva fatto strada con la lampadina tascabile. Sotto il portichetto non vi era alcun pulsante elettrico, ma pendeva una funicella intrecciata, con un grosso fiocco in fondo. Dall’interno giungevano le note di un ballabile ritmato. -Alè- fece Zanaldi. E diede una serie di strappi, decisi. Gli rispose uno sbatacchiare limpido e un gridío di voci femminili. -Il regno delle meraviglie- annunciò una voce gioconda e troppo acuta -si dischiude ai nuovi matti! La porta si spalancò con un fascio violento di luce, che investì i due ufficiali. Alcune adolescenti si accalcavano, festose, nello stretto andito. LVIII Andrea non aveva alcuna voglia di riflettere o di pensare a malinconie. Del resto, proprio non ne sarebbe stato il caso. Venuto per divertirsi, si sarebbe divertito. Il particolare dell’essere ammogliato, nessuno gliel’aveva chiesto e, con ogni probabilità, non importava granchè, là dentro. Si trovava, adesso, in una vasta sala, arredata con discreto buon gusto. Le presentazioni erano avvenute in modo irrazionale e veloce.

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-Questo è Gioggio nostro, per chi non lo sapesse- aveva informato una brunetta d’un diciott’anni, prendendo sotto braccio Zanaldi. -E questo si chiama Andrea. Gioggio mi ha parlato bene di lui. Adesso, arrangiatevi da soli … - ed era corsa a mettere un nuovo disco. -Il brindisi, eh … lo faremo dopo questo ballo. Andrea non aveva provato troppo disagio, pur essendogli l’ambiente del tutto ignoto. Non era mai stato un gran ballerino ma, vista a tiro una monella bionda che indossava, discretamente scollata, una camicetta scarlatta a fiori bianchi, s’era messo a danzare con lei. Dalla ragazza emanava un profumo troppo forte. Disse di chiamarsi Lucina e di essere studentessa del secondo anno di legge. Protestò indignata, perché le era stata rivolta la parola in terza persona. -Nella nostra “ganga”, ci si dà del tu, se no si paga da bere robustamente-. Liberò la destra dalla mano di lui, per far schioccare forte le dita. –Guarda che ti avverto una volta sola, poi ti denuncio, per il “linciaggio”, se ci ricadi … - e gli si era abbandonata, senza alcun ritegno fisico, col fremito inquietante del suo morbido corpicino. Perdiana, se era femminile, costei! L’avrebbe detta ancora bambina, ma la doveva sapere parecchio lunga. Il contatto dei suoi seni, acerbetti, era conturbante. E la sua pelle, fine e tiepida, sembrava cercare carezze. Le gambe, nella danza, avevano movimenti scattanti e sapientissimi. -Mi chiamo Lucina, ma per la ganga sono Luci, se no c’è la scomunica o la pena di Tantalo … In che cosa consistessero, queste oscure pene, essa non spiegò; né Andrea glielo chiese. Luci stessa aveva aggiunto che, ballando, non si parla di cose serie. Venne il brindisi per l’iniziazione del nuovo adepto. Fecero circolo intorno a lui, inginocchiato. Lo chiamavano “cucciolone”, “tordello” e “signor maresciallone nostro” … Dela, con un visino da casta-susanna, si drizzò in piedi su una sedia e, tra il vociare dei presenti, lesse una formula stravagante, piena di parole storpiate e convenzionali, intanto che Luci faceva inghiottire ad Andrea una pozione da mozzare il fiato, di vari liquori mescolati assieme, il “coctello da pazos” … Indi fu fatto alzare e, al grido di: alé, alé, alé, la ganga!- furono attaccati voracemente due cabarets di paste ed i calici di vino biondo. Andrea, per non aver gridato in coro, fu condannato a baciare – in fronte soltanto, veh! – tutte le ragazze presenti meno, per motivi particolari, Ciana “la protettrice”. Era decisamente stordito, Andrea. Per un attimo aveva pensato di piantar lì baracca e burattini, e di andarsene. Cribbio, in Albania si muore. In Africa si muore. Si muore un po’ dappertutto. A quest’ora ci sono soldati, a milioni, che soffrono chi sa quanto. Decine di milioni di persone con pensieri di tristezza. Non è delitto consapevole e volontario, questo istupidire da babbei, questo folleggiare scemo? Luci gli si accostò: -Cosa fai, qui, tutto solo? Sei sperso, povero passerottino. Vieni sul mio cuore, che ti consolo … Ehi, tu, vedrai che ci starai bene- e gli si sedette sulle ginocchia, passandogli un braccio al collo, con confidenza.

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Mah sì, se domani non sappiamo quel che sarà di noi, perché buttare l’oggi alle ortiche? Sarebbe davvero migliore l’una donna dell’altra? L’un uomo del suo prossimo? O non è forse che il migliore è l’eterno minchione? Appiattirsi in se stessi: e perché, poi? Vale la pena proprio di non viverla del tutto, la tua giornata, con quel poco che ti offre? Altri tempi, quelli della filosofia della rinuncia e dell’ascetismo. Però … però … -Sei carina, Luci. Hai un muso da leprotto, che consola. Quanti anni hai? -Tutti i tuoi meno quelli della balia, curiosone sfacciato. Cosa ti fai, degli anni che ho io? Sono tutta qua, non ti basta?- e gli strizzò un occhio, con disinvoltura. -Ehi, lo balliamo, ‘sto tango, o ce ne stiamo a muffire? E lo trasse in piedi, nella musica languida che partiva dall’altro angolo. Totò, grosso mattacchione, tra il coro delle proteste … indignate delle coppie, non la smetteva di girare l’interruttore, dando e togliendo la luce. Quando tutto era spento, la musica carezzevole pareva avere una forma fisica e restavano, a brillare nel buio, solo le lampadinette dell’apparecchio, filtrate in rosso, giallo e verde dal quadrante delle stazioni-radio. Andrea respirava, con l’atmosfera incredibile di quella sala, l’acuto profumo dei capelli di Luci. La sua guancia, appoggiata alla guancia della fanciulla, era calda calda, e non soltanto per la temperatura ambiente. Quel contatto di esuberante adolescente, resa anche più viva dall’eccitazione del ballo e dalla vicinanza dell’uomo, gli faceva rimescolare, suo malgrado, il sangue. Dovette fare uno sforzo su se stesso e pensare a casa, per non premervi le labbra. Ma la capigliatura non cessava di solleticarlo fastidiosamente, causandogli una vera sofferenza fisica. Lasciò Luci, determinato a squagliarsela dal villino. Poi si diresse al radiogrammofono. Una giovinetta, bruttina ma ben in carne, gli si avvicinò a passo di danza e con un seno gli carezzò un omero, insistendovi un poco. Ma non sembrò neppure che se ne fosse accorta: come se lo avesse urtato per caso, andò alla discoteca a far passare le pagine di un grosso album. Andrea non riusciva a comprendere se la sensibilità di quelle ragazze fosse completamente scomparsa (quel seno che aveva indugiato a premersi contro di lui non aveva interessato per nulla la sua proprietaria; ed il comportamento di Luci non aveva una spiegazione logica) o se invece, per un’inconsueta raffinatezza di vizio, esse acuissero in tal modo i loro sensi, per morbosa esasperazione. Vai a capirle, queste adolescenti! Non era tuttavia il caso di approfondire il problema o di trarne delle illazioni avventate. Alla fine, poteva essere tutto naturalissimo: le sue esperienze in fatto di donne erano state sempre molto modeste. -Adesso, però, me ne vado davvero … Però, prima, metto sotto i denti quell’africano di buona cioccolata così bene in vista sul vassoio. E, mah sì, posso ben fare ancora un ballo; è ancora presto … Avrebbe danzato ancora con Luci. O, forse, no. Era meglio un’altra. E non chiederle neppure il nome. Tutte erano la stessa cosa, del resto, per lui. La scelta cadde su di una giovinetta che indossava un vestito leggero, di un verdolino smunto e vaporoso. Aveva il corpo agile e snello. Si diresse verso di lei, proprio mentre Luci, manovrando tra le coppie, stava per raggiungerlo. La biondina

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lo guardò con una smorfia di disapprovazione canzonatoria appena accennata, scrollò la testa e affondò i denti in un panino farcito. Le sue labbra erano disegnate da un rossetto vermiglio, un po’ aranciato. Andrea continuò per un pezzo a decidere di andarsene, e intanto faceva sempre l’ultimo ballo. Con Luci. Naturalmente. Era quasi l’alba quando lasciò il villino, con Zanaldi. Giorgio, quando furono oltre la siepe, gli scappò dicendogli: -Mi dimenticavo, eh … una cosa importante. Avviati. Ti raggiungo subito. Andrea s’inoltrò da solo nel sentierucolo, al buio. Il silenzio della campagna e della città – invisibile per l’oscuramento – era perfetto: e in esso le sue orecchie percepivano distintamente il ritmo agitato di una canzonetta, ed una voce stridula che belava: alé, Nani, metti su uno “svingo”, come se piovesse!- Quella voce pareva provenire non dalle labbra, ma dal collo di una ragazza ossigenata. Nelle nari di Andrea persisteva, profondo, il profumo di Luci. Nelle nari e nel sangue. Dopo poco, Zanaldi lo raggiunse, fischiettando. LIX Andrea, adesso, viveva alla giornata. Un vivere calmo, che non voleva pensieri e non andava in cerca di domande angosciose. Si poteva durarla, un’esistenza così, malgrado tutto. Resistere, come dicevano. Anche la guerra in Albania era giunta alla conclusione. E il disastro sfiorato e verificatosi soltanto parzialmente parve essere stato solo più un incubo pauroso. Un velo più sereno si distese sulla faccia della gente, anche se non si intravedeva per nulla la fine della disperata avventura, che sembrava giunta, adesso, ad un punto morto. La Gisa stava bene, Luigino cresceva a vista d’occhio, grassotto, vivace. Nelle brevi pause di licenza, ad intervalli di quindici o venti giorni, Andrea si recava al Cascinone a trovare i suoi “sfollati”. Per essi provava un affetto ponderato, che egli stesso non avrebbe saputo definire: non era per nulla l’amore impetuoso di un giovane, e nemmeno il senso quasi di sufficienza di un uomo maturo, che accetti un fatto compiuto. La moglie e il figliolo erano persone a lui molto care, questo sì, ma anche molto lontane, quasi estranee. La consuetudine – e ciascun uomo, anche senza avvedersene, è malato di consuetudini e un po’ loro schiavo – gli aveva resa necessaria la Gisa, elemento moderatore del suo vivere quotidiano; e, per il bambino, non sapeva bene neppure lui quello che davvero sentisse … Mamma Minghin sosteneva che Luigino assomigliava molto al papà, che era tutto lui, specie quando ficcava le dita nel naso o pestava i piedini, ma Andrea non era proprio riuscito ad individuare questa somiglianza: del resto, che importanza poteva avere? La moglie e Luigino: due compagni assegnatigli dalla sua sorte: un peso da portarsi sulle braccia fino alla conclusione. Tuttavia, non un peso inerte, di quelli che affaticano per la loro fissa immobilità. Riusciva ad essere rasserenato, anzi, attraverso il sorriso mite della donna e per il gridío festoso del bambino! Un peso caro, infine.

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Un fardello umano di persone vive e di affetti; un fardello lieve, che entrava nei suoi pensieri con intensità non troppo forte, senza provocare turbamenti. Non era mai successo che la Gisa lo affliggesse con domande o curiosità capaci di infastidirlo o di irritarlo. Creatura onesta e buona, si contentava del buon amore tranquillo del marito, non chiedeva di più. Per il rimanente, la sua sensibilità l’avrebbe avvertita in tempo a non commettere errori irreparabili. Già, perché nella vita associata di un uomo e di una donna, l’irreparabile è assai più imminente di quel che comunemente si supponga. Basta un pensiero che venga una volta: questo è il pericolo! Perché, una volta che si è affacciato, ritornerà. Se non oggi, fra un mese o due anni, ma ritornerà. E se il sistema nervoso non è del tutto equilibrato, in quell’istante, se la digestione è più di altre volte laboriosa, se una qualsiasi ragione già provoca turbamento, qui è il rischio. Anche una disfunzione fisica banalissima può compromettere tutto un avvenire coniugale … Il rimedio sarebbe di non pensare mai, di cacciare le idee dalla testa, prima ancora che vengano e si precisino. Il guaio è che la testa è fatta proprio per pensare … Un matrimonio impostato su considerazioni e premesse del genere sarebbe in grado di sfidare molte burrasche. Si tratta, infine, di non volere come nostre le cose che nostre non sono. Di rispettare la personalità di chi ci sta accanto, con tutte le sue esigenze fisiche e dell’intelletto. Talvolta ci si può anche riuscire. Tutto questo, Andrea lo possedeva senza rendersene conto. Lui badava a vivere come in vacanza, una di quelle vacanze che aveva sognato quand’era studente, e non avrebbe mai immaginato di realizzare. Dato che in guerra non ci sarebbe certamente andato, le ansie e le paure erano scomparse e si sentiva diventato indulgente, verso se stesso e verso il prossimo. Viveva con facilità, rasentando la spensieratezza di un giovanotto. E la villetta alla periferia? La frequentava, naturalmente. Anzi, le visite andavano intensificandosi, sempre con quel Zanaldi. Anche Andrea, adesso, aveva imparato a giostrare con disinvoltura in mezzo a quelle straordinarie minorenni, il cui più grande desiderio pareva essere quello di indurre e di essere indotte in tentazione quante più volte possibile. Se poi da quelle riunioni nascesse per tutti i frequentatori qualcosa di concreto, non se lo chiedeva neppure. Sapeva che Zanaldi se l’intendeva con una, ma fino a qual limite non gli interessava affatto. LX Si era di giugno. Serata morbida e tiepida. Un tramonto rosato, luminoso di molte nuvolette chiare, aveva spento la luce adagio adagio, come volesse trattenerla per un poco ancora. Le cose, a poco a poco, si erano andate appiattendo, e le ombre si confondevano con le ombre, in una scura uniformità. I rilievi svanivano insensibilmente in un grigiore solo. Andrea diede una strappo vivace al grosso cordone rosso. Apparve Nica, e lo prese per mano, conducendolo nella sala. Era tutta addobbata di festoni colorati e grandi veli trasparenti scendevano dall’alto in corrispondenza delle porte e delle finestre. Fra poche ore ci sarebbe un trattenimento fuori dell’ordinario, per

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festeggiare l’ingaggio di una nuova socia: Deli, che nessuno dei maschi ancora conosceva, ma che era stata definita come “un acquisto assai redditizio”. Su proposta di Zanaldi, Andrea e Nani, si sarebbe provveduto – a spese mascoline equamente ripartite – ad uno spuntino di “robustelle” e bianchissime pagnotte imbottite di mangerìe varie, provvedibili dai “signori marescialli” i quali sembrava lo potessero fare senza eccessive difficoltà. E poi, frutta e dolci, il tutto egregiamente annaffiato. Le ragazze avrebbero provveduto all’arredamento e all’addobbo, importantissimo, secondo loro, quasi quanto il prosciutto. All’arredamento e a tutto il resto, si capisce. Andrea era venuto a ispezionare, prima di cena. Fu soddisfatto. Gli dispiacque soltanto, ma non lo disse a Nica, di non averci trovato Luci. Non sarebbe venuta che dopo, la biondina. LXI Deli era una figliola davvero “scicche” e non deluse l’attesa e gli apprezzamenti formulati sul suo conto. Era piacente: aveva un visino furbo e sapeva sorridere con molta grazia, attraverso i denti sani. La sua espressione rasentava una faceta sguaiataggine, ma essa sapeva reggersi bene, sul filo tenue di una volgarità appena accennata. Sembrava di intuire, in lei, un che di nascosto e di verecondo: e questo la rendeva anche più interessante. Poteva avere ventun anni e ballava bene. Aveva il collo rosato, modellato con l’invitante carnosità di una “Grazia” botticelliana. Si era brindato molto copiosamente, e anche adesso che con vivacità si era data la stura alle danze, le libagioni proseguivano abbondanti. Come avere un’arsura fierissima in gola e, per placarla, bere altro fuoco, a rendere più vasto l’incendio. Certi biscotti salati parevano fatti apposta per eccitare la sete. Luci era anche più vispa del consueto, aveva affermato di trovarsi in forma. Si era aggrappata ad Andrea – e Andrea a lei – sin dall’inizio della serata. Indossava un vestitino leggero, di seta pallidamente verde. La sua pelle fine risaltava con tonalità insospettate. La scollatura, quadrata, lasciava intravedere il solco più ombrato dove i seni si separano l’uno dall’altro: e da quella sinuosa linea indistinta Andrea non sapeva distaccare il pensiero agitato. Danzando, le loro cosce non erano separate che dal contatto sfuggente e vaporoso della seta, la quale, invece di rendere concreto il distacco dei due corpi, pareva che ancora più avvicinasse la donna, nella sua nuda e calda femminilità, all’uomo che la stringeva fra le braccia. La musica era quella di tutte le altre volte, ma aveva qualcosa di più voluttuoso, era piena di languore e di espressivi sottintesi. I singhiozzi del saxofono parevano vivi richiami di una spossatezza amorosa, che trasse a sé irresistibilmente chi sul suo ritmo si fosse lasciato cullare. Un andare alla deriva, dolcissimo e insensibile, in un’onda che ti prende a sé,in un fascino inquietante che non ha più confini, di nessuna specie. E concedersi tutti. Lasciarsi portare via, aiutando un poco l’onda, ma adagio adagio, per non romperne la natura ignota e meravigliosa. Andare con essa, che trascini via, non importa dove.

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Luci aveva bevuto un po’ troppo, e adesso – forse senza apprezzarlo compiutamente – assumeva pose e movenze particolarmente invitanti e lascive. Ad Andrea sembrò di aver preso un’ubriacatura sola: di lei e del vino. Non si chiese quando e se sarebbe passata. Ad un tratto premette fortemente le labbra sui capelli della ragazza, e gli rispose la mano di lei, che lo unghiò intensamente alla schiena, traendone un brivido strizzato e vibratissimo. Andrea non desistette dal bacio, ed essa ancor più intensamente si strinse a lui. Le loro tempia battevano forte. Il tango tacque con l’ultimo fiato sospeso di un violino. Sedettero, l’una sulle ginocchia dell’altro e bevvero ancora, a gola piena, perché quella sete si saziasse. Ma il fuoco era vivo più di prima: ne avevano le guance avvampanti e gli occhi liquidi. Le loro membra non riuscivano a quietarsi. Luci gli passò un braccio intorno al collo, nel gesto ormai consueto, e si raggomitolò in lui, come una gatta viziosa che vuole le carezze. I seni si sollevavano e si abbassavano con frequenza, disordinatamente. Fece correre le labbra fino all’orecchio di lui: -Drea, Drea, sono stata tutta per te, subito dalla prima sera. Non mi era mai successa una cosa simile. Gli occhi le erano diventati luminosissimi. Lo guardò fisso: -Ma tu non capisci niente, sei un somaro. Dammi da bere, Drea, dammi da bere, che sto bruciando. Brucio di te o di moscato?- e motteggiò: -Questo, è il problema! Le braccia di lui la serravano come in una morsa, ma essa non avvertiva alcun male. Una mano indugiò a carezzarle il seno: era sodo e fremente. -Ti desidero pazzamente, Luci, forse da sempre. -Non è vero, dite tutti così. Non mi serrare tanto forte, mi manca il respiro … La sua voce aveva un’intonazione lamentosa, di bambina stanca. Quasi singhiozzò: -Dammi da bere, poi balliamo, balliamo ancora. Balliamo sempre, Drea, sempre, noi due soli. Mandali via tutti, loro … Bevvero. Ballarono. Ancora bevvero. Improvvisamente Andrea si alzò, barcollando un poco. Chi baderebbe a loro? Di troppo aveva bisogno ciascuno, là dentro, per far caso a se stesso. Aveva preso per mano Luci, che lo seguiva docilmente. Passarono, aprendosi a fatica un varco tra le coppie che danzavano sgangheratamente, e uscirono sul corridoio. -Dove mi conduci, Drea?- chiese la ragazza, appoggiandosi ad uno stipite e scoprendo i grandi occhi chiari. Per tutta risposta, egli la baciò con furia sulla bocca. Le unghie di lei gli penetrarono negli avambracci. -No, Drea, fuori no, non vengo. Da bere … Non vengo, no! Ardo, Drea … Gli ficcò una mano fra i capelli, scomponendoglieli tutti. E, siccome lui l’aveva abbracciata con una certa veemenza e la spingeva verso l’uscita: -Ohoo, Andrea, di no! Ti ho detto che non vengo. Sii buono, Drea, baciami ancora. Ma non qua, no … ignorante … - e scoppiò in un singulto fragoroso: -Vieni con me, invece: non ci vedrà nessuno … Spinse una porta ed entrarono, sorreggendosi l’una all’altro. Si baciarono, poi richiusero l’uscio. Sciogliendosi da lui, Luci si appoggiò pesantemente al battente.

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Andrea cercò a tastoni, nell’oscurità, il commutatore della luce, intanto che la ragazza, scivolando insensibilmente, andava a sedere sul pavimento. -Prova, Drea, com’è bello!- e alzò verso di lui il capo, per riabbassarlo subito dopo, a considerare con sguardo assorto e torbido i seni, uno dei quali lasciava intravedere il capezzolo sull’orlo della scollatura. Un mazzolino di mughetti odorosi le era infilato nei capelli. Ebbe un sorriso furbo: -È la camera di Nica, questa. Non se lo figurerebbe mai, lei, che siamo venuti a baciarci proprio qua dentro … Andrea si chinò su Luci e la trasse in piedi sollevandola di peso – una mano dietro la schiena e una alle cosce – e la portò, così, sul letticciolo basso. -Oh, Drea … cosa vuoi farmi? Non farmi del male, Drea, ti prego- implorò la ragazza. –Io … non sono mai stata di un uomo, e ti voglio tanto bene … - e soffocò il capo sotto la spalla di lui. Lo rialzò, di scatto, ad incontrare le sue labbra, che le ricercavano il collo. Poi si strinse nelle spalle, puntellandosi sui gomiti e arrovesciando all’indietro la testa. Andrea stava girando la chiave nella serratura, con grande delicatezza, perché non cigolasse neanche poco. Venne verso di lei con andatura storta, oscillando malfermo sulla punta dei piedi. Le loro bocche si ritrovarono, in una foga infrenabile di abbandono e di ricerca. Si confusero l’uno nell’altra. ****************** Era forse passato un quarto d’ora, quando una mano discreta bussò, con le nocche, alla porta chiusa. -Sono io, aprimi, sono Gioggio. Senza comprendere bene perché Zanaldi venisse a cercare proprio lui, e come facesse a sapere bene dov’egli fosse, Andrea, brontolando qualcosa d’inconcludente, andò a disserrare cautamente l’uscio. Giorgio mise dentro la testa con circospezione, si avvide con sorpresa della grossa papera commessa, e si ritirò sussurrando: -Chiudi. Chiudi subito. Io non sapevo. Ci penso io … Andrea se ne ritornò indietro verso Luci e il letto. La ragazza stava bevendo, a garganella, attaccata a una bottiglia scoperta chi sa dove. Probabilmente, non aveva neppure visto Giorgio. -Era per Nica … ma ci siamo noi. Beh, … poveraccio! Andrea ricadde sul letto con la testa pesante e fosca, e trasse ancora a sé Luci, dividendo con lei il resto del vino. Si assopì presto, riabbracciato a lei. Ma dovette durare poco. La luce era spenta, pure, vicino a lui, si levava un grugnito strano e violento. Qualcosa che si divincolava, gli pesava sulle gambe. Cercò faticosamente l’interruttore alla testata del letto, e accese. Luci, completamente nuda – le restavano le calze che, non sorrette, ricadevano rotolate lungo i polpacci – e stesa diagonalmente, stava eruttando con fragore in un orinale, che era riuscita a pescar fuori dal tavolinetto. Le palme, aperte, posavano sul pavimento di legno, e gran singulti la facevano sobbalzare tutta. C’era, nella camera, un sentore acre, acetoso. I capelli della ragazza spiovevano in disordine davanti la fronte e sulle spalle.

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Si interruppe un momento per guardare Andrea di sott’in su, con occhi spenti, come implorando. Poi riprese a vomitare. I mughetti si erano sciolti. Uno galleggiava, con la sua corolla timida e fragrante, sul bordo dell’orinale, e non sapeva decidersi se cadervi dentro oppure no. Altri erano sparsi per il letto e sul pavimento. Andrea bofonchiò qualcosa e stette a contemplare la scena con viso imbambolato, come se la faccenda lo interessasse moltissimo, ma si stesse svolgendo lontano da lui, la vedesse apparire su di uno schermo. Quando Luci ebbe finito e si distese, sfatta, al suo fianco, Andrea spense la luce e tornarono a dormire. LXII Come si fa a riflettere sulle note di un tango pieno di fascino o di uno “svingo” indiavolato? Come discernere i limiti – quali la convivenza sociale li usa imporre agli uomini – quando non si è chiesto altro che di volersene scordare, ed allo scopo hanno più che egregiamente coadiuvato il bere copioso e lo slancio fresco e prepotente di una monella scarsamente ventenne? L’indulgenza verso se stessi è una roba un po’ vigliacca, ma non è poi tanto difficile: tutto sta a mettersi il cuore in pace la prima volta. Del resto – e questa era la cosa straordinaria – Andrea il suo dovere verso casa era assurdamente convinto di farlo, convintissimo. Perbacco, non è fatta l’esistenza solamente di pensieri lontani e di reminiscenze; e neppure di materia sola, per contro … Era un grosso guaio, evidentemente, quello che gli stava succedendo. Ma da solo non avrebbe saputo giudicarsi; e agli altri non lo chiedeva certamente. Zanaldi, l’unico che sapesse qualcosa, sembrava pieno soltanto di ammirazione … No, intorno a lui non c’era proprio nessuno tanto saggio ed equilibrato da potergli dire qualcosa di accettabile, in una faccenda del genere. Era come la questione di Nerina, press’a poco. Con qualcosa di molto più complicato, per giunta … Andrea si era ritrovato, il mattino, stordito e con le tempie non acquetate. Davanti agli occhi non aveva né il viso sbalordito di Zanaldi, ficcato curiosamente tra battente e battente, né lo spettacolo penoso della ragazza che eruttava la sua intemperanza. C’era soltanto la sua nudità virginale e inquietante. C’era soltanto, nel sangue, il fremito misterioso di quell’altro sangue più giovane e anche più del suo vivo. Nessun rammarico profondo. Comprese confusamente che la faccenda avrebbe potuto anche assumere chi sa quali sviluppi: ne poteva nascere tutta una storia di compromessi, una storia brutta, da grattacapi, per corruzione e cose del genere. Nessuno meglio di Luci, studentessa di legge, l’avrebbe potuto informare bene al riguardo. Lei sapeva certo. Andrea rivide i grandi occhi di lei, pieni di offerta e di calore: era un’infamia, pensarla men che onesta e generosa … Ma guarda un po’. Sono sposato. ‘Sta ragazza lo sa: è premurosa delle notizie del mio pupo; e mi viene incontro sorridendo. Mi cerca, mi offre la sua freschezza ansiosa, la sua più preziosa primizia. Senza chiedermi nulla, neppure cosa sarà

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domani, neppure cinque minuti dopo. Un’offerta spontanea e completa come questa, è cosa da commuoverla per tutta la vita, una persona. Luci non ha cercato l’avventura, non è caduta sotto l’insidia del maschio astuto. Il vino, il ballo e tutto il resto non c’entrano per nulla. Coreografia, non necessaria. A Luci sono piaciuto da quando le ho pestato i piedi la prima volta. Le parve strano che le chiedessi scusa con voce un po’ intimidita. Mi ha guardato negli occhi, ci siamo trovati allora. Sì, certo. Altri uomini la cercavano, ma lei ha voluto me. Mi ha desiderato ed ha ottenuto di essere mia: a modo suo, ha vinto lei. Chi sa che non abbia davvero ragione, Luci, con questa sua maniera elementare e primitiva di concepire e compiere l’unione tra la femmina e il maschio … Ci vuole una certa dose di coraggio, per agire così. Una gran determinazione. Bisogna non essere dei bambini, e voler vivere la propria esistenza a tutti i costi, senza falsi compromessi e senza calcoli. C’è colpa veramente, quando è la natura che spinge e guida le azioni? C’è male veramente, quando uno qualsiasi – senza danneggiare altri, senza sovrapporsi ad altri- sceglie la sua strada e la conduce fino in fondo? Pochi uomini, Luci, sarebbero come te decisi, e come te forti, e come te generosi! A questo Drea che è qui di passaggio, fra poche ore chissà dove sarà, magari, sbattuto dalla sorte, tu hai dato tutto di te stessa, anima, corpo, mente. Dono vero e completo, non abbandono. E dono tanto più grande, perché non gli chiedi nulla: è umile, la donna che ama profondamente. Ma, nella sua umiltà, è assai più forte di tante altre, altere, che non sanno cosa sia il voler bene davvero. Non è tuo, quest’uomo, Luci: è il marito di un’altra. Ma cosa importa? Se la donna fosse lì, sarebbe da vedersi, allora, ad armi pari, a chi spetterebbe. Ma non è lì, ma c’è anche un bimbo, di mezzo. Luci consumerebbe, in un istante o in tutta la vita, lo spasimo felice della maternità, per averglielo dato lei, perché fosse di loro due. Ma rinunciare a Drea non sa, non può. Specialmente adesso. Ecco, mi prenda tutta; mi informi di sé, con lo spirito, anche le carni! Non andrà via più da me. Resterà per sempre. Il sapore, il fuoco delle sue labbra, vivo, è nella mia bocca: chi me lo toglierà mai? Ho dentro, in me, il fremito di lui. Che regalo immenso è questo, tutto per me, e per sempre. Non me lo ruberà nessuno, mai. Drea, Drea, afferrami stretta! Baciami, Drea! Fammi soffrire, Drea! Fammi male, Drea! Che miracolo, per te, così. Gli occhi si riempirono di lacrime e di gioia infinita. LXIII Relazione impostata su di un piano del tutto nuovo. Anche il termine “relazione” è usato male. Non si può parlare neppure di amore: l’hanno tanto contaminato, ormai, che è impuro lo stesso nome. Unione, semplicemente. Incontro. Trovarsi. Aprire gli occhi ed incontrare il sole. Farsi fasciare da esso le pupille, per colorirne le immagini che stanno d’attorno. Farne carezzare le membra, farne inondare lo spirito, senza neanche la più piccola riserva. Di nulla essere gelosa custode di se stessa, nulla tenere più per sé, ma porgere tutto,

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senza che richiesta ne sia stata fatta. Nulla sentire di proprio, se non posseduto in comune. Questo è incontrarsi. E il sole, nel bruciore vivo, diventare piova che bagna, che lava il corpo spossato, lo rinnova, lo purifica, lo fa rinascere. Rinfresca, dà tormento e sollievo. Comunica un brivido intenso alla nuca e sulle palpebre socchiuse a filtrarla, perché lavi gli occhi ancora e sempre di sé. Fecondare la mente con uno sguardo di lui. Traverso gli occhi, palpitare come per sangue che si confonda e diventi uno. Sentirsi al di sopra di tutte le cose umane e fittizie. E farsi ombra umile e orgogliosa di lui, sentire che per lui ogni cosa sarebbe lietamente affrontata, per un indugiare della sua mano, anche fuggevole, sui capelli desiderosi. Questo è incontrarsi. E non occorre essere andata a scuola. Basta essere “donna”. LXIV Erano circa le sedici. Un piantone entrò nell’ufficio di Andrea: -Signor tenente, c’è una signora che chiede di voi. -Come … una signora?- alzò la testa dallo scrittoio. Aveva appena appena messo mano a una pratica che da parecchio tempo se ne stava là a dormire. -È destino – pensò – che anche questa non sia la volta buona … -Signora o signorina, signor tenente. Una bella donna!- ammiccò l’alpino, intanto che lui stava muovendosi dalla sedia. -Cosa sarà mai successo, per venirmi a cercare in ufficio?- Non aveva il minimo dubbio che si trattasse di Luci. Guardò il piantone, che lo stava ad osservare con un sorriso un po’ malizioso: era un ragazzo insignificante, ma sveglio. Come tutti i “topi” di Deposito, un po’ carogna. -Dai, falla entrare- tagliò corto Andrea. La Gisa fu introdotta, che era venuta per faccende a Novara, e che aveva così pensato di fare una corsa fino a Milano. -Ohooo! La pratica rientrò nella cartella polverosa, a maturare un altro poco (era una faccenda di soldi: chi li doveva ricevere, poteva ben aspettare, no?), e uscirono subito insieme. In un bar vicino ordinarono due coppe al liquore, una ghiottoneria. La donna era lietamente eccitata ed appariva molto fiera di dare il braccio al suo bel tenente per quelle vie così animate di folla e con tanti soldati che scattavano nel saluto, passando accanto ad Andrea. -Li saluti sempre tutti? -Proprio tutti non posso, Gisa. Ce ne sono troppi … Dovrei tenere il braccio incollato al cappello. A meno che non inventino uno speciale supporto automatico…- e rise forte. -Dì, perché non hai portato giù anche il nostro piccolo “filibustiere”? -Adesso ti spiego. Dormiva ancora, quando sono partita dal Cascinone. E poi, non sapevo che sarei venuta fin qui. Sai … me ne sono accorta a Novara che avevo una voglia matta di stare con te. Sotto i portici ho visto da lontano un ufficiale degli

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alpini. Il cappello e la penna mi sembravano i tuoi. Il cuore mi si è messo a battere forte. Non riuscivo a raccapezzarmi del perché tu fossi là: in un attimo chi sa quante cose mi sono passate per la testa. Poi, non eri tu … Allora sono corsa alla stazione e c’era un treno, subito, per Milano. È da tre settimane che non vieni più al Cascinone. Ma avete proprio così tanto da fare? -Eh, sta rientrando il Reggimento dalla Grecia, un monte di lavoro! Quasi quasi da andarci anche la sera, a fare le ore straordinarie. E conti, e verifiche, e revisioni. Da farci la testa grossa così … Decisero che la Gisa si fermerebbe almeno un paio di giorni, di già che c’era. Telegrafarono a casa, che stessero tranquilli, e si ritirarono nella camera di Andrea. LXV La stanza era tutta in ordine e la Gisa ne fu soddisfatta: -Chi te la riassetta così bene? -Una cameriera dell’albergo qua di fronte. Una brava ragazza. -Giovane? E … carina, sicuramente. Oh, Andrea, non mi farai mica le corna con una cameriera, per caso? Che idea! Andrea stava sbuffando, per la fatica di togliersi gli stivali: -La conoscerai tra poco, che ci porterà la cena. La Gisa venne dietro di lui, che stava ancora seduto, gli prese il capo tra le mani, con tenerezza, gli mormorò in un orecchio: -Guai a te, sai!- e lo carezzò con una guancia. Andrea se la sedette sulle ginocchia, come le piaceva, e la guardò attentamente: pareva che, per lei, il tempo non fosse trascorso. Era la stessa del loro primo bacio. Non era invecchiata di un’ora sola, se non nello sguardo, diventato più calmo ancora e profondamente buono e pensoso: lo sguardo di una madre. Si baciarono, poi la donna prese a raccontargli dei grossi triboli di papà Bastiano, pover’uomo, per via degli ammassi, delle requisizioni e di altre simili angherie. -Mamma Minghin fa tutto quello che può, per tenerlo di buon umore e non lasciarlo montare in furia, ma lui ci soffre molto. Diventa taciturno e scontroso, l’avrai notato anche tu. Si ha un bel dire. Se lo potesse, credo che un bel giorno staccherebbe il fucile per impallinarne qualcuno. Ha ragione, è una vera vergogna. Vengono e comandano, prepotenti e villani com’è difficile immaginare. Giovani o vecchi, è caso raro che ce ne sia uno educato. Credono di toccare il cielo con un dito, loro; e non hanno nessun rispetto, nemmeno per i militari; tanto, loro, a soldato non ci vanno mica … Pretenderebbero di andarti a contare le galline nel pollaio, e magari di cavarne fuori le uova con le dita! Se non ci si arrangiasse a mettere da parte qualche cosa, con quel che lascerebbero loro, ci sarebbe da star male. Con che cosa avremmo lo zucchero, il caffè e tutto il resto? Eh sì, c’è di buono che quelli che vengono per le verifiche, c’è modo di fargli chiudere un occhio: ma sono esigenti. Io e la mamma, almeno, sopportiamo abbastanza di buon animo, perché penso che così almeno voi soldati starete bene. Perché a voi non manca mica niente, vero?

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No, ad Andrea non mancava niente. Era un ufficiale, lui, al Deposito. Ma, in coscienza, dei soldati egli stesso non avrebbe potuto dire altrettanto. Non si era molto curato, lui, di sapere se ne avessero a sufficienza, di quel che ricevevano. Non era una sua mansione … E non aveva voglia di cercare grane. Tutta una miseria infinita, dietro quelle parole della Gisa. Migliaia di famiglie che imprecano, in silenzio, dentro le mura domestiche. Imprecare ad alta voce non si può. Potrebbe costare caro. Potrebbe succedere che, alla denuncia di accertamento, appaiano nella stalla dieci mucche invece delle otto che realmente possiedi; e, nel granaio, più frumento di quel che i campi abbiano prodotto. E, allora, come la si aggiusterebbe? Anche il vicino di casa non è più persona fidata. Tutti han qualcosa da nascondere, ciascuno ha il suo piccolo mistero o il suo segreto traffico. Com’è, questo balordo sovvertimento di valori, in una società che si proclama civile? Il vicino di casa dovrebbe essere il primo parente: e, invece, non gli si crede più, non ci si fida più. Che educazione sociale è mai, questa? Soffocare il pensiero e la parola, dinanzi al prossimo. Non fidarsi di nessuno. Diamine, è vivere, codesto? -È proibito, è pericoloso anche il pensare. Bisogna inchinarsi di fronte alla prepotenza organizzata. Il figlio del macellaio del Borghetto, che fino a un mese fa veniva a lavorare da noi in giornata – e lo si prendeva per carità, perché si sapeva quanto ne aveva bisogno – l’ho rivisto stamattina in camicia nera, sotto i portici di Novara. Aveva una borsa di pelle sotto il braccio e confabulava misteriosamente con un uomo grasso. Mi ha guardata come se non mi riconoscesse più; poi, mi ha degnata di un saluto importante, che veniva dall’alto. Ho girato la testa dall’altra parte, Andrea. Come può succedere che sia così? Sotto una divisa, perché non possono mantenersi persone per bene? Rovinano tutto, senza accorgersene neanche … -Sai, io cerco di pensare poco a queste cose: qui siamo sotto le “stellette”. Però, so bene quel che capita a casa e un po’ dappertutto. Sono cose che non riesco a capire e che non approfondisco. Ma qualche volta non mi riesce proprio di farne a meno. E, allora, mi viene una gran nausea … Cercate, tu e la mamma, di tener calmo il papà; sono cose che passeranno, se Dio vuole … Bussarono alla porta. Veniva la cameriera a prendere ordini per la cena. Non era una brutta ragazza e sapeva mettere in mostra le sue doti fisiche che, per la verità, erano piuttosto ridotte. Il contatto con la clientela maschile, all’albergo, l’aveva abituata presto a conoscersi e valorizzarsi. Succede che un prodotto anche scadente, in una presentazione artistica, sia più ricercato e pagato meglio di altro di maggior pregio, ma presentato meno sapientemente. Non manifestò sorpresa, la cameriera, trovando il signor tenente con una donna sulle ginocchia; e non le passò affatto per la testa che si trattasse della moglie. Sarebbe rimasta forse un po’ delusa, ad apprenderlo; e li avrebbe osservati con più maligna curiosità di quel che invece non fece. LXVI

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Le giornate trascorse con lui dalla Gisa erano state serene, mantenute in quella quieta affettuosità che caratterizzava i loro rapporti coniugali. Ma, adesso che la donna se n’era tornata a casa, Andrea sentiva dentro di sé un’inquietudine pesante, quale non avrebbe mai supposto. Senza ben saperlo, ad ogni carezza della moglie, ad ogni bacio della moglie, egli aveva comparato lo stesso gesto con quelli di Luci. Non che l’avesse voluto fare, ma era stato più forte di lui. Di tutte quelle quarantott’ore, il ricordo più persistente era di quando aveva telefonato alla ragazza, per informarla che non si sarebbero potuti incontrare. -È arrivata mia moglie- aveva detto lui, senza mentire. Non aveva provato la necessità di ricorrere ad una frottola. E la voce di lei gli era giunta stanca ed afflosciata: -Scusami, Drea, non potevo supporre … - e Luci aveva tolta la comunicazione. Ad Andrea non usciva dalla testa che lei doveva aver detto quelle parole con gli occhi pieni di lacrime. Luci, che piange? Quel viso sempre ridente e arguto, farsi triste: era una cosa che lo opprimeva, a pensarci. Pure, non poteva evitarlo. L’intimità con la moglie l’aveva entusiasmato solo relativamente. Aveva il sapore di una cosa antica, che duri da sempre e a cui si sia troppo abituati, ormai, perché abbia ancora il valore di un’attrattiva. Compiere un dovere, quasi. Piacevole fin che si vuole, ma un dovere. E, come tale, assai prossimo al sacrificio. Nella luce attenuata della camera, carezzando le spalle della moglie, un nome gli era salito fin sulle labbra: Luci!, e l’aveva a stento soffocato, spaventandosene egli stesso. Tanto, dunque, può una ragazza incontrata per caso? Una ragazza della quale, infine, egli così poco sapeva, che non fosse di amplessi e di baci. Andrea non le aveva mai chiesto nulla. Non si sentiva in diritto di entrare nella vita di lei più di quello che già ci fosse. Le poche cose che di lei conosceva, le aveva sapute così, per quegli scambi di confidenze che due persone di sesso diverso si fanno oggigiorno – di solito – solamente quando non abbiano da compiere alcunché di più urgente. E, tra loro due, era assai più urgente il ricercarsi le labbra o anche soltanto, in silenzio, il guardarsi profondamente negli occhi. Capitava, talora, che Andrea iniziasse un discorso ma la giovane lo interrompeva, premendogli la bocca con il palmo aperto e protestando: -No, Drea, non dire niente. Stai lì, così. Mi piace guardarti. Perdiana, erano più vive le parole di Luci che non il fremito delle membra della Gisa. Avevano sempre il sapore della novità e del mistero. Prima che la moglie partisse, Andrea aveva deciso di raccontarle la “faccenda”. Le avrebbe detto tutto quanto, senza omettere un solo particolare, dalla prima sera al villino alla fatale ubriacatura (era assolutamente convinto che tutto era successo proprio per quella), agli incontri divenuti pressoché quotidiani. Neppure le avrebbe tenuto nascosto che proprio non poteva farne a meno, ora, di trovarsi con Luci. Luci, un nome che canta! Ma, poi, non aveva detto nulla. Gli occhi della Gisa, tanto gravi e buoni, l’avrebbero condannato; e la gioia di lei per aver vissuto un paio di giorni nel suo mondo provvisorio, della stessa esistenza di lui, sarebbe diventata nero sconforto.

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Come l’avrebbe giudicato? Cosa sarebbe stato, dopo? Andrea era troppo sicuro di averla fatta grossa per davvero, stavolta. La vicenduola di Nerina, al confronto, diventava un’innocua marachella. Così la Gisa se ne andò col viso pieno di letizia; e lui rimase, dopo che il treno fu partito, a rincorrere col pensiero le più strane fantasie. C’era in lui un grande disappunto e un fierissimo stupore per come tutto questo fosse successo e potesse continuare. Era la prima volta che tentava di riflettere seriamente all’illegalità dei suoi rapporti con la studentessa. Comperò un giornale della sera e diede un’occhiata ai titolo grossi senza afferrare bene quel che dicessero. Tentò di concentrarsi nella lettura del primo articolo che gli cadde sotto il naso, ma erano cose astruse, incomprensibili. Piegò il foglio e, camminando adagio, incominciò a scendere verso l’enorme atrio. Un soldato gli passò accanto di corsa, urtandolo. Andrea lo investì furiosamente di contumelie, mentre quello tentava in qualche modo di scusarsi. Non gli era mai successo nulla del genere, e dovette concludere di essere molto in collera, anche se non sapeva bene contro chi e per quale motivo. Automaticamente andò a un apparecchio telefonico. Luci c’era, e rispose di sì. Sarebbe venuta da lui, subito. Andrea non aveva idee precise su quel che le avrebbe detto e quel che sarebbe successo fra loro due, ma si sentì comunque un po’ sollevato. LXVII Sedette sul letto e incominciò a strofinare gli stivali lungo la coperta. Sfilò il cinturone e lo lasciò pendere giù, buttato di traverso sul guanciale. Poi cavò fuori dalla fondina la pistola. Non che pensasse a idee scriteriate: non gli passò neanche per il capo … Trasse fuori il caricatore con molta cura e incominciò a smontare accuratamente il piccolo arnese brunito: era un modo come un altro per far passare il tempo, evitando di riflettere. Del resto, l’attesa non fu lunga. Ai due timidi colpi bussati alla porta, fece seguito il musetto un po’ appuntito di Luci. La ragazza non stupì di vedergli in mano l’arma. Non era la prima volta che le succedeva: tuttavia si sentiva straordinariamente impacciata. Erano colpevoli di una colpa che erano convinti di non avere – come si fa a spiegarle, certe cose? – e un certo imbarazzo li teneva sospesi. Non si baciarono. Luci venne a sedere accanto a lui, che continuava a lucidare la minuscola canna. E lui non la guardò in viso. -Ho da parlarti- fece poi, dopo qualche minuto. -Tutto un discorso grosso … Tacque. Non sapeva come cominciare. Non sapeva cosa dire. Un lampo attraversò la mente di Luci e la folgorò tutta: -Mi dice che è finita …- Le labbra le tremavano, nello sforzo di restare immobile. Il battere tranquillo e monotono dell’orologio da tavolo sembrava ingigantito smisuratamente. Aveva preso una proporzione fisica ben definita, e si era interposto fra di loro. Luci ebbe l’impressione che, se avesse allungato una mano per toccare

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l’uomo, non le sarebbe riuscito di farlo. Quel battito, diventato vivo, si era intromesso e li separava. Dalla strada giunse un lugubre, lontano stridore sulle rotaie. Andrea sospirò profondamente: -È stata qui mia moglie. Torno adesso dalla stazione. Ti ho telefonato di là … La sua voce era remota e stanca. Veniva, non da pochi centimetri di distanza, ma da molto discosto. Di là dal muro, forse. Pareva solo un ricordo polveroso. I secondi dell’orologio si rotolavano uniformi, l’uno sull’altro, come se si logorassero senza tregua, rincorrendosi per un piano sconfinato. Luci aveva superato ogni limite di resistenza. Interruppe: -E … le hai detto tutto; ed ora mi hai chiamata per dirmi che è finita … Le parve che la sua voce fosse risuonata floscia in una cavità dai mille echi, mostruosamente sonori. Non ne riconosceva il timbro. -No, non le ho detto nulla. E la questione è appunto questa! Come si fa, adesso? Se le avessi parlato, sarebbe un’altra cosa. Ma non le ho detto nulla, capisci. Lo sai, tu, perché ho taciuto? Io, no! Rispondimi. Io non mi capisco più. Mai successo nulla di simile. Le prese le mani. La parete invisibile si era stabilita tra le dita di lui e i polsi di Luci; ed il contatto fu freddo ed estraneo. La ragazza lo guardò fisso: -Non ne hai avuto il coraggio- affermò con voce bassa, timorosa. Prima di rispondere qualcosa, Andrea raccolse una gamba sul letto e si afferrò un ginocchio con le mani. Poi riprese: -Vedi, è la prima volta che la inganno, la Gisa. In questo modo, almeno. Io … non so se sia davvero male, quello che c’è tra noi due. Ma che io le abbia taciuto, questo sì, è male. È come se avessi confessata la mia colpevolezza. È come se avessi temuto che tentasse di staccarmi da te. Perché, in tutta questa faccenda, vedi, non ho capito niente, finora, se non questo: che io, Luci, non intendo rinunciare a te. La voce di Andrea aveva preso colore e forza: - Non posso rinunciare a te, mi capisci? Non lo posso! Saran cose che non ti interessano e che forse non dovrei dirti, magari me ne pentirò fra un attimo, ma devi sapere – le serrò i polsi un’altra volta – devi sapere che qua, su questo letto, oggi e ieri, non era lei. Eri tu. Sì, tu. Che non le sue labbra io ho baciato, ma le tue. Che il tuo nome mi saliva dentro, e il brivido del tuo sangue e della tua carne, non della sua. È così- concluse lasciandola e cercando in tasca l’astuccio delle sigarette. Gliene dette una e accese in silenzio, senza ricercarne lo sguardo. Luci era impallidita, poi il viso le si era fatto di fiamma. Di tutte le parole, solo queste aveva udito: tu, sì, tu; le tue labbra, il tuo sangue, la tua carne … La parete invisibile si dissolse. Drea era lì, seduto accanto a lei, turbato, sconvolto, ma suo. Suo! A che scopo raccontargli delle ore d’inferno vissute nella parentesi se era stata lei, con Andrea, e non sua moglie? A che scopo parlargli del martirio della notte, quando di lei tutto si ribellava nella certezza dolorosissima e umiliante che il suo Drea lo stava possedendo un’altra donna? Lei, lei, Luci aveva vinto. Lei, l’assente! Non sono sempre i sensi, quelli che la spuntano.

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Gli posò adagio le mani sulle spalle, costringendolo a volgersi verso di lei: -Non dire più nulla, Drea. Perché, perché voler capire? Non dire più nulla. Io ti amo con tutta l’anima, e questo ci basta. Gli buttò le braccia al collo e poggiò la testa sulla spalla di lui. Aveva una gran voglia di piangere e di ridere, tutt’insieme. Andrea le sollevò il viso, tra le mani aperte. Scottava. La strinse a sé, e caddero sul letto, ma le loro bocche non si lasciarono. LXVIII Il mattino seguente, quando si ritrovò solo nella camera ancora impregnata del profumo di Luci, ad Andrea parve che ogni cosa avesse assunto una fisionomia nuova e insospettata. Tutto, intorno, gli parlava della ragazza; e la cosa più stupefacente era questa: che, adesso, egli non avvertiva più alcunché di tumultuoso e di inquieto. La crisi della sera precedente, che con lealtà aveva palesata alla fanciulla, gli pareva non fosse mai esistita. Uomo che, se non altro, possedeva almeno un certo equilibrio e quel tanto di discernimento da poter riconoscere le cose passeggere da quelle radicate e durature, egli non aveva stentato molto a capire che i rapporti con Luci avrebbero avuto un seguito molto profondo e importante, nella sua esistenza. ribellare alla prospettiva che questa nuova “faccenda” finirebbe per diventare una cosa molto seria, capace di generare sentimenti anche più forti del medesimo vincolo coniugale. Ma la rivolta era stata debole, priva di efficacia: più che altro, si era trattato di una constatazione. La coscienza “a posto”, uno che lo voglia, riesce quasi sempre ad averla, specie in casi del genere. È molto più redditizio usare indulgenza che strapparsi fuori da certe situazioni … Non era già stata una prova di coraggio, come amante, quella di porre ogni decisione nelle mani e nel cuore della giovane donna? Lei, più di tutti, avrebbe potuto valutare gli svantaggi e le conseguenze negative della cosa. Un uomo prende, porta via, anche se non ruba. Ma, per la donna, è diverso. La donna dà se stessa. E, in questo suo dare, non c’è soltanto la materia o lo spirito. C’è tutto quanto. Una donna giovane, per quanto carina possa essere, deve pur risolvere senza troppo ritardo il suo importante problema: accasarsi. E, se la sua verginità è andata a rotoli, sono un po’ grane. I maschi, normalmente, se n’infischiano della verginità di una donna, ma in quella certa circostanza, sono pochi quelli che non la esigono. E c’è dell’altro, anche! Un uomo di donne ne prende una, due, tre, quante gli cedono; poi se ne scorda del tutto … Ma in una donna, che abbia amato per amare, senza alcuna riserva, rimane una traccia profonda, non cancellabile. Non le sarà agevole accogliere definitivamente un uomo, quando tutto in lei continua disperatamente ad invocare il nome di un altro … E possono anche capitare gli “inconvenienti”. L’amore, succede che dia tante cose, quando è senza limitazioni mentali. E se a questa donna regalasse un figlio, è una complicazione di quelle che non si possono scavalcare con disinvoltura. Restare

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incinta è tutt’altro che difficile: si può addirittura volerlo. Ma, poi? Comunque vada, è sempre una bella balordata! Aveva pensato, Luci, a tutto questo? Si può sapere quel che passa per la testa a una ragazza della sua età e della sua condizione, specie in questi tempi nei quali la morale e la virtù son diventate cose tanto soggettive che i più le incominciano a prendere in giro dopo compiuti i dodici anni? Comunque, cosa doveva importare ad Andrea, di tutto questo, se era stata lei a non mollarlo, a cercare rifugio in lui, come se tutto l’universo non esistesse altrimenti; e all’infuori del “mio Drea” nulla ci fosse, se non il tempo – da attendere con ansia che passasse – per essergli accanto un’altra volta? Eppure, eppure … Si ha un bel dire: il bello, o il brutto, è trovarcisi, in certe situazioni. Le ragazze dell’età di Luci, in altri tempi, sognavano un delicato “principe Azzurro” che venisse, vestito di sole e di luce, e le rapisse addormentate su cocchi di trine e di piume, trainati per l’aria da voli di usignoli; e si chinasse a sfiorare loro gli occhi con le labbra dolcissime e vellutate, per destarle nel regno di amore, meraviglioso e fantastico. Altro, di solito, è oggi amore. Può essere un uomo, neanche bello, che sia di passaggio. E vi siete incontrati per caso, per uno di quei banalissimi incidenti, che normalmente decidono dell’esistenza delle persone. Domani non se ne saprà, forse, più nulla. Andrea ha già una sua famiglia: tutto proibito, dunque, quel che succede con lui! Ma le cose vietate hanno un sapore anche più dolce, un’attrattiva più forte. Tutto condannabile, per Luci. Da tutti: la morale, la religione, la mamma, se lo sapesse. Eppure, la vita è là ancorata: in quegli occhi un po’ malinconici, in quelle labbra dal taglio un po’ ruvido, in quelle parole così comuni e misurate. Un uomo qualsiasi, senza nulla di speciale, se non questo: proibito. E io me lo prendo. E non per ischerzo. Mi innamoro sul serio e faccio quel che faccio. Vivo, libera di me stessa e felice! La fotografia della Gisa guardava Andrea dal marmo del tavolino. Lo guardava col suo sorriso mite e lieve. Buona amica, la Gisa. L’amica ideale, per la vita di quaggiù. O non è forse stato detto a qualcuno – da chi Andrea non se lo rammentava proprio, ma doveva essere qualcuno molto saggio e pratico - che a un uomo occorrono la moglie e l’amico? La moglie per esigenze varia, e l’amico per lo spirito, per il riposo, come una sedia a sdraio, ecco. Così, anche se la conclusione pareva peregrina, la Gisa era … il suo amico; e Luci, arrivata di fresco, la moglie! Cosa importava se le notti non erano trascorribili ma piene nella ricerca e nella rivelazione l’una dell’altro? L’amore non vive solamente di notte, anche di giorno scopre se stesso: la luce del sole non gli dà fastidio, anche se deve restare clandestino. Andrea aveva l’impressione di avere vissuto di più in poche ore con la studentessa, che non in tutti gli anni precedenti con l’intera società umana. E di parole si giovavano così poco, per capirsi, che questo gli pareva ancora più incredibile di tutto il rimanente sogno. Se a un tratto dovesse uscirne, da quel sogno, ne resterebbe più dolorante che ad aver appreso che la Gisa lo stava tradendo con un garzone qualsiasi della fattoria! Come facesse a venirgli in mente che la possibilità che la moglie riuscisse ad

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intendersela con qualcuno, non sapeva nemmeno lui. Ma non si meravigliò di tale pensiero: incominciava ormai a comprendere che, a questo mondo, tutto può verificarsi. Ad ogni modo, questa era certamente un’idea da malati. Che fosse malato, Andrea? Era molto probabile di sì. LXIX Durò, l’equivoco, tutta l’estate. Durò l’autunno e l’inverno. Non pareva più un equivoco: era diventata un’invenzione stupefacente, capace di rinnovarsi ogni giorno. Venne, infine, la primavera; ed i convegni si erano fatti anche più frequenti. La favola durava intensa. Grande complice, la camera dell’ufficiale. Luci ne aveva la chiave e vi entrava a qualsiasi ora, avendo l’impressione, precisa e completa, che ogni oggetto là dentro appartenesse ad un mondo che era tutto suo e che nessuno le potrebbe mai togliere. Il pensiero che, non importa quando, la relazione finirebbe, l’aveva sgomentata quando le si era affacciato la prima volta: ne aveva avuto uno spavento freddo, come di vertigine che non si riesca a superare. In seguito, calcolando le ore e i minuti, aveva imparato a voler bene di un affetto tanto più geloso e bruciante ogni cosa che parlasse comunque di lui. Una faccenda che duri, anche solo per definizione, diventa abitudine e può anche annoiare. Ma un tesoro che si sa di dover perdere, diventa sempre più prezioso, anche se tesoro non è: l’ardore si fa più ingordo e si rinnova sempre, né vi è il rischio che si possa esaurire. Certe mattinate fredde, nella nebbia umida e pesante dell’inverno, Luci si recava all’Università con la più ferma intenzione di non pensare a lui. Seguiva a gran stento una prima lezione, e poi se ne veniva via. La voce dei docenti era incolore, monotona, sempre uguale; e gli argomenti richiedevano troppa attenzione per essere seguiti bene: erano aridi e cavillosi. L’uniformità delle materie era troppo penosa, per poterla sopportare. Così lei se ne scappava via, magari nel corso di una lezione, intanto che il professore, pur senza interrompersi, la guardava con occhio estraneo, accennando forse un rimprovero per quello sfuggire alla chetichella. Camminava un po’ nella nebbia; le pareva una carezza buona, che la avvolgesse in modo tale da renderla pressoché sola in mezzo alla gente, della quale avvertiva i rumori come se fossero staccati e lontani. Era tanto distratta in se stessa, che soltanto con un ritorno brusco evitava di sbattere contro le persone che le giungevano addosso, non viste, traverso la coltre spessa e bagnaticcia. Qualche volta si recava al Parco e sedeva su di una panchina, la prima che capitava. Era umido, il legno, bagnato, ma a lei importava poco. Non c’era, intorno, anima viva. Soltanto passava qualche uomo frettoloso e qualche donna con la borsa della spesa. Quando era tutta infreddolita, se ne andava anche di là. Molto più spesso, si rifugiava nella camera di Andrea. Andava a respirare la presenza di lui, che non c’era. Riusciva, talvolta, là dentro, a trovare interessanti anche i libri scolastici e le aridissime dispense. Le ore più proficue di studio le passava proprio seduta sul letto di lui, con le gambe rannicchiate sotto le cosce e

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tenendosi appoggiata contro il cuscino, nel quale risentiva il tepore del corpo dell’amante. Altre volte gli telefonava. E, quando Andrea arrivava (due o tre volte soltanto egli non l’aveva potuta raggiungere, e lei aveva allora potuto misurare la schiacciante malvagità di quell’ignota mano che glielo sottraeva), la sua contentezza era immensa. Si baciavano, e poi: -Vieni qua – gli sussurrava – a raccontare qualcosa di carino alla tua Luci- e si sentiva molto importante. E Andrea la vezzeggiava, come si fa con una bimba che sia stata buona; e c’era una trepida attenzione, in lui, perché non si dissolvesse quel sogno magnifico che gli stava fra le mani. A fare diversamente, gli pareva che si sarebbe frantumato, come uno sbioccolìo di nuvole sotto i raggi di un sole troppo imperioso. E parlavano, allora, di tante cose meravigliose e assurde, che non avrebbero realizzato mai, lo sapevano perfettamente. Parlavano con sincerità e calore, a voce bassa bassa, quasi fossero increduli di ascoltare essi medesimi quelle eccitanti fantasie. Finché durava l’eco delle parole, tutto era vero. E per due che si vogliono bene, le parole sono state dette, tutte quante, un momento prima soltanto. Tutto è importante, tutto è nuovo, tutto è bello, sempre, per due che si vogliano bene davvero: non è inverosimile neanche la più strepitosa sciocchezza LXX Andrea smontò dal treno alla stazione di Porta Susa. Aveva la testa balorda e incapocchiata, e non tentava affatto di mettere un po’ d’ordine nei suoi poveri pensieri: se non c’era riuscito fino a quel momento, era inutile fare dei tentativi nuovi. La cosa, in qualche modo, finirebbe per sistemarsi da sola. Tanto, lui non aveva rimedi. Si diresse macchinalmente all’uscita, nel flusso frettoloso della gente. Non si accorse che lo stavano urtando e che anche lui dava dentro nel prossimo con la più grande indifferenza. Non rispose al saluto di alcuni soldati: forse non li aveva neppure visti. Andò a consultare l’orario della tranvia per Rivoli e constatò che gli restava quasi un’ora di tempo. Pensò di fare una scappatina fino al suo disabitato appartamento, ma rinunciò subito. Venne giù per via Cernaia e andò a finire nel primo caffè che gli capitò dinanzi. Un cameriere con la faccia saputa ed appassita stava dietro il banco. Aveva la voce untuosa e la zucca enorme, tirata a lucido. Odioso. -Desiderate, signor tenente? Non sapeva neppure lui, Andrea, quel che desiderasse. Dalla macchinona per l’espresso venivano fuori sbrendoli di vapore e un gorgogliare sommesso. -Qualcosa di forte. Un cognac, che sia buono. La stanza del bar era, più che altro, un corridoio. Uno specchio opaco dalla cornice indorata occupava tutta una parete. Un uscio si apriva di fronte al banco di mescita, e ne pendeva una portiera di velluto damascato, scura. -Volete accomodarvi di là, signor tenente?- La voce era grassa, fastidiosa.

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Andrea s’inoltrò. C’era un salottino scuro, discreto, con molta ombra. Due donne, di un’eleganza volgare, stavano sedute a due differenti tavolini. Drizzarono l’attenzione al nuovo arrivato, ma senza darsene l’aria. Lui andò a prendere posto all’unico tavolo libero, tra … i due fuochi, nell’angolo più scuro. Buttò giù il liquore tutto d’un fiato. Gli piacque sentirlo bruciare in gola. -Gran riserva, signor tenente … -Sì? Un altro. Una delle prostitute aveva i capelli fulvi e vellutati ed il viso tutto impomatato. L’altra era nera di capelli e aveva qualcosa di candido e sfrontato assieme, nei lineamenti. La linea delle labbra era deformata con malagrazia dal troppo rossetto. Avrà forse avuto un venticinque anni, e aveva una camicetta molto scollata, dalla quale si scoprivano due braccia tonde e i seni piuttosto scarsi. Andrea tracannò il secondo bicchierino. Questi, per la malora, sono i colpi mancini! Così, senza preavviso, senza un perché, senza una giustificazione. Il Comandante che ti manda a chiamare: -Dunque, caro mestica, siete stato assegnato al Reggimento. Lo raggiungerete entro venerdì. Fortunato voi, che ve ne andate. Io vi sono molto riconoscente, del servizio che avete prestato qui; e scriverò al vostro nuovo Comandante di trattarvi bene, perché ve lo meritate. Ma vi invidio, anche, sapete; eh sì, vi invidio … Andrete a respirare dell’aria buona e della salute. A noi, invece, tocca di restare qui, a muffire in questo buco da talpe. Muffire. Buco da talpe. Imboscamento. Vi ringrazio … Sì, sì, tutto bene. Ma, il Reggimento, Andrea lo sa bene che sta per partire un’altra volta. Che andrà a finire in Russia. Mica per niente l’han passato in rivista con tanta solennità, a dargli il benservito … Ma lui, cosa c’entra lui, Mestica Andrea di Sebastiano, in tutto questo? E me lo dicono oggi, che è già martedì. Due giorni di tempo: ne danno di più a un condannato a morte, perché provveda, prima di andarsene, a fare l’esame spirituale. Ne danno di più anche a una domestica … Tutto che precipita e frana giù, senza rimedio. Io, al Reggimento? Due giorni ancora: cosa sono, due giorni? Un monte di cose da approntare. La morte nel cuore, senza puntelli da nessuna parte, e tutto da mettere a posto. Una stangata così fa finire lunghi distesi sul pavimento: a che cosa ci si può aggrappare? Un rancore sordo e feroce che, se potesse esplodere, polverizzerebbe l’universo. E non posso neanche darmi malato … In poco tempo, qua, mai un giorno di malattia. Finirebbe anche peggio. Boia d’un mondo disgraziato! Luci che lo segue come un’ombra: -Cosa succede, Drea, di me? Morrò, se tu vai via … -Piantala, Luci; piantala anche tu, per carità. -Drea, non capisco più niente … Ma, intanto, non piange. Intanto corre di qua e di là, come frenetica, a fare le più straordinarie compere. Chi gliel’ha insegnato, a Luci, che a un ufficiale che parte per la zona di operazioni, servono tante cose?

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Zona di operazioni, una sigla da nulla. Z.O. Cosa ci sarà mai, là dietro? Russia … Qualcosa di immenso e di ignoto. Un mondo nel mondo. Là si può morire senza che nessuno lo sappia mai, là ci si può perdere come in un oceano; scomparire, un puntino minutissimo nello spazio smisurato. Un’ombra nel buio. Altro che guerra-lampo! Bella gatta si erano andati a cercare, ‘sti asini … Polvere antiparassitaria. Calze di lana. Scatole di vitamina. Uose. Latte condensato. Fornellino “Meta”. Scarponi impermeabili. Fazzoletti. Guantoni foderati. Dove si sarà ficcato mai il cavastivali? Cartucce per pistola. Alla Gisa non bisogna, intanto, scrivere nulla … Mi daranno una breve licenza, dal Reggimento. Certe cose, non si possono dire per lettera … Legacci di cuoio. Medicinali. Piumino in gomma. Carta da lettera, leggera. Inchiostro. Matite. Temperino. Candele … -Stanotte resto con te, Drea. Non vado a casa, vuoi? Telefono che vado dalla Dede. -Sì, Luci, che almeno ci sia tu. Ma dov’è, ‘sto benedetto cavastivali? -È qui, Drea. Se lo metti sotto il copriletto, come fai a trovarlo? Mutande di lana. Maglioni di lana. Tutto di lana. In Russia ci sono 30°, ci sono 40°, ci sono 50° sotto zero. Grasso anticongelante. Grasso per scarponi. Occhialoni neri. Dio, quanta roba! Bestie, bestie, bestie … E sigarette. Si troveran sigarette? -Te le manderò io, Drea, per lettera: so che lo fanno. Ti scriverò dieci lettere al giorno, tu che fumi tanto … Non piange, Luci. È una bambina, ancora, ma non piange. È una bambina forte. Benedetta te, che mi sei vicina. Ritrovarsi, nella notte; e che valga per sempre. Un dono infinito, spossante, da cavarti dalla strozza un urlo di spasimo; da far venire le vertigini e sanguinare la carne. Stracciarsi tutti, perché il ricordo non vada via più. Un dare e un prendere senza fine, nell’ansia che tutto sta crollando, nello spavento che il rinnovare non sarà possibile, né domani né mai. E c’è chi ti fa le congratulazioni, perché ti spediscono. Qualcuno, meno falso, dice: “Un colpo di naia”. Ma non basta dire così. Pretendono di invidiare la tua “fortuna” e schiattano, invece, per la paura di fare la tua stessa fine, un giorno o l’altro. Carogne, carogne sempre! Ipocriti e animali, dal primo momento all’ultimo. Chi sa come gongolano, i vigliacchi! Perché, se ci vai tu, intanto non ci vanno loro. E non poterglielo dire sul muso, non poterglielo! -Oh, Luci, che disastro … -Drea, cosa sarà mai di me? Cosa mi resterà di te, Drea?- gli occhi sbarrati cercano la luce, che se ne va. L’esaltazione irragionante prorompe: -Drea, perché non mi hai dato un figlio, che fosse nostro? -Ci mancherebbe anche questo, Luci. Sei pazza … -Pazza, ma lo voglio. Lo voglio, Drea, da morirne. Dammi un figlio, un figlio, Drea, perché resti, nella mia carne, la tua carne … Un’invocazione lacerata di tutto l’essere. È ragionare, questo? Ma che deve ragionare anche, l’amore, specie in certi momenti? E non è poi tutta un’allucinante pazzia, questo agitarsi inconsulto dell’umanità? *****************************

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La prostituta mora si portò alle labbra una sigaretta con studiata lentezza. Finse di frugare nella borsetta come se cercasse qualcosa, poi guardò alla compagna, la quale se ne stava indifferente, risolvendo un cruciverba. L’ufficiale appena entrato non “toccava” a lei: non era il suo turno … Lena si alzò. Aveva il corpo suadente. Si accostò ad Andrea e gli chiese del fuoco. Sedette accanto a lui, che la osservava stranamente, come se non capisse. -Signor tenente, un cognacchino per me, non ci sarebbe? Parlando, s’era fatta avanti con il suo sorriso ricco di promesse ed aveva poggiato una mano su una coscia di lui, con pressione persuasiva. Soltanto allora l’ufficiale parve essersi reso conto di ciò che la donna andava cercando. -Cameriere – gridò – portate un cognac alla … signorina; anzi, no, portatene due, tre, portatene quattro, quanti ne vuole! La voce e gli occhi erano infuriati. Prima ancora che la testa del cameriere potesse far capolino, Andrea si alzò di scatto: -Che schifo! – sbottando furiosamente – roba da sputi!- e la Lena, perduto l’equilibrio, cadde di fianco sulla panca imbottita, intanto che lui spariva di là dalla portiera. Quando fu ben certa che fosse uscito dal locale, la puttana, con fare vezzoso, chiamò l’uomo pelato e gli chiese se per lei il tenente non avesse pagato proprio nulla. Avuta risposta negativa, fece spallucce guardando l’altra, che aveva seguito la scena con estremo interesse e che le disse: -Sei ancora indietro, tu. Capisci poco gli uomini … Rispose, con una punta di risentimento: -Che tipo volgare, quello lì. Chi sa cos’avrà avuto per la testa.- Allungò le gambe sul velluto della panca, non senza aver prima acceso una nuova sigaretta, perché l’altra era finita sul pavimento. LXXI La tranvia era affollata e Andrea stette in piedi sul terrazzino posteriore dell’ultima vettura. Aveva bisogno di aria. La terra fuggiva via veloce sotto i suoi occhi, e sulla grande strada c’era un traffico intenso. Aveva spiovuto allora allora e l’asfalto era lucente e nerastro, rifletteva i guizzi rapidi delle automobili e quelli più definiti dei molti ciclisti. La vita continuava, intorno, col suo solito ritmo. Andrea si arrabbiò di constatarlo, e si accorse malvolentieri che di quell’esistenza faceva parte anche lui, pur senza averne alcuna voglia. Per un istante ripensò al suo ordinato ufficio, alla Nice, al cavalier Lodovici … Era davvero esistito, tutto questo? Il motore si era messo a ruotare a tradimento; ed egli – che si era assopito, tratto in inganno e familiarizzato dalla lunga tregua – ne era stato trascinato via. Adesso, era incapsulato fra gli ingranaggi, e ogni tentativo per svincolarsene sarebbe stato vano e, per di più, pericolosissimo. L’unica era di starsene cheto e di aprire ben bene gli occhi, se no sarebbe peggio. Ogni convulsione non avrebbe per risultato se non un danno nuovo e certamente più grave. Il guizzo di un pesce colto nella rete non va fatto se non quando lo spiraglio si sia ben aperto: soltanto allora c’è speranza di riguadagnare il largo. L’essere malaccorto e intempestivo, serve unicamente ad

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aumentare il groviglio e a farsi spaventare innanzi tempo da un ben assestato colpo di fiocina. Pensieri malinconici, ma il paesaggio non riusciva ad offrirgli valide distrazioni … LXXII La cittadina dove Andrea era adesso sbarcato aveva un aspetto ridente, anche se le sue proporzioni erano modeste. La dominava un castello alla buona, la cui sagoma era stata un tempo indubbiamente più severa. Era tempo di libera uscita, e gli alpini sciamavano per le strade, si accalcavano davanti all’ingresso dei cinema e facevano ressa nella piazza della stazione, dove c’erano dei baracconi. Gli altoparlanti stridevano con la loro voce acetosa e rauca; e si sentivano gli schiocchi timidi e buffi delle fucilate per burla, che demolivano le pipe di gesso e facevano ridere a gola piena quei soldatoni, tutti pezzi di ragazzi, che stavano a far mucchio dietro i tiratori un po’ infagottati nelle divise di taglia fuor di misura. Le signorinette incominciavano a uscir di casa per farsi fare un po’ di corte. Andrea fermò un sergente e gli domandò dove potesse trovare l’Aiutante Maggiore. Il sottufficiale guardò l’orologio, brontolando tra sé qualcosa, quindi si offerse di accompagnarlo. Gli alpini che incontravano il nuovo ufficiale, lo osservavano con evidente curiosità, e poi – a gruppi rumorosi com’erano – ridevano forte e si dicevano: -Ne è venuto un altro. Hai visto che faccia … Uhi, pare un disperso!- poi si voltavano a riguardarlo. Andarono su per una stradetta in mezzo al paese, superando alcune osterie bercianti di voci e di risate; infilarono un vicoletto e vennero fuori in un cortile, dove stavano sbadigliando due enormi pentolone vuote. Erano state ricavate da un fusto per carburante. Alcuni muli finivano di smozzicare filosoficamente della paglia, e un paio di alpini, accanto a una rudimentale fontana – un tubo sostenuto da un paletto infisso nel terreno – stavano lavando la gavette, usando per sapone delle zolle erbose. -Qui è sistemata l’infermeria e le cucine- spiegò il sergente, che ogni venti passi consultava l’orologio. Evidentemente, temeva di far tardi a qualcosa che gli interessava molto. Riuscirono, per un cancello, ad una strada stretta e contorta, mal selciata e piena di buche. Passarono sotto un altro portico e si trovarono dinanzi ai campi. Il fango della straduola l’avevano pestato i soldati, ed era tutto segnato dei loro scarponi. Fecero ancora una trentina di metri, poi il sergente entrò per una porticina ricavata in un muro di cinta, e gli disse: -È qui. Consultò ancora l’orologio e, senza attendere congedo: -Comandate, signor tenente!- gli fece. Scattò nel saluto, e se n’andò di gran fretta. Andrea girò l’angolo della casina e si trovò di fronte a una scaletta esterna, che saliva al primo piano in due brevi rampe. Andò su ed entrò in una cameretta ingombra di tavoli, di sedie, di fucili. Un alpino, che era lì, lo introdusse subito.

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LXXIII Il piccolo paese – dove si trovava il reparto al quale lo avevano destinato – gli venne incontro a poco a poco. Dalla stazione ferroviaria ci si poteva recare in corriera, ma Andrea aveva preferito farsela a piedi. Era questione di un’oretta, al massimo, e lui aveva bisogno di stare un po’ solo con i suoi pensieri. Forse per raccapezzarsi un po’, forse perché, camminando in mezzo al verde della campagna, avrebbe ritrovato un po’ di quella serenità e di quell’equilibrio che le ultime vicende avevano straziato dentro di lui. C’era un fiume, che passava sotto un ponte dall’arcigna intelaiatura di ferro, ma non pareva un fiume: era piuttosto un grosso ruscellone di acqua sporca e giallastra. Un carretto era fermo sul greto, e un uomo con la camicia lacera e sporca lo stava caricando di sabbia a gran badilate. Il mattino non era molto avanzato ma, nel cielo serenissimo, il sole non faceva complimenti. Sulla sinistra, a una certa distanza – ma reso vicino per la limpida trasparenza dell’aria – giganteggiava un gran massiccio ricoperto di nevi. Andrea provò a indovinare di quale ghiacciaio si trattasse, ma le sue cognizioni di geografia erano abbastanza misere, e concluse che non lo sapeva. Comunque, era molto bello, e pensò che – se avesse allungato una mano – rischierebbe di toccarlo. Di fronte, invece, gli si levavano incontro le vette tonde e gibbose di alcune pittoresche colline, che facevano presentire la montagna. Erano tutte sparse di case, avevano l’aspetto pulito e ridente. Un po’ sulla sinistra s’intravedeva, frammezzo alla vegetazione, un campanile, e alcuni tetti rossicci più in basso. Andrea era diretto là. La campagna era molto florida, e gliene provenne un senso di benessere e di fiducia. Si interessò ad osservare le colture. C’erano tanti alberi da frutta. Tanti piccoli appezzamenti di terreno, minuziosamente coltivato. Prati verdissimi e frumento che già schiariva. I peschi erano ricolmi di frutti vicini alla maturazione e le siepi erano esuberanti di fiori variopinti. C’era troppo, in Andrea, dell’anima campestre, perché lo spettacolo non gli facesse bene. Tutt’intorno era un gran frastuono di grilli, ubriachi di sole, ed un profumo di tranquillità patriarcale e di buona salute. Andrea si fermò un momento, in vista di alcune case seminascoste fra le piante, e sedette su di un muricciolo. Sarebbe stato bello – pensò – vivere così, nel verde, senza pensare a nulla; e camminare sempre in avanti, come in una bella fantasia di poeti … Ma la strada, invece, era tutt’altra, e non la si poteva evitare: ogni ora recherebbe chi sa quale gravame di amarezze e di non desiderate esperienze … Una rana solitaria incominciò, d’improvviso, nel silenzio alto, il suo gracidare discordante. Poi tacque, rintanandosi, goffamente spaurita, nella melma di un fosso. Quante rane, nella campagna intorno al Cascinone! Meglio non pensare a casa, vien da piangere … Dopo una gran curva, giunse ad una bassa casermetta, che sembrava spuntare su dai campi. L’alpino di sentinella gli presentò l’arma, ed egli entrò. C’era un gran cortilone, dove si aggiravano dei soldati con le ramazze in mano. Uno spingeva una

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carriola, sulla quale andava raccogliendo i rifiuti e le cartacce. Le Compagnie erano fuori, a fare istruzione. Il Comando, al quale Andrea era stato assegnato, non si trovava lì. Era a circa un chilometro, nel paese ai piedi della collina. Camminò, dunque, un altro poco fra gli alti ciliegi, dove qualche bacca rossa era stata dimenticata per il cicaleccio vispo e gioioso dei passerotti. Adesso incontrava con frequenza altri soldati, vestiti in tela e carichi di vario materiale: scarponi, giubbe, bastoni da montagna, teli da tenda. Lo guardavano senza stupore e tiravano via, senza rivoltarsi indietro. Andrea notò, nella loro espressione, qualcosa di molto serio, di molto adulto. Il Comando sorgeva nella piazza del paese, dopo il ciclista. C’erano due grossi platani, vecchi di molti decenni, e alcune panchine di pietra. Un edificio recente e lungo occupava tutt’un’ala della piazza. Andrea pensò che gli uffici fossero là dentro; invece erano sistemati di fronte, in una casina a due piani, priva di ogni pretesa. Salì per una scala stretta e scura e venne fuori su di un terrazzo, dove il postino del Battaglione stava distribuendo la posta agli incaricati delle varie Compagnie. Avanzò in una specie di anticamera: un alpino stava registrando qualcosa sui suoi grossi “protocolli” e, come vide entrare Andrea, si alzò con rispettosa premura e gli chiese se cercasse il “signor Maggiore”. -Sì. Digli che c’è il tenente Mestica, che viene dal Comando di Reggimento. -Sì, signore – obbedì l’alpino. -Attenda un attimo, per cortesia. L’atmosfera era assai più di famiglia che al Deposito. L’alpino entrò nell’ufficio del Comandante. Andrea si sentiva spaesato come un pulcino quando viene fuori dalla scorza, e tutto intorno gli rintrona paurosamente. LXXIV -Il signor Maggiore la prega di accomodarsi. Andrea si fece avanti nella cameretta piccola e in penombra. Entrandovi, non avvertì più né esitazione né diffidenza. Intanto che si presentava, il Maggiore gli venne incontro e gli strinse la mano con vigore. Era un bell’uomo, dall’aspetto limpido e cordiale, e aveva una corporatura robusta. Il tratto era signorile e buono, e Andrea si sentì molto rinfrancato: gli amici dovevano avere un viso così! Il Maggiore gli chiese se avesse sollecitato lui in trasferimento. Rispose di no, Andrea, che l’avevano mandato lì senza che neanche ne sapesse il motivo. Dicendo le parole, aveva la gola secca. -Già … già … - fece il Maggiore. -E … che mansioni ha disimpegnato prima di adesso? -Ero al Deposito, all’Ufficio Amministrazione. -Uhm … Ho capito.- E lo osservò con attenzione. Sotto quello sguardo che lo scrutava, Andrea avvertì immediatamente che il giudizio rischiava di diventare negativo. Dall’esterno gli giunse, traverso un borbottio di più voci, la risata sonora di

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un alpino e una voce schietta di ragazza. Vuotò il sacco, fino in fondo, senza forse rendersene ben conto: -Non ho fatto nessuna corbelleria, di nessun genere. Ero là che stavo bene e facevo il mio dovere col più grande scrupolo, quando di colpo … Non so proprio capire il motivo, a chi dessi fastidio- parlava più per sé solo, forse, che non per l’altro. -Continuo a pensarci, ma non so proprio trovare niente … Il Maggiore si era andato a mettere dietro la scrivania e lo invitava, intanto, ad accomodarsi: -Ma non le ho detto proprio niente da farle supporre che io … Mah sì, la cosa più bella era di sfogarsi del tutto, ormai. Di buttar via il peso di dosso, una volta! Sia quel che sia, dopo. -Veda, signor maggiore, mi giudichi come crede, ma non ne posso più! Io … non ero nato per la guerra, non ne posso neanche sentire il nome. Da quando mi han richiamato stavo al Deposito, e avrei fatto qualsiasi cosa pur di non muovermi di là. Non le sarà ancora successo che un ufficiale si presenti con … un biglietto da visita di questo genere, ma può darsi che la mia franchezza non sia … - guardò bene in viso l’uomo che gli stava di fronte e lo considerava con occhio attento, ma non di rimprovero. Non si accorse di aver lasciato la frase a mezzo, e riprese: -Io, a casa, ho la moglie e un bambino, coi vecchi. È anche per questo, che non volevo partire. Poi, poi c’è tutto il resto. Per me … Io conto niente … - e scrollò le spalle. Concluse: -È un maledetto imbroglio, non ci capisco più niente … Il discorso aveva preso una piega che nessuno dei due avrebbe potuto prevedere. Ci fu un attimo di silenzio, ma più di stupore che non di diffidenza. -Anch’io – interruppe il Maggiore – anch’io ho moglie e figli, eppure … anche se non sono io che ho voluto la guerra, mi è già toccato di farla, e ci riparto, adesso, per la terza volta. Non è colpa di nessuno … Lo guardò fisso: -È il salto nel vuoto, che fa paura a lei. È successo anche a me, la prima volta: è l’ignoto! Non tutti sono fatti per andarci incontro a braccia spalancate. C’è chi chiude gli occhi, e si fa trascinare dagli altri. Ma quello sbaglia come lei, tenente, sbaglia. Non c’entra, in questo, né la voglia né l’entusiasmo né lo spirito di avventura. Basta ragionare a mente fredda, e ci si convince che è così. Ne vogliamo ben poche, noi, delle cose che ci capitano, nella vita. Ma dobbiamo adattarci, e come! Accese un mezzo toscano e riprese: -Vedrà che è meno brutta di quel che crede. Uhm, è strano … quel che noi due stiamo dicendo. Ma io potrei essere suo padre, tanto vale.- Interruppe bruscamente: -Se n’intende, lei, di difesa chimica? Di aggressivi tossici e cose del genere? Andrea si schiarì la voce: -Ah … sì. Qualcosa, beh, ne so. -Va bene, allora. Ha una lettera di presentazione del suo Colonnello, lei, probabilmente. Me la dia un po’, vediamo cosa dice quel brav’uomo … Lesse qualche riga, poi se la mise in tasca. Andrea era del tutto sconcertato per la facilità con la quale quest’individuo affrontava e risolveva, sia pure entro certi limiti, dei problemi così complessi. -Adesso venga con me, di sotto. Mi pagherà il vermut, così si rinfranca e diventa un vero alpino. Se no, ehm … non va. E, non racconti ai colleghi i nostri discorsi … Forza, su di morale, perché, qui, di facce malinconiche non ne abbiamo bisogno: e

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siccome lei non può fare a meno di starci … Vedrà che sarà contento del suo avevamo messo insieme; e del buonumore che non mancava mai! Si alzò, il maggiore, mandando indietro la sedia. Andrea non avvertiva più alcun senso di disagio, gli parve di posare i piedi sul pavimento con una sicurezza che da qualche giorno non aveva più avuta. Di fronte a quell’uomo, aveva fatto la cosa più coraggiosa che uno possa fare: mettere a nudo se stesso. Se quello l’avesse appena incoraggiato a farlo, gli avrebbe raccontato tutto di se stesso: da Nerina a Luci, senza tralasciare nessun particolare, anche i più scabrosi, come parlando a se stesso. Gli pareva di conoscerlo già da tanto tempo e di dovergli una grande riconoscenza. Diavolo, perché la gente di questo stampo è così rara? Sarebbe molto meno difficile, tra gli uomini, il comprendersi – a viso aperto – e il volersi bene. E si farebbero tante asinate in meno. Uno stato di depressione, un difetto o una manchevolezza, confessati, sono molto meno importanti di prima, e li si supera molto più facilmente. Sì, in certe occasioni, quando meno te l’aspetti, la vita è davvero più semplice di quel che non si osasse sperare. -A proposito, tenente, è già stato in licenza prima di venire qui dal Deposito? -No, signor Maggiore. -Bene. Allora, si sistemi e poi andrà a casa qualche giorno … LXXV A questo suo primo incontro col nuovo superiore, Andrea ripensò più di una volta nella solitudine della sua cameretta. Ma il senso di sollievo e di superamento che gliene era derivato, purtroppo non c’era più. Avrebbe voluto ritornare sull’argomento, insieme al Maggiore, ma c’era tanto da fare, in quei giorni, che proprio sarebbe stato impossibile. E poi, a che scopo rivangare ancora, se non per riceverne la patente di perfetto tapino, incapace di affrontare e risolvere da solo – come ognuno dovrebbe saper fare – quel che la sorte gli riservava? Potesse almeno far comunella coi colleghi: la compagnia distrae, dicono … Ma non ci riusciva. Gli ufficiali addetti alle Compagnie lo guardavano anche con malcelato stupore per il buon posto che era arrivato a cogliere, imprevisto, al Comando di Battaglione (a parte l’improvvisa benevolenza del Maggiore, lui pensava che anche la lettera del Colonnello a qualcosa indubbiamente era pure servita); e, inoltre, non c’erano molte occasioni, per incontrarsi con loro. Infine, quando si vedevano, o si parlava di argomenti militari o di frivolezze di nessun conto … Il fatto che si sfuggissero accuratamente argomenti più impegnativi, incominciava comunque a convincere Andrea che anche gli altri, più o meno, la pensassero al suo identico modo. E intanto si stordivano con quel poco che la località poteva offrire. Anche gli alpini, nelle ore libere, pareva non avessero altra preoccupazione che quella di divertirsi: o meglio, di scordare quel che per essi stava giungendo a maturazione. Quelli che erano riusciti ad accaparrarsi una ragazza nel paese e nelle vicinanze, se la filavano per la campagna; gli altri facevano ressa nel cinema (un gran scatolone,

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privo di qualsiasi attrattiva, se si eccettua quella del buio. Andrea, dopo la prima volta, ci aveva rinunciato, senza rimpianti) oppure si affollavano nelle varie osterie, che indubbiamente facevano affari d’oro. Anche parecchi ufficiali avevano la ragazza, più o meno fissa. Ed altri ancora si erano fatti raggiungere temporaneamente dalla moglie. Andrea pensava con infinita amarezza a Luci. E poi alla Gisa, al bambino, al Cascinone. Come tutto gli era parso, ad un tempo, e familiare e sperso, quando era stato a casa ad annunciare la brutta notizia! Suo padre – almeno in apparenza – si era rimesso quasi subito, aveva delle capacità di ricupero non indifferenti; ma, per la Minghin, era stata un po’ diversa: non le andava giù, la faccenda. Non sapeva darsi pace, buona donna, che gliel’avessero combinata così enorme. Anche se si nasce docili e obbedienti, viene il momento che uno non ne può proprio più: e lei non la masticava, ‘sta porcheria, perché era sicura di non aver fatto niente per meritarsela. Che soddisfazione c’è a mettere al mondo dei figli, a farli crescere, a dare loro una posizione e una moglie, a dare loro un figlio (ché le sembrava che fosse soprattutto “suo”, il Luigino) se poi, tracchete, ti pigliano quest’uomo e te lo scaraventano a rischiare la pelle chi sa dove e perché? Certe cose non le andavano giù. Non poteva. C’erano tanti pelandroni in giro, mandassero quelli … La reazione della Gisa era stata stupefacente. Si era scossa tutt’un tratto, dimostrando che forse avevano sbagliato tutti quanti a giudicarla, fino a quel momento. Tanta trepida tenerezza, in lei, Andrea non l’aveva sperimentata neanche la prima notte di matrimonio e durante la “luna di miele”… La moglie, adesso, gli occhi lustri come per febbre e la voce arrochita. Il turbamento era così grande che non riusciva neppure a buttar fuori tutt’insieme le parole; sembrava che dovessero prima gorgogliarle in gola, in attesa che le lettere arrivassero tutte, a completarle, una per una. Erano stati soli per lunghe ore, ed il colloquio era stato dei più strani. A tratti, la donna si eccitava, e parlava e parlava con artificiosa e quasi ostinata animazione; diceva anche delle gran sciocchezze, apparentemente prive di senso. Poi stavano zitti entrambi, distratti l’una e l’altro su fili diversi e lontani. Il punto di contatto era il bambino ignaro che stava fra loro, ma di lì ciascuno partiva per conto suo, su tracce ignote. Quando si ritrovavano, l’incontro era talvolta brusco e inatteso. Pareva un cozzo. La prima sera della breve licenza avevano deciso di dormire nella camera di Andrea, di quand’era studente. Lui si stava spogliando intanto che la moglie si era già coricata. La donna, che aveva passato delle ore gonfie di imbarazzo e di quasi assoluto silenzio, si era rivolta improvvisamente a lui con voce angosciata e grossa: Andrea, cosa capiterà … di noi?- e aveva distorto la bocca in un disgustato ghigno di amarezza, una smorfia grottesca che egli mai aveva notato, prima di allora, sul volto di lei, sempre tanto composto e chiaro. Ne era rimasto sconvolto. Gli occhi della Gisa parevano febbricitanti e ardevano come due carboni accesi nel buio. Lo aveva abbracciato con veemenza incredibile, con lo slancio di tutta se stessa, come

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mai aveva fatto prima di allora. Diamine, ci voleva proprio la partenza di Andrea per la Russia, perché si svegliasse tutta di un colto? -Te ne vai, tu. Ma … e noi, che restiamo? Va tutto a rotoli, adesso. Mi era sembrato che avrei finito con l’abituarmi, a stare lontana da te. Ma, così, no. Cos’ è assurdo, così è orribile. È una cosa troppo crudele, per poterla accettare … E so che ti dovrei far coraggio, dimostrarti che ne ho tanto anch’io … Aveva singhiozzato a lungo, con la testa buttata sul guanciale, come un cencio inutile che non le appartenesse più, che la ingombrasse e tentasse di dimenticare in qualche posto, per non esserne afflitta in seguito. E lui, là, istupidito, a guardarla come uno scemo, senza saper far altro che diventare più cupo e più sordo … Si ha un bel dire, l’essere forti e l’essere in gamba: per digerire certi avvenimenti, neanche basterebbero gli struzzi! Più tardi avevano pianto insieme, silenziosamente; ed era stata come la temporanea liberazione da un male antico. Ciascuno, però, piangeva per conto suo, per motivi propri. Anzi, Andrea non sapeva neppure bene, lui, il perché delle sue lagrime. No, era meglio non vederla più, la Gisa, prima di partire. O vederla soltanto all’ultimissimo momento. Sarebbe più utile a tutti e due. LXXVI Andrea venne fuori sul balconcino che dava sulla piazza. Un vecchiotto stentato passava di sotto, strascicando i piedi da far compassione. Era molto malinconico, nel suo andare: pareva arrancasse incontro a una salita, che doveva essere troppo dura, per lui. Evidentemente, gli mancava … l’allenamento: a ‘sto mondo, in definitiva, in tutte le cose è questione di allenamento, più che altro. Aveva le spalle a cerchio e la corta giacchetta, lisa e frusta, aveva il colore dei molti anni passati. L’andare di ciascuno di noi, visto con occhi snebbiati, dev’essere qualcosa di molto simile, specie in certi momenti. Andrea trasse di tasca l’ultima lettera ricevuta da Luci. Era di colore giallastro. Rivide la studentessa, arida, spersa, vuota. Anche lui era così. Tutti siamo a volte così, anche se non lo sappiamo: soprattutto in quel caso. Rilesse: … “sono come una funambola, che debba camminare su una corda tesa, e non conosco il segreto dell’equilibrio. Se non mi aiuti tu, Drea, chi mi terrà su? Vienmi incontro, Drea, se c’è tempo ancora …” C’è gusto, a riversare le proprie scoglionature sul prossimo? La solidarietà e l’amore l’intendono così: ma ha l’aria d’essere un grande sbaglio. Abbiamo già, ciascuno, i nostri durissimi ostacoli da superare, gli altri non li scorgono neanche. Perché andiamo a raccontargliela a loro? È che pare che il … barile, sgonfiato di parole, perda anche parte del suo peso. Il che è vero fino a un certo punto. Andrea ristette qualche momento a studiare con grande attenzione le evoluzioni di una mosca sulla ringhiera di ferro. Poi, si alzò quasi con furia. Scese e traversò la piazza. Entrò nell’osteria dove c’era il centralino e chiese la comunicazione con Milano. Fra una settimana o poco più sarebbero partiti.

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LXXVII I preparativi stavano ormai concludendosi. Dopo il gran tramestìo delle precedenti settimane, era intervenuta una pausa di silenzio attonito e di raccoglimento. I soldati avevano avuto tutti quanti la loro breve licenza. Nelle giornate trascorse a casa avevano potuto sfogarsi e calmare i bollori. Adesso, dopo che erano ritornati, stavano tranquilli e seri, tanto non si poteva fare diversamente. Si sarebbe detto che ciascuno stesse in ascolto di se stesso, per percepire con dolorosa intensità lo sfuggire inesorabile di quelle ultime decine di ore. Il tempo, per loro, non era più cadenzato dal monotono susseguirsi delle lancette dell’orologio, che girano, girano fino a ubriacarsi e a non capire più niente neanche loro: ciascuno lo avvertiva passare dentro in se stesso, senza l’aiuto di strumenti di misura. Il sole che la mattina sorgeva avrebbe recata la novità. Quelli che avevano già partecipato alla guerra in Albania – ed erano buona parte – scontavano in silenzio, tutte in un attimo solo, le fatiche bestiali che ancora li attendevano; le ore infernali della lotta a denti stretti contro il nemico, le pallottole, gli elementi naturali, la fifa, sì anche la fifa, della quale mai nessuno ha il coraggio di parlare, appunto perché tutti quanti ne hanno in corpo una così rilevante dose. Erano sospesi in uno stato d’animo straordinariamente pacato e pieno di riserbo: ad osservarli bene, pareva fossero andati insensibilmente appassendo, fino a maturare sul volto una maschera di chiusa impenetrabilità. Davano sulla voce alle reclute, ai “giuvi” (giovani) che non si erano mai trovati “in linea”, ma il sorriso che velava le loro “grume” era stanco e privo di convinzione. La guerra, cribbio, essi sapevano quello che è, questa boiata spaventevole. Si pianta qua baracca e burattini, per andare a spegnere un fuoco che non si è acceso noi. Anzi, non si va a spegnerlo, ma a portare nuovo combustibile, perché possa dilatarsi e divampare sempre di più. A casa c’è la moglie, c’è la morosa, ci sono i genitori e gli amici, i campi da coltivare e il pane del proprio lavoro. C’è la vita. E bisogna andarsene; andarsene a fare che cosa, se tanto in tasca non te ne verrà mai nulla? Sei nato servo, e creperai nella medesima condizione. Non te ne illudi neanche. Cosa importa l’un padrone piuttosto che l’altro? Pagare in lire o in marchi, in sterline o altro? Tanto, quel che importa è che il padrone i crediti li esige. E il padrone è questa vita da cani. Quindi… Neanche il vino c’è, in Russia, ragazzi! Ingozziamone adesso quanto più ci riesce, che almeno ce ne resti in bocca il sapore per molto tempo. Maledizione, costa un’ira di dio, e magari annacquato! Tutto costa da matto; e dicevano che questa guerra non avrebbe visto gli arricchiti e i profittatori. Bestia, io che ero tentato di crederci! Mah già, cretini si nasce … Per la miseria, un bicchiere te lo fan pagare una lira, ‘ste carogne! Fa niente, bevi! Bevi! Bevi! Asino, pago io stavolta; tanto può darsi che, dopo, non se ne mandi giù più dell’altro! Chi sa mai … Non resta sullo stomaco, quel vino, ma in gola sì che rimane, in gola! Ha un sapore aspro e crudo, sa di delusione rassegnata e sa di rancore che vuole trovare il modo di sfogarsi, se no scoppia. Va al cervello e al cuore, quel vino, e ne tira fuori

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tante canzoni, piene di ricordi. Ma non canzoni soltanto; suscita tutto un friggío di pensieri che prima erano indistinti e non riuscivano a trovare una dimensione fissa: come immobilizzare delle amebe. Se non fosse un vivisezionare se stessi, sarebbe piacevole il farlo. Leggerci dentro con lucidità, finalmente, in questa massa gelatinosa che sta dentro nella scatola cranica; scavare la corteccia e vedere un trasparenza, che affollamento inverosimile di cose vi siano contenute. Con un bicchiere in corpo, certe cose muoiono nella cavità della bocca; un mezzo litro di più le farebbe urlare ad alta voce. Peccato che ci si ferma quasi sempre con quattro bicchieri di meno … Stiamole a sentire, ‛ste cose, che sono istruttive. È una vera piacevolezza, ascoltarle. Parlano di ribellione e di diritti, una buona volta! Peccato che, smaltito il vino, normalmente i diritti facciano l’uguale fine, nello stesso posto anche loro con tutto il rimanente. Considerazioni semplici. Per la malora, perché devo partire un’altra volta? Ma, a me, cosa me ne infischia del partito, del fascismo e del canchero che si porti via tutto quanto, loro e i loro stracci? Cosa me ne viene se vince la Russia o se perde l’Inghilterra? Da mangiare a gratis non me ne darà nessuno. Mi lasceran da lavorare: servo ieri e servo domani. Oggi, no, oggi sono schiavo; non mi lasciano nemmeno aprire il becco quanto basta a respirare … Cosa ci vado a fare, io, in quei posti là? Mondo porco, a casa le tasse il mio vecchio l’ha da pagare lo stesso, l’ha da pagare. E i campi, chi glieli lavora? Se dà i soldi a loro, non può permettersi di far lavorare della gente. Possibile che non le capiscano queste cose tanto elementari? Non si munge una vacca asciutta. E la Lina, con intorno quel maiale fottuto del geometra, saprà mantenersi vergine, per quando torno? Son donne … Se torno, poi, veh! Già, quello è riformato, brutto schifoso! Io non lo posso fare, non ho mica la salute e i soldi che ha lui, per poter fare l’imboscato. Per starsene a casa, bisogna avere la salute di ferro. È lì che scoppia dallo star bene, lui, l’animale, e non fa altro che vagabondare dappertutto dove c’è da correre dietro a una sottana. Coi soldi, se ne comprano a tonnellate, di donne … Buttarsi sulla plancia di listelli di legno, e tentare di dormire su due dita di paglia sminuzzata. RUSSIA! Dilatare gli occhi nel buio, e non vedere più in là di due dita. RUSSIA! Se allunghi troppo un braccio, nella notte, puoi avere la sensazione di non possederlo più, di dover mandar fuori una pattuglia, a vedere se te lo ritrova. RUSSIA! Un’avventura che può anche tentare, per certi aspetti. Ne han parlato tanto male, di questo paese misterioso, che dev’essere interessante vedere se è proprio come dicono loro … Ma a me, in definitiva, non mi rompono mica le scatole, non mi han mica fatto niente di male, quelli là, perché vada là a fare la guerra. Già, fare alle fucilate, come se fosse uno scherzo! No, no, non me ne importa un fico secco di vedere quei posti là; io vorrei solamente starmene a casa mia e lavorare in pace. … Se non mi fanno fuori, tornerò a casa – sotto padrone sempre, uno che prenda la piazza di quello che va via non manca mai – vecchio, scalcinato, un po’ ridicolo. Avrò fatto il mestiere del soldato, o dell’eroe, mestieri che rendono tanto! Mi

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sghignazzeranno sul muso, e io me ne dovrò star zitto, per non avere più torto ancora: si sa come vanno a finire, certe cose. Poi, verranno fuori i reumi e tutte le altre grane, e non mi riconosceranno di sicuro, ‛sti accidenti! Loro, non lo portano mica, lo zaino di quaranta chili – gli darei dentro dei calci, dalla rabbia, a ‛sto fagotto che mi abbrutisce .. – loro, non dormono nella guazza e col cielo sul capo; loro mangiano bene. Noi, si può crepare senza che ti dicano neanche un “amen” per ringraziamento. E poi parlano di giustizia, parlano … Bisognerebbe pigliarli tutti per il collo, si dovrebbe! E sparar loro addosso. Ma, sparare, forse, no. Sarebbe meglio afferrarli ben bene e stringere, stringere fin che tirino fuori la lingua e si facciano paonazzi, e poi verdi, e poi viola un’altra volta. Ci vuole crudeltà, con loro, così come fanno con noi, né più né meno, che ci trattano peggio delle bestie. Ma, poi … ? Poi, mi ficcano dentro a muffire, mi processano, mi sbattono al muro. In un modo o nell’altro, trovano il sistema di finirmi: sono loro che comandano e, in queste cose almeno, di fantasia ne hanno anche più del necessario. Voltolarsi sulla plancia dura, sbattere un gomito contro la gavetta, che conosce troppo spesso solamente i pochi “tubi” scuri nel brodo lungo lungo che sa di cipolle, e quella esile fettina di carne, con la quale ti logori le ganasce, tanto è tenera. Si grugnisce un’imprecazione e dopo … ci si russa sopra, come una grancassa sfondata. Fin che si può dormire, è già una bella cosa. Ci si sveglia il mattino – in malora quella tromba d’inferno! – con la lingua spessa e appiccicosa, le labbra secche e la gola bruciata. Gli occhi sono pesti e lividi, come se ci avessero battuto sopra dei gran pugni. Le ossa, quelle, non si indolenziscono più: sono adusate, ormai, all’asprezza ed agli spigoli irregolari del giaciglio (la sapeva lunga, quello che disse la prima volta che l’uomo è l’animale dotato della maggiore capacità di adattamento). E ci si rimette al tiro della carretta. Pieni di bile contenuta e di una forzata rassegnazione (o non è la paura del peggio?), come muli che non conoscano – nel loro destino miserevole – se non il violento bastone o la poca manciata misericordiosa di fieno stantio. L’ENERGON è già un corroborante premio. LXXVIII Adesso che Luci aveva detto che sarebbe venuta, ad Andrea parve di stare molto meglio. Tornò su al Comando con passo più calmo. Per la scala stava scendendo “a valanga” un porta-ordini, che quasi gli rotolò addosso. -Ch’el scusa, sciûr tenent … A momenti cadevo. Sarà stato sui ventisei anni. Non aveva in testa il copricapo, e Andrea notò con fastidio i capelli stopposi e disordinati. I suoi lineamenti erano privi di qualsiasi armonia: tutto quel che c’era, nel suo volto, eran due occhi puntuti e chiarissimi, che sorprendevano chi li osservasse. Si diresse col suo passo pesante a un bugigattolo e ne trasse fuori una bicicletta militare, dalla forma comica e tozza. Andrea si era fermato a guardarlo. -Sciûr tenente, lu … lei, che lo sa, dice che useranno davvero i gas, i russi? -Sei matto, tu. Perché mai li dovrebbero usare?

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-Mah, e allora … allora perché mi hanno dato la maschera? Ch’el guarda, che borsone! Ci ho già lo zaino, ch’el pesa come un baule … -Vai, vai, Torrazza; hai solo delle storie, tu. Cosa vuoi capirne, tu, di certi perché? Il porta-ordini aprì le labbra in un sorriso stupido e infantile, che gli dilatò enormemente le ganasce, come se gli angoli della bocca volessero cercare gli orecchi; e se ne andò borbottando: -El ga reson, lû. Sono io, che sono un asino. Andrea lo sentì, di fuori, che lanciava un frizzo alla Carmela, una ragazzotta dal viso lungo e tutto invaso di lentiggini, che passava gran parte delle sue ore a farsela contare su dai “baldi” del Comando. La voglia del maschio le traspariva violenta da ogni poro della pelle, anche se pareva una rapa, a guardarla di sfuggita. L’alpino saltò sul velocipede con un goffo volteggio, sacramentando perché il sellino gli metteva fuori uso qualcosa di molto importante e, pedalando con vigore (sembrava si dimenasse in preda a frenetiche contorsioni), scomparve diretto alle Casermette. Era un po’ tonto, come ragazzo, ma era stato “ardito” in Albania, e recava sul braccio il distintivo della ferita che si era beccata una notte, per colpa di un certo mortaio nascosto. Se gli avessero comandato di buttarsi nel fuoco, ci sarebbe andato dentro ad occhi chiusi. Si pigliava dieci “cicchetti” al giorno, ma era come battere su certi materassi. Più ci pesti sopra e più ne vien fuori polvere. Andrea pensò che doveva essere molto bello vivere così, senza capire niente, senza approfondire. Si trascorre leggermente su ogni cosa, senza invischiarsene mai. Che fortuna sarebbe. Non ci sono dubbi. È la smania (o la necessità) del pensare, del riflettere, del voler capire ad ogni costo, quella che generalmente rovina ogni cosa. A che serve, infine, voler sapere i perché, quando, per ognuno che hai scoperto o ti illudi di aver trovato, altri infiniti ti sbucano d’attorno, tutti senza soluzione, a non lasciarti requie? L’essere intelligenti – anche soltanto un poco – a questo mondo è davvero una grande noie, che presenta i suoi bei pericoli e ti fa essere, ad ogni ora, incerto su quello che sarà cinque minuti dopo. È un distruggere la gioia prima ancora di possederla. Un essere bestia, in un certo modo. Ad Andrea capitava così, adesso, per Luci. Era una gran bella cosa che la studentessa venisse, e se ne sentiva tutto riconfortato; ma, poi, come si sarebbe concluso l’incontro? Amore, amore, amore … Ma anche se l’amore è una cosa importantissima, non bisogna mica mettersi in testa che voglia e possa essere tutto quanto. Con ogni probabilità questa visita, in seguito, lo infastidirebbe non poco. Diavolo, me ne vado e non so se torno. Ragioniamo un po’ a mente fredda, se ci riesco: a darmi il “viatico” viene Luci. E va bene … Ma ho dentro “qualcuno” che mi dice che c’è qualcosa che proprio non funziona. Fin che ero a Milano, beh, allora c’era la gran distinzione, tra lei e la Gisa. E anche adesso la distinzione c’è, ma la sento diversa. A Milano, in carne ed ossa, per me era Luci, la moglie. Ma qua no, eh no, la moglie è quella che abita al Cascinone, nella mia casa, non me ne svincolo, non c’è niente da fare. E più me ne andrò lontano, più lei riprenderà intere le sue

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prerogative e i suoi diritti. Inutile volerselo nascondere: anche se mi inganno adesso, la dura poco, poi … Dio santo, che imbroglio. Meno districabile di tutti i precedenti. Andrea ebbe un moto di irritato imbarazzo. Al momento di rompere i ponti col mondo, ohilà, si va in cerca di qualcosa a cui appoggiarsi solidamente, se no chi ti tiene in piedi? Brancolare nel buio, va bene finché ci si resiste: ci sono troppi spigoli in giro, troppi agguati sconosciuti. E se ci sbatti dentro la testa in pieno, è finita. Anche l’individuo più saldo, più freddo, più ateo, amorale ed insensibile, anche quello ha la sua brava crisi di spirito, quando debba partire incontro a quello che non conosce. Nemmeno l’incosciente lo può evitare: non è questione di essere fragili e deboli … Le ragioni puramente materiali, un uomo non lo tengono mica a galla, in momenti come questi: non è poi un bue, che entra nel mattatoio soffiando di piacere perché là dentro fa fresco, col ventilatore che gira! La convinzione religiosa di Andrea era troppo fragile, e appunto per questo gli occorrevano altri solidi pilastri ai quali aggrapparsi; incominciava a farsi strada in lui il bisogno, spaventato e urgentissimo, di sentirsi un po’ meno in disordine con la coscienza, per potersi presentare al Giudice – e un Giudice c’è senza fallo: è nell’istinto anche dei primitivi l’andarlo a cercare! – con le mani pulite e lo sguardo il più possibile diritto, senza possibilità di troppo facili confusioni. Soltanto così potrò cavarmela: se adesso mi faccio giudicare come un suino, come potrà finir bene? Si sorprese, Andrea, irritato e quasi furioso, a chiedersi dove mai avesse ereditata questa nuova e allarmante necessità di pensare. LXXIX Il Battaglione fu radunato tutto sul campo “della fiera”, dove fino a pochi giorni prima c’erano stati i saltimbanchi. Erano ancora visibili i resti del piccolo circolo di segatura, dove i pagliacci e la giovane acrobata esibivano i loro fiacchi numeri. Lola era assai più in gamba per i prati, probabilmente, che non coi salti mortali … L’altare da campo era stato montato vicino a un muro di cinta, di là dal quale spuntavano le cime dei peschi. Gli alpini erano schierati avendo alle spalle un torrente che scendeva scarsissimo di acque, in mezzo a certi grossi pietroni. Il sacerdote officiò con solennità, e poi si rivolse alla truppa. C’era, nell’aria del mattino, un che di mistico e di arcano: un’atmosfera di raccoglimento e di insolita devozione, resa anche più intima dal lievissimo stormire delle foglie dei pioppi. Molti soldati si erano comunicati e adesso stavano tutti ad ascoltare, con la faccia di circostanza, quel che diceva il Cappellano. Lo seguiva con discreta attenzione, perché diceva delle gran belle parole, anche se non le capivano proprio tutte nel loro vero significato: e poi, c’era anche quest’interesse della novità, che è sempre una gran cosa. Il tono della sua voce era molto vario e vibrante, e pareva venisse dall’alto, dove bisbigliavano i pioppi, invece che dalla piccola pedana di legno ruvido ricoperto da un tappeto, che l’aveva prestato la tabaccaia.

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Sul ponte assistevano numerosi “borghesi” – i curiosi non mancano mai, specie nei piccoli paesi, e già si trattava di un avvenimento del quale si sarebbe parlato per del tempo! – che stavano a seguire la scena col più grande interesse, tentando di afferrare qualche parola del predicatore. Dall’altra parte del torrente, invece, su di un balcone lungo e stretto, stava Malvina, la serva del farmacista, con le braccia nude sulla ringhiera di ferro. Era giovanissima e di una carnosità fresca e prepotente. Da parecchi mesi amoreggiava con un sergente maggiore e una serata chiara, nel languore della primavera, l’esuberanza dei sensi l’aveva piegata a concedersi al suo Arturo, senza la più piccola riserva. Era stata una gran frenesia, sotto un vecchio ciliegio; e la ripetevano spesso. Arturo aveva un’esperienza eccezionale e faceva delle vere e complete passeggiate sul suo corpo, che era tutto in una straordinaria agitazione, tanto da non farle capire più, a Malvina, in che mondo stesse vivendo, se sognasse e se fosse possibile una meraviglia di questo genere. Per quella passione, si era fatta sempre più carina e appetitosa; e teneva tutto per lei il suo segreto, come in una preziosa cassaforte. Guardando, adesso, il Battaglione schierato, col prete che parlava – ma neanche tendendo l’orecchio le arrivava una sola parola – un pensiero orrendo la traversò tutta, inchiodandola, sbigottita: e se, per caso, fosse incinta? Si compresse le tempie con le palme aperte e si sentì invadere da un sudore freddo, sottile. Indugiò ad ascoltarsi febbrilmente e a riandare con affanno alle vibrazioni ignote nate nelle sue membra dopo aver giaciuto con Arturo. Se fosse davvero? Erano movimenti provocati soltanto dall’incontro col maschio, o c’era qualcosa di diverso e di più grave? Se fosse davvero? Il pensiero spinoso la invase tutta. Le tremavano i ginocchi, tanto forte come se uno la scuotesse per di dietro, e si dovette appoggiare alla ringhiera anche più pesantemente, per evitare di cadere. Non ne sapeva proprio nulla, la Malvina, della forza ingenua e potente che comprime in un solo viluppo una donna e un uomo: sapeva soltanto che, a lei, la faccenda piaceva immensamente. Ne provò uno smarrimento increscioso. S’infilò in una camera e si guardò allo specchio. Le parve, con terrore, che gli occhi le brillassero in modo ambiguo e inconsueto. Fece rapidamente il calcolo del tempo: non poteva essere. Si trattava di idee sciocche. Ma, se fosse? Oh, buon Dio, cosa ne sapeva lei, dei sintomi che si provano? Perché non si provvede ad istruire i giovani su di una cosa così essenziale come questa? Mondaccio ipocrita, si direbbe che han paura che una comprenda di essere donna, come se la carne avesse bisogno di interpreti, quando si risveglia! Si buttò in ginocchioni, con gli occhi duri e sbarrati e la testa fra le mani. Aveva quasi voglia di fare delle pazzie. Intanto che ci pensava, le giunsero, in quella, le note dell’attenti! Parevano sforacchiare le orecchie con violenza, quelle note, come migliaia di aghi che entrino nella pelle. Malvina pregò con fervore, con slancio fanatico. Poi si alzò, carezzandosi impaurita le anche e il ventre; si discinse un poco, per sincerarsi meglio: sorrise, tutto era in regola! Cribbio, era un gran bel pezzo di figliola, da non piantarla lì più … Aveva ben ragione Arturo, quando le diceva che aveva dei fianchi e delle puppe “strepitosi” …

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Malvina scoppiò in una sonora e linda risata. Lo spavento era bell’e passato. Bisogna essere delle sceme, a farsi venire certi grilli per la testa! Mandò mentalmente un bacio ad Arturo, che era di là dal torrente, ma lei non lo poteva vedere, perché era più piccolino di tanti altri; e decise che, se i timori le fossero tornati, gliene farebbe confidenza al farmacista suo principale. Non la mangerebbe, infine. Anzi, adesso che lei ci pensava meglio, lui qualche volta la guardava con insistenza e la pizzicava sul collo. Lei scappava via, un po’ confusa, perché ne aveva una gran soggezione; ma lui le tirava dietro certe occhiate che a Malvina pareva di sentirsi tutta nuda, là sotto, come in una campana di vetro. Da quando Arturo l’aveva resa esperta di talune cose che prima c’era solamente l’istinto ad insegnargliele sommariamente, le pareva di sentire quegli occhi frugarle il velluto della pelle, e ne trasaliva tutta. Una cosa in gamba … Pareva di acciaio e di fuoco, quel modo di frugarle sotto le vesti, pur senza metterle addosso le mani. Era evidente che il farmacista non assisteva con indifferenza alla crescita di quel fiore carnoso, che gli stava sbocciando in casa. Lei non lo sapeva, ma una ragazza cos’ è sprecata in un paesino: tutt’al più (ma sempre che non sia una serva) riesce a sposare il nipote del segretario e a fargli un po’ di insipida compagnia. La Malvina aveva un corpo squisitamente fragrante, e incominciava soltanto allora a diventare “all’onda”. Figuriamoci andando avanti! Era molto probabile che qualche giorno il farmacista non si contenterebbe più di pizzicotti a fior di pelle: vorrebbe qualcosa di più sostanzioso. Non era mica un brutto uomo, lui, il farmacista, e non aveva neanche raggiunta la trentina: abbastanza giovane per fare delle buone imprudenze, col cuore almeno … Era scapolo, non andava male. Non si sa mai. Cose del genere ne succedono, qualche volta. La testolina della bella Malvina non era del tutto vuota, e lavorava in fretta, all’occorrenza, con uno sviluppato senso di praticità. Avrebbe dato dei punti a molte donne navigate, in queste cose, anche se non conosceva del tutto gli immensi vantaggi della sua gloriosa bellezza. L’unica cosa da farsi era, senza dubbio, quella di aiutare un poco il signor Gianni a mettere le mani avanti. L’idea non era affatto delle meno intelligenti: lei ci stava, senz’altro. Cos’, se qualcosa succedesse … Ma non succederebbe proprio niente di spiacevole, anzi! Uno che ha studiato farmacia, certe cose le sa bene. Peccato, però, che Arturo se ne vada. Si andava così d’accordo. Adesso che lui non ci sarà più, bisogna proprio che mi faccia consolare dal farmacista: è necessario essere pratici, a ‘sto mondo. Anche se può essere un’audacia, da parte di una serva, è meglio farsi sotto. Se non lo acchiappo presto, arriva qualcun’altra, e salute! Di cercar storie altrove, non ne ho proprio voglia. Fare all’amore è una bellissima cosa, ma bisogna anche essere tranquilli che non succedano grane. E poi, non è escluso che riesca a farmi sposare. Sarò la “signora” del farmacista, che bellezza! Che stupida, non averci pensato prima di adesso! LXXX

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Gli alpini Malinverni e Ronzoni erano due individui come ce ne sono tanti, innocui e assolutamente comuni. Dormivano l’uno sopra l’altro, all’accantonamento. Giocavano insieme a STOP, ed erano tutti e due abbastanza scarognati. Peccato che la “paga” fosse così meschina, se no ne avrebbero persi, dei baiocchi, quei due. I soldi che ricevevano da casa avevano sufficiente buon senso per utilizzarli in modo più redditizio: l’istintiva taccagneria del contadino non glieli lasciava rischiare in un’impresa innegabilmente avventurosa, come quella delle carte. Erano soldi sudati, quelli! Invece, la “decade” aveva un sapore differente; sembravano denari entrati di traverso, per una contaminazione incresciosa: era meglio farli sparire alla chetichella, menan gramo diversamente. Tanto, anche a capitalizzarli, bastano sì e no a mangiare una stanca cena una volta ogni dieci giorni … C’era qualche osteria dove con poche lire ti davano due uova con quattro fogli di lattuga. Ma non ne valeva la pena: l’olio, dentro, lo facevano appena appena vedere, e non tutti dispongono di certe amicizie, per poterla condire bene, l’insalata. Così, la sera, quando quel disgraziato del trombettiere aveva fatto finta di suonare il silenzio – lo sapeva anche lui, di essere uno “chiappino” senza confronti! – aspettavano che l’ufficiale di servizio passasse a immergersi per dieci secondi nel tanfo della camerata; e poi si arrampicavano sui “castelli” insieme a tre o quattro degli altri, e giocavano. Stendevano qualche coperta l’una sull’altra, proprio sotto il fascio della luce, e quello era il tappeto. C’era bene qualcuno che bestemmiava, perché non poteva dormire; ma gli davan sulla voce e, dopo aver brontolato un altro po’, quello si zittiva. Tanto, era inutile protestare … Si mettevano in mutande e mandavano fuori sudore a più non posso, anche se le finestre erano tutte spalancate. Era raro che venisse dentro un po’ di fresco. Di solito erano zaffate tiepide e tranquille, che si venivano a mescolare alla pesante puzza che non andava mai via da quei castelli: un misto di paglia e di muffo, di umido e di sudore e di odor di piedi, penetrante, caustico. Si accosciavano e continuavano a cambiare posizione, senza trovarne mai una che andasse definitivamente bene; leticavano per un soldino, come se si fosse trattato di un capitale spaventoso. Era enorme, la lotta e la brama di vincere: gente così, se avesse avuto dei soldi, si sarebbe sparata la prima sera di “baccarat” o di “poker”. Per fortuna, le puntate più forti ammontavano a due o tre lire: e ne restavano già col fiato sospeso. Lo stesso anche i bambini, quando costruiscono col fango i loro palazzi, e poi restano attoniti ad ammirarli: sono tanto grandiosi che ne han quasi paura essi stessi! LXXXI Quella domenica della messa, gli alpini avevano avuto il rancio speciale: il che vuol dire carne un po’ meno legnosa, un’aggiunta di vino e un pezzetto di formaggio, di quello che d’estate lo senti per l’odore a parecchi metri di distanza. Forse glielo avevano dato perché, a tenerlo l’ ancora, sarebbero cresciuti i vermi; e, d’altronde, bisognava sgomberare il magazzino, prima di andarsene fuor dai piedi.

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Consumato il lauto pasto, Malinverni andò in camerata, frugò nelle profondità dello zaino e ne trasse fuori la carta da lettera. Portò giù anche la giubba di Ronzoni e le sue buffetterie (era una cosa ben inutile, ma bisognava portare forzatamente a spasso anche quelle, come se non fosse bastata la giacca, per inondarsi di sudore!), e vennero insieme in paese. Entrarono in un’osteria meno affollata delle altre – c’era una specie di salotto in penombra, quasi fresco – e scrissero a casa e alla morosa. Comandarono mezzo litro e lo bevvero intanto che tiravano giù le loro frasi. Un goccio di vino aiuta meglio a trovare le parole adatte, in certe occasioni. Senza il bicchiere davanti, per loro sarebbe stato molto più difficile, tenuto conto anche della loro scarsa dimestichezza con le esercitazioni epistolari. Quindi decisero di fare quattro passi, in cerca di un po’ di refrigerio. Quel pomeriggio avevano il permesso: era da una settimana che sgonfiavano il furiere: avevano delle faccende in piedi, con lui, per via dello STOP. Avevano bisogno di quiete. Presero per una mulattiera sassosa, che saliva incassata fra un muretto di cinta e il fianco sventrato della collina. Il caldo era bestiale e l’aria pareva morta, scottata anche essa e tutta piena di vesciche, che mandavano fuori in continuazione soffi di fiato caldo. Dopo essersi guardati attorno, che non ci fosse in vista nessun ufficiale, si tolsero le pesanti giubbe, che erano decisamente insopportabili, e sbottonarono la camicia, rimboccandone le maniche. Si stava molto meglio. Camminarono in silenzio per un certo tempo; pareva che avessero la sola preoccupazione di posare bene i piedi sul fondo disuguale della strada. La mulattiera s’inerpicava senza tregua – han del coraggio, le strade: loro, vanno sempre avanti! – e giunse in vista di uno sparuto gruppetto di case rustiche, drizzate verticalmente sui suoi bordi. I muriccioli a secco sembrava avessero preso cappello e si fossero tanto inorgogliti a crescere, fino a diventare un alto muro, tagliato da qualche brutta e irregolare finestra. Le facciate erano sporche di umidità e scalcinate. L’unica nota allegra era data dal delicato azzurro del verderame attorno ai gambi della vigna, che salivano verso i poggioli anneriti dal tempo. Le case erano addormentate nel sole. Non ne usciva alcun segno di vita, se non nelle galline che razzolavano nei cortili, incuranti dell’afa. -Andiamo a trovare la Rosanna?- propose Malinverni. –Magari ha già munto, e ci beviamo una scodella di latte. -Non ne ho voglia, Carlo. Traversiamo, piuttosto. Malinverni acconsentì senza entusiasmo e, per una breccia aperta nel muro di cinta, si incamminarono l’uno dietro l’altro per un sentiero appena visibile nel prato falciato di recente. Sarebbe bello, addentrarsi così verso il bosco, senza pensieri. Non avere più noie, né per la guerra né per il fottio di preoccupazioni a cui uno è costretto, se vuol campare in qualche modo. C’era una grande pace. Solo i grilli non la smettevano un istante di frinire: si abituano tanto al loro verso, ‘ste bestiole, che forse lo fanno anche quando dormono. Diventa un modo di essere, per loro, come per un vecchio mendicante il raccattare le cicche.

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-Però, più tardi guarda che ci voglio andare. Almeno ‘sti pochi giorni che siamo ancora qui, al latte non ci rinuncio. -Beh, poi ci andremo … Erano giunti a uno spiazzo, dove giaceva abbattuto un gran tronco di castagno. La vegetazione, intorno, era ispida e selvatica. Sedettero sul piantone, all’ombra. Carlo accese una “milit” e se ne rimase lì, assorto a contemplare il fumo. Ronzoni, invece, cavò di tasca una lettera e, dopo essersi grattato una coscia, si mise a rileggere. Ma i suoi pensieri erano altrove. A un tratto si voltò, brusco: -Dì la verità, Carlo, ci credi tu a quello che ci ha detto il prete stamattina? Sai, a tutte quelle porcherie che fa il bolscevismo? Malinverni si strinse nelle spalle. -Senti qua. Credi possibile, tu, che là non ci sia il Signore e non ci sia neppure la famiglia? Ci credi proprio che un uomo e una donna facciano come i conigli, che si accoppiano e poi si lasciano, senza avercene né colpa né voglia, e poi i figli se li prende il padrone che li fa ingrassare, fino a quando non è venuto il momento di tirarci il sangue? E poi, che non esiste la proprietà, e tutto el resto? Prese fiato: -I giornali e la radio ci dicono così. Io l’ho letto anche su un libro, dove si spiega che là è tutto un inferno: ma è poi tutto vero? Ne dicono tante, di cose. Io qualche volta ci penso, ma non riesco davvero a capire quel che andremo a fare noi, in quei posti là. Malinverni cessò di interessarsi al fumo della sigaretta: -Stai attento bene, Cesare, seguimi. A noi ci hanno detto che siamo nati per portare la civiltà al mondo. Ciascuno nasce col suo destino segnato in fronte, si dice. Io ho quello di vestirmi di grigioverde fin che campo, fin che non mi regolano il conto; e tu lo stesso … Tutti insieme, poi, siamo i portatori della civiltà, quella maiuscola, sai. È vero, com’è vero il sole. Una lezione che si impara e che si finisce quasi per crederci, a furia di sentirsela ripetere … Dalla Spagna all’Albania all’Etiopia, ci hanno sempre detto così. Tutti i vari accidenti che fanno di discorsi l’han sempre proclamato. E poi, in Abissinia, beh … lasciamo perdere; e in Spagna, Sartorio che c’è stato e quando ha bevuto dice la verità, l’ha ben confessato che han fatto altrettanto schifo e ladrocinio i “legionari” che quegli altri. E che li han mandati quasi tutti per forza, altro che volontari … E che anche là era una ben brutta naia, come e peggio che dappertutto. Non è questione di averci il cervello tanto fino, ma in Albania l’hai visto anche tu, cosa abbiamo fatto: qualcosa di fenomenale, e la guerra in casa degli altri, che non ci potevano neanche sentire il fiato, poveri disgraziati … Ci han gonfiato la testa maledettamente, per farci dimenticare che le pallottole, quando ti arrivano addosso, per te è finita: e chi si è visto si è visto, per cribbio. La Russia sarà quel che sarà, ma a me non mi ha fatto niente. Cosa gli devo sparare, e a chi, e per quale motivo? Torneremo a casa – se ce la facciamo, veh! – con il bastoncino, e cammineremo così- si alzò in piedi e fece alcuni passi zoppicando, restando tutto chino da una parte in modo goffo e sgraziato. -Col bastoncino che ci tenga in piedi …

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Tornò a sedersi, acceso in viso più di prima: -Ci abituerà il buon Dio: noi non ce n’abbiamo nessuna colpa. Ci tocca di fare quel che gli altri vogliono. Così siamo nati, schiavi, altro che portatori di civiltà, porco mondo! Cesare sosteneva il mento con le mani unite. Gli fece, a bruciapelo: -Ci credi davvero, tu, che ci sia il Signore? Malinverni lo guardò fisso: -Sì- rispose –che ci credo. Come son sicuro di vederti in questo momento. -E, allora, perché possono capitare queste cose? Perché quel prete viene a dirci tante storie, per mandarci a morire, noi che siamo innocenti, e ad assassinare degli altri innocenti senza tanti rimedi? Se è veramente così, non si può usare qualche altro sistema? L’interrogativo era troppo pesante, e fu lasciato cadere. Non si sa mai dove si va a finire, quando si parla di cose incomprensibili. Può essere pericoloso, nel migliore dei casi. La conversazione cessò. Ciascuno raccoglieva i suoi frammenti per raccapezzarci qualcosa di concreto. È una fatica non indifferente il tentare di conciliare la vita, così com’è, con le teorie di qualsiasi genere, anche con la religione. Dopo un po’, Malinverni: -Andiamo a berlo, allora, ‘sto latte? Decisamente era un suo pallino, questo del latte. Si avviarono verso la casa. Nei pressi dell’orto un coniglio correva, sbattendo forte le zampe di dietro. Ronzoni si fermò: -Sai, devi averci ragione tu. -Ragione, che cosa? -Che un Padreterno c’è. Se no, sarebbe troppo una presa in giro. Non può essere. ******** Il tenente Mestica, con Luci sottobraccio nonostante il caldo, passava sulla mulattiera a qualche passo da loro. Spuntò dietro un cespo di sambuco. Lo salutarono con un gran scatto, per farsi perdonare d’essere scamiciati e di portare le giberne pendenti dalle spalle, come una corona del rosario. Ma Andrea non disse nulla. Anche lui doveva avere le sue cose per la testa, si vede: tirò avanti come se non li avesse nemmeno scorti. La giovane donna che era con lui indossava un vestito rosso vivo, come di fuoco. Che idea, con quel caldo fottuto! LXXXII Il Battaglione partì. Tutte le cose di questo mondo giungono alla loro conclusione. Una Compagnia per volta, con sulle spalle lo zaino pesantissimo e gigantesco, gli alpini andarono alla stazione, per salpare incontro al loro nuovo destino. Per vivere, bisogna partire. Partire sempre. Fermarsi è incominciare ad ammuffire un poco, in attesa di incancrenire del tutto. Prepararsi la bara a un millimetro cubo ogni tic dell’orologio, inesorabilmente.

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Era carne umana, quella che se n’andava, col cervello e col cuore gonfi di mille cose e di mille sentimenti. Indosso, recavano tutti un pesante gravame spirituale: al momento buono ciascuno se n’accorgerebbe. Chissà se pesava di più lo zaino, con gli spallacci che segavano magnificamente i bordi del collo, o non piuttosto tutto il resto che si agitava nella mente? La carne umana, infine, non è che un genere sul mercato. Un mercato inaudito e abominevole, ma molto di moda e diffuso, in ogni tempo, come forse nessun altro. C’è chi la compera, la carne umana; c’è chi la vende, la carne umana; e c’è pure chi ne fa il mediatore. Dev’essere una cosa molto redditizia: un mestiere come un altro, per tanti. Scrupoli? Mah va là. È un genere di merce che conviene … lo si vende molto caro e non costa niente, questo è il vantaggio. Neanche uno sputo. Basta mettere una firma sotto un pezzo di carta, uno sgorbio di firma, e appendere poi la carta sui muri, moltiplicata per qualche mila. C’è gente che venderebbe l’animaccia sua sporca, posto che ne abbia una. E troverete individui disposti a comprargliela. Entusiasti. Figuriamoci, quindi, se non vendono gli altri … Una volta, c’era la tratta degli schiavi, quelli di colore. Adesso, l’han di molto perfezionata, resa di un colore solo, annullandoli tutti. Unificata anche questa. È un procedimento tecnico perfezionato. Resa più viscida, magari, ma così scorre di più. Nessuno degli schiavi del giorno d’oggi sembra reagire con sufficiente convinzione. Sono troppo umili e rassegnati e venali, per poter combinare qualcosa di utile. Sono formiche e pecore, tutto in una volta sola: un incrocio straordinario … Eh sì, il progresso! Hanno organizzato la miseria e la fame nel modo più redditizio: dopo la coscienza, hanno inventato i “partiti”, perché uno ci credesse e si rovinasse. Poi, han catalogato tutto quanto nel modo più razionale e spietato. Han gli occhi che arrivano dappertutto, in modo sorprendente. Difficile scapparci. I cento occhi di Argo? Roba da dilettanti, al paragone. Così, un povero individuo lo conciano in modo tale che quello crede sempre di poter dire la sua per stare meglio – illuso! – e lui e gli altri insieme; e, invece, ha intorno tanti fili stretti e tenaci, che lo riducono sempre peggio. Una macchina tutta complicata, ma precisissima. Più uno lo soffoca e più quello ha magari l’impressione di respirare a pieni polmoni e di potersi muovere liberamente e più a suo agio di prima. Gran cosa davvero, l’organizzazione! Quando poi, a un certo punto quel tapino cerca di agitarsi sul serio, sbatte di petto contro certe muraglie lisce, massicce e impenetrabili, dappertutto. E scopre che è quasi tutto falso e melma, quello che prima gli appariva così ideale e bello. È ignobile, ma è così. E la va sempre meglio, in questo senso, la va meglio a rotta di collo. Uno stillicidio senza tregua e senza speranza, intriso di fatiche animalesche, di sudori, di vigliaccate, di prostituzioni morali, di sangue. Cataste gigantesche di corpi umani assassinati. A fare un censimento impossibile, son forse più quello morti a ‘sta maniera che non secondo natura, per malattia o per esaurimento. Una carognata, che fa ribrezzo a pensarci! E bisogna viverci in mezzo, bisogna che uno si destreggi lì dentro, tanto peggio, poi, quando si è riusciti a scoprire che è proprio congegnata in questo modo.

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Quando per disgrazia uno ha la tentazione di distrarsi un momento, un momentino solo, prima che lo acciuffino e lo sbattano là, nel mucchio, a riempirsi di vermi prima del tempo ed a confondere con quella delle altre carcasse la puzza del suo cadavere, eh, non si creda mica che gliela perdonino! Quello ha compreso; è colpevole anche di questo. Il gran responsabile è il cervello. E si conta con tutto il resto, dopo. Delitto capitale, di lesa maestà. Maestà di chi, per il diavolo? Tanto, per il suddito, è puntualmente la Miseria che lo aspetta. Non ci si scappa. E non avrà mai ragione, la Miseria, mai. Le cose le hanno fatte bene, l’han sgnaccata tanto giù nel fondo, che l’idea soltanto di guardare in alto è già un’audacia gigantesca e condannabilissima, l’idea soltanto. Figuriamoci il muovere le labbra, quel che può provocare. Una catastrofe totale, come minimo. LXXXIII Il paese aveva assunto la faccia di circostanza. C’era in giro uno stupore incredulo e alquanto sbigottito. Non pareva più il luogo di prima, si era fatto più patriarcale e più chiuso: stava ad ascoltarsi in silenzio. Bisognava sapere sorridere e dire una parola di fede e di conforto, a quei soldati che andavano via; e, al tempo stesso, c’era un nodo in gola, che strozzava le parole e faceva velare gli occhi di pianto. È difficile fare coraggio a una, quando se ne ha già poco per conto proprio. E la gente di campagna è troppo semplice, troppo onesta, per poter fingere: non l’han rovinata del tutto, se resiste. Ha un cuore abbastanza grosso, che respira aria limpida, aria che sa di terra e di verde; ed ha le mani callose e robuste, perché il suo pane, il campagnolo, se lo suda da secoli. I “baldi” passavano col loro incedere un po’ ondulante, a passi lunghi e ben piantati. Ha una maniera scanzonata e solenne, il camminare degli alpini. Sulle labbra avevano un sorriso strano, l’espressione di tanti sentimenti contrastanti, forse più malinconia interna che altro. E, negli occhi, avevano l’azzurro del cielo di quel paese arcadico, per recarlo con sé, che durasse sempre o, almeno, il più a lungo possibile. Le ragazze erano tutte sulla piazza, intimidite. Avevano indossato il vestito della festa, il più bello che avessero, povere signorinette … Tenevano sulle braccia dei fasci enormi di fiori. È coi fiori, vero?, che si dicono tutte quelle cose che altrimenti non si troverebbe il modo di esprimere. Avevano saccheggiato i giardini e tutti i vasi dei balconi, anche quelli che non li si tocca mai e li si porta in casa, la sera, quando c’è un po’ d’aria e minaccia temporale; ed erano anche andate su per la collina a coglierne tanti altri, campestri, quanti più avevano potuto. Adesso stavano lì, incerte, sentendosi diventate a un tratto troppo più importanti del solito. Erano un po’ spaurite, e si erano radunate istintivamente a gruppetti di due o tre, per guardarsi in viso e incoraggiarsi l’un l’altra. I soldati, camminando vicino a loro e uscendo in fila, sfilavano un fiore dalle loro mani esitanti e se lo mettevano sotto gli spallacci delle giberne; oppure se ne fregiavano il cappello, di fianco alla penna. Faceva un bel vederli, così, poveri ragazzi che se ne andavan via.

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Le giovinette arrossivano, ed erano straordinariamente commosse. Intuivano, per quegli uomini, tante cose che non avevano mai sospettato prima, neanche quando andavano a spasso insieme. Poi, anche l’ultimo passava davanti a loro. Che tristezza! Restavano lì, le ragazze, con due fiori in mano, appassiti, e si consultavano con gli occhi un’altra volta. Il rumore pesante dei passi si allontanava, erano spariti giù alla curva; e, intorno, non c’era altro che un silenzio incredibile, morto, che metteva un brivido per la schiena. Come tornare bambini improvvisamente, e trovarsi piccoli, incapaci e malsicuri in un mondo di cose e sentimenti troppo giganteschi, per potervisi accostare con fiducia e confidenza … Restava solamente una gran voglia di piangere. Una vecchia, nell’ultima casa del paese, dal suo finestrino al secondo piano buttava giù fiori e benedizioni. Aveva fatto pendere un lenzuolo bianco di bucato con in mezzo un quadretto della Vergine – come quando passa la processione solenne – e piangeva tutta eccitata. Agitava smaniosamente le mani, come in una scomposta crisi di isterismo; gesticolava verso il cielo e invocava con voce stridula e rotta: -Vi salvi la Madonna, ragazzi, che possiate tornare a casa tutti, tutti quanti … Un alpino le gridò su: -Ciao, mamma- e poi abbassò il testone … a considerare la polvere sulle scarpe grosse, che andavano avanti sul passo del compagno che lo precedeva. Aveva il cuore tanto gonfio che gli pareva si dovesse spezzare da un momento all’altro. Mandò giù la saliva … Camminando, si pensa molto, non c’è altro da fare. Irrimediabilmente. Alla stazione c’era altra gente, curiosa ed esitante. Una lunga tradotta stava ferma sui binari di smistamento. I vagoni avevano lo stanco colore della ruggine dopo che il sole è passato ad asciugarla. Uno spettacolo divertente era il carico dei muli. Si impuntano, ribellandosi all’idea di andarsi a intrappolare in un vagone, che per parecchi giorni sarebbe stato stalla e galoppatoio tutt’insieme. Sono più intelligenti, in genere, le bestie che non gli uomini. Loro, non ridono mica e non strillano, senza un chiaro motivo. Scuotevano il loro testone, come per dire di no, i muli; e il conducente, alla fine, perdeva la pazienza. Aveva tentato di prenderlo con le buone: -Su, Lambro! Va su, balordo … - poi aveva cominciato a dare strattoni alla cavezza, poderosi quanto inutili, e a dargli della carogna e del vigliacco, lasciando cadere, piatta, la sua mano pesante sulle natiche del quadrupede (era il mulo che si pigliava tutto, ma l’indirizzo di quelle manifestazioni non era il suo: il conducente aveva le idee estremamente precise, in proposito. È che non poteva fare altrimenti … ). Ma era come se lo pungesse un fragile moscerino. Non se ne dava per inteso, il lavativo! Assicuratosi che nessuno lo stesse osservando, gli refilava, allora, un paio di rapide pedate sotto la pancia, di quelle che portano via il fiato, insieme a quattro irruenti bestemmie; e così Lambro andava su di corsa, liscio come l’olio … È tutta questione di tatto, nei rapporti col prossimo! Intanto ogni carro era in grande agitazione. I vagoni erano “arredati”: cioè avevano dentro qualche panca assolutamente scomoda, che poteva essere ripiegata e rimossa contro le pareti. Siccome, poi, per ogni carrozzone dovevano stare da trenta a quaranta individui con tutto il loro equipaggiamento, conveniva cercare subito la

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sistemazione meno disgraziata, per evitare successivi spostamenti e trambusti, possibili soltanto con fiorilissimi repertori di moccoli e di urli. È incredibile, il gridare che fanno i soldati, in certe occasioni. Il viaggio sarebbe durato – chi lo sa? – otto giorni o dieci o quindici. Metteva un senso di sgomento, il consultare la carta geografica, fissare un puntino lontanissimo e pensare: -Vado fin là … - Quei pochi che erano riusciti a conservare qualche parvenza di entusiasmo, badavano bene a tenerselo ben nascosto, se no gli rischiava di andargli male. Le armi – quei fuciloni tanto lunghi che non finivano mai! – vennero affastellate in un angolo. Ai ganci delle pareti, destinati in origine a tener legati dei quadrupedi, vennero appese le giberne, insieme alle gavette, le maschere e le borracce. Nella custodia per la maschera tutti quanti avevano infilato la carta da lettera e le cartoline in franchigia, quelle pochissime che avevano avuto la pietà di distribuire: le altre, sembrava che se le mangiassero loro, a centinaia, nelle furerie o chi sa dove … Lungo le pareti vennero messi a terra i grevi zaini ingombranti, avendo cura che la loro posizione permettesse a ciascuno di ricorrerne al contenuto senza rompere troppo le scatole ai commilitoni; e furono caricate con molta cautela le cibarie speciali che ciascuno si era procurato, per consumare in treno. Ceste di fiaschi, magari una damigianetta. Casse ricolme di svariato ben di Dio. Frutta fresca. Il tutto a spese personali, s’intende. Qualcuno pensò subito, con grande previdenza, alla sistemazione per la notte. Qualcosa c’è sempre da imparare … Appiccavano a mezz’altezza un telo da tenda ripiegato in due, sotto il soffitto, press’a poco a un mezzo metro. Il telo veniva teso trasversalmente alla lunghezza del carro, ed era sostenuto da fili di ferro fregati alla stazione, che lo agganciavano per le quattro cocche alle sbarre dei finestrini. Voilà, cavalli otto, uomini quaranta! La carovana era quasi pronta. E non bisogna credere che le mancasse una sua festosità zingaresca. Il turbamento, lo stupore, la riflessione sono malanni che restano individuali, singoli, di ciascun essere. Quando si tratta di molte persone, allora danno luogo normalmente a un disordinato tumulto, come se si fosse bevuto un bicchiere di più. Dev’essere il pudore di rivelare se stessi di fronte agli altri. Dev’essere la “dignità”, “l’amor proprio” … Comunque sia, esplodono in un agitarsi inconsulto e in un disordinato movimento un po’ artificioso. Ci si stordisce molto anche con le canzoni. Servono enormemente, specie quando si stona in coro. -Canta che ti passa!- Se dicono così, ci sarà qualcosa dive vero, soprattutto se la compagnia è numerosa. E dammi qua quel fiasco, che ne mando giù un’altra golata. Tre golate te lo puliscono fino in fondo. Lo asciugano come se ci passasse la carta assorbente. LXXXIV I vagoni destinati a magazzino viaggiante furono caricati in modo inverosimile, non c’era più posto neanche per una pulce. Rigurgitavano di roba, e su ciascuno presero dimora due o tre soldati al massimo; avrebbero la noia di essere più soli, ma

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in compenso dormirebbero più comodi, distesi su mucchi di coperte o su qualche altro accidente, sempre però meno duro del pavimento di legno sporco e del fondo diseguale delle panche. Le “piazze”, su quei vagoni, era da settimane che lottavano in silenzio, per accaparrarsele. Per gli ufficiali era stata riservata una vera vettura, anche se di terza classe, a scompartimenti. Era già un gran lusso. Erano alloggiati in due per ogni scompartimento. Sistemarono le loro cose con l’aiuto degli attendenti, ormai assurti in pieno al loro importante ruolo, che in guerra non è poi semplice come quando si sta in caserma o all’accantonamento. Può diventare rischiosa la faccenda, in guerra. Il cielo era azzurrissimo e chiaro. Sembrava volerli salutare col suo miglior sorriso. Prenderli in giro, in un certo senso, anche lui, per far nascere la speranza che non fosse così brutto, quello che incominciava da quel momento. Con un sereno così, uno si illude che sia facile per forza! Tutta la natura pareva essersi cristallizzata nel suo aspetto più attraente. Le nevi lontane avevano una trasparenza lucida e viva, e si era levata una sbavatura di venticello a mitigare i bollori del sole che, se no, avrebbe picchiato troppo forte e avrebbe sollevato tanta nebbiolina bassa e afosa dalla campagna. Era meraviglioso, proprio. C’era troppo da ammirare, per un solo uomo. Ci voleva… almeno una Compagnia per volta. Portarla là, e che tutti si guardassero bene in giro. A una buona percentuale di gente, la natura ha il potere di far dimenticare tante altre cose sporche e tristi. Specie in quei momenti. Ed è una gran fortuna. LXXXV Le ragazze arrivarono nuovamente qualche dieci minuti prima che il treno si muovesse. Vennero in folto gruppo, in bicicletta, portando ancora qualche fiore, ma pochi, come il ricorda non convinto di un acerbo naufragio al quale non ci si sia proprio potuti sottrarre, perché non dipendeva da noi. Lasciarono le loro bici contro la staccionata, e stettero là ancora una volta, timide, impacciate. Non sapevano che atteggiamento tenere. Non s’erano mai trovate a un’occasione del genere; e quello che avevano detto loro le mamme, non se lo ricordavano più, ammesso che qualcosa avessero tentato di dire. In momenti così, è difficile avere tanta lucidità da rammentarsi di qualcosa di utile: quel che viene in mente, sono d’ordinario delle stupidaggini, e sembrano tanto importanti anche quelle, che impressionano, paralizzano. Una aveva delle sigarette da offrire, non molte, ma venti pacchetti erano già parecchio per il suo striminzito bilancio di esili risparmi; ed anche questa era un’audacia bell’e buona, non sapeva come decidersi, come incominciare. Diede loro la voce un caporal maggiore, che aveva già finito di sistemare tutta la sua mercanzia. Corsero là tutte assieme, liberate e ancora incerte come pecorelle disperse. Allora si fecero coraggio. Si sentirono meno abbacchiate, e cominciarono a capire con maggior precisione quel che davvero stava succedendo. Non c’è da ridere. Bisogna provare, a trovarsi in certe situazioni! È molto meno semplice di quel che non appaia a prima vista.

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Altri alpini saltarono giù dai carri. Qualcuno stava ancora mangiando il rancio. Altri, più lontani, reclamarono chi l’una chi l’altra delle forosette sperdute. Le sigarette svanirono in un baleno. Un sergente, che teneva per il collo un fiasco quasi vuoto, si fece largo rumorosamente: Mariuccia, mi devi dare un bacio. La ragazza in questione si fece di bragia e tentò di protestare qualcosa, ma avvertiva intorno a sé un vuoto allarmante. Si sentì afferrare fra due solide braccia e avvertì l’avvicinarsi progressivo della bocca di lui, senza che le riuscisse di tirarsi indietro: ci vuol convinzione, nelle cose, altrimenti non serve. Rispose al bacio; e comprese, in quello stesso istante, che anche lei desiderava proprio la stessa cosa, senza averlo minimamente sospettato; e che, del resto, non c’era nulla di cui vergognarsi, anche se si trovava in mezzo a tanta gente. La verità, di solito, viene fuori quando meno te l’aspetti. Scene simili si svolgevano un po’ dappertutto, attorno a ciascun vagone. Promesse, qualche carezza (magari audace, un po’ priva di scrupoli) e baci, molti baci. Ce n’è quasi per tutti, nelle occasioni del genere. Tanto non costano nulla, e quasi certamente non ci vedremo più. Non lasciamo perdere: si abbandonano, a vuoto, già troppe faccende, a ‘sto mondo. Chi dirà che si è fatto male o che si è fatto bene? Scrivimi. Non ti dimenticare mai. Tenerezze. Auguri. Espansioni rumorose, pubbliche. Qualche lacrima. Un bacio più lungo, un afferrarsi per le spalle e dimenticare per un momento che tutti stan lì d’attorno. Ma ciascuno, d’altronde, ha da pensare a sé, anche quelli che non han nessuno da salutare. Ciao, Tilde. Ciao, Lina. Ciao, Gianluigi. Ciao, Berta. In bocca al lupo. Usa prudenza. Scrivi. Riguardati. Tutt’i giorni, te lo giuro. Ciao, mora! LXXXVI Com’è assolutamente imprevisto, il trillo acuto e prolungato del fischietto che chiama a raccolta! Chi è ancora a terra, bisogna che fugga rapidamente, piantando lì tutto quanto. C’è da arrampicarsi immediatamente sul vagone, aggrappandosi alla sbarra che è tesa nel mezzo dell’apertura e issandosi, intanto che gli altri protestano con un certo vigore perché si ricevono le scarpate sul muso. Le portiere della carrozza degli ufficiali sbattono con impeto. A terra non è rimasto più nessuno. Cioè, sì, ci sono ancora due alpini, che giungono al trotto con un fiasco per ciascuna mano … Anche per gli ufficiali, ci sono state le signorine, a portare i saluti. Signorine forse un po’ diverse, un po’ più su rispetto a quelle della “truppa”, ma accomunate alle altre nella medesima sorte, in questo momento. Si ha un bel dire e un bel fare, ma i rari momenti ci sono, nei quali il censo non conta nulla. Quando si tratta di carne e di saluti, ad esempio, o di pensieri. Anche Andrea ne ha baciata una, di queste signorine di buona famiglia, senza sapere di chi si trattasse, prima di allora non l’aveva mai vista. Poteva essere piovuta lì in quell’istante chi sa da dove: aveva un viso opaco e tanti capelli neri, con un fiore scarlatto ficcato in mezzo. Lei era a due passi da Andrea, che stava appoggiato con la

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schiena alla vettura, e provava l’inesorabile necessità di un saluto femminile. Di una donna qualsiasi, da poterci raffigurare tutte le altre. È facile oggettivare, nei casi del genere; passare dal relativo all’assoluto. Uno non se ne accorge neanche. L’aveva guardata come un cane guarda il padrone e non si fida ad andargli vicino, perché non ne conosce l’umore: può darsi che ne arrivi un calcio o una strapazzata … Ma la signorina aveva capito subito di che cosa si trattava, e aveva sorriso per lui. Senza dirsi nulla. Le parole sono spesso inutili, se ne dicono quasi sempre troppe. Andrea l’aveva baciata sulla guancia, vicino all’angolo della bocca, perché gliene giungesse almeno un impercettibile fremito; e lei aveva premuto le sue labbra sulle gote di lui, un bacio schietto e schioccante. La sensibilità femminile, per certe situazioni, non ha alcun bisogno di spiegazioni o di domande. Sa già, d’istinto, quello che è necessario: tutto sta a vedere se ha il coraggio, la sincerità di farlo … Si erano tesi, poi, le mani, stringendosele energicamente. C’era qualcosa di volitivo, in Giulia, e di spigliato. Aveva pronunciato, con voce sicura: -Buona fortuna, tenente, e arrivederci. Arrivederci, sì, è una gran cosa l’arrivederci! Come se stesse in noi, sempre, il poterne disporre. Il fatto è che, probabilmente, da soli non sapremmo destreggiarci lo stesso, perché di norma si scopre tardi quel che si sarebbe voluto: e il tempo e il modo per tornare indietro non vengono facilmente concessi, neppure a quelli che sono fortemente raccomandati … LXXXVII Il convoglio si era messo in movimento senza alcun brusco strappo. Scivolò via con una dolcezza incredibile, a cercare il suo abbrivio. Un po’ malsicuro prima, e poi a piena voce, si levò il cantare degli alpini: canzoni piene di una lontana nostalgia, nate da un’altra guerra o dalle vene delle sorgenti sui monti di casa. Tante voci e tante canzoni diverse, quanti i vagoni. E, in chi era rimasto a terra, un groppo in gola che proprio non si poteva mandare giù: non c’era altro da fare che lasciar colare il pianto sul viso, e tendere le braccia e sventolare i fazzoletti … Una macchia di colori vivaci, che si muoveva con ritmo scomposto e turbato. Mandava dietro alla tradotta, col movimento delle mani, l’ansia di tutti i cuori. I soldati agitavano con forza i loro cappelli e si assiepavano nelle aperture delle porte scorrevoli. Erano state prese d’assalto anche quelle del carro-ritirata; e gli alpini si accalcavano l’uno sull’altro, gridando a tutta voce una canzone o un nome. Ma erano tutti un po’ imbambolati … Si ha un bell’essere “uomini”, ma l’andarsene in certi modi è una cosa che fa masticare! Non è facile ad ingoiarsi lo stupore acre del distacco; e ciascuno sentiva il sapore di quella lacrima che voleva venir fuori a tutti i costi, da un angolino, a far luccicare gli occhi. Parecchi erano seduti sul pavimento e facevano penzolare fuori le gambe. Parevano pronti, ad ogni istante, a rotolare giù sulla scarpata. Sarebbe stato semplice; forse, la si farebbe finita subito. Ma, siccome la speranza è una cosa cocciuta e

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testarda, e ci si mette di mezzo anche la “dignità”, era meglio stare dove si era, e tirare avanti. Dopo, si vedrebbe. Intanto, bevevano insieme i colori ed il profumo di quella campagna che passava dinanzi agli occhi e che, forse, non avrebbero più rivista, né domani né mai. Forse il giorno del Giudizio Universale, se c’è davvero, e se è possibile, in quell’occasione straordinaria, fare una capatina qua e là, a curiosare in giro per riconoscere i luoghi attraverso i quali trascorremmo un tempo con tutti i nostri peccati, del corpo e della mente. I nostri e quelli degli altri. Non era facile, per il momento, rendersi conto che davvero si erano tutti imbarcati, là sopra, per un’avventura alla quale nessuno – neanche, in tutta coscienza, i superstiti “riscaldati” – si sentiva particolarmente attirato. LXXXVIII Il treno filava via senza complimenti. Era assai più simile a un diretto che non ad una tradizionale tradotta. Le stazioni te le saltava via, l’una dopo l’altra, di furia. Arrivava addosso sbuffando e le piantava là, stordite e tutte tremanti, in un gran risucchio d’aria. Sbatteva per aria le cartacce e i rifiuti che erano stati dimenticati sui marciapiedi e fra i binari. Le ruote avevano cominciato un’altra volta a girare con velocità intorno al loro asse. Almeno loro lo sanno, le ruote, intorno a cosa girano, anche se non sanno perché lo debbano fare e se davvero è una cosa molto utile. Devono essere ubriache, del loro movimento sempre uniforme e senza speranza. Ma è già una gran consolazione, la sicurezza che non cambierà mai, che sarà sempre così, fino al termine. Quando ci si fa l’abitudine, una cosa, per brutta che sia, dispiace sempre lasciarla … Per gli uomini, invece, è ben diversa: di cose certe, loro, ne hanno una sola. Erano là ingabbiati, gli uomini, qualche decina per ognuno di quegli scatoloni di legno e ferro, rossicci e traballanti. E non ne sapevano nulla, della loro strada, intorno a che cosa girasse. È un bel tradimento anche questo: ci si mette fiduciosi per una via, non importa se di terra battuta, di ferro o di asfalto o di cos’altro, e si spera sempre che ci condurrà in qualche sito migliore. E quella, invece, ti pianta poi lì, a un tratto, e se ne va per conto suo, all’infinito. E tu, che ti eri fidato, magari contro la tua stessa volontà ed il tuo istinto, vieni scaraventato fuori e devi ricominciare un’altra volta, per una strada nuova, con il fiato mozzo in gola per lo stupore, l’amarezza e il disgusto, istupidito perché la novità la speravi di un altro tipo. Ci si illude facilmente. È un vizio che non si perde proprio, quello di illudersi a tutti i costi. E forse è un bene, in fondo. Ma costa caro. ***************** *********************** I vagoni facevano un fracasso dell’altro mondo, da restarne sbalorditi per un bel pezzo, come ad avere il ronzio di diecimila calabroni nelle orecchie. Sferragliavano

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convinti e risoluti, col frastuono di un’enorme carcassa di legno e di ferro che si stia disgregando. Pareva che tutto volesse sfasciarsi da un momento all’altro, e ci si tremava, là sopra. Si ballava una danza orgiastica, indiavolata e c’era da tenere un equilibrio più veloce che non sulla tolda di un vecchio carrettone scassato in mezzo a una burrasca. Tutti gli arnesi appesi o appoggiati contro le pareti davano il loro contributo coscienzioso: per farsi sentire a pochi passi, c’era da gridare forte. Ma i soldati non avevano niente da dirsi. Niente assolutamente. Si erano appiccicati alle aperture laterali e stavano lì, dove di solito mettono il muso o le natiche i quadrupedi; stavano lì, come un grappolo inconsueto di grigioverde, ammucchiati stupidamente a farsi arrivare addosso, in pieno, il vento della corsa. Cantavano, qua e là, in vista degli abitati, e schiamazzavano enormemente. Avevano un gran bisogno, istintivo e incontenibile, di agitare le mani e i cappelli, e di buttar fuori tutta la voce. Cantare e gridare fa lo stesso, in quei casi. Quel che è essenziale – e non ci rinunciavano – è che vi sia del frastuono, per non sentire quel che c’è dentro. Piangere è una cosa sciocca e senza senso, vero?, e immusonirsi fa rabbia. Mica sempre si può essere contenti di essere arrabbiati. È una debolezza, anche questa, della nostra instabilità … E, allora, è assai meglio mandare degli urli senza costrutto all’indirizzo di tutte le ragazze che si vedono. Gridar loro dietro cosa insensate, qualche porcheriola, magari, fa lo stesso. Anche questo è uno sfogo come un altro. Tanto, nel marasma del fracasso e della velocità, le parole non le afferrano nemmeno … Quel che capiscono, le ragazze, oh questo sì, lo capiscono bene, è che se fossero là, sulla tradotta anche loro, in compagnia di quegli energumeni urlanti, sarebbe un’avventura del tutto straordinaria. Magari, ehm, starebbero zitti come pesciolini quelli che adesso sbraitano tanto forte. E, così, le ragazze li salutano, agitano le braccia, ridono forte, gridano anche loro qualcosa d’impreciso, sventolano un fazzoletto, mandano un bacio … È un’audacia che costa poco, mandare un bacio a ‘sta maniera. Cos’è mai, una tradotta militare, per una signorina “per bene”? Lei ha tante cose serie e importanti nella sua testolina – dalla partita di tennis a un certo disco, alla scampagnata, alla foggia della pettinatura, alla difficile scelta di un modello – e cento o mille soldati che vanno alla guerra, per lei, generalmente, contano proprio poco. Tutt’al più, servono per la nuova esperienza del “madrinaggio”, che fa molto salotto. Se parte il fidanzato – fatte le debite eccezioni – si metterà in gramaglie (le circostanze e la moda hanno le loro esigenze) per tutto il tempo necessario a scegliersene uno nuovo. E siccome i supplenti sono un genere che pullula dappertutto, l’astinenza dura tanto poco: fino al primo incontro un po’ discreto, mica di più. Non c’è davvero da appassire e da farsi venire il gozzo. Davvero, non vale la pena che una si amareggi l’esistenza, per certi incidenti: la colpa non è neppure sua … LXXXIX

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Le rotaie si stendevano sempre diritte, sempre lucenti e invitanti, davanti alla locomotiva. E dagli dentro lui, il macchinista, per vedere se gli riuscisse una buona volta di farla finita con quell’ossessione lineare sempre tesa lì davanti, come a succhiarlo. Dentro di slancio, di gran carriera, per scrutare se da lontano non ne intravedesse il fondo. Mah sì, ce n’avrebbe da camminare un bel po’, povero tapino anche lui: e non ci riuscirebbe lo stesso. La fine, è una cosa che non esiste. C’è sempre, dappertutto, ma di per sé non esiste, proprio. È una faccenda relativa e troppo instabile. Diventa assoluta e vera solamente quando ti è capitata addosso, e non c’è più niente da fare. Ma allora uno non le può più fare, tutte le sue considerazioni. Andrea era là anche lui, come gli altri ufficiali, con le braccia appoggiate al finestrino, a guardar fuori. Ma tutte le immagini che gli sfilavano davanti, non le vedeva per nulla: come fosse un cinematografo fatto esclusivamente per gli occhi. E gli occhi essere diventati una parte del corpo ben definita e staccata da esso completamente. Incredibile, proprio. Il “di dentro” chi sa dov’era mai andato a cacciarsi, per avere il tempo di correre dietro, adesso, a quel che passava sul fianco del treno … Già, era strano, forse, ma era così, senza possibilità di errore: non era per nulla che si muovesse la tradotta; era il mondo, che non stava più fermo! Il mondo, che scappava e che veniva incontro a ottanta, a novanta, a cento all’ora. Il treno era lì, fermo, ad aspettare. Era il centro dell’universo. Il mondo scorreva indietro, sotto le sue ruote. Quando fosse venuto il momento giusto, ci si metterebbe il disco rosso, al mondo, e lui si fermerebbe. Si smonterebbe, allora, per provare come fosse la vita in questa nuova parte sconosciuta. La testa ce l’aveva, Andrea, come se fosse diventata un gran pentolone. Probabilmente, anche gli altri come lui. Un pentolone vuoto e surriscaldato. Un tempo, forse, c’era dentro qualcosa. Poi, a furia di bollire, era diventato tutto vapore, e anche quello scappava via dagli interstizi: il coperchio, intorno a noi stessi, non è mai chiuso del tutto, un po’ perde sempre. Scappava via a ottanta all’ora, il vapore, a novanta, a cento all’ora: la velocità della terra intorno al treno, insomma. E tutto andava diventando più leggero e più facile. La carica stava esaurendosi. Era necessario rinnovarla al più presto. Un pallone afflosciato, se no, il vento se lo porta via: la deriva, che placida delizia … La perfezione, forse, consisterebbe nello svuotarsi del tutto. Liberarsi da tutta quella stupida e vertiginosa credulità e fiducia che abbiamo nella nostra vanità e che – la si prenda pure per tutti i versi – non è poi nient’altro che la manifestazione comune della nostra bassa e incapace impotenza, che ci trasciniamo dietro pesantemente, come i cammelli la loro gobba. Sarà una grande cosa quando capiremo, ma tutti insieme veh, la nostra infinita e sordida miseria e la nostra enorme insufficienza. Quella interiore, si capisce. È un atto di coraggio di prima forza.

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LXXXX A Novara, la sosta della tradotta era stata di pochi minuti. C’era un sole furibondo, e c’erano delle giovinette in grembiule bianco, che distribuivano la limonata da secchie dove galleggiava il ghiaccio. Ti mandano a fare la guerra ma, in compenso, qualcuno per istrada ha tanto buon cuore da offrirti una bibita fresca e allappante. È già qualcosa. C’era anche la Gisa, a Novara, con papà Bastiano. La Gisa, che si serrò al marito per un attimo: un attimo, in certi casi, vale tutta l’esistenza. Quel che passò dentro, alla Gisa, valeva più di tutti gli amplessi di parecchi anni di matrimonio. Era più doloroso di cento maternità messe l’una sopra l’altra. Barcollare, tendere le mani in avanti, e trovare il vuoto: l’indifferenza sordida e la pelosa compassione di chi è rimasto. Poco altro. È una cosa strana, attraversare i binari e pensare: -Di qua è passato lui … Il treno, quest’aria qua l’ha smezzata per infilarcisi dentro, e non pare neanche. È tutto come prima. Sconcertante. Non se n’è accorto nessuno. Un fantasma. Non c’è più … Si può proprio sostenere che due minuti fa era qui? O non è tutto una dura, paurosa invenzione? Tutto come prima. È facile, a dirsi. Se si potessero risolvere le situazioni con le parole, eh, saremmo tutti eloquenti come al parlamento, allora! Ma non basta. Papà Bastiano, più vecchio e più positivo, la condusse al buffet, dove bevvero qualcosa di forte. Lei avrebbe preferito un’aranciata, ma lui insistette per un cognacchino, diceva che un cognac era molto meglio. Nelle orecchie della Gisa c’era ancora il fischio lungo della locomotiva e il battere disuguale delle ruote sui giunti delle rotaie. Le era passato dentro, dalle orecchie, nel cervello. Sarebbe rimasto là per un bel pezzo. Intanto, il treno s’era andato a fermare in una stazione periferica di Milano. E là, fra il gruppetto ansioso dei parenti di alcuni soldati, c’era anche Luci che saltò d’impeto al collo di Andrea, affatto incuranti del loro legame clandestino. Lui era come un diapason. Se ci batti sopra un colpo, vibra. Chiunque sia a battere, forse, senza distinzione apprezzabile. Cambia solamente la durata dell’espansione sonora. Il cuore umano, quando ci si mette, è una cosa scoraggiante. Combina tante di quelle asinate che, a ripensarci bene, c’è da restarne angosciati per molto tempo, dopo. Ma, intanto, è così. Ha un’eccezionale disposizione all’indulgenza, quando si tratta di ricevere a braccia spalancate l’una dopo l’altra, tante persone diverse, quante più possibili. Ed ha, tanta ipocrisia da convincersi che sono tutti aspetti diversi e non contradditori di una sostanza sola e immutabile e che, quindi, in definitiva, ha ragione lui. Cerca le apparenze o le sostanze, non importa, per scoprire da ciascuna di esse un frammento di ricerca nuova per i suoi sconcertanti mosaici. Anche se in qualche senso non ha tutti i torti, occorrerebbe che si trattasse di cavie da esperimento, mica di carne umana e, quel che più conta, di spirito, con tutte le sue infinite sfumature per ciascun individuo …

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Un gran problema, questo, mica storie. Uno dei più importanti. E probabilmente non lo si risolverà mai: fino a questo momento, con tanti millenni dietro le spalle, non risulta che si siano fatti passi apprezzabili in qualsiasi valida direzione. È ribelle anche ai trattamenti scientifici più moderni e aggiornati. XCI Andrea, più che tutte le altre volte aveva ora l’impressione di sprofondare nel pazzesco, ma ormai non si poteva più tirare indietro. Questo ultimo incontro – ed aveva la certezza che fosse l’ultimo, comunque – era più soltanto un corollario, logico e inevitabile, di tutte le fasi precedenti della sua dimostrazione con Luci. Indietro, qualsiasi cosa succeda, è difficile tornare. Non si può. Si va sempre avanti, vada come vuole. Magari per tornare al punto di partenza, per chi sa quali itinerari; può essere. Tutto può essere, in questa vita stravagante. Quando per la prima volta si piantano i piedi in una pozzanghera, ci si fa lo schifiltoso, si prova un senso innegabile di ripulsa e di ribrezzo: le macchie del fango uno ha la preoccupazione di lavarle via subito e accuratamente, perché nessun altro le scopra. Poi, a poco a poco, quella pozzanghera lo riprende, o un’altra simile o precisa, che fa lo stesso. Ce ne son tante, che è difficile riconoscerle l’una dall’altra. Ce n’è dappertutto. Si impara a girarci attorno più volentieri, con meno schifo, insomma. E quando uno fa per districarsi, scopre che, ormai, non c’è più niente da fare. Si trova immerso in un vischio tenace e pantanoso, che non lo molla più. Scopre che è diventato … un po’ fango anche lui, fango maleodorante, per giunta. Ogni tentativo per venirne fuori lo fa sprofondare di un altro po’. E, allora, tanto vale starsene cheti e tranquilli, non divincolarsi tanto. Sprofondare in silenzio, se non in letizia, senza sgambettare in modo ridicolo. Ecco. Può essere piacevole vagabondare ma, ad un limite, stanca. E uno non ci insiste più. Tanto, di solito, è un fallimento continuo, tutto quello che si scopre di ignoto e che, a prima vista, potrebbe anche parere bello e diverso. Un fallimento enorme e assoluto, esasperante e ridicolo. No, proprio non conviene farne una malattia, tanto non si modifica nulla lo stesso. Eh, se bastasse sempre la buona volontà individuale … Vediamo un po’: c’è un siero contro il fallimento degli uomini? Signori della scienza, mi rivolgo a voi che ne dovete sapere, di cose come questa: c’è un qualsiasi rimedio? Una iniezione? Un clistere? Mi contento anche di quest’ultimo, se c’è. Ma se non avete ancora trovato nulla, dopo averci studiato sopra per tante migliaia di anni, bisogna decisamente che ci si convinca insieme della nostra scoraggiante impotenza. Tutte queste cose Andrea le avrebbe volute dire a Luci, anche se con un linguaggio un po’ più accettabile. Ma, forse, non ne era il caso. Il fatto che a queste conclusioni lui ci fosse arrivato da solo, non gli documentava per nulla che anche la studentessa sapesse destreggiarsi e arrivarci anche lei. Ce n’aveva messo del tempo, lui, per giungerci. E gli era costato parecchia fatica ed esperienza. Nelle faccende di questo genere, bisogna avere una grande preparazione, se no non si può. Una persona

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non la si può trascinare a rimorchio: bisogna poter camminare dandosi la mano, e andare avanti insieme. Un millimetro di differenza è già tutto. No, no proprio. Non sono questi i discorsi da tenere con Luci. In momenti simili, poi. Eccola qua, lei, con quel suo muso strano e un po’ umido di sudore. Non si può neppure dire che sia proprio bella; ha dei modo, questo sì; è elegante, e sa far uso di un profumo intelligente. È saggezza istintiva della donna, questa. Si ricorda di più un odore che non tutto un discorso amoroso. Una scollatura che non un bacio. Il bacio è una cosa che hai già avuto, ma la scollatura turba di più, perché promette ancora, anche se quel che c’è sotto tu lo conosci già. È il mistero, quello che affascina: ed il profumo è un mistero anch’esso. Era eccitata, Luci, chiacchierava in continuazione, a voce bassa e timorosa. Diceva un mucchio di sciocchezze. Non c’è altro da dire, in queste occasioni; le frasi serie chi sa dove sono andate a finire. L’unica cosa un po’ assennata che ha detto, è che ha un forte mal di testa. E lui, Andrea, non ha saputo far di meglio che voler correre su nella vettura, per cercarle, un cachet … Quando ci si deve salutare, è terribile avere troppo tempo a disposizione: è difficilissimo farlo passare. Ci vorrebbero pochi minuti, dei secondi soltanto. La frase più banale, allora, sarebbe importantissima, perché là dentro ci sarebbero tutti quei sottintesi e quelle passioni che comunque non possono essere liberati in pieno. Invece, se la sosta si prolunga, è un gran fastidio. Siccome il tempo è eccessivo, lo si sciupa completamente. Succede quasi sempre così. Come uno che ha troppi soldi: diventa avaro o prodigo, non ci si scappa. Le eccezioni sono rare. C’è l’atmosfera falsa e ambigua di un intermezzo. Le voci che ci sono attorno sono stridule, spiacevoli, acute. Quando ci si placa, ciascuno pensa per conto suo. Quel che si dice non è che un pretesto, parole a fior di labbra, che non dicono proprio niente: ognuno sa benissimo che è così, che l’altro è distratto e pensa a chi sa quali faccende, magari del tutto estranee allo smozzicato colloquio che si è messo in piedi… Si cammina su e giù, sul fianco del treno. Magari ci si siede sul’erba. Fa un caldo boia, ma lui la tiene ugualmente stretta all’avambraccio se non addirittura le circonda le spalle, serrandola ancora di più. E sudano così, tutti e due, nel disagio di non capire perché sia necessario comportarsi in tale modo. È scomodo e noioso, ma non fanno altrimenti … , e il sudore si moltiplica e scivola giù, tiepido e fastidioso. Poi, tutt’a un tratto, di colpo, il fischietto trilla. Spavento generale. Fuga da tutte le parti. Son già passati cinquanta minuti. Chi lo avrebbe mai supposto? **************** Andrea si rese conto, imbarazzato, di non avere detto a Luci nessuna delle cose che aveva avuto in mente. Ed anche la ragazza, per conto suo, fece la medesima constatazione. Ebbero appena il tempo per un bacio rapidissimo, tumultuoso; e lui scappò via, verso la vettura. Luci restò ferma, trasognata, poi si riprese di scatto e gli corse dietro. Si erano un po’ allontanati dalla carrozza degli ufficiali, e bisognava affrettarsi. Andrea, voltandosi, la vide che veniva di corsa, e la attese. Continuarono insieme, tenendosi per mano. Anche parecchi altri erano impegnati in identiche manovre. Soltanto

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questo pensò, Andrea, all’ultimo istante: che dopo aver tanto camminato, fra le poche cose piacevoli aveva trovato Luci, finalmente; e che adesso gliele facevano mollare per forza. No, decisamente non se la sentiva più di partire, di partire ancora. Incontro, poi, a chi sa quale nuovo esperimento … Ma un suo collega lo spinse su, e lui si trovò dentro, nello stretto corridoio, con appena il tempo di dare la mano un’altra volta alla ragazza, dal finestrino, per un contatto fuggevolissimo … Il treno era già fuori dalla stazione, che Luci continuava ancora ad agitare un braccio, gridando con ostinazione: -Ciao, Drea! Ciao; ciao … - Ma non era più un vero grido, era un balbettio che, prima di venire fuori, doveva superare una gran resistenza, in gola. Luci era tutta agitata e sconvolta ed aveva gli occhi lucidissimi. Il cuore le batteva furiosamente. Il caldo scottante faceva vaporare ogni umidità residua da tutte le superfici. Prima, era la tradotta che vaporava: adesso, al suo posto, c’erano incredibilmente quelle sbarre di acciaio, severe e luminose, organi intransigenti di un destino solo. Luci uscì dalla stazione con passo pesante: una forza spaventosa la premeva verso terra. E tutto era sole, polvere, arsura; anche il cielo, sereno e impenetrabile. Tanto sereno, in quel calore, da sembrare livido. … Eppure si resta lì, tante volte, a sperare tante cose, e certe cose, poi … E quando ci si convince che tutto è finito, che tutto è da ricominciare daccapo, si rimane istupiditi, allora, increduli. È dura, molto dura. E vien voglia di urlare, allora, di fare chi sa quali cose strampalate, di urlare forte perché sentano tutti e si abbia giustizia, non si sa quale. Ma a chi gridare, se tutti ce n’hanno la loro percentuale anche loro? Ed allora si manda giù, e si sta zitti. Non si fiata. È disgustosa, la supinità, ma non c’è altro da fare, così com’è organizzato il mondo. È prova di saggezza, ma quanto sarebbe migliore una buona pazzia! La guerra, intanto, quelli là Dio sa dove li avrebbe trascinati. XCII La terra filava via in mezzo al sole vivo, e gli alpini non si stancavano di guardare fuori. C’era da ammirare la pianura del Po. È un lembo di terra veramente incantevole, la pianura del Po; ha dentro tutto quello che può far piacere a guardarlo: montagne, pianure, fiumi, verde, case, paesi, azzurro, nuvole, sogni. Tutto. Intanto che tu l’attraversi nel senso della lunghezza, hai tempo molte volte a sbalordirti del lusso che la natura si è permessa di profonderci dentro, senza economia. È incredibile, la varietà che ti riserva. Quelli che ci vivono non sanno come sia splendida, perché a loro manca la comparazione con altri luoghi. Ma chi ci arrivi, provenendo da qualsiasi altra regione, ne resta veramente impressionato. È come risvegliarsi in uno di quei giardini delle fate, dei quali hai letto sui libri di quand’eri bambino o hai sentito parlare dalla voce antica delle favole. La felicità te la raffiguravi possibile, nei sogni infantili, solamente in un luogo così. In quegli anni, alla felicità credevi ancora, ad occhi spalancati …

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Pianura grassa e magnifica, terra opulenta, campi a non finire, ma non uniformi e noiosi. Le tonalità sono tante, e sono tutti frazionati e smezzati in modo irregolare, per non stancare lo sguardo. E, dappertutto, tanti alberi, tanti corsi d’acqua, fiumi, canali, ruscelli. Le case sono civettuole, allegre, piene di figlioli, di galline, di maiali. I cimiteri, poi, hanno qualcosa di molto sereno e riposante. Invitano. Sotto quegli alberi e all’ombra di quei muri, ci si deve star bene: han proprio niente di macabro e di preoccupante. Uno che appena appena ci rifletta un poco, non può fare a meno di pensare che – visto che non si può evitare di imputridire sotto terra – gli piacerebbe che la cosa si concludesse in uno di quei piccoli recinti là, per nulla tetri. Il custode avrebbe cura di strappare sempre l’erba, di battere bene la terra per farne un’aiuola, dove crescan fiori colorati e odorosi. È già una gran soddisfazione, il sapere che verranno su dei fiori, nella terra ingrassata dalle nostre interiora. Sarà magari la prima volta che la nostra materia corporea darà origine a qualcosa di bello e di profumato… Invece, ci si passa accanto, al camposanto fresco e pieno di pace. Magari i vermi, là dentro, non sono tanto voraci. Hanno tanta campagna grassa, intorno, che forse sono diventati più riverenti, sono già sazi prima che ci si arrivi noi, a farli banchettare un’altra volta. Ci si passa accanto e si corre via, come le bestie che vanno ad un ammazzatoio che non possono evitare. E, magari, si infarcirà una terra sconosciuta, remota e inospitale, e poi nascerà soltanto della tenace gramigna, dalla nostra semente interrata. Chi sa dove andranno a sbatterla? Cribbio, è proprio indispensabile che sia tanto lontano? Sparatecela qui, quella scarica. Sarà meglio, per voi e per noialtri. Un risparmio di tempo e un logorio minore di energie da parte di tutti quanti … XCIII Su di un fianco del treno passano via le montagne. E le si attraverserà, per andarsi a perdere in una pianura senza tregua … Quando la tradotta si ferma, si rinnovano gli urli e ci si sfoga come si può. Si salta giù dal bailamme dei vagoni, si corre al bar, ci si affanna a riempire di acqua la borraccia, magari sotto il lungo braccio della colonna idrica, che ne manda giù un fascio, di acqua, bianca e scrosciante di pressione, violentissima. Ci si inzuppa, ma fa niente, col caldo che c’è. Qualcuno pensa a scrivere le prime cartoline. È una brutta malattia, partire. Dove si era ancorati prima, ci si tornerà sempre. Si va avanti, rivoltandosi indietro di continuo, con una cocciutaggine fenomenale. E succede che più ci si allontana e più si desidera, per reazione, di retrocedere … E dire che se davvero si potesse tornare al punto di partenza, forse se ne sarebbe presto ugualmente delusi! Nelle persone, più che tutto, è il desiderio e la nostalgia di ciò che non si ha. Tranne rarissime, meravigliose eccezioni, quando quelle cose fossero raggiunte, per questo stesso motivo e da quello stesso istante, ne deriverebbe fastidio e noia. È stupefacente, come l’umanità sia impastata di non sensi …

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Andrea non lo capiva ancora compiutamente, tutto questo. Ma c’erano già i primi sintomi. Pur in mezzo a tanta gente, lui si sentiva completamente solo, e non da ora soltanto. Quei canti e quelle voci, per lui, avevano il suono e il sapore dell’insincerità, niente da fare. E incominciava ad avvertire, Andrea – come molti altri, a sua insaputa – il desiderio indistinto di avere intorno a sé un po’ di silenzio e, perché no?, la mezza-luce. Per il momento era soltanto un desiderio. Presto si evolverebbe e diventerebbe tanto urgente da trasformarsi in necessità immediata, E, allora, si sarebbe disteso sulla panca di legno. Avrebbe gonfiato col fiato il cuscino di gomma (era Luci, quella che ci aveva pensato), e se lo sarebbe accomodato sotto la testa. Si sarebbe mollata la cintura dei pantaloni e li avrebbe anche un po’ sbottonati; toglierebbe gli stivali e allungherebbe ben bene anche i piedi. Ci sarebbe un po’ di odore sgradevole, nello scompartimento semibuio, ma non se ne può fare a meno … Ciascuno, lo voglia ammettere o no, in determinate circostanze è rappresentato più dal suo odore che dal suo cervello. E avrebbe pensato a tante cose, Andrea, blandamente. La comprensione delle varie fasi verrebbe da sola, senza sollecitarla, in un’ora o in un giorno o in un mese, e verrebbe sempre troppo presto. Anche se è interessante e istruttivo, il capire, troppo spesso può essere spiacevole e pericoloso: specie quando si è dentro in un mulinello, e non si sa da quale nuova parte sbatteranno le pale da un momento all’altro. Se ti travolgeranno oppure no. Se si contenteranno di portarti via un braccio o una gamba; o se, invece, ti faranno solamente rabbrividire nel loro risucchio incomprensibile. XCIV Il compagno di scompartimento di Andrea aveva nome Biagio. Biagio Zonchi. Era un sottotenente giovane, che comandava un plotone di fucilieri ed aveva la testa grossa e irregolare, stranamente sporgente in avanti, come se volesse sempre arrivare un po’ prima del resto del corpo. Il naso ce l’aveva sottile e di sghembo, come se avesse ricevuto, di sotto, una gran sberla che glielo avesse fatto deviare tutto da una parte. Però, visto di fronte, uno non se n’accorgeva. Era un uomo come un altro, anche se di corporatura alta e robusta, e di collo lungo. Zonchi montò in piedi sul sedile e tirò giù una grossa scatola di cartone, dalla quale trasse un mezzo prosciutto, delle alici piccanti, una torta ed altre cose buone. Pregustando la piacevole sorpresa di Andrea, lo chiamò dentro, che stava fuori nel corridoio a guardare dal finestrino. -Ohè, Mestica, chiudi bene la porta, per carità; e tira la tendina. Se a qualcuno salta il ticchio di curiosare, è un grosso problema, salvare cibarie come queste … Evidentemente, Zonchi era uno che dava la sua brava importanza al lato del mangiare. Andrea era tutt’altro tipo, invece; però anche a lui venne in mente di aver fame, soprattutto dopo aver consultato l’ora. Al “Vuoi favorire?” di Zonchi, rispose con un “Più tardi, grazie”; e si mise ad aprire tranquillamente il grosso pacco che suo padre gli aveva dato a Novara.

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È sempre bello scartare un pacco e sentire la carta dura che crocchia sotto le dita. Anche senza essere golosi, si pensa a quello che ci si troverà dentro, e intanto non si ha tempo per altre stupidate che, diversamente, affliggerebbero il cervello. Si torna bambini per un istante, quando a natale e in qualche particolare circostanza arrivavano i doni, e la sorpresa era sempre nuova e felice. Venne fuori parecchia roba, dal pacco; ma ad Andrea interessava relativamente poco. La sorpresa non c’era stata più … Cosa rappresentavano, di nuovo, i salami e la pancetta, il pollo e le uova sode, le pesche e le pere dorate? Zonchi, invece, si interessava moltissimo ed allungava anche di più il collo già sporgente. E, siccome l’altro taceva, dopo averlo osservato di sottecchi per un paio di minuti, sbottò fuori: -Oh, la grazia di Dio che tu ci hai! Dì un po’, non la vorrai mica sbafare tutta da solo, ‘sta roba, eh? -Eh? … Ah, no. Certamente, no. La mangeremo insieme, ti va?- e Andrea fece l’atto del porgergli a mani aperte le invitanti leccornie. -Sai, Mestica, io l’ho sempre detto che è fortunata solo la gente dei campi. Sarà vero che sgobba tutto l’anno, ma almeno di padrone non ce n’ha, e non le manca niente … - e Zonchi attaccò con entusiasmo un pezzo lirico per esaltare i sani cibi della campagna, e intanto: -Scusa, sai, se approfitto, ma è da tanto tempo che non me ne capitavano più … - aveva allungato le mani sopra un superbo salame dell’olla, intorno al quale c’erano ancora le tracce fresche del grasso appena raspato via. Andrea per un poco lo lasciò fare e andava, intanto, sbocconcellando e rimuginando da solo; poi incominciò a parlare anche lui. Forse era stato il vinello frizzante che accompagnava lo spuntino, a ridestargli gli spiriti. Per lui, affermò che era una cosa straordinaria, questa di dare tanta importanza al mangiare. Per lui, dal momento che lo avevano voluto mandare a fare una guerra che gli dava sui “cosiddetti”, tutto era diventato completamente secondario. E spiegava con foga straripante i suoi motivi, ficcandoci dentro la libertà di espressione e di decisione, i diritti che deve avere l’uomo e le mostruosità bestiali che fanno quelli che comandano, e tante altre porcherie che ce ne sarebbero dei bauli interi da svuotare, ma la polvere, in fondo, e l’odore del marciume, negli angoli e nelle fessure ci resterebbero sempre, mondo impostore! Zonchi diceva di sì, lo incoraggiava, ma in effetti non lo seguiva per niente e badava soltanto a riempire la pancia. Era la cosa più importante che potesse fare, in quel momento … E beveva, anche. Sotto i sedili avevano impiantata una canti netta con una dozzina di fiaschi, e anche Mestica ci dava dentro, nel vino. Prima di passare il Brennero, reintegrerebbero la scorta. I soldi italiano era perfettamente inutile portarli di là; non sarebbero serviti a nulla. Soltanto dopo un abbondante sfogo Andrea si convinse che non era il caso di darsi alla disperazione, di prendersela troppo calda. Non ne avrebbe proprio tratto alcun giovamento … A pancia piena, e piena di roba sostanziosa, generalmente il mondo è meno nero, anche se si è fatto notte. E col buon “chiaretto” e il “bardolino” ingollati senza risparmio, anche il buio fa meno paura. Gli occhi sono così lucidi e appuntiti,

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che mandano intorno quel tanto di chiaro che basta per muoversi senza dar dentro della testa nei muri. Andrea non si era mai trovato prima di allora in un’esperienza di quel tipo; ma gli sembrò che fosse proprio così … La tradotta si fermò, per dormire l’ultima notte in Italia, all’ombra di una gran montagnona pre-dolomitica. Il cielo era gremito di stelle. Un fottìo, ce n’erano: qualche centomila, di sicuro, da contare per delle settimane intere. E tutte lucentissime, in un perenne impalpabile movimento. Pareva una migrazione lenta e serena di anime in letizia. Ma nessuno aveva tempo e voglia per guardarle, le stelle, le anime e le montagne. Dormivano tutti. Avevano ingozzato tutti il loro vino, anche gli astemi, e così potevano sorvolare sul fatto che il materasso era di legno e che la paglia, anche quella poca e puzzolente, non c’era più. C’erano soltanto le luci azzurrate, che pendevano miserabilmente dall’alto, nel gran ronfare generale. Gli ufficiali russavano sulle loro panche di legno, distesi sul sacco a pelo, per avvertire meno le fessure delle giunzioni; e i soldati erano là, in tutte le più strane giaciture, ammucchiati in modo inverosimile in uno spazio assolutamente troppo esiguo per contenerli tutti. Ce n’erano di quelli distesi per terra, di quelli penzolanti per aria nelle amache di fortuna, di quelli più seduti e accucciati che non allungati sul pavimento sudicio e greve. Ad alcuni, distesi su certe mensole contro le pareti laterali, penzolavano giù le gambe e un braccio. Pure, dormivano. Dormivano tutti. Incominciava a puzzare la prima sera, là dentro. Puzzava già quando c’erano saliti, alla partenza. Fra un paio di giorni, sarebbe un “cesso” fatto e finito. Tanto più che, con l’affollamento dei vagoni, era del tutto impossibile che al carro-ritirata potessero andarci se non quelli che ci confinavano. Gli altri si sarebbero arrangiati in qualche modo, a seminare per istrada il loro di più. Il puzzo dell’orina, la tradotta se lo sarebbe portato con sé come elemento costitutivo e insostituibile della sua stessa natura. Anzi, l’aveva già. Di orina, di piedi e di sudore. XCV Il mattino seguente il convoglio si mise in movimento assai di buon’ora, e la gran parte dei soldati non si lavò neppure la faccia. Si diventa eccezionalmente pigri, quando no c’è niente di importante e di preciso da fare. E un po’ sporcaccioni, tendenzialmente, lo sono quasi tutti, in certe circostanze: è una specie di ribellione … Si sarebbero sciacquati il viso più tardi: il tempo, ormai, era tutto per loro. Oggi. Domani. Dopo. C’era una sospensione di qualche giorno, nella loro esistenza. Adesso non era più la pianura a venire incontro alla tradotta. Erano le montagne, che scendevano ad incontrarla calandosi dai loro piedestalli. C’era un fiume un po’ magro, che ogni tanto scrosciava su di un lato, e le montagne si abbassavano sempre di più, le loro vette erano di volta in volta un po’ mano alte. Qualcuna sforacchiava le nubi e ci si perdeva dentro. Pareva nascondersi nella cotonina.

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E il nastro della ferrovia saliva arrancando, a grandi curve, dentro le selve di conifere e frammezzo a certi dirupi rovinosi. Ogni tanto, come per gioco, saltavano fuori delle casette linde e trasparenti, coi tetti spioventissimi, graziose e raccolte. C’era gente che parlava già una specie di tedesco, ibrido e musone, in quei paraggi. Nelle stazioni, più meticolosità di prima: erano quasi tutte nel medesimo stile, come di chalets elevati al quadrato e cresciuti in superbia. Il cielo era bigio, e tirava un’aria fredda e umida. Su al Brennero c’erano parecchi treni fermi, e la temperatura non doveva scostarsi troppo dallo zero. Attraverso la stretta bocchetta passavano la ferrovia e la strada. Dal treno era proibito muoversi, e si potevano intravedere solo il tetto della stazione e la palazzina del confine. C’era una bandiera, alta sul pennone, e il vento la faceva sbattere. Qualche metro più in su, era tutto nebbia e umidità. Sembrava di essere arrivati al vertice di una cappa. Gli alpini, che avevano indosso la divisa di tela, ci rabbrividivano dentro e sbattevano i denti. Non capivano cosa si stesse lì fermi tanto tempo, a gelare. Per loro, del resto, la parola d’ordine era sempre di fare quello che comandavano gli altri, giusto o no. Anche senza capirne niente. Proibito, chiedere il perché. Proibito protestare. Accettare tutto, e basta. Del resto, a chi chiedere, da chi sapere i perché, se per tutti aveva l’aria d’essere la medesima storia? Arrivò su, dall’altra parte, una tradotta. Tedesca. Niente “cavali otto, uomini quaranta”, quelli là. Tutte vetture per passeggeri: terza per la truppa, e classe superiore per gli ufficiali. E non stivati come sardelle. Quelli là non li trattavano mica come gli alpini, eterni diseredati, che avevano solo le prerogative dell’eroismo e dello zaino di quaranta chili! Se la Russia fosse stata un po’ meno distante, magari ce li avrebbero mandati a piedi, tanto loro han gli scarponi delle settemila leghe … Dalla tradotta tedesca si affacciò qualcuno, col viso slavato e con su il pigiama. Osservavano, con un certo stupore pieno di superiorità e di sufficienza, quei soldati italiani che andavano a fare la guerra per loro, e che avevano un po’ di vergogna a farsi vedere sui loro carri-bestiame. Eh sì, è piuttosto umiliante sentirsi sempre di uno scalino più giù; sempre, sempre, sempre. Come un’ossessione disgustosa, tanto più quando non ci si può ribellare. Si guardavano, gli uni e gli altri, e pensavano che, infine, doveva essere una faccenda piuttosto strana, questa, che gli hitleriani venissero in Italia mentre gli italiani passavano dall’altra parte. Non sarebbe stato più semplice che ciascuno restasse sui propri fronti di guerra? Cosa c’era, dietro a ‘sto sipario? Se proprio bisognava morire, sarebbe stato un po’ meno difficile. E poi, è inutile, a ‘sto modo ci si trova insieme. E siccome della ruggine c’è – dicano quello che vogliono, alla radio, nei discorsi e sui vari giornali, ma c’è, come fosse nel sangue! – diventa molto facile che salti fuori qualche bella litigata. I pretesti? Si fa in fretta a trovarli, quando non ci si può annusare … E questi pretesti forse non sono tanto nel fatto che una ventina di anni fa mio padre l’han colpito loro, in guerra (ma anche questo ha una sua importanza … ), quanto in questi modi fottuti e prepotenti che non cercano neppure di attenuare, anzi!

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È inutile volerselo nascondere, loro si sentono dominatori, nati per essere dei padroni, e noi dovremmo essere i loro servitori … Boia d’un mondaccio, non verrà il momento giusto anche per questa? Non ci guardano neanche in faccia. Non si degnano di accorgersi che noi ci siamo, come fossimo dei lacchè. Già che, nell’apparato, la tradotta, la divisa, le armi e tutto il rimanente, siamo proprio giù di molte spanne. Dio, quanti rospi bisogna trangugiare per far venire il domani. E quale domani … XCVI Il viaggio, adesso, era di nuovo in discesa. Le vallate venivano su dal basso, coi loro prati verdissimi, con le loro foreste resinose e profumate. Ad allentare i freni, si sarebbe arrivati giù, a Innsbruck, di un balzo solo. Magari, nel letto di un torrente. L’acqua arriva sempre in fondo! Il paesaggio pareva intessuto di tanti frammenti di sogno. A lungo andare, è una cosa che può annoiare, son poi sempre le stesse casine delle bambole, gli stessi campanilini esili e slanciati, gli stessi bambini con le identiche mucche, e le stesse segherie e le stesse baracche. Ma, appena uno ci arriva dentro, è bello. Impedisce di pensare; è uno spettacolo che rapisce abbastanza, occhi e cervello, e ti porta via delicatamente, insensibilmente. Per un momento non ricordi più che vai alla guerra e che quella gente là non è per nulla la tua. Ti verrebbe voglia di camminare in mezzo a quegli alberi, di bere una ciotola di latte appena munto, fragrante. E immagini volentieri di affacciarti a una di quelle piccole finestruole, con le persiane verdi e marrone, con i cuori intagliati nel legno. Quelle tendine bianche sono nate forse così, insieme alla casa ed al comignolo sottile; ed i vasi di gerani rossi ce li deve aver messi qualcuno di notte, con grande precauzione, perché nessuno lo vedesse. Guai a farsi scorgere, quando si compie qualcosa di bello! Roba da fiabe. Peccato, veramente, che mancasse il sole e che, anzi, ogni tanto l’umidità si condensasse in una finissima e fredda acquerugiola. XCVII I ferrovieri – tutti in divisa anche loro, mobilitati come soldati autentici – al passare del treno si mettevano sull’attenti, come se ci fosse, là sopra, un generale che li ispezionasse e volesse sincerarsi che rigavano diritto. Eh sì, è tutto di ferro in Germania, anche gli uomini, che sono più fantocci e automi, forse, che non esseri singolarmente pensanti: altrimenti, certe cose proprio non avrebbero spiegazione, di nessun tipo. Qualcuno dei vecchiotti del servizio obbligatorio di “territoriale” aveva un paio di mustacchi risvoltati alla Ceccobeppe, come si dice. Parevano congelati anche quelli là. Era tutto sull’attenti, dall’altra parte del valico, niente da farci. Austria o Germania, era tutta la stessa storia. Evidente.

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Dev’essere per questo che anche quelle casine stancavano, ad osservarle un po’. Tutte uguali, anche se belle. Troppo uguali. Tutte ferme e silenziose. Troppo. Avevano paura del castigo, probabilmente, se avessero osato, che so io?, essere un po’ più vive, strizzarti l’occhio, lasciare un’imposta non messa simmetricamente con l’altra. Il mattino presto, tac, a quell’ora, bisogna uniformarsi. Inutile cercare di sfuggirne. Forse ci si sfoga di notte, quando nessuno può accorgersene. La disciplina. Non c’era anima viva, a Innsbruck, che camminasse da una parte della strada piuttosto che dall’altra. Se è la sinistra, è quella. E basta. La disciplina. È per questo, forse, che quella gente è così diversa, quando parla. È difficile trovare un tono equilibrato. O brontolano sottovoce, o gridano da stracciare gli orecchi. Cribbio, come urlano forte, specie se sono militari! E siccome militari lo sono tutti, anche quello che vende i francobolli e il giornale nel chioschetto trasparente, figurateveli un po’ … Hanno soggezione del buon umore modesto. Loro, o sono furibondi o ridono da spaccarsi le ganasce. Anche le donne sono così, un po’ meno, però. Sono spaurite e timide soltanto le tirolesi, quelle delle casine delle fiabe. Ma quelle non sono tedesche del tutto, forse. Le altre, invece, sono figlie dei loro padri. Gran donne, però! Pezzi di ragazze che ne val la pena, anche se normalmente sono un po’ rotondette ed hanno i capelli piuttosto stopposi, ma mica tutte, veh! Ragazze che hanno la dentatura sana e il corpo sodo. Le labbra molto abili, generalmente. Il resto, purtroppo non ebbero il tempo indispensabile, gli alpini della tradotta, per poterlo sapere. Sostenevano, certuni, che di tempo ce ne sarebbe voluto poco. Che bastava un po’ di oscurità o. almeno, una certa discrezione. Senza abusare, s’intende … Aggiungevano che è un’esperienza non trascurabile, per uno che abbia del buon gusto. Dovevano essere bene informati, quelli, o confondere i loro inconfessati desideri con teoriche possibilità … Comunque, non se ne fece nulla, né per Andrea – ben lontano, del resto, da idee di quell’ordine – né per altri. La tradotta era soltanto di rapido passaggio e, se non fosse stato per Augsburg, di signorine non ne avrebbero viste da vicino nessuna. Là, invece, ce n’erano parecchie. Era una gran della stazione, quella di Augsburg, e non tanto per le varie importanti industrie che lì avevano il loro scalo, quanto perché la frequentavano gruppetti di ragazze, dandosi il turno per salutare gli italiani di passaggio. Lo affermarono loro. Dovevano avere molta simpatia, per gli italiani. Molta buona disposizione. Innocentemente, si capisce. La letteratura da pochi soldi va molto lontana, più dell’altra ordinariamente. Ed ha, come l’altra, i suoi bravi luoghi comuni, con la faccenda del sangue caldo italiano, per via del sole, del mare Mediterraneo e di tante altre cose simili. E loro volevano convincersene, le figliole di lassù: non è un peccato capitale, la curiosità. Il peccato, se mai, era … che non poteva verificarsi niente di decisamente interessante. Una convinzione iniziale, non di più: ma eccitante. Generalmente, bastavano gli ufficiali, per l’opera di convincimento. Le figli olone riconoscevano subito la loro carrozza, e vi sciamavano intorno con le loro

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esclamazioni un po’ gutturali e le loro risate a gola aperta. Però anche gli alpini qualcuna la sequestravano volentieri, e quella stava là, nel circolo, a parlare e a ridere da sola in mezzo a loro che la guardavano con negli occhi un’avidità e un desiderio più che evidenti, nonostante l’impaccio del momento. Lei ci si divertiva un mondo, con una specie di ritrosia lasciata a mezzo, accomodante. Qualcuno bestemmiava quattro parola di tedesco: Ich liebe dich.- Auf wiederseen, fraulein. – Deutsche uber alles- E le sciorinava fuori con aria importante, facendola scoppiare in risate anche più clamorose. Lei era contenta, di tutto questo. Soddisfatissima. Intanto uno, più galante che intraprendente, le offriva una pesca per avere il motivo di prenderle una mano e di risalire un po’ per il braccio sodo, sostanzioso. Non faceva mica nulla, lei, per fargli intendere che quello non istava bene. Rideva, più giuliva di prima. Tutto gratis, la pesca e l’esperienza nuova. Quell’altro, incoraggiato, le ripeteva: -Ich liebe dich- come se l’amore fosse una cosa tanto a buona misura, e magari le stampava improvvisamente due baci sulle gote tonde e promettenti. Una cosa innocente. E lei rideva ancora, e succedeva che lo ricambiasse, senza arrossirne. Che male c’è, a fare le cose del genere? Poi, magari, si incontravano con le labbra: l’appetito viene mangiando, è logico. Ma durava poco, il bacio, doveva essere inizio e termine tutt’in una volta. Le cose così debbono restare soltanto un abbozzo, un preludio rapido. E basta. Se no si sciupano. Però, mica storie, la ragazza aveva due poppe stagne e tonde che erano una gran tentazione davvero! Da far nascere il desiderio matto, all’alpino, di portarla su nel suo vagone. Lei magari ci sarebbe venuta, non si sa mai, ridendo sempre, curiosa di quest’altra novità. Non ne han mai basta d’imparare, neanche le donne! Ma, tanto, sarebbe stato inutile. Non è mica un salotto coi divani, un vagone-merci. E le interviste di quel tipo, fatte male, non san di niente, sono asinate. Tanto più con quel casino di gente intorno, vogliosa e incuriosita. E con le conseguenze, più tardi. Rigore, come minimo. Impossibile assolutamente, neppure da pensarci. E così quello si ritirava in buon ordine, esaurendo il suo formidabile repertorio: -Auf wiedersees, fraulein- un’altra volta. E quella ancora a ridere, per la pronuncia infame e per un altro il quale, per pura combinazione, è logico, spinto dagli altri, indugiava a carezzarle o premerle un fianco o il seno o qualcosa d’altro. Ragazze perdute? Chi sa. Ad ogni modo, agli alpini non importava trovare una soluzione al problema. Cose di tradotta, senza malignità. Con buona volontà reciproca. Costa così poco e riempie per un’ora di un po’ di calore. Un raggio di tepore e di luce, anche se è scuro: anzi, se è scuro, tanto meglio. Una donna, di notte, in certi momenti, poi, è un mistero più profondo e più adorabile ancora. Una donna che non conosci e delle quale non sai neanche l’idioma, in un paese straniero dove, per certo, non ritornerai più. È già un ricordo ancora prima di averla incontrata.

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XCVIII Adesso non c’erano più, sui fianchi del treno, i campi ordinati e le ampie distese di grano, di orzo e di patate. Il paesaggio, che fin allora era stato abbastanza vario e interessante, incominciava a farsi desolatamente uniforme e stucchevole. Non ci sarebbe stata più, ad interromperlo,neanche la minima gibbosità del terreno. Il mondo, quando ci si mette, è una cosa disperatamente uguale. Tutto piatto. Tutto lo stesso. Più nessuna speranza che possa cambiare. Ogni tanto, gli alpini credevano di scoprire da lontano il profilo ondulato di una montagna. Ma era un’illusione ottica: si trattava sempre di nuvole all’orizzonte, un po’ più scure delle altre, per un gioco di luce. Anche il tempo, difatti, anche lui ci si era messo, a deprimere gli spiriti: non bastava da solo quel viaggio pazzesco. L’acqua veniva giù fine fine, senza tregua. Sembrava che nascesse da sottoterra. Era diventata come un pulviscolo, che investiva da tutte le parti, senza scampo. E faceva freddo, anche, per sovrappiù. La pianura era immensamente triste. Si era trasformata in un gran pantano e ogni tanto, dove c’erano delle depressioni, si erano formate delle pozze di una certa ampiezza e di profondità limosa, che riflettevano una luce livida e giallastra. In un contorno così, è molto difficile mantenersi allegra. Nemmeno il vino buono è più sufficiente. E gli alpini, del resto, non avevano neppure più la distrazione delle ragazze da salutare. Le tedescotte viste fin allora, tanto tanto qualche poco li scotevano. Ridevano, festose e concilianti, e salutavano nel loro gesto strano e meccanico. Sembrava che, al posto del polso, avessero applicata una macchinetta automatica. Sbattevano la mano, mentre il braccio restava assolutamente fermo. Sembrava un becco a spatola, che si movesse regolarmente, quella mano un po’ grassoccia e tutta tesa e unita … XCIX Incominciarono a trovare i primi segni della guerra. Il posto dov’era nata un’altra volta, questa furia animalesca che gli uomini hanno in continuazione, di volersi ammazzare con ipocrita legalità. C’erano dei carri armati, da vedere: stavano là con la pancia all’aria, scardinati, rugginosi ed inutili come dei ferri vecchi. Pure, avevano ancora qualcosa che incuteva un senso di angoscia. Qualcuno aveva dentro dei buchi o delle grosse sbrindella ture. Poi, c’erano i reticolati, gli apprestamenti anticarro, mucchi di terra e di rottami e di stracci, e tanti altri residui. Una selva di ferro aguzzo, ordinata e composta, a più file parallele. Radure nerastre di bruciato. Si poteva anche interrompere la monotonia di una partita a carte o la stesura di una lettera, per guardar fuori e vedere come fosse montata la faccenda. Gli stati d’animo erano incongruenti e molto confusi. Tutta quella roba che passava sotto gli occhi, sembrava fosse qualcosa che non interessava direttamente, di persona.

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Anche questo è il frutto di una mentalità e di un’educazione che si è o non si è ricevuta. Non si può improvvisare sempre. Era un po’ come se passasse davanti una pellicola del cinema; e non tutti capivano con precisione che, in fondo a quelle immagini che correvano via, c’era anche il loro posto di interpreti, per gli spettatori che sarebbero venuti dopo e che reclamerebbero la loro parte di novità e di emozioni. Se gli uomini si rendessero sempre conto del risultato finale di ciò che fanno, ne combinerebbero un po’ di meno, di boiate. Loro, i soldati, non si rendevano conto completamente, non tutti almeno sapevano soprattutto questo: che il mondo veniva incontro alla tradotta. Un mondo nuovo, che li entusiasmava poco, perché offriva assai meno comodità e nessuno dei piaceri che fino a qualche giorno prima erano stati tutti per loro, anche se apparentemente insignificanti. È così, purtroppo: quando uno sta bene, stenta ad accorgersene. Succede, spesso, che abbia l’assoluto bisogno di fare un tremendo naufragio, per capire il valore di quello che ha perduto … L’amore, la sigaretta, la salute, le abitudini, gli amici, la vita insomma, si comprendono troppe volte quando non ci sono più o stanno comunque per andarsene. Soltanto allora uno sente che è una perdita irreparabile, il non averli più a disposizione. È disgraziatamente molto diffusa la consuetudine di arrivare in ritardo, per averne poi ricordi,disgusto, rimpianti. E tutti ne hanno la loro bella porzione. Abbondante. Amara. Il nastro di celluloide, che rappresentava la Polonia e l’inizio della guerra, si srotolava veloce agli occhi un po’ increduli e sbigottiti. C’erano ponti semidiroccati e rimessi in funzione con enormi incastellature di travi squadrate; e c’era un fiume azzurrissimo con tanti alberi diritti, che filavano giù per la corrente. C’erano i soldati tedeschi, che gridavano con voce secca e tonante nel loro maledetto modo di parlare; e ce n’erano degli altri che non gridavano più, quelli. Avevano finito, loro, di agitarsi e di far agitare gli altri: eppure anch’essi avevano avuto una mamma, una sposa, una famiglia, una fidanzata. Stavano, adesso, vicino alla ferrovia, sotto qualche badilata di terra. Sui loro corpi orizzontali erano drizzate delle croci, con sopra i loro elmetti. E nonostante tutto questo, o per questo appunto, restava desolatamente l’incredibile impressione di assistere ad uno spettacolo. E, com’è abitudine di tutta la gente un po’ educata, i nuovi spettatori accettavano passivamente tutto quello che passava. Non potevano neanche protestare, perché … non avevano pagato il biglietto d’ingresso. Non tutti lo comprendevano, gli innocenti, che lo stavano pagando con la pelle, un minuto dopo l’altro, un metro dopo l’altro. Più si andava avanti nello spazio e nel tempo, e più si avvicinava il momento in cui verrebbe il controllore, a forare il biglietto. Cioè, la carne. E loro non lo capivano. O, se lo capivano, faceva lo stesso; anzi, era peggio. Mica tutti possono saltare giù una stazione prima o farla franca, quando passa lui, a ritirare ed esigere la scadenza. Non lo si impietosisce, quello là.

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C Si stancarono anche di guardar fuori. Era diventato monotono un’altra volta. Gli ufficiali erano meno curiosi ancora dei soldati. Loro, avevano la cantina sotto il sedile, il prosciutto e tante altre cose sopra i portapacchi. Valeva la pena di mangiare e bere, intanto, e stare allegri più che si può, ammesso che si possa parlare di allegria in certe circostanze. Negli intervalli, andavano a far pipì nella latrina – che stava diventando veramente un “cesso”, e puzzava come un letamaio che fermenti, allagata com’era sempre nonostante le strapazzate che il piantone si prendeva ogni mezz’ora, come se n’avesse avuta lui la colpa – guardavano distrattamente dal finestrino, e sputavano fuori per osservare come il vento sbrindellasse la loro saliva … Ogni tanto consultavano la carta al 500.000 che avevano appesa a una parete del corridoio. C’era uno di loro che segnava, con la matita rossa, la distanza già percorsa: ne restava ancora almeno altrettanta. Il resto del tempo, avevano incominciato a giocarselo a poker, o altrimenti fumavano e dormivano e mangiavano. Qualcuno scriveva. Lettere, appunti di viaggio, cartoline in franchigia. Partirebbero quando venisse l’occasione buona. Non c’era neanche più da buttar giù le sigarette ai prigionieri di guerra. Povera gente, avvilita e disgraziata, era là che lavorava di pala e di braccia per rimettere a nuovo quelle ferrovie sulle quali sarebbero passati sempre nuovi convogli di soldati, di armi e di munizioni destinate a uccidere i loro compatrioti. Non potevano fare altrimenti … Tutt’al più, lavorare con meno lena, cercando di non farsi sorprendere dai tedeschi di sentinella, che erano pronti con le lunghe e aguzze baionette inastate. Era già una gran cosa che permettessero loro di raccogliere le sigarette che tiravano giù gli italiani. Un po’ di tabacco tiene posto dello scarso nutrimento, ed è un regalo immenso! Facevano pena, quei meschini – che erano stati uomini – con la loro maschera di rassegnazione sul volto, e con lo stesso mover degli occhi reso sospettoso e moderato, privo di ogni luce e di ogni calore. Il dover durare in tali condizioni, con neppure un solo esilissimo filo che leghi a tutta la trascorsa esistenza, è un vero e proprio cadaverizzarsi prima che sia il momento. Prigionieri: parola tragica. C’erano solamente più dei bambini, adesso, alti due soldi e tutti pieni di stracci, che gridavano lamentosamente per avere la sigaretta. A loro, era più difficile che gliela dessero, naturalmente. Ma quelli non la smettevano lo stesso. Stavano alla posta del treno, lontanissimi da qualsiasi casa, per non incappare nella sorveglianza armata, e quando arrivava il primo vagone incominciavano a piagnucolare forte, nella tromba d’aria che li investiva. Univano il medio e l’indice della mano e se li portavano alle labbra, con mimica evidente, ripetendo affannosamente il gesto, fin che la tradotta non fosse più che un poco di polvere e di cartaccia sporca che danzava davanti a loro. Se per caso gliene lasciavano cadere una, di sigaretta, allora correvano a raccattarla come delle furie, a rischio di finire sotto le ruote del convoglio, prima

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ancora che fosse passato del tutto. E, poi, facevano ritorno alla loro mucca sconsolatamente magra, col loro tesoro ficcato nella profondità delle tasche. Difficile che la fumassero loro. Forse la portavano al papà nascosto in qualche sito. Se no, la barattavano con qualcosa di più redditizio e commestibile. CI Abbiamo visto che Zonchi, il compagno di scompartimento di Andrea, era alto e abbastanza robusto. Ed era profondamente convinto di essere un grande atleta. Chiunque gliel’avesse contestato, gli avrebbe dato un grosso dispiacere. Nella divisa, ci stava dentro molto bene, e non la smetteva di curare il nodo della cravatta. Si era messo nel cranio qualcosa di tedesco mane, riguardo la disciplina. Stentava persino a rimboccarsi le maniche, anche quando il caldo era del tutto opprimente. Uno a modo suo, insomma. Un po’ “sagoma”. Era cresciuto nello “stile del fascismo”, nel clima rovente e fervido della rivoluzione, come si scriveva sui giornali e come si sbraitava alla radio e in tutte le concioni, assumendo le pose, i gesti, possibilmente il tono di voce di “lui”. Zonchi aveva bevuto la gran parte delle panzane, le più semplici e credibili, come le più ignobili e le più volgari e assurde; aveva bevuto fino a farne una completa sbronza … Quando uno incomincia a credere, dopo va avanti per inerzia. E si trova, a un certo punto, molto ma molto in alto mare, senza quasi che se ne sia reso conto. In certi casi la colpa non si può affermare che sia di un individuo. Lui era venuto al mondo intanto che c’era l’altra guerra. Poi, suo padre a casa non era tornato, e il bambino era stato messo in un collegio. Era già stata una bella cosa, che l’avessero potuto istruire. Non è proprio che in quei posti là uno lo facessero venir su a tutti i costi vestito con la camicia nera (però, ve li indirizzavano con notevole buona volontà, fatte poche eccezioni), ma quel senso esteriore di ordine e, forse, più di tante altre cose, quelle imponenti divise, l’avevano sedotto coi loro colori, coi copricapi vistosi, importanti, tutti rilucenti di chincaglierie. Per un giovanetto che cresce possono avere un’importanza determinante un paio di stivaloni lucidati bene, i bottoni dorati e le cose del genere, con i gradi e il resto. Può diventare tutto un programma, anche se non se ne rende conto. Inoltre, il piccolo Biagio aveva la passione sportiva (e gran parte dei ragazzi ce l’hanno, dovunque, in ogni tempo), e quelli gliela lasciavano sfogare senza che costasse nulla. Anzi, gli facevano anche le giustificazioni, che non aveva potuto studiare il latino e la matematica. Cosa si deve pretendere, di più? Al rimanente, Zonchi si era accostato, poi, insensibilmente. Prima, senza saperne il motivo, come tutti quanti, con l’istintivo entusiasmo che ogni novità – non importa se cattiva, chi discerne in quegli anni? – suscita negli animi giovanili. E, in seguito, perché ci si trovava abbastanza bene, ed era superfluo cercare altro: e, del resto, d’altro non c’era niente.

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Perdinci, in certe riunioni sportive ci venivano delle ragazze davvero magnifiche! Ed è così, in libertà, che rende con le donne, quelle che han meno di vent’anni in ispecie, e, per la gioia di sentirsi lontane dal nido di casa, commettono in piena allegria e incoscienza le più grosse stupidaggini … Come faceva, Biagio Zonchi, centometrista neanche infame e, in seguito, organizzatore sufficientemente rimunerato di riunioni sportive, a non credere nel fascismo? A parte il fatto che nessuno gli aveva insegnato che si poteva pensare a qualcosa di differente, per lui rappresentava il pane e il companatico. Tanto più, poi, che quelli erano in gamba, sapevano bene quali tasti erano da toccarsi per scuotere la sensibilità degli adolescenti e convincerli a cadere nell’unica loro rete. Gli ideali più belli, sia pure arrovesciati e distorti a loro uso e consumo, erano con loro; e così era anche logico che intorno ci fosse della buona fede convinta. Degli idealisti. I giovani hanno bisogno di essere idealisti. Non tutti vanno sempre a diffidare, tanto più che c’era un’intera letteratura con loro, e chi volesse avere un’idea sugli orientamenti politici fuori di casa, non poteva far altro che leggere quello che la censura e gli addomesticatori lasciavano circolare. La politica, più o meno, è sempre fatta così. E gli onesti che ci si invischiano ne restano, prima o poi, regolarmente disgustati. O scottati di persona. Zonchi, dunque, si era convinto senza neppur sapere come: come gli altri, né più né meno. La propaganda la sapeva davvero lunga. Non erano certo dei minchioni, quelli preposti. Presentavano certe leccornie che era facile essere indotti a gustarne. Non avevano niente di sgradevole al palato: ma, dentro, chi sa quali ingredienti tossici riuscivano a nascondere, capaci di avvelenare. L’effetto sicuramente si sarebbe manifestato, al momento opportuno, a meno di prendere delle robuste purghe. Ma ci si purga, quando non si sa di aver fatto indigestione? C’è qualcuno, per caso, che va dal pasticciere per poi prendersi l’olio di ricino? La possibilità di fare in santa pace i suoi comodi personali senza che nessuno ci ficcasse il naso per verificare se si trattasse o meno di imbrogli, aveva finito per imbalsamare del tutto il nostro giovane dirigente atletico. La natura umana è fatta di malizia, spesso, anche di più di quel che non sia fatta di bontà e di solidale amore per il prossimo. Per costringerla a lavorare per il bene degli altri, oltre che per l’interesse proprio, ci vuole una gran fatica: talvolta neppure bastano le staffilate. Era assai più agevole anche il gridare in piazza, o il far gridare gli altri. Costava niente. Ci si guadagnava la possibilità di splendide ore con ragazze sostanziose, uno stipendio ragionevole (con qualche piccolo incerto realizzabile tra le pieghe, anche senza troppa fantasia); e, in più, la gloria facile e vanitosa di una divisa brillante. Non era agevole giungere alla conclusione che tutto fosse falso, che tutto fossa apparenza. Quanti si erano cuciti gli occhi ben più volontariamente e consapevolmente di lui: quelli sì che erano davvero colpevoli, perché perpetuavano, a danno della gioventù, quell’inganno che essi conoscevano bene, ma che tenevano ben chiuso dentro di loro, perché non lo si potesse scoprire … Zonchi, però, qualcosa aveva incominciato ad avvertire alcuni mesi dopo la guerra d’Etiopia, ai tempi dei “volontari” nella Spagna. Stonature piccole, dissonanze. Ma erano sintomi premonitori e sicuri.

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Negli ultimi tempi, infine, era cambiato forte anche lui: ma ce ne vuole! Non sono malattie che possano guarire in una settimana o in un mese. Uno che debba buttare nell’immondezzaio le proprie idealità, ci fa fatica, anche mettendoci tutta la sua migliore disposizione. Per riuscirci del tutto, bisogna che arrivino le occasioni provvidenziali, a dargli il colpo di rotta decisivo. E per Zonchi, le occasioni giuste erano invece sempre passate solamente a sfiorarlo, senza dargli l’urtone definitivo. Oh oh, alla guerra lui aveva ben battute le mani. E ce n’erano milioni che avevano fatto come lui, per un motivo e l’altro … ma non era affatto intenzionato a parteciparvi, né in camicia nera né con le stellette: stava bene dov’era, lui! I primi mesi, l’aveva passata liscia. Tutta una questione inviluppata di posizione politica, di milizia e di gradi militari, oltre che le “inderogabili esigenze” dell’organizzazione sportiva alla quale presiedeva. Una storia ingarbugliata di domane, di segnalazioni e di altre cose del genere. Poi, che è che non è, l’aveva chiamato l’esercito. A quello non era stato possibile sgusciare tra le dita, non aveva saputo trovare la trafila adatta. I primi buoni colpi alla sua convinzione, i primi colpi sostanziali, glieli aveva ben dati lui, l’esercito. Aveva trovato là dentro tante cose mai immaginate, dai risentimenti politici ad una nuova “politica”, fatta di piccole furberie, di rassegnazione e di sufficienza passiva. L’esercito era diverso, insomma, dal partito; anche se era abbastanza manifesto che la fregola della guerra non l’avevano neppure i militari. L’ambiente aveva influito, come una buona doccia fredda. Incominciava a vederci con una certa chiarezza, ora, anche se – almeno in se stesso – gli riaffiorava ogni tanto un po’ di quel lirismo retorico fatto su misura, secondo le nuove direttive, col quale la propaganda avrebbe voluto far delirare tutti quanti e riusciva ad accalappiare parecchi giovani, per la loro sete onesta e innocente di un ingenuo sogno di gloria. Con Andrea, che era così tranquillo e silenzioso dopo la prima sfuriata, adesso Zonchi raccontava certe storielle di sapore antifascista, delle quali si limitava a sorridere, ma che contenevano delle verità sacrosante. Andrea lo ascoltava con bastante indulgenza – aveva la sue cose, lui, per la testa. Ne aveva fatta, di strada, da qualche tempo! – e anche qualche altro ufficiale li veniva a trovare per farsene contare qualcuna. Poi, facevano il giro degli scompartimenti. -Ce n’è una bella sulla devozione- attaccava Zonchi. Guardava i suoi ascoltatori. E poi la buttava fuori. -Dunque, vi ricordate di quando venne in Italia Hitler. Ve la dico in quattro e quattr’otto. Hitler sale su di una torre, dove ci son su dei balilla, dei giovani fascisti e dei moschettieri. Tutti sono impalati sul presentat’arm. Lui li sta a guardare con la sua grinta, che non si sa mai quello che gli passa dentro, e poi dà un’occhiata circospetta verso il basso. C’è una bell’altezza. Venti o venticinque metri, come minimo. Un’idea stupida gli viene. Si volta a un moschettiere, e gli chiede a bruciapelo: -Tu, che cosa faresti, per Mussolini?-. Quello fa di scatto un salto e piomba giù dalla torre, a fracassarsi sulla strada.

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Hitler è impressionato. Una cosa così, pensa, non l’avrei mai creduta. I miei tedeschi, a me non sono mica affezionati in un modo così intenso. Questa sì, che è devozione! Poi, siccome è un po’ duro di comprendonio, come tutti i suoi, decide di ritentare l’esperimento con un avanguardista. Stessa scena di prima. Lui non sa più cosa deve pensare. È depresso e affascinato, tutt’in una volta. Ma, siccome l’ho già detto che è un po’ testone, lui è come san Tomaso, non si dà ancora per vinto. Scorge un balillino alto due spanne, che è lì tutto d’un pezzo, col suo moschettino diritto come un moccolotto. Gli va vicino e gli fa la stesa domanda. L’altro fa per precipitarsi di sotto ma lui, finalmente, riesce a trattenerlo. Lo guarda fisso, come per traversarlo da parte a parte, e gli chiede: -Ma volete così tanto bene, dunque, al vostro “duce”? -Porca miseria – gli fa l’altro, con fuori gli occhi – anche bene, adesso, gli dovremmo volere … -E … allora, perché vi buttate? -Sì, boia d’un mondo, per vivere a ‘sto modo è meglio uccidersi subito … L’uditorio ridacchiava e vociava, commentando, intanto che Zonchi godeva del suo piccolo trionfo. Ne sapeva, lui, di storielle del genere, da tenerli allegri per giornate intere. -Una di classe, ne vogliamo- reclamava, allora, il capitano Montanari, un tipo con due occhi grigi e penetranti. E Zonchi, da buon subordinato, riprendeva volentieri: -Quest’altra è buona. State a sentire … -Sì, ma non ci sia da farsi il solletico, per ridere … -Giudicherete dopo (si arrabbiava, Zonchi, quando lo interrompevano). Dunque, è morto Michele Bianchi e naturalmente fila dritto dritto su in Paradiso. Batte forte al portone. San Pietro, con la sua bella barba bianca, socchiude lo spioncino e allunga la mano con dentro una monetina: gli era sembrato un mendicante, era distratto, si vede. Certo non aveva fatto caso, lui, alla camicia nera … Comunque, il quadrumviro gli spiega l’errore e gli dice di che cosa si tratta. -Uh … sì sì. Vediamo, vediamo un po’ … Dunque, lei è … ? -Bianchi. Bianchi Michele, perbacco. Tira fuori il suo bel librone. Sfoglia. B.B.B … B.I … B.L … B.L … B.L … B.L … B.N … -No – dice – B.M. non c’è. Scusi proprio,mi dispiace molto, ma non c’è. Provi più sotto- e serra lo spioncino. L’altro resta lì un po’, a pensare se non sia il caso di fare uso di argomenti di forza, poi si persuade che no. Dà una scrollatina di spalle e va giù al Purgatorio. Anche là non c’è traccia del suo nome, fra i morti in arrivo. -Per la majella, mi tocca proprio di andare all’inferno! E sì che ”lui” mi aveva garantito … - e si incammina, pieno di dispetto. A un primo posto di blocco, lo fermano e gli chiedono chi sia. Lui, che ha in mente le scene e i registri di prima, non sta mica lì tanto: -B.M.- dice.

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Il diavolo di sentinella pianta un gran saltone, e dentro di corsa nella garitta. Si attacca al telefono, come una furia: -È arrivato B.M.! È arrivato B.M.!- grida eccitatissimo. Intanto, l’altro lo fanno andare avanti, e tutti i demoni gli fanno grandi inchini ossequiosi. Qualcuno accenna anche il “saluto romano”. Lui pensa: -Ma guarda, come sanno trattare con riguardo. Non è mica, poi, così brutto come pretendono, l’inferno. Penso che mi troverò bene … E, intanto, vede avvicinarsi con rapidità un bel nuvolone di polvere. È Lucifero, che gli viene incontro per riceverlo, Lucifero in persona, che è tanto gentile, sulla sua fuori-serie da corsa. Arriva tutto sudato, smonta di furia e si fa avanti con aria giuliva. Poi, si ferma interdetto, lo guarda bene in faccia e si mette a bestemmiare con violenza: -Sacramento d’un sacramento, me l’ha fatta ancora una volta! B.M. … B.M. … Era M.B., che noi aspettavamo! E loro erano qua, adesso, gli alpini, che andavano incontro per davvero, loro, a Lucifero; e lui, l’M.B. che ce li mandava, era ancora là che indirizzava gli altri, verso l’altro mondo. CII La pianura era sempre più piatta. Più infinita ancora di qualche ora prima. Da perdercisi dentro col pensiero, oltre che con gli occhi. Di vegetazione sopravviveva soltanto più qualche smilzo campetto, che pareva più spontaneo che seminato. Un po’ di papaveri variopinti, qualche breve appezzamento di patate … Tutto arido, tutto striminzito, come venuto su per forza, di malavoglia. Non c’erano più le casette fresche e colorite di prima. Solamente, qua e là per la vasta campagna, spuntava su qualche squallida baracca. Avevano l’aspetto stanco e trasandato, le povere case di legno rugginoso: sembravano escrescenze del terreno, bubboni malati, specie quelle col tetto di paglia annerita dalle intemperie. La gente, quella poca che era rimasta, pareva più dura, più staccata, estranea. Come se effettuasse un viaggio, lo stesse ormai terminando, gente straniera in casa propria. Il perché di questa atonìa, gli alpini lo avrebbero scoperto assai presto: anch’essi ne sarebbero snervati. Sembrava il ricordo di un’esistenza, un ricordo appassito e mezzo marcio. Presto reclinerebbe il gambo, e non se ne parlerebbe più. In un modo o nell’altro, finirebbe. Per ora, erano superstiti le tenaci catapecchie e qualche rada boscaglia dall’aspetto povero e contorto, con tanti esili cespugli e alcuni alberelli un po’ più coraggiosi, che si levavano su di un paio di metri ancora: ontani, salici, betulle, qualche acacia. I marmocchi cenciosi che badavano alla mucca, non chiedevano più la sigaretta. Adesso invocavano pane. L’avevano imparato a dire in italiano, a modo loro: Panè, panè. Erano incappucciati goffamente negli stracci di una ex-divisa militare, di chi sa quale esercito, ed erano affamati. Panè, panè, brot. Dà mì panè, talianski … E tendevano la mano scarna.

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Anche le donne avevano fame, tanta fame. Avevano la faccia rugosa e pesante, una faccia che recava il dolore di millenni, non di anni; ed avevano indosso certi scialli sudici e sbrindellati, che non erano più di nessun colore. Magari, erano coperte salvate miracolosamente dalla rovina generale. A volte li si vedeva, i bambini e le donne con la vacca tisica, spersi, lontanissimi da qualsiasi pur rudimentale tugurio. Abitavano la pianura o la boscaglia. Una piega nel terreno. Il mondo, con le stelle e la pioggia. Vivevano del poco latte della vaccherella e di chi sa cos’altro. Ma le donne non chiedevano pane. Loro, no. Guardavano soltanto, traverso le loro rughe, con gli occhi pieni di desolazione. Lo squallore dell’umanità messo a nudo è assai brutto, specie quando uno lo incontra intanto che è diretto alla guerra. E, quello, era squallore in modo maiuscolo, superlativo. Era la distruzione pressoché totale. A quella gente, la morte certamente non incuteva più nessuno spavento. Anche se non andavano a cercarsela e a sollecitarla, era più che evidente che la stavano aspettando. Quando venisse, farebbe un piacere: il primo e l’ultimo tutt’insieme. Il resto, era tutto indifferente. L’angoscia era senza nomi e senza colori. Aveva una maschera impenetrabile. Qualche volta, nell’infanzia, l’incoscienza di un sorriso … A Varsavia, dove la stazione ferroviaria era lunga chilometri, c’era un movimento intenso. Una quantità di treni transitavano nelle due opposte direzioni. Treni stranissimi, con vagoni di tutte le nazionalità. Preda bellica. Fa mica niente ridurre sul lastrico gli altri, ce ne ho avuto bisogno io, oh bella! Vagoni francesi, tanti, lunghi e piatti, oppure alti e chiusi, con scritto sopra CHEVAUX 8 – HOMMES 40, prima i cavalli e poi gli uomini, ci vuol riguardo, almeno per le bestie! Vagoni ungheresi, romeni, slovacchi, olandesi e belgi, si erano radunati tutti là, verso oriente. Cosa andavano cercando, nessuno lo sapeva dire. Però, era evidente che il padrone di quella roba era uno solo. Padrone dei vagoni e di quel che ci passava sopra, fosse materiale di guerra, come letame, come uomini. Tutto suo, di quel padrone privo di scrupolo. Sua, tutta quell’umanità che passava. Treni che erano grappoli orrendi di miseria umana e documenti non controvertibili di un’empietà senza limiti. Una tragedia infame. Gente che pendeva giù da tutte le parti. Pochi uomini, tutte donne e ragazzi. Venivano dall’est e andavano verso occidente. Incontro a che cosa? Di volontà propria, per caso? E con quale miraggio, se mai? Per durarla, forse, ancora un poco, visto che a questa grama esistenza ci si tiene tanto? Ognuno di quegli esseri accatastati e penzolanti era una carcassa piena di dolore. Una larva che cercherebbe, magari, di tirarsi fuori dalla putredine dove l’avevano ficcata, perché ci marcisse più in fretta. I misfatti, c’è gente che li consuma alla perfezione, fino in fondo. Certi criminali sono dei veri artisti, nel loro genere. Hanno una fantasia superiore. Un esodo coatto e così abominevole, nessuno era mai riuscito a immaginarselo. Ne passarono, di quei convogli. In fondo a uno, seduto su di un respingente, c’era un adolescente che dormiva. Dormiva seduto senza appoggiarsi a nulla, con le spalle nel vuoto, in bilico. Aveva la

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testa ciondolante, coi capelli biondastri che gli spiovevano sul viso. Poteva piombare giù, sparire. Nessuno lo avrebbe sorretto o cercato. Lui, almeno, l’avrebbe fatta finita, una volta per sempre. Avrà avuto un quindici anni. Solo al mondo, probabilmente, come tutta quell’umanità affastellata sul convoglio. Solo, in senso assoluto. In occasioni così, neanche più la tragedia comune riesce ad avvicinare gli individui e a farli ricercare l’uno dall’altro. Si sputa su se stessi, per ieri, per oggi e per domani. E si tira via, spauriti anche della propria ombra. Anche Zonchi sembrava incominciasse a capire di dove aveva avuto origine tutta quella ripugnante vigliaccata. E gli alpini, che ne erano già abbondantemente convinti, incominciavano a sacramentare … anche perché l’acqua potabile andava diventando quasi una rarità. CIII A Kossowo, Iwacewicze e Domanowo le stazioni ferroviarie non c’erano più. Al loro posto erano rimasti dei monconi di muro, sbrecciati e anneriti. E c’erano rimasti dei treni distrutti. Incominciava la ferraglia contorta e inutile, a migliaia di tonnellate. E c’erano le donne, che curavano la pulizia dei binari, la manutenzione dei binari. Decine di donne, centinaia di donne, con in mano la ramazza o il rastrello, il badile o la vanga, e con una stella di stoffa gialla cucita sulla schiena e sul petto. Per distinguerle. EBREE. EBREE. Gente da sparire. L’ha detto chi comanda, e la legge la fa il più forte. Si facevano vicine alla tradotta, spaurite e timorose; e raccoglievano avide, come se li rubassero, i limoni che tiravano giù gli alpini. Ci mettevano dentro i denti e li divoravano con voracità, come le ghiottonerie, pelle e tutto. Era certo per la fame, assai più che per il caldo. Ce n’erano tante, di quelle giovani, specie a Baranowitske. Qualche centinaio, forse. I tedeschi di sentinella le allontanavano dalla tradotta a calci e menando il fucile. Loro stavano alla larga, le ebree, sapevano che difficilmente sarebbe finita così a buon mercato. Però, quando il tedesco era passato, tornavano ad avvicinarsi. Gli italiani qualcosa davano sempre, anche se avevano poco già per loro. Sono buoni, non sono dei selvaggi. C’era una gran baracca lunga, a Baranowitske, costruita di fresco con delle tavole odorose ancora di resina. Andrea venne giù dalla vettura con una bottiglia in mano, per cercare dell’acqua. Gli si accostò una giovane. Era graziosa, non aveva più di vent’anni. Lei aveva capito al volo, quello che serviva all’ufficiale italiano; e voleva aiutarlo. Un tedesco, l’avrebbe mandato al diavolo; per loro, lei era peggio di una bestia rognosa; ma un italiano, no. È diversa. Aveva vissuto, lei, in Italia, due anni, a Firenze. Era il suo sogno più bello, ricordarsene. Sapeva parlare italiano, e gliene derivava una gioia umile e orgogliosa. Condusse Andrea dove c’era un rubinetto di acqua potabile. Traversando la baracca – lei l’aveva condotto lì per fare più in fretta, la tradotta poteva partire da un

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momento all’altro – l’uomo scorse altre donne, là dentro, distese sul pavimento di terra. Ce n’era una, coi capelli neri e ricciuti, che era bella come un angelo. Un visino incantevole, lo si notava anche in quella penombra. Giovanissima. La osservò, curioso. Era incinta, la ragazza, e guardava fissa davanti a sé, nella luce di una fessura fra due tavole. Lei non lo notò nemmeno, l’ufficiale italiano che la stava osservando. L’altra ebrea, quella che sapeva l’italiano, mentre uscivano disse ad Andrea, con voce tranquilla: -Quella, la uccideranno in questi giorni. Capùt … -Eh, … e perché mai? -È incinta, non hai visto? -Ebbene, cosa fa se è incinta? -Han detto, quelli, che non ne devono più nascere, di ebrei. Così, impregnano le ragazze e poi le ammazzano. Aveva parlato con voce serena, senza impressionarsi per la spaventosa cosa che rivelava. Era evidente che non lo considerava come il primo venuto, l’uomo col quale stava parlando. Aveva fiducia. Fiducia e coraggio. -Succederà anche a me, come a Lydia … Se non oggi, sarà domani. Ci prendono con la forza. Non ci si può far nulla. -Aspetta qua- le disse Andrea, e corse su nella vettura, incespicando per la furia. Tornò giù e le mise in mano qualcosa da mangiare, la prima roba che gli era venuta a tiro. Non poteva fare altro, per lei … La fanciulla sorrise, con una grazia malinconica che faceva stringere il cuore, e Andrea scappò via anche più in fretta di prima. Salì sul suo scompartimento e, fino a che il treno non fu partito, non si mosse più. Si sarebbe messo a urlare, per la rabbia di non poter sparare contro qualcuno. Intanto, col suo passo un po’ indolente, la sentinella germanica era arrivata a tiro dell’ebrea, e le mollava un gran calcio nelle cosce, gridando con voce rabbiosa qualcosa di molto lurido. ‘Ste cagne di giudee, non hanno il diritto, loro, di avvicinarsi agli altri mortali! Razza sporca, da cancellarsi via! CIV Era notte, notte fonda, e pioveva senza remissione. Le gocce canterellavano sul tetto della vettura e poi colavano giù, sulle pareti e sui vetri dei finestrini. Andrea si destò perché aveva freddo, e così si accorse che la tradotta era ferma. Gli venne all’orecchio una melodia lenta e quasi solenne. Veniva da poco lontano, ma non la poteva seguire bene, perché c’era Zonchi che russava come un tanghero. Tirava la sega in modo magistrale, Zonchi. Chi sa le tonnellate di legna che avrebbe potuto segare, con quella sua regolarità tanto uniforme! Andrea indossò la giacca e le pantofole e uscì sul corridoio. Stette un momento ad ascoltare da dove provenisse quel canto, e quindi si diresse verso il fondo del vagone

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dove, seduto sullo sgabello ribaltabile, stava tentando di stare sveglio l’attendente che era di turno a far da piantone al cesso. -Chi è che canta?- gli chiese Andrea. -Eh … ? Sì, siamo a Bobruisk, signor tenente. Bobruisk, l’ho letto io su di un cartellone- gli fece quello, ancora mezzo addormentato. -Grazie, Rossi. Non sai chi canta? -Oh sì, sciur tenent. Sono i tedeschi. Ed erano loro, difatti, i tedeschi di un convoglio fermo proprio di fronte. Avevano una chitarra ed un’armonica a bocca. Erano seduti in cerchio, e cantavano. Dalle corde dello strumento venivano fuori dei rintocchi leggerissimi, come dei cauti accenni tenuti in sospeso. E le canzoni erano come quelle dei soldati di tutto il mondo: apparentemente liete, e con un fondo di dolcissima tristezza evocativa. Era straordinario, come sapevano ammorbidire e trasformare in una nenia profondamente armoniosa tutti quei suoni aspri e gutturali, quelle parole secche e mozze che formano la loro parlata! Andrea non potè fare a meno di pensare che difficilmente un coro di ragazze avrebbe potuto avere vibrazioni più delicate. Dire che cantav ano con sentimento, è dire niente. Ecco, loro non erano più là dentro, in un vagone, diretti al loro secondo o terzo fronte di guerra; andavano verso casa, sull’onda delle note musicali. Verso il loro paradiso. Cantavano col cuore, più che con la voce, con espressione intima e convinta. Una cosa come questa, Andrea non se la sarebbe immaginata mai. Ripensò a quell’animale fottuto di sentinella, che prendeva a calci le ebree, e provò a figurarseli dietro quelle voci. No, non ci riusciva proprio. E nemmeno quelli che le violentavano freddamente, neanche quelli non potevano cantare così. Ma la rivelazione non era ancora compiuta del tutto. Dall’altra parte attaccarono, a voce bassa, Lilì Marleen. Ma la cantarono con tanta accoratezza che, a starli ad ascoltare, c’era da restarne commossi e pensosi. Lilì è la ragazza del cuore, infine, una ce l’hanno tutti, tedeschi o no, ed è una creatura – specie di lontano – sacra e delicatissima. Fatta di desiderio umile, profondo, di sospiri trattenuti a stento. Rapire una pausa infinitamente piccola di felicità, la gioia pura di un attimo sereno e lontano. Lilì Marleen è Luci; Lilì Marleen è la Gisa; è Nerina; è la Nice. Lilì Marleen è tutto, in questo momento: la casa lontana, il piccolo Luigino, la famiglia, il lavoro, il domani anche, non soltanto il passato. La tregua in questo marasma. Aiuta ad evitare di uscirne pazzi. Come conciliano bene, le gocciole che filano giù sul vetro del finestrino! -Sciur tenent, l’ha sentì che roba, ‘sti tedesconi? I fan gnì quasi da piangere … Già, fan venire da piangere, quasi. Sicuro … ma allora, perché succede tutto questo? Come può succedere? È mai possibile che si sia tutti quanti strumenti passivi e rassegnati di un’empietà sola? Andrea tornò nel suo scompartimento. Si riadagiò, ma il sonno tardava a venire. Forse era di Zonchi, la colpa, di Zonchi che non la smetteva di russare. A tirargli uno scarpone, sarebbe stato fargli poco, davvero.

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… Chi sa, al Cascinone, se dormiranno tutti, a quest’ora? Anche la mamma? Pioverà anche là, magari … E Luigino farà disperare, perché in casa non riescono a tenerlo, neppure se lo legano alla gamba del tavolo … CV Fu alla stazione di Gomel, che Andrea vide da vicino, per la prima volta, cos’è la morte. Come sa arrivare addosso a tradimento. La tradotta si era fermata là, nella notte, che non la smetteva assolutamente di piovigginare. C’era un’umidità tanto diffusa, che entrava nelle ossa da tutte le parti. Gli alpini avevano scoperto un rubinetto d’acqua. C’era ben scritto, in tedesco, che non era potabile, ma a loro importava poco. Quando uno ha davvero sete, non bada tanto per il sottile. Ci scherzavano sopra, anche: dicevano che, tanto, avevano fatto le punture e che, per conseguenza, erano diventati immuni. Se proprio l’acqua aveva qualche gustaccio, allora ci spremerebbero dentro un po’ di limone, e va là. Traversando i binari e scavalcando un certo numero di treni in sosta, avevano scoperto anche un baraccamento con su scritto LATRINE. È universale, una parola così. E siccome tutti ne avevano urgenza, si erano affrettati là in massa. Quelli che arrivavano in ritardo, non ci pensavano troppo: lasciavano giù i pantaloni dove capitava, cercando di … defilarsi un po’ alla vista. Un caporale, fra gli altri, si era allontanato di qualche decina di metri più degli altri, e così adocchiò una bambina, fuori dal recinto della ferrovia, che aveva in mano delle uova. Era là che aspettava la possibilità del baratto, fuori tiro dai tedeschi. Il caporale corse là. La bambina voleva della galletta, in cambio. Una galletta per quattro uova. Era un affare che conveniva. Le fece intendere che lo stesse ad aspettare e che non commerciasse, intanto, con eventuali concorrenti; e filò via, a scavalcare i treni fermi. Salì sul suo vagone, frugò rapidamente nello zaino, e tornò giù di gran carriera. Aveva una voglia, lui, di uova … Intanto che traversava il primo binario, proprio davanti alla vettura degli ufficiali, gli arrivò addosso, precisa e violenta, una locomotiva in corsa. Con un respingente lo urtò in pieno nel cranio, e lo sbattè in terra, come un urlante sacco di stracci. Andrea era là, esterrefatto, che guardava dal finestrino. Non riuscì neppure a smozzicare una parola. La ruota lucida della locomotiva sgnaccò la testa del caporale, e Andrea fece in tempo a scorgere qualcosa di biancastro e di rosso che si spiaccicava, intanto che sentiva uno scricchiolio sordo. La macchina si arrestò subito dopo. La testa del caporale era come attraversata da un solco, che la spaccava in mezzo. Non aveva più né il naso né il mento. Era stata ridotta a due frammenti sanguinosi, con un po’ di capelli per parte. Prima di andarsene per sempre, il caporale aveva alzato le mani, per istintiva difesa del capo; e così le ruote le avevano stroncate tutt’e due, di netto. C’erano più soltanto i monconi, appena sopra i polsi, che gorgogliavano di sangue attraverso le vene e le arterie recise, e si agitavano ancora convulsamente: la vita residua, che c’era ancora dentro

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nei nervi e nei tendini. Quelli, stavano ancora ribellandosi! È uno scherzo troppo feroce. Una troppo crudele presa in giro, morire così. La guerra, Andrea comprese anche meglio che era fatta a ‘sta maniera, come quel macchinista imprudente, al quale nessuno avrebbe mai detto nulla, per il delitto che aveva compiuto. Il caporale, era il primo che seminavano per istrada. Ne verrebbero degli altri, a tenergli compagnia … Intanto, lui poteva pure continuare a perdere sangue e cervella. Lo perdeva tutto, il suo sangue che non gli serviva più. Ce n’era già una pozzetta, che gli ammollava dentro il collo e le spalle. Un capitano corse là, a dare degli ordini agli alpini sgomenti. Andrea si ritirò al gabinetto, a vomitare. La ragazzina delle uova poteva aspettare, dentro nei suoi cenci. Lo avrebbe potuto attendere a lungo! La sua galletta era là, che si impregnava del sangue tiepido e grumoso del caporale. Lui, ormai, era arrivato sino in fondo. Le uova non gli servivano più. CVI La tradotta era diventata il centro delle pianura. E la pianura le veniva incontro a grande velocità, ma ce n’era troppa. Non finirebbe mai di passare. Aveva un ritmo monotono e greve, angoscioso. Era grigia e sconsolatamente impenetrabile. Il sommo delle spighe di grano e l’arbusto di betulla confinavano con la volta del cielo, biancastro e stanco. Il mondo era diventato come una conchiglia, con le due valve piatte e tristi: nel centro stava il treno degli alpini, che era diventato squallido e ottuso anche lui, come tutto il rimanente. C’erano degli stagni malinconici, che davano davvero una gran consolazione, a guardarli. Il fondo era sporco e duro. Dentro crescevano delle alghe e spuntavano, qua e là, radi ciuffi d’erbaccia. Stavan dritti, là sopra, dei trampolieri silenziosi; e c’erano altri uccelli acquatici, che volavano obliqui sopra i pruni e gli smilzi alberelli. Volavano in silenzio anche loro, per non turbare la desolante atmosfera del paesaggio. Deprimeva, tutto questo. Sembrava ci fosse in aria qualcosa di sospesi, come l’intervallo pauroso tra una tempesta e l’altra. Se quegli uccelli non avevano neanche l’ardire di stridere, è perché avranno avuto le loro buone ragioni. Le bestie sentono le cose assai più che non in genere umano. Le presentono, loro. Il genere umano, quel poco e sbrindellato e pidocchioso che era ancora rimasto, in quella pianura senza tregua, dopo il naufragio e la bufera, tirava avanti in modo ben meschino. Quel che era caratteristico, è che di uomini non se ne vedevano: tutte donne e piccoli mocciosi. Avevano indosso veri mucchi di stracci. Nelle stazioni piccole – dato che i tedeschi non c’erano – venivano a barattare con gli italiani. Portavano uova e galline, cipolle crude e anche dei vecchi rubli d’argento,

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ancora di quelli con su l’effigie dello zar. La compra-vendita si svolgeva rapida e in modo pittoresco. I locali non sapevano una parola di italiano, e gli alpini non una della loro parlata. Ci voleva ben altro che il dizionarietto (uno ogni quattro o cinque) con su i vocaboli ritenuti di uso più comune! Pure, il commercio è una cosa fenomenale. Fa miracoli e affratella le genti più disparate: tutto l’opposto della politica! Si comprendevano a meraviglia … Se c’era riuscito Cristoforo Colombo con gli indios, potevano ben comprendersi anche loro, no? Le donne cercavano sapone e galletta. E pettini. Ricercatissimi, i pettini. E le pezze da piedi, anche. Erano contente immensamente di ricevere immagini sacre e medaglie. C’era il cappellano giulivo come una pasqua, perché ne andava distribuendo a saccocciate. Loro mormoravano: -Madogna- oppure: -Jesus- e si ficcavano in tasca il loro tesoro, tenendoci sopra una mano a stringerlo bene e carezzarlo. Quella povera gente era trasandata in modo pietoso. Aveva addosso tutti gli odori, meno che quello della salute. Era incredibile,però, come quei bambini vestiti di ciarpame puzzolente e privo di ogni sagoma e misura, avessero il faccino composto e grazioso. Stranezze! Quasi come dire che, vivendo di stenti, ci avevano guadagnato in salute. E di stenti, perbacco, almeno da qualche mese, non doveva esserci stata penuria, in quei paraggi. Del resto, non c’era forse da stupirsi, per questa floridezza dei marmocchi. C’è gente che non riesce ad ammalarsi, neanche a farlo apposta. Più la vita è grama e più le risorse naturali provvedono. E i motivi per ammalarsi e andarsene, in genere, a quella gente là non mancavano certamente. Era tutta una schiuma di tapini, che venivano su dalle ondate; era tutto il ribollire di un risucchio che era arrivato, chi sa come, a una riva. Tra la ritirata degli uni e l’avanzata degli altri si era aperto in mezzo un gorgo tremendo, che li aveva sbatacchiati da una parte e dall’altra. Chi l’aveva rimontato si ritrovava, adesso, a decine e magari a centinaia di chilometri dal luogo dov’era prima. Magari non sapeva neppure, adesso, dove fosse, e come ci fosse arrivato. Dire il nome di un paese è come dire quello di un altro. La differenza consiste solamente in questo: che là un motivo per vivere c’era, e qui non c’è più. A meno di stare al mondo, come succede, per rimpiangere il passato e tutto quello che non si è avuto. Ma sarebbe un po’ poco, come giustificazione dell’esistenza. Sarebbe una scusa, più che altro. Certo che, a poter parlare un po’ insieme a quell’umanità sconfortata, doveva essere molto utile. Ce ne sarebbero state, delle cose da imparare. Ne avevano fatto, loro, del cammino! C’erano delle povere donne, che tiravano il loro carrettino miserevole, un trabiccolo senza buon senso, una scatola di legno montata su due ruote qualsiasi, purché girassero. Tra le due stanghe del carrettino era legato un bastone, con della corda. Così, le donne lo spingevano in avanti col peso medesimo del corpo. Quando fossero tanto stanche da non reggersi più in piedi, camminerebbero per inerzia, e quel

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bastone impedirebbe loro di cadere. Col vantaggio che il trabiccolo le seguirebbe sempre. Dentro nella scatola di legno c’erano quattro assurdi stracci, un tegame di terracotta e un paio di creature giovanissime, tutte infagottate. Quando avevano fame, si fermava la casa ambulante e si faceva raccolta di semi di girasole. O di quel che offriva, d’altro, la terra. La roba, là, era di tutti e di nessuno. Di chi la prendeva: uomini, uccelli, formiche, topi. Le strade erano molto teoriche. Si trattava, generalmente, di piste di terra battuta, ma battuta poco anche quella. Il movimento era scarso, e i piedi erano d’ordinario privi di calzature. C’è poco da solidificare terreno, in queste condizioni. Quelle donne là, quelle che sapevano dove andare, avevano uno scopo preciso. Arrivare dove una volta c’era la loro abitazione. Vedere se, per caso, ci fosse ancora. Se non ci fosse più, ricostruirla. Ci vuol poco: sterco di mucca disseccato, fango, paglia, qualche trave. E buona volontà. Ma la volontà di ricominciare è testarda, non muore mai … Poi, aspettare là, che tutto finisse, illudendosi che il marito tornerebbe, che il figlio tornerebbe, che la figlia tornerebbe. Alle disgrazie irreparabili non ci si crede mai, a meno di averne le prove. Certe volte, neppure dinanzi alle prove. E, loro, le prove non le avevano … Le altre donne, quelle che ormai non avevano più una meta personale, tiravano avanti. Mangiavano semi di girasole in perpetuo, sputandone fuori la corteccia dura. La vita, per loro, era diventata questo: masticare cocciutamente semi, e camminare. Camminare. Camminare. In qualche posto, si finisce pure per giungere ad un approdo. La notte, in qualche luogo l’avrebbero passata, fatte su nel loro ciarpame sbrindellato e pieno di parassiti, loro e i loro marmocchi, se ne avevano. Se pioveva, in qualche modo si riparerebbero. Se no, la notte, è una cosa da milionario, poter guardare le stelle. Illudersi di contarne almeno un angolino, quello là proprio dritto tra quei due girasoli … E, intanto, pensare con infinita accoratezza alle persone che si son lasciate per istrada. Erano tutti più giovani, e sono partiti prima. La loro coincidenza era in anticipo, si vede … Ripensarci con dolcezza: è una fantasia commovente e vera, ritrovarsi con loro in mezzo a tutte quelle stelle: nessuna scienza riuscirà mai a distruggerla. Indovinare qual è la loro stella, e quale la nostra. Fare un calcolo vago di probabilità e di simmetrie, studiare le diverse posizioni, secondo i gusti e le immaginazioni. Magari, nella notte, salire per sempre a cavallo di una di quelle stelline, così lucenti e lontane. E i bambini, il mattino, giocare un po’ attorno a quegli stracci che non si muovevano più, che non avevano più vita, là dentro: avevano soltanto pulci e pidocchi. E piangere, allora, senza saperne il perché. I bambini piangono soprattutto per istinto, non per una ragione determinata … Finché passasse un nuovo trabiccolo, che si rimorchiasse tutto quanto, meno che la vecchia. Quella, no, non si muoverebbe più. Ne aveva basta, lei, di camminare. Ne aveva fatti troppi, già, di passi. Restava là, sulla strada, a spiare il momento che tutto finisse e ritornasse come prima, meglio di prima. Sarebbe venuto, quel momento.

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Lei, la vecchia, lo sapeva con certezza. Ce n’erano tante, come lei, che non lo potevano dire ma lo sapevano bene. Si davano la mano tra di loro e, quando nessuno le potesse vedere, strizzerebbero l’occhio e reclinerebbero un po’ le labbra, accennando un sorriso. Mesto e straziato fin che si vuole, ma un sorriso. Loro non lo dicevano, ma ne sapevano tante, di cose. Erano i paracarri invisibili, ma presenti, di una strada immensa e conturbante. Solo loro lo conoscevano, dove quella strada condurrebbe. La nostra strada, comune e insaziata. CVII Era da un pezzo che Andrea era cessato di esistere come un essere capace di vivere la vita per conto proprio. Ma, adesso, se ne accorgeva anche lui, in pieno. Era diventato nient’altro che un trascurabile granello di sabbia in un mucchio infinito, di migliaia di metri cubi. Presto comincerebbero a prenderne badilate, di quella sabbia, per sbatterla dentro nell’impastatrice, a sparire. Non vi sarebbe possibilità di evitarlo, a meno di trovarsi nella fortunatissima posizione di scivolare giù all’ultimo istante, e di perdersi nel fango. Benedetto, in tal caso, il fango! Anche se, a prima vista, disgusta. E, intanto, il viaggio continuava sempre. Un viaggio così non può far a meno di restare sullo stomaco, specie con le comodità cospicue che riservava. Gli alimenti confortevoli erano bell’e spariti: era sembrato che dovessero durare all’infinito, tanti ce n’erano, e invece non era rimasto più neppure un solo fiasco. Mancanza grave, questa! Incominciava ad avvertire anche Andrea, ora, cosa vuol dire il mangiare e il bere. E tante altre cose si erano andate precisando in modo assoluto, in quei giorni di inevitabili meditazioni. Accidenti, dover biascicar galletta, il primo giorno … è un diversivo, il secondo lo è già un po’ meno; e il terzo, va giù di giro completamente. Le delizie della scatoletta, poi, erano soltanto all’inizio. Verrebbe anche quel turno. È una delizia, davvero. Le stazioni ferroviarie, più si procedeva e più erano diroccate. I muri erano solo più dei monconi nerastri. E quei pochi edifici che ancora erano in piedi erano stati razionalmente saccheggiati. Non avevano dentro più nulla, che potesse servire: nulla assolutamente. Erano stati svuotati con una meticolosità incredibile, dalle suppellettili ai mobili ai fili della luce alle condutture dell’acqua. Erano stati asportati quasi dovunque anche i vetri e i telai delle finestre e le porte. Rimanevano le pareti, nude e sporche. I tetti erano scomparsi come per prodigio, non si comprendeva come. Volatilizzati. E, sui pavimenti, anneriti, era rimasto uno strato ragguardevole di scorie e di rottami minutissimi, per lo più irriconoscibili e puzzolenti. Sembrava un impasto di ceneri, olio bruciato e sterco secco.

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CVIII A Losovaja apparve per la prima volta, dinanzi ai loro occhi, il vero spettacolo della guerra da poco passata. Apparve in misura abbastanza esauriente. Gli stabili della stazione a prima vista sembravano in buone condizioni, e tutto pareva in ordine, anche se un po’ trasandato esteriormente, per via dell’abbandono. Ma era tutta apparenza. Dentro, erano stati succhiati completamente di ogni cosa, di ogni mobile, di ogni arredamento. Non restava neppure un chiodo. La tradotta avrebbe sostato per tutta la giornata, quindi c’era tempo per girovagare un poco. Sgranchirsi le gambe e vedere qualcosa di nuovo: un primo contatto con questo strano mondo nuovo. Era una borgata abbastanza grossa, Losovaja. Ed aveva la sua brava importanza militare, perché si trattava di un nodo di comunicazioni di notevole interesse. La guerra l’aveva travolta in pieno, e non era finita, ancora … C’erano arrivati i tedeschi, una prima volta. Poi, ancora i russi. Poi, i tedeschi nuovamente. Ed era successo che le case fossero andate, la buona parte, a … farsi benedire: comprese le case vere, all’occidentale, quelle pochissime che c’erano prima, costruite in muratura. Le altre, quelle a un piano solo, fatte di terra, paglia e poco legname, a farle volar via basta lo spostamento prodotto dallo scoppio di una bomba. E là, di bombe, non c’era mica stata penuria. Gli abitanti superstiti ne avevano ancora lo spavento negli orecchi, nei gesti concitati e nel cervello. CIX Andrea smontò insieme a Zonchi (che da qualche giorno non raccontava neppur più le sue amate barzellette, si sarebbe detto che preferisse sorvolare anche su quelle, ormai), e si diressero verso un recinto di filo spinato, dal quale si vedevano spuntare le volate di alcuni cannoni. I pezzi erano romeni, e c’erano là i loro serventi a custodirli. Roba in sosta, che attendeva la sua destinazione. Un alpino avvertì i due ufficiali che stessero ben attenti a dove posavano i piedi, perché era seminato di mine dappertutto. E difatti i genieri romeni ne avevano già raccolta una discreta collezione. Le avevano portate giù … in cantina – mine rotonde, come scatole delle pellicole del cinema – in certi rifugi antiaerei a sezione cilindrica che puzzavano enormemente di piscio e di materie varie in via di decomposizione. Erano sparsi di sterco, come tutti i vari edifici vicini, che un tempo erano stati uffici, posti di comando delle leve di scambio, officine di riparazione, garitte. C’erano là, vicine ai binari, una decina di automobili, rovesciate su di un fianco, sedute sui mozzi delle ruote, oppure messe senz’altro arrovesciate, con la capote sul terreno. Anche quelle erano state spogliate accuratamente, a regola d’arte. Non solo non avevano più le gomme, ma nemmeno le ruote. A qualcuna restavano frammenti di motore, regolarmente privato, però, del magnete. Per il resto, le avevano messe fuori

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uso senza rimedio, menandoci dentro delle tremende mazzate. Anche i sedili erano stati levati via, e così tutti i misuratori, da quello dell’olio al contachilometri. Le targhe erano rimaste, però: quasi tutte WL e WH. Roba della Wehrmacht e della Luftwaffe, evidentemente. Ne avevano lasciate in giro, delle tonnellate di metallo conciate a quel modo, a centinaia e centinaia. Una, che era stata una Peugeot magnifica, fuori-serie, aveva ancora la vernice lucentissima ed era tutta sventrata su di un fianco. Cianfrusaglie inutili e assurde. Lo spettacolo vero cominciava solamente adesso. Ne avrebbero vista, della roba. Nell’interno della cittadina l’animazione era scarsa. C’erano delle donne, piuttosto male in arnese, che stavano tirando in piedi la loro casa distrutta. Avevano sul viso una maschera impenetrabile di pazienza e di rassegnazione. E anche una sfumatura di gioia, come una sfida lievissima e appena accennata. Rimettere in piedi, ridare vita, è un po’ creare: e non può non essere di legittima soddisfazione, comunque avvenga. È un riaffermare il diritto a stare al mondo. C’è gente che passa la vita a logorarsi, per tentare invano di riuscirci … Andrea e Zonchi entrarono in un cortile dall’aspetto pulito. C’era, là in mezzo, una stufa di gesso, uno di quei piccoli forni dalla strana apparenza di un tozzo monumentino. E c’erano due marmocchi i quali, non appena li videro, scapparono in casa in silenzio. Era linda, la casetta. Aveva l’aspetto gentile, con quel suo tetto di lamiera, l’intonaco bianco e le imposte dipinte di verde. Per quei posti, e date le circostanze, era come un villino. Ne venne fuori una ragazza d’un diciotto anni o poco più, un po’ grassottella e abbastanza fine di modo. Di capelli era nera. Aveva indosso una vestaglietta leggera, di cotone bianco con dei fiorellini: non c’erano maniche e spuntavano fuori i peli delle ascelle, sudaticci. La scollatura, quadra, era discreta, lasciava vedere una pelle fine e candida. Era mica male, Tania. Sputava scorza di girasole, questo sì. Ma, in compensa, aveva le scarpe e non puzzava di sporco. Era una che si teneva su, nonostante tutto. Siccome i due ufficiali la stavano osservando con interesse, li invitò in casa, con gentilezza remissiva, sorridendo e facendo dei cenni amichevoli con le mani. Zonchi sapeva che “signorina” si diceva press’a poco “barisnja”, e “grazie” “spasibo”. Un po’ misere, le sue cognizioni linguistiche, per attaccare discorso convenientemente, senza far la figura del salame. -Ce ne andiamo?- gli chiese Andrea. -Porca l’oca, andiamo dentro. Non ci sarà mica nascosta una mina, per farci saltare per aria … E si diresse difilato verso la mora, tenendole la mano. L’altra parlava nella sua lingua, dava certamente il benvenuto. Dovettero stare attenti a non battere la fronte contro l’architrave basso basso. Tania li precedette, per un bugigattolo stretto e scuro, in una cameretta in penombra; ma spalancò subito le imposte, e venne dentro un fiotto di luce. Nonostante l’infinita semplicità, era graziosa la stanzina. Il pavimento era di legno verniciato in rosso ed alle pareti c’era una vera tappezzeria di fiori di carta colorata

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con matita rossa e blu. In mezzo al locale c’era un tavolinetto e, lungo le pareti, una panca, due sedie, un vecchissimo comò. Sul lettuccio di Tania stava una chitarra … Non sapevano come comportarsi, loro due; e intanto la giovane si dava da fare perché sedessero, sorrideva e parlava animatamente. Era simpatica e a modo. Riservata, eppure confidente. Zonchi le offrì una sigaretta, e Tania l’avrebbe voluta ricusare, ma poi finì per accettarla e la accese goffamente, tossendo subito alle prime boccate e facendo delle buffe smorfie. Era più che evidente che non era per nulla abituata a fumare. Poi sedette vicino a una delle due minuscole finestre, e incominciò a pizzicare le corde del suo strumento. C’era qualcosa di molto irreale, là dentro: la casina in ordine, la giovane fanciulla sorridente e priva di ansie, le note di quella chitarra … Ne venivano fuori come dei sospiri e dei lamenti delicati. I due mocciosi di poco prima, che si erano rintanati in un’altra stanza, misero dentro i loro musetti a far capolino traverso lo spiraglio della porta, e scomparvero nuovamente a precipizio non appena Tania, levando il capo, li ebbe fissati con occhio severo. C’erano parecchie fotografie sul piano del comò. Alcune erano di uomini in divisa, omoni con baffi e bottoni luccicanti. C’erano dei gruppi stereotipi; e c’era anche un’immagine della Madonna davanti alla foto di un giovanotto con su il berretto da lavoro in testa. Zonchi consultò il dizionarietto, e interruppe la musica: -Il fidanzato?- domandò, additandolo. Sì, era proprio il fidanzato, che era sparito da tanto tempo. La guerra … Ma lei, Tania, lo attendeva lo stesso. Sorridendo e suonando. Lo attendeva. Tornerebbe. Zonchi stupidamente le fece: -Gne, gne. No. Lui – e mise il dito sul vetro del ritrattino – morto … kaput … Tania si drizzò di colpo, come uncinata nelle viscere, e scrutò fissamente questo straniero che veniva a darle, così, una notizia del genere. Già, poteva anche darsi! Cosa ne sapeva lei, infine? Ma il viso di quello straniero non era quello di uno che reca un tale messaggio; adesso era pieno di mortificazione e accennava a sorridere, confuso. Anche lei scosse adagio la testa, in segno di disapprovazione: non si dicono cose di questo tipo, neppure per ischerzo. A cosa voleva giungere, costui, con una grossolana introduzione come quella che aveva adottato? In quanto al fidanzato, perché non dovrebbe tornare più? Lei lo aspettava. Non importa quando tornerebbe: la vita è attesa, no? Questo straniero voleva solamente rendersi conto delle sue reazioni, ecco tutto: non c’è da drammatizzare … Riattaccò a carezzare le corde. Nella cameretta faceva caldo, c’era un’atmosfera quasi irrespirabile. Sarebbe stato ragionevole aprire almeno una finestra, ma né Andrea né il suo compagno si mossero. Un suono lieve scaturiva sotto le dita un po’ tozze della ragazza, un suono dolce e mite, che serrava la gola con fili leggeri e delicatissimi.

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Suonava, Tania, ma essi compresero che lo faceva per se stessa solamente, per se stessa e per quel giovanotto con la faccia piatta e dimessa e il berretto da fatica. E canticchiava con voce velata. E lì, dinanzi a lei, c’erano due uomini, che erano suoi nemici, questi. Forse, nemici per definizione soltanto, ma che lo potevano anche diventare sul serio, da un momento all’altro: e lei avrebbe ben poche possibilità di difendersi … Idee sciocche ma, quando vengono, non le si può distruggere di colpo. Suonava e pensava, Tania. Chi sa se quei due se ne sarebbero andati oppure no. Potrebbero magari restare nel paese, con altri soldati, venuti da tanto lontano, mandati dai capitalisti, o capitalisti anche loro … Ma no, non ne avevano l’aspetto. I capitalisti devono essere differenti, anche se quello che ha parlato si è dimostrato così perfido. O forse soltanto stupido, a rifletterci. Aiuta a riflettere, il suono della chitarra. Smorza la tensione nervosa. Probabilmente erano due che si erano fermati lì per qualche ora, come tanti altri prima di loro. E adesso ripartirebbero per il fronte, dove si può uccidere e si può anche restare uccisi. La guerra aveva insegnato già molte cose, a Tania, anche se era così giovane. Aveva insegnato soprattutto che una donna può sorridere a un uomo, anche se nemico, senza per questo fare del male ed essere colpevole, verso nessuno. Gli insegnamenti che aveva ricevuto prima della guerra non dicevano proprio in questo modo, ma queste erano conclusioni alle quali era arrivata di persona, ed era del tutto sicura di essere nel giusto. In guerra si può anche restare uccisi. Anche questi due intrusi avevano a casa delle persone che li attendevano e li pensavano … Tania avrebbe suonato per loro, stavolta, quello che aveva nel cuore. Non poteva proprio fare di più. E intanto che le sue mani correvano sulle corde, li guardò con infinita accoratezza. Loro due erano là, spaesati, come colti in fallo e incapaci di qualsiasi movimento. Quell’incredibile atmosfera di sospensione fu interrotta da un autocarro che li fece sobbalzare coi suoi strombettamenti. È un po’ la vecchia storia del pizzicotto, per sapere se uno è sveglio o no. Succedono di rado , le cose di questo tipo, ma succedono. Riscuotendosi, Andrea cercò in tasca se avesse qualcosa da dare a Tania, e che lei potesse gradire. Le lasciarono un pacchetto di sigarette, dono inutile, e se ne vennero via. Zonchi, particolarmente, era rimasto abbacchiato. Lui, che rea entrato nella stanza con idee non precisamente … ortodosse e che si era sentito tutto ringalluzzire alla vista del letto della bella figliola, aveva immaginato con una certa rapidità la facile avventura … Invece, era rimasto così sbalordito da tutto quello che era successo, da dover confessare, adesso, ad Andrea: -Però, che figura da scemi, abbiamo fatto! E quando raccontò l’episodio ai colleghi, ne fu burlato non poco. La gran parte di essi raccontò, infatti, di incontri con ragazze, ma con tutt’altra conclusione. Se vera o immaginata, non si può dire. ************************

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Continuarono a vagare, Andrea e Zonchi, per le strade. Ma non c’era molto da vedere: lo spettacolo più comune era rappresentato da qualche isba abbattuta, come crollata sulle ginocchia, per un urto violento, troppo violento, venuto dall’alto. Un arrotino ambulante, all’angolo di una piazza, lavorava alacremente in cambio di sigarette. In un piccolo chiosco vendevano delle bottigliette di acqua gasata, priva di qualsiasi sapore. Si pagava con marchi d’occupazione o rubli. Tutta carta lo stesso, per loro. Vicino all’unico negozio che videro, una barbierìa, si accalcavano parecchi alpini. La barbiera era una donna anziana, in camice bianco, e c’era un’altra donna, seduta su di uno sgabello e con un seno fantasticamente sviluppato. Là sotto, uno ci poteva stare comodamente riparato, se piovesse: non si bagnerebbe di sicuro … Era quello, che entusiasmava gli alpini! Una roba così fenomenale la si vede una sola volta, nella vita. Tanto più che la pupputa avrà avuto poco più di vent’anni, e non era per nulla flaccida o cascante, anche se non si poteva definire bella. Roba stagna e sostenuta: da rappresentare, senza dubbio, un’emozione interessante e unica, nel suo genere. C’era anche un ospedale, più in là, coi vetri tutti spaccati e uno spigolo mangiato via da una bomba di aereo; ma funzionava lo stesso. C’era dentro una “sezione” italiana, in quel momento, e la gente del posto andava a farsi curare con bastante fiducia. Subito dopo c’era la “casa del popolo”, uno dei pochi edifici all’occidentale, con un salone a pianterreno per le proiezioni e le conferenze, e un altro salone di sopra, con uffici e corridoi. Una specie di “casa del fascio” di quelle che avevano lasciato in Italia, anche come aspetto. Davanti all’edificio c’erano degli spiazzi d’erba e si ergeva il piedestallo sul quale fino a qualche tempo prima c’era stato un Lenin di gesso, dritto in piedi. I tedeschi l’avevano trascinato giù, legandolo al collo per una corda. Adesso restavano solamente un paio di scarpe in gesso e l’incisione sul basamento, deturpata da segni di catrame. Nel salone inferiore c’era un camion, al posto delle panche e delle sedie. Vi era entrato per una breccia in una delle pareti laterali. E, dappertutto, c’era dello sterco umano. Dappertutto dove uno potesse posare gli occhi. È incredibile come, fuori di casa sua, l’uomo si sforzi di non perdere alcuna occasione per dimostrare che non è niente di meglio di un puzzolente maiale. CX Tornarono alla stazione, Andrea e Zonchi, passando per delle altre strade. E, così, arrivarono verso il centro dell’abitato e, da una viuzza laterale nella quale si erano inoltrati, giunse loro l’eco di un canto solenne e profondo, vibratissimo. Ci voleva poco a capire che era roba di chiesa. Ma di chiese non ce n’erano là, almeno come le intendevano loro. C’era soltanto un edificio in muratura, a due piani. Si fecero avanti nel cortile, mettendo in fuga un paio di galline, e, guidati dalle voci, entrarono in una camera a pianterreno. Era una stanza rettangolare di una certa ampiezza e più alta della media. La attraversava, nel

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senso della lunghezza, una tramezza di listelli di legno colorato, alla quale erano appesi dei quadri di soggetto sacro. Al centro di essi – tutti dipinti a tratti rudi e ingenui – c’era un’icona di fattura pregevolissima. Rappresentava la Vergine col Bambino. Venivano fuori da uno sfondo nerissimo, brillante, ed avevano l’aureola intorno al capo. Sul nero spiccavano, in oro, dei caratteri cirillici. Gli altri quadri avevano tutti la cornice e il vetro, a differenza dell’icona. C’era, dappertutto, una gran profusione di carta stagnola e di foglioline di rame dorate e attorcigliate. Era da dietro la tramezza, che si levava il canto. Una cosa sbalorditiva, di quelle che si vedono solo al cinema, copiate molto malamente, però; e che non sembrano possibili, se non nella fantasia. Di cose giudicate incredibili, Andrea e chi c’era con lui ne incontrerebbero ancora tante, in seguito. Non erano che all’inizio. Sempre all’inizio. C’erano due uomini, che cantavano, e tre donne. L’uno degli uomini aveva una barba antica, di quelle che ispirano soggezione e rispetto. E dirigeva con le braccia alzate e il volto teso, fisso in avanti, nel vuoto. Le mani e i polsi erano scarni, ed il viso ieratico e solenne. Roba da apparizione nei sogni, non da realtà. Anche i suoi compagni avevano la sua stessa espressione, di rapimento e di estasi. Nessuno di loro sembrò accorgersi della presenza dei due ufficiali italiani; e neppure la gente che c’era in chiesa – se di chiesa era possibile parlare – si voltò a guardarli. Neanche i bambini. Le voci dei cantori si fondevano in modo fenomenale. Quello che dirigeva aveva una voce profondissima e sembrava che, da un momento all’altro, non potesse più reggere a una tonalità tanto grave. Quel coro che si alzava là dentro, quei visi e quelle voci, quegli occhi che non guardavano se non dietro i loro pensieri, erano cose da far riflettere. Anche uno che non ci crede, resta lì a pensarci. E Andrea, che credeva in qualcosa ma in modo del tutto personale e molto confuso, non trovò altro da fare che starsene imbambolato, guardando di sottecchi Zonchi, che appariva turbato almeno quanto lui. Che avesse ragione Tania, con la sua serena e testarda fiducia, del tutto irrazionale? Che abbiano proprio ragione loro, le vecchie che montano di guardia sulla nostra strada, infinita e sconsolata? Ciascuna di loro potrebb’essere nostra madre, e le mamme certe cose le capiscono bene, meglio dei loro figli, anche se non li costringono a capirle anche loro ed a conformarcisi. CXI E ancora il treno che cammina. Il treno che cammina sempre. E la pianura che viene incontro e scappa via come fosse inseguita. La pianura verde, gialla, grigia. La steppa. Ce n’è tanta, di steppa, che non finisce mai. Bisogna provare a camminarci dentro, per capire bene quello che è. Gli alpini ne avrebbero presto l’occasione.

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Per intanto continuavano a farsi sbatacchiare rudemente dentro nei loro cassoni traballanti montati su ruote. C’era un odor di piscio, là dentro, che bisognava proprio averci fatta l’abitudine, per poter resistere. Il pavimento ormai era spesso un dito. Per certo sudiciume, ci vuol altro che le ramazze di saggina. E, per di più, pioveva. Fine e fredda, la pioggia. Non si potevano nemmeno più tener aperti i portelli, perché lo stravento sbatteva dentro l’acqua a gran folate. Nel semibuio, mezzo assopiti, non restava altra risorsa che meditare; e rendersi conto progressivamente che era tutto profondamente sbagliato, quello che andava succedendo, sia di loro che intorno a loro. Non c’era tentativo di riemergere che potesse giungere a qualche risultato: quella gioventù, la guerra in Russia l’avevan mandata a farla senza che la capisse, anche mettendoci tutta la maggiore volontà. Come l’altra in Albania e in Grecia. In guerra non ci si va mai volentieri … Come in Spagna, come in Abissinia. E come in tutte le altre guerre, in generale, per tutti quanti. Riusciranno mai a capirlo, quelli che giungono comunque a comandare, che nessuna questione è così importante come la vita sia pure di un solo uomo, anche il più umile? E che la politica, dalla storia, riceve una lezione assolutamente fondamentale: che nessuno ha diritto, in assoluto, di credere di aver ragione? E che se deve giungere alla guerra sta dimostrando di avere comunque torto? Quando uno deve ricorrere ai mezzi di violenza, è perché ha esaurito le sue capacità di affermarsi pacificamente: non c’è dubbio lecito. Anche quei quattro illusi ai quali la propaganda aveva fatto girare abbondantemente la testa con le sue varie suggestioni, anche quelli si erano andati progressivamente smontando di fronte alla realtà. Quella guerra, che ad un certo punto avevano avuto l’impressione di sentire, e persino di desiderare, già prima di arrivare alla distanza delle cannonate comprendevano ormai che era una cosa del tutto assurda. Ma diamine, si fa un viaggio di due settimane in treno, per andare a combattere? Ci han fatto proprio tanto male, costoro? E vedevano passare le stazioni sbriciolate, avendo in gola un senso di rabbia. Stavano per caso diventando comunisti, tutti quegli uomini ammucchiati sui vagoni? Beh, così proprio no, perché il comunismo non sapevano cosa fosse, e probabilmente anche dall’altra parte c’era qualcosa che non doveva funzionare bene, se in qualche modo era possibile esprimere dei giudizi dal poco che avevano incominciato a vedere; ma che stessero cambiando le loro opinioni era più che evidente. E del resto è uno dei pregi più nobili ed essenziali della natura umana, quello di riuscire a mutar parere. Anche se sostiene, qualcuno, che bisogna essere sempre tutti di un pezzo, pare veramente illogico che uno debba continuare a camminare in una certa direzione, quando si è convinto che va contro se stesso, dove proprio non vorrebbe. E l’unico vero modo per non cambiare mai opinione sarebbe quello di non essere dotati di intelletto e di cuore o di restare perennemente bambini, in stato di beata incoscienza e senza alcuna esperienza personale: il che, specie nel campo politico, è del tutto impossibile, tenuto conto che altro è generalmente il pensiero in se stesso, ed altra invece la sua traduzione in fatti concreti. … E quando la tradotta si fermò per qualche ora in una località dove erano radunati un centinaio di carri armati fuori uso, constatarono con una certa

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soddisfazione acre che era tutta, o quasi tutta, roba dei tedeschi. Già, le cifre sono per chi non vede. Per chi è lontano. Per chi non può rendersene conto. E i numeri non costano niente, basta avere la sfacciataggine di buttarli fuori. O non è forse Hitler che ha scritto, un giorno, che, per farsi credere, tutto sta nel saper insistere in una menzogna? È pur vero che le cifre dei comunicati, anche il più in buona fede le aveva sempre accolte con non completa fiducia. Ma il riserbo, adesso, trovava ben più di uno spiraglio. E uno che lo si sbugiardi, anche se per ipotesi fosse un amico (e qui non si trattava proprio di amici, anche se in qualche modo si era finiti sulla medesima barca), fa nascere d’istinto anche più diffidenza. Il resto, in seguito, viene da solo, senza fatica e senza sollecitazioni. Deve farne, quello, delle cose, per riguadagnare terreno, se pure potrà mai riuscirci … Così, diventa ancora più spontaneo il sentimento di pietà per la gente che ha fame per colpa del tedesco: il tedesco che gli ha bruciata la casa, il tedesco che gli ha portata via la già scarsa mobilia fino all’ultimo tavolo sgangherato, il tedesco che gli ha strappato il figlio quattordicenne per mandarlo in Germania, nei campi di concentramento o chissà dove. Si mastica fiele, e si deve tacere. Ma si riflette. Mandarlo in Germania, o farlo a pezzi per istrada, che è quasi lo stesso. Tanto quel disgraziato, se camperà, se non lo sbraneranno, avrà forse una probabilità su diecimila di ritornare un giorno al suo paese, per cercare invano le tracce dei suoi affetti e le immagini lacerate dei suoi ricordi. Di affetti, si vive, non di violenza e di pallottole! Così diventa spontaneo, quando si trova un tedesco, il guardarlo con una sbirciata che vuol sembrare indifferente ma che, in fondo in fondo, ha sempre un pizzico di rancore e di sospetto, assai più che non di cameratismo e di stima. La stima, la stima vera e silenziosa – ma per questo più grande – resta per questa povera umanità che si dibatte, in casa sua, contro chi è venuto fin qui per combatterla e immiserirla,in nome dei suoi sudici interessi. È venuto, e ne ha fatto venire degli altri, contro la loro stessa volontà. I veterani del fronte greco-albanese ne sapevano qualcosa, loro, di tutto questo. CXII Il mondo che scorreva sui fianchi della tradotta si fermò, finalmente, in uno scenario tale che è difficile farsene un’idea, anche soltanto approssimativa. Di rotaie schiantate e contorte ce n’erano dappertutto, e una passerella di ferro pendolava, spezzata in metà, con i due monconi che venivano a rasentare gli unici due binari già rimessi in efficienza. Il disco rosso dell’arresto definitivo era apparso in quel punto. Dalle due parti della ferrovia, nella bruma acquosa di una mattinata fredda nonostante l’estate, si levavano i frantumi metallici e rugginosi di quelli che, in tempi recenti, erano stati enormi impianti industriali. C’era una montagnola di detriti di carbone, alta almeno una quarantina di metri; e un vagoncino della Decauville – scaraventato giù, su di un fianco dell’enorme catasta nera – se ne stava là in bilico, come se volesse di attimo in attimo rotolare al fondo.

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C’era un’atmosfera sorda e debilitante; e, da tutta quella distruzione, si levava come un’accorata e minacciosa voce di ammonimento e di sconforto. Fra i rottami di alcuni cannoni erano sparsi a terra, in gran copia, dei fusti di carburante. Un tedesco, con l’elmetto calcato in testa e la mantellina impermeabile, montava di guardia camminando avanti e indietro in uno spiazzo erboso di qualche metro. Probabilmente lui non vedeva neanche tutto il marasma di annientamento che gli stava d’attorno. Per lui, quello spettacolo era del tutto indifferente. Sapeva soltanto che lo avevano messo là, perché nessuno si avvicinasse alla benzina, alla nafta, all’olio. Crollasse pure il mondo, era una faccenda che non lo interessava per nulla. Lui aveva ricevuto una consegna, e basta. Ragionare, non rientrava nei suoi compiti. Riflettere, nemmeno. È una gran cosa, l’obbedienza! E neanche lo interessavano granchè quegli alpini che smontavano dalla tradotta, vociando tanto animatamente. Certo, lui era portato a paragonarli ai suoi connazionali: loro non lo farebbero, tanto fracasso … Gli alpini si tiravano giù i loro grossi zaini. Trenta chili? Quaranta? Di più? Di meno? Tanto è lo stesso, è inutile essere curiosi. Lui aveva da custodire i fusti, e basta. Però, questo lo sapeva bene, questo sì: che dove mandavano a morire un italiano, o un ungherese, o un romeno, o un altro qualsiasi, là non ci andrebbe lui. E, allora, si poteva anche osservarli con meno cipiglio, questi che arrivavano per andare in linea. Con meno cipiglio, ma sempre dall’alto, tuttavia. I padroni, qua, siamo noi. Padroni della terra e di quel che produce e nasconde di sotto. Padroni del grano che sta maturando. Padroni delle case e delle cose. Degli uomini e delle donne. Di tutto. Avevano avuto il loro bel da fare, gli stessi furieri italiani di alloggiamento, per mettersi d’accordo coi tedeschi onde occupare determinati stabili (vuoti) e averci dentro due tavoli e quattro sedie. Loro, i padroni, di mobilio ne avevano accumulato cataste, in una fabbrica svuotata delle macchine: ma quella roba … era sacra. Non la si poteva toccare. C’era un maresciallo, là dentro, che era assai più di un padreterno. Un vero rappresentante dell’ordine nuovo della razza eletta. Calzava un paio di babbucce femminili, di color cilestrino, e stava seduto dietro un tavolo, in maniche di camicia, sbuffando fumo da una pipa corta. Aveva il viso pienotto e roseo, come di un porcellino. Non si mosse neanche da sedere, ed il tenente italiano, dopo una buona decina di minuti di animatissima conversazione, riuscì stentatamente ad ottenere un pezzo di carta col quale si sancivano i suoi diritti; no, badiamo, a prelevare molto: il minimo indispensabile per impiantare un ufficio. Un tavolo e due sedie. Se li venissero a prendere gli alpini, con mezzi propri. A spalle. Solo in seguito a interventi più elevati ed energici, il maresciallo si scollò dalla sedia e concesse qualcosa di più. Senza mollare un attimo la pipa di bocca, intendiamoci. E nemmeno le pantofoline.

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Intanto, la truppa italiana sbarcata dal convoglio dopo l’enorme scarrozzata, si trangugiava nell’acquerugiola – con quello zaino d’inferno, che tirava giù le spalle e fiaccava le gambe – due ore buone di marcia per arrivare nel sobborgo assegnatole come luogo di prima sosta. C’era un boschetto, ricco di sterpi e di pruni e di escrementi, e quando ci giunsero era già quasi notte. Montassero le tende e si arrangiassero. Per stanotte la paglia: -Lo capite anche voi … - non la si potrebbe ancora distribuire. C’era il terreno fradicio, ma pazienza. Si provvederà domani. Sì sì. Fa niente lo stesso … Tirarono in piedi alla meno peggio le loro case di tela, alte un metro e larghe meno del doppio. Inghiottirono, senza neanche una goccia d’acqua sopra, un po’ di galletta e la scatoletta in due, e poi tirarono fuori le coperte e la mantellina e si buttarono giù, più rannicchiati che distesi, con la testa sullo zaino e le natiche sulla terra madida di piova. Erano tanto stanchi e avviliti, e tanto contenti di non esser più in treno, che non avevano né il tempo né le voglia di lamentarsi. Serviva a niente, ugualmente. E fu, così, la prima notte di … terraferma sul suolo della Russia. Una torre per paracadutisti e un arco costruito in mattoni vegliarono il sonno pesante e istupidito di quegli uomini giovani, che erano venuti là per portare la guerra più ad oriente, più lontano ancora, ma che, nella faccenda, non ci entravano proprio per niente. E, per intanto, si infradiciavano sulla terra inzuppata. CXIII Davvero era stato uno sbarcare sul sodo. E gli uomini si attaccarono alla terra con l’istinto naturale e spontaneo di chi se ne sente figlio. Si attaccarono alla terra e si confusero con essa, nel pantano che una pioggia di più giorni aveva reso tenace e appiccicoso. Incomincerebbe la “rogna” del fango? Durò, a piovere, ancora un’intera giornata, pioggia sottile e insistente, intanto che la fungaia delle tende cresceva sotto il fitto della boscaglia. E, poi, venne il sole, finalmente. E, col sole, i vermi si ritirarono nei loro meandri sotterranei, e si ritirarono gli scorpioni e i grossi scarafaggi, sempre in cerca di umidità. Vennero fuori, dalle loro case, le formiche e i topi. E vennero fuori anche gli alpini, dalle tende ammollate. ***************************** Scavare gallerie, nella terra umida e fresca, era un gusto immenso, per la talpa. E, così, essa incominciò ad ararla a pochi centimetri sotto il suo livello esterno: c’erano degli insetti molto saporiti, dei quali era assai ghiotta, e se li trangugiava con voracità, spingendosi sempre più avanti, col muso aguzzo e sensibile che si intrufolava a cementare lo stretto budello, non appena le zampe lo avevano aperto con le loro unghie rapide e dure.

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La galleria, adesso, la stava scavando in salita. C’era la radice accidentata di una robinia, e non aveva voglia, la talpa, di passarle sotto. Spinse in su con energia e, lavorando di slancio, si buttò in avanti senza circospezione. La luce viva del giorno le inondò dolorosamente le palpebre abituate al solo buio, e fece per ritirarsi a precipizio. Ma non ne ebbe più il tempo … Una fitta violenta e improvvisa la immobilizzò: una punta aguzza le inchiodava la schiena e non la lasciava più muovere. Riuscì appena a rendersi conto che doveva essere questo, il pericolo sconosciuto del quale aveva avvertita l’imminenza alcuni istanti prima, e tirò le cuoia. Il pelo si sollevò ancora per un attimo, poi ricadde, lucido e fine, inerte, intanto che il calore della vita se ne andava via traverso poche stille di sangue. L’alpino che l’aveva forata con la baionetta la sollevò sulla sua mano larga, e la considerò un istante, tenendola appiccata per una delle zampette flosce, appena prima così laboriose … Poi la buttò a qualche metro di distanza. -Ce ne vorrebbe qualche dozzina, allora sì che hanno valore. Così, una sola, non è che un qualsiasi topo della terra. Cos’è venuta su, a fare che cosa? Però, intanto, senza un motivo al mondo, l’aveva uccisa. Così … ************************* Anche gli alpini, ormai, erano venuti fuori a respirare liberamente. Avevano trascorso trentasei ore sotto la tenda fradicia. E tutto si era inzuppato. La terra, la coperta, la mantellina, gli uomini. Adesso che c’era il sole, era necessario aprire il più possibile le tende, spalancarle ben bene, distendere la roba che rasciugasse, scuotere e svuotare anche lo zaino. Far prendere aria a tutto quanto. L’umidità se ne andrebbe. Siccome a far qualcosa, poi, si diventa più allegri, cominciarono insensibilmente a richiamarsi forte, intanto che andavano tirando dei pezzi di spago e di fil di ferro tra una pianta e l’altra, per stenderci la loro mercanzia. Era come un bucato di nuovo genere. E la cosa più incredibile, era che si trovavano in Russia. Se non ci avessero pensato su ben bene, e se non gliel’avesse confermato la presenza di tutti gli altri e di ciò che li circondava, nessuno, da solo, lo avrebbe creduto vero. CXIV La serenità degli alpini – che pareva fosse del tutto scomparsa in quel tedioso andare per la pianura e nell’uggia del maltempo – tornava a far capolino col sole e con la sosta nel boschetto. Si era ammutolita e raggrumata e aveva a lungo taciuto, spiando il momento di poter risorgere. Adesso, poteva di nuovo affacciarsi. Certo, non sarebbero state le cantate belle e fragorose che si sarebbero potute fare in Italia, a gola spiegata, a pochi chilometri da casa e seduti in circolo con in mezzo un fiasco di quello buono. Qua, il vino mancava. E tante altre cose mancavano, anche più essenziali di quello … Ma pareva, comunque, che una rinascita ci fosse. Non ancora ben precisa, ma senza sbaglio.

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Intanto, per qualche giorno sarebbero rimasti là. E il restare fermi è sempre gradevole, di fronte alle prospettive di un movimento troppo intenso e passivo o pericoloso … Non era, infine, da trascurarsi il fatto che il luogo di sosta era lontano più di un centinaio di chilometri dalla linea del fronte. La cosa aveva la sua bella importanza. Chi sa come vanno le cose più avanti? Meglio pensare ad altro. C’era da ritrovare un po’ di se stessi e il contatto col mondo, che in quel periodo si era perso quasi del tutto. Ci vuole un po’ di tempo anche per riassestamenti del genere. Le nuvole se ne andavano alla chetichella, con un disordine di sconfitta, e ne venivano fuori degli squarci di purissimo azzurro. Era sembrato che non lo si dovesse vedere più, il cielo limpido, nascosto com’era stato per tanti giorni dentro una coltre così spessa e grigia. In quel sereno, che andava sempre più guadagnando spazio, era possibile trovare tante cose care. Inseguire in passato, rifare in senso inverso il cammino della tradotta, riannodarsi prodigiosamente a quel che si era lasciato indietro – e a quale distanza vertiginosa. Non c’è come guardare il cielo, per riuscire bene a ritrovare chi si è perduto per istrada! Presto arriverebbe anche la posta, il legame reale e più consistente. E, allora, sarebbero le lettere della Gisa e di Luci (ma che pazzia, ‘sto camminare ostinato coi piedi in due scarpe!), con i “tanti bacioni” scritti dalla mano guidata di Luigino. E sarebbe un po’ il profumo della vita passata, che tornerebbe. Anche se era stata un’esistenza ambigua e disordinata, farebbe piacere ugualmente. Anzi, ad Andrea pareva di provarne un gusto particolare, anche se un po’ acido. Generalmente, pensava lui, uno ci tiene di più ai suoi vizi e ai suoi errori, che non alle normalità. Quelli aprono un solco più profondo e più vivo. Tanta gente, se ad un tratto se ne sentisse del tutto staccata, avrebbe l’impressione di non avere più appoggi a cui sostenersi. Andrea non riusciva ancora a capire bene quale delle due donne gli mancasse di più, se l’ardore avventato della studentessa o la serena, umile malinconia della moglie. Nelle sue condizioni, almeno per ora, gli era impossibile scegliere. Non c’era riuscito prima, quando le aveva sottomano tutt’e due. Figuriamoci a una tale distanza! Chi sa se le lettere che sarebbero arrivate gli chiarirebbero un po’ questa storia? Di situazioni come la sua, inutile scandalizzarsi, è pieno il mondo. Sono assai pochi gli individui che non abbiano almeno qualche piccolo imbroglio, più o meno ben nascosto. E sono in numero anche minore quelli che hanno il coraggio di risolverli con un taglio netto e radicale. Sono tare che uno porta con sé, e le sente soprattutto da lontano, alla lunga. Anche se, per ipocrisia verso se stesso, finge di no. Là, quello che importava, intanto, era di ricevere posta. Da molte persone. Il maggior numero di persone. Che significa se, per rispondere, si dovranno poi raccontare anche delle frottole? Per una donna, in genere, è già motivo di gioia la certezza che le sue parole, a un uomo, saranno di sollievo e di conforto. E, su questo, scrivendo a un soldato in guerra, non c’è dubbio di sorta.

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Dietro agli alpini stava tutto il passato. Davanti, si apriva l’ignoto, per nulla suggestivo, limitato per il momento dai bordi di un bosco fitto fitto. Loro stavano nel mezzo. Sia quel che vuole, ormai. Chi vivrà, vedrà. CXV L’accampamento era abbastanza rumoroso, e andava anche abbellendosi. Scovati chissà dove, erano saltati fuori alcuni tavoli rudimentali, delle sedie ingegnose, delle piccole utili suppellettili. Certo, gli alpini non erano affatto andati a chiedere il permesso al maresciallo hitleriano dalla corta pipa in bocca, per poter prelevare quella roba. Lui, il tedesco, se la volesse indietro, poteva venirsela personalmente a riprendere. Sempre, naturalmente, che gli alpini fossero disposti a cederla. Non transigevano tanto, però, su queste cose. E nessuno si sognò di venire ad attaccar briga. Anche il barbiere si era sistemato all’aperto, e aveva parecchio lavoro: capigliature lunghe; barbe lunghe … Erano cresciute prodigiosamente, in quei giorni. I “comandi” stavano impiantandosi in certe case operaie a due o tre piani, dall’aspetto sufficientemente pulito e divise fra di loro da larghe strade erbose. Non erano case di lusso, tutt’altro, ma erano abbastanza accoglienti e dotate di acqua corrente e di stufe fisse. Agli alpini, in genere, la politica interessava assai poco (anche se la politica “degli altri” li aveva scaraventati fin là);comunque, un colpo fenomenale alla loro fantasia l’avevano dato i giganteschi impianti industriali che erano già passati sotto i loro occhi e che ancora li circondavano. Fabbriche che neppure l’idea ne avevano mai avuta, ai loro paesi, di così colossali. Cosa producessero, per il momento non lo sapevano (né potevano permettersi di girovagare dovunque), ma intanto restavano perplessi. E se avessero appreso da subito (come fecero in un secondo tempo, anche a rischio personale, ché i tedeschi scherzavano poco con i curiosi: avevano le dita nervose, loro, sui grilletti) che là dentro si fabbricava forse di tutto, tranne che oggetti atti a promuovere il benessere individuale di un popolo in pace, sarebbero rimasti anche più in soggezione … Comunque, per loro appariva intanto evidente che, se c’erano stabilimenti di quelle proporzioni, non era il lavoro quello che mancava. E quando uno lavora, si ritiene che ne caverà almeno da vivere. Vivere, però, in quale modo? Ecco, era questa la questione, anche se già da molti segni sembrava comprendersi che la vira aveva, in quei luoghi, aspetti piuttosto trasandati, squallidi, uniformi, non vari e vivaci come a casa loro. La gente del luogo, quella pochissima che era rimasta, dava l’impressione di non aver mai scialacquato. L’arredamento delle abitazioni era molto sommario, non andava troppo più in là dello stretto indispensabile: tavoli, panche, sedie, letti. Automobili, moto, biciclette, apparecchi radio, macchine da cucire erano introvabili, come i gabinetti. E anche tutte quelle piccole cosettine, quelle cianfrusaglie apparentemente inutili che rallegrano una casa, anche quelle erano molto rare a trovarsi: né era da pensare che il maresciallo tedesco avesse potuto ammassare tutto

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quanto, avrebbe avuto spazio per poche case, nel suo magazzino, e là c’erano decine di edifici. Le poche cose che c’erano in giro, un soprammobile di terracotta, qualche cornicetta, qualche vaso da fiori, un vecchio armadio, una mensola, sembravano il ricordo di un tempo assolutamente remoto. Ad ogni buon conto, la popolazione del luogo non imprecava contro il suo governo (agli alpini, un “governo-ladro” era sempre abbastanza pronto, sulle labbra). Beh, questione di temperamento, forse. Nitchevò. Il fatto positivo è che la popolazione dapprima aveva guardato gli alpini – quei rudi soldati con tanto di penna sul cappello e certe barbe enormi – con fare un po’ sospettoso. Poi, aveva preso una specie di riottosa confidenza, avendo però sempre cura, nel parlare, di stare reticente al massimo, di tenersi molto sulle generali. Alle domande rispondevano educatamente, purché non fossero di “odore” politico e non toccassero da vicino tutto quello che poteva riguardarli. Allora si facevano silenziosi e smemorati, di colpo: Ja gne pagne maiu – dicevano. Non so. Non capisco. E giravano l’ostacolo. Sembrava avessero il terrore che si potesse parlare di certe cose. Dire male. Esprimere giudizi. Pensare. Comunque, per quel poco che potevano, si rendevano utili, e questo era importante. I soldati, quelli di tutto il mondo, hanno sempre bisogno di qualcosa. Sono uomini senza casa e senza famiglia. Hanno bisogno sempre, non foss’altro che di farsi attaccare un bottone o ricucire un’asola sfondata. E così gli alpini cercavano le ragazze, per farsi aiutare. E le ragazze li aiutavano, senza far troppo le preziose e le reticenti. In genere, però, tenevano le distanze e avevano, nel loro atteggiamento, qualcosa di non facilmente comprensibile. C’erano anche quelle che stuzzicavano loro, per farsi dare l’assalto, ma sembravano essere una minoranza. Il resto, la massa, sì, ci stavano anche quelle, ma non con l’entusiasmo dei nostri paesi. Come se adempiessero a una funzione fisica, non altro: il che era anche più sconcertante di un rifiuto, per chi volesse rifletterci un momentino. Non si trattava, nel loro concedersi all’uomo, della solita cosa alla quale gli alpini erano abituati: il sapore dell’avventura, il piacere evidente del sentirsi desiderate, la coreografia romantica, un certo slancio passionale e cose simili; si trattava di qualcosa che sembrava essere – per loro donne – del tutto indifferente. Difficile da spiegarsi. Anche indifferente non si può dire. Forse, meccanico, senza una partecipazione diretta. Niente di vissuto spiritualmente, tranne rare eccezioni: un fatto fisico, come il mangiare e il bere. Finito, non varrebbe la pena certamente di ricordarsene. Tutto sarebbe come prima, né più né meno. Si riprenderebbe a masticare semi di girasole, e nello sguardo della Maruska o dell’Alexandra si faticherebbe molto a ritrovare il ricordo dell’amplesso appena appena superato. Niente rossori, complicazioni sentimentali, promesse, parole. Quello non era più amarsi, era accoppiarsi e basta. Se questo fosse il modo che le medesime ragazze avrebbero usato anche coi loro uomini e comunque in circostanze meno eccezionali, non era possibile a sapersi. Agli alpini, però, successe quasi regolarmente così: a quelli, naturalmente, che osarono affrontare certi sudiciumi o riuscirono a scoprire qualche rara bellezza in condizioni igieniche esteriori passabili (colpa della guerra, probabilmente, questa, della

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mancanza del sapone, per altro ricercatissimo da donne e da uomini, così come il sale, i fiammiferi e tante altre cose che si stentava a capire se mancassero dalle case per colpa della guerra o non invece da tempi molto più lontano). Chiese, in giro, non se ne vedevano assolutamente. La religione, però, sia pure sotto forma di ricordo coltivato più in campagna che nelle città (come ebbero poi modo di constatare), continuava ad esserci, dato che anche la più umile delle isbe aveva, di norma, appesa ad una parete una purchessia immagine, avvolta intorno ci carta-stagnola. Poteva anche essere soltanto un’impressione, ma si sentiva intorno tutto un modo di vita diverso. Tutta un’educazione impostata diversamente. Impostata collettivamente, per spiegarci. La gente aveva un gran riserbo, una gran compostezza, e pareva soprattutto che facesse costantemente uso di precauzione. Sembrava avesse un gran timore di sbagliare, di tirarsi addosso qualche castigo sproporzionato. Eppure aveva un suo senso di umanità, una sua innegabile fierezza. Tutto questo, era il frutto di venti anni, o di cinquanta o di cinquecento? Era il risultato di un breve periodo o non piuttosto la maturazione di un cicli di secoli, nelle sue successive stratificazioni? Impossibile a dirsi, a meno di investigare in profondità. Il che non poteva essere, anche per la questione del: -Ja gne pagne maiu … (il che, però, equivaleva a una non equivoca confessione)… È certo, però, che c’era una grande svolta, tra loro e gli alpini. Una svolta fatta di mille cose. Sfumature piccolissime o enormi, ma c’era. Oltre alle “barisnje”, le signorine, gli alpini andavano in cerca delle botteghe. Ma non ce n’erano. Altro mistero. La grande svolta. Qualcuno si ostinava anche a cercare il vino, ma non c’era neppure quello, perché non esistevano né caffè, né osterie, né ristoranti, né alberghi. La grande svolta. E allora gli alpini si orientavano, nelle loro puntate nelle vicinanze dell’accampamento, verso le uova e il latte. “Moloko” e “jaitsio”. Capitava che ne trovassero. Riempivano la borraccia, e le uova le ficcavano nelle vaste e profonde saccocce, o altrimenti le sorbivano crude, seduta stante, sotto lo sguardo indifferente della gente o il sorriso non sai se invitante o svagato o un po’ ironico della Wanda. In cambio, davano magari la scatoletta e la galletta, che erano assai apprezzate, o il sale, o il sapone o qualcos’altro. I cucinieri barattavano con lo zucchero, il caffè e la marmellata, e facevano ottimi affari. A loro non costava niente, bastava … farla franca. Difficile che potessero accorgersene: bastava assottigliare un tantino le razioni; e chiunque, al loro posto – pensavano a giustificazione – avrebbe fatto lo stesso. Poi, tornavano alla loro tenda e scrivevano a casa le lettere e le cartoline, a casa e a tutti i conoscenti. Giocavano a carte e scavavano il fossatello attorno alla loro dimora ambulante. Poltrivano. Dormivano sotto il sole o nell’ombra delle acacie e degli ontani. I più scarognati dovevano scavare le buche per le latrine, accudire alle faccende interne del campo, ramazzare, pulire le marmitte. Ma vivevano. Terra terra, se si vuole. Ma vivevano.

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Avrebbero volentieri tirato avanti così, fino alla fine della guerra. Già, perché pareva che sarebbe durata poco, ormai. Se era vero, la Turchia stava per entrare nel conflitto contro la Russia e l’Inghilterra … E, in Egitto, si era ormai alle porte di Alessandria … E Stalingrado sarebbe diventata la tomba dell’esercito sovietico … E i germanici erano arrivati fino al Caucaso, erano già saliti fin sull’ Elbruz. Adesso, gli alpini non servono più, gli alpini italiani, se al Caucaso hanno già provveduto loro … RADIO SCARPA incomincia le sue trasmissioni straordinarie. Sta a vedere che ci rimandano in Italia … Sai, ho sentito dire dal tenente Giordanengo che, se non fossimo già stati in viaggio, non partivamo più … Pare che la “Julia” non venga più, ormai. Torneremo indietro anche noi, è quasi sicuro … Se no, tutt’al più, ci fermano qui di presidio, a fare la “territoriale” … RADIO SCARPA. Una radio bonacciona, dalle informazioni prodigiosissime e piene di fantasia. È assurdo, ma ci sono dei momenti nei quali ci si crede, anche alle cose più sballate e inverosimili. Si fa finta di no, ci si atteggia allo scetticismo, ma ci si crede. Del tutto. E si galoppa nella stratosfera … Alla fine, se davvero è così, è stato scomodo ma è stato anche un gran bel viaggio di istruzione. Se ne son viste, di cose. Una grande sfuriata di treno, eh … Da avercene basta per tutto il resto della vita. Da fare il viaggio di nozze in bicicletta, piuttosto che per ferrovia! E qualcosa da contare, se si torna a casa adesso, ci sarà ugualmente, non fosse altro che per gli allarmi, in treno, quando si vociferava di attentati dinamitardi, di agguati, di bande di partigiani nascoste nei boschi che si andavano attraversando. Quando si postavano le mitragliatrici sul davanti dei vagoni scoperti, a difesa dei camion e dei 47/32 … RADIO SCARPA. Onde corte e cortissime. Notizie incredibili, ma ci si crede lo stesso, perché si identificano con le speranze e i timori di ciascuno. La possibilità che la guerra stesse davvero per finire da un momento all’altro, passò per la testa a ben più di uno, e con discreta consistenza. E parve essere suffragata dalla sosta che andava prolungandosi anche più di quello che ognuno sperasse. Si vedeva che le cose andavano bene, no? E, così, la notte si dormiva a cuore più aperto e non ci si preoccupava molto se ogni tanto scoppiettava qua e là un colpo isolato o il singulto latrante di un’arma automatica. Ordinaria amministrazione del coprifuoco. E non facevano neanche caso ai razzi giallastri che, a tratti, solcavano il cielo, come a frugarne le oscurità e le zone più lontane. Neppure gli ufficiali ci badavano. Neppure il “signor Maggiore” quando la sera, davanti al “comando”, stava a scambiare quattro chiacchiere alla buona con gli uomini di guardia. Osservava il cielo, ch’era tutto una trapunta tremolante di stelle chiarissime, e spiegava al caporale quale fosse l’Orsa Minore e quale la Maggiore, e dove si trovasse la Stella Polare, e come la si riconoscesse. Quindi, approssimativamente, gli indicava la direzione di casa. Poi, il Maggiore se ne andava, borbottando fra sé le due parole d’ordine, quella italiana e quella germanica. La tedesca aveva sempre un nome così strambo e

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balordo, e una pronuncia così malagevole … e quegli “ostia là” fan mica tanti complimenti, loro … Se uno si impapera e non è più che pronto a rispondere all’intimazione, scaricano addosso senza nessun riguardo. E chi si è visto si è visto. E non è il caso. C’è da ripassare alla mensa, dove è rimasto sicuramente un bicchiere di vino. Dove ci sono alcuni ufficiali che fan la partita, al lume di una lampadina elettrica da poche candele. Chi sa se, andando avanti, avremo ancora per molto l’elettricità? O ci saranno compagne di veglie soltanto le lanterne a petrolio, da carrettiere? C’è magari da fare un po’ di conversazione con Mestica, se c’è; è uno strano ragazzo, quello, ma dice delle cose molto interessanti … E, poi, c’è da tornare all’accampamento. In tenda. Dorme nella tenda anche lui, il Maggiore, come i suoi soldati. C’è là l’attendente, il buon Garnesi, che lo sta aspettando accucciato vicino a una pianta. Eh, ha la mania della solitudine, quel figliolo! Si distenderebbe sull’erba accanto a lui, il Maggiore, con le mani sotto la testa, e gli parlerebbe un po’ delle stelle. Sono la sua specialità, le stelle; il firmamento, coi suoi miracoli e coi suoi misteri. Stupefacente, il firmamento! Peccato non poterne avere il tempo, se no varrebbe la pena di studiarlo un po’ meno superficialmente. Penetrare un po’, in quel brulichìo vivido che ci sovrasta. Se gli uomini non fossero, in genere, i malandrini e gli indiscussi ignoranti che sono, ne avrebbero, qua, degli argomenti per entusiasmarsi. E invece, nossignori, non fanno altro che inventare motivi di contrasti e di nuove guerre. È una gran bestia, l’umanità: ha ragione Mestica, che ne è così disgustato … -Dì, Garnesi, credi che arriverà la posta dall’Italia, domani? Sarebbe ora, dopo più di quindici giorni che siamo via … L’attendente risponde a stento, con un: -Mah … - al soliloquio ad alta voce del suo Maggiore. Ha altro da fare, in questo momento: scruta la volta del cielo e sta tentando di trovare la Stella Polare. Il soliloquio del Maggiore si spegne da solo. Le stelle vibrano, come a dire di sì. Hanno un bagliore fosforescente ma, a guardarle bene, sono fredde e staccate. Cosa interessa, a loro, di quello che succede quaggiù, in mezzo agli uomini, in questa nera e piccolissima caligine di esseri che si agitano e si dilaniano? Una stella si è staccata, di colpo, e con una scia folgorante ha cambiato di posto. Sembra che si sia andata a spegnere, come una pallina di fuoco caduta in uno stagno d’acqua. Chi sa i miliardi di chilometri che avrà percorso in quella piccola frazione di secondi? Dietro di sé ha lasciato una fettuccina viva, un pulviscolo che si è andato subito esaurendo. Non c’è più nessuna traccia. Il passaggio, sulla faccia della terra, di ciascuno di noi, è qualcosa di simile. E intanto noi stiamo qui, a studiare il modo di ammazzarci sempre meglio, sempre di più e sempre più in fretta. Non è consolante … Garnesi, per conto suo, ha espresso un desiderio quando è “caduta” la stella. Saranno superstizioni, ma costa poco a crederci, e giova.

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CXVI Arrivò anche la posta. Per via aerea e per via ordinaria. Arrivava a sacchi: da averci il mulo, quasi, il postino del Battaglione, almeno per i primi giorni. È cosa degna di qualche meditazione, come ciascuno lasci indietro tante persone ansiose di lui! La distribuzione delle lettere fu l’avvenimento più importante dalla partenza: ognuno ritornò per qualche ora a casa, intento a leggere e a rileggere. E nessuno rimase a bocca asciutta. È una trovata retorica di altri tempi, quella del soldato diseredato, che non riceve niente da nessuno. Tutti si erano accaparrati ben più di un corrispondente: e i corrispondenti erano in maggioranza femminili, reclutati magari in comune, sbrigativamente, nell’ultimo paese in patria dove il reparto si era trattenuto prima di muovere incontro alla guerra. Della Gisa c’erano quattro lettere. Fitte fitte, a caratteri semplici e regolari, quasi scolastici, ricolme di una tenerezza sobria e tranquillante. La quiete della moglie fece bene ad Andrea: aveva davvero necessità di parole cordiali, affettuose, e fu contento di non aver esitato, fra gli scritti di Luci e quelli della moglie, a leggere questi per primi. Aveva tenuto in mano le missive, quasi soppesandole e leggendole in trasparenza. Poi le aveva aperte tutte quante, mettendole in ordine secondo la data, meticolosamente. Pregustava la gioia di quel che avrebbe letto, e c’era come un acre piacere nella certezza di sentirsi dire che la sua lontananza lasciava un vuoto doloroso. Nonostante tutto, nei momenti così, uno è in qualche modo orgoglioso di se stesso e più importante del solito, perché avverte con grande precisione di essere necessario ad altre persone che gli sono lontane; e sconta più serenamente l’attesa e l’ansia di molte giornate. Le parole della Gisa erano quelle di tutti i giorni. Semplici. Moderate. Era come un modesto e liscio conversare, seduti tutti e due sul sofà del salotto. Non c’era posto per le sorprese. La donna poggiava la testa sulla spalla di lui, e gli diceva con dolcezza come si possono superare i momenti difficili, accettando la realtà e guardandole in faccia con confidenza. La prima lettera era del primo giorno subito dopo la partenza di lui dall’Italia. “Caro Andrea, sono tornata a casa da Novara subito ieri sera. Non posso fare a meno di dirti che sono molto triste, ma mi è stata subito di gran sollievo la compagnia affettuosa del papà, la cui sollecitudine anche in questa circostanza è stata per me piena di amorevolezza. Tu sai che è un uomo che conosce la vita nella sua durezza e che, senza imprecare contro nessuno, sa come si deve affrontarla per poterla superare in ogni momento, anche il più brutto. Da parecchi anni lo conoscevo e lo apprezzavo, e non soltanto perché sia tuo padre … Ma da oggi ti posso assicurare che gli vorrò bene anche di più.” La lettera continuava tessendo le lodi della mamma Minghin: … “una donna veramente di esempio a tutti e che si fa in quattro per lavorare, accudire alle faccende di casa e far la bambinaia a Luigino. Il nostro Luigino tanto caro e vispo, che cresce a

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vista d’occhio, birichino e bello in modo incredibile … Anche lui sembra che comprenda che il suo papalino è andato adesso tanto lontano. Ieri sera, al nostro ritorno, contrariamente al solito era ancora alzato, e non c’è stato verso di convincerlo ad andare a dormire nel suo lettino. Non è che abbia fatto i capricci, sai, ma si è decisamente impuntato sulla decisione del non voler dormire nella sua culla; e così è venuto nel lettone con me, al tuo posto. Non è che una creaturina piccola, ma dimostra che avrà del carattere, se il buon Dio ce lo farà crescere così. Io sono certa che al tuo ritorno, che speriamo sia assai prossimo, sarai molto contento di lui. È un vero omettino, che ci darà, in avvenire, tanta gioia … “ Frasi piane, elementari, fatte apposta per placare ogni irrequietezza spirituale. Il racconto sereno della sua vita di casa, intessuta di pochi tratti, tutti onesti, tutti di sano attaccamento al focolare e al nido costruito insieme per dare nuove ali a una nuova nidiata … Un colloquio col marito allontanatosi per un viaggio di qualche tempo, ma un viaggio normale, di quelli che non comportano rischi, di nessun tipo. Un colloquio riposante, di quelli che rinfrancano. Parole affettuose per la mamma, parole affettuose per il papà, un po’ di vita dei campi, compresa la nascita dei conigli; e poi, infine, le grosse parole irregolari scritte dalla mano del Luigino, guidata dalla madre: “Tanti bacioni papalino con affetto il tuo Luigino”. Un vero mucchietto di vita, quell’omettino in erba … Anche le lettere successive della Gisa avevano press’a poco la medesima intonazione. Soltanto nell’ultima vi era un accenno cauto, quasi con un velo sottile, a certa noia che gli ammassi e le requisizioni cagionavano a papà Bastiano. Eh sì, lo sapeva bene anche Andrea che questa era una tremenda spina, nei fianchi del brav’uomo. Era un pallino, quello di Bastiano, per gli ammassi: proprio non gli andava giù. Stentava enormemente a digerirlo, tanto più che non c’era modo di evitarlo. Era un argomento che si connetteva a tante altre cose indigeste, ed in casa era diventato il suo discorso di ogni giorno. Pigliava lo spunto da ogni cosa: un articolo di giornale, una sballata conversazione alla radio, la bolletta della luce. Sapeva bene di ripetersi, ma vi scivolava dentro senza neanche accorgersene. Era diventata come una malattia; per guarirla, la acuiva di più. E lasciavano volentieri che si sfogasse, tanto più che aveva ragione. Bastava ungere le ruote, a quelli degli accertamenti, e avrebbero lasciato correre. Su tutto. Ma lui, no. Lui, non lo faceva. Aveva vergogna di farlo, e di pensarlo solamente. Lui vorrebbe andare sempre a testa alta, di fronte a chiunque. L’aveva insegnato anche al suo Andrea, e l’avrebbe insegnato a suo tempo anche al Luigino, che è questa, l’unica cosa veramente importante, nella vita: il dover mai diventare rossi, quando ci guardano in faccia. Se comperasse uno di quelli là, gli pareva che avrebbe dovuto vendere anche se stesso, in una sola volta. E aveva della dignità, lui, da venderne a quintali. A camionate intere, ne aveva. È che troppo in pochi la pensavano ancora come lui. E, così, la pagavano gli onesti i quali, per giunta, ci facevano anche la figura dei minchioni, al cospetto

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dell’opinione pubblica, anch’essa vergognosamente impastata di disonestà, di calcoli e di vizi. Troppa disonestà, c’è in giro. E troppo poca voglia di lavorare. E troppa prepotenza! Lo facevano andare su tutte le furie, la prosopopea, il sussiego e la mancanza assoluta di rispetto di quei giovani attillati e quasi tutti meridionali, che venivano al Cascinone “in nome della legge”.Una gioventù così farabutta e priva di creanza, ai suoi tempi la si sarebbe messa sotto chiave nel pollaio delle galline … Lui, se gli avessero detto che il suo figliolo si comportava malamente, a solenni cazzottoni l’avrebbe preso, anche se era fuori di minorità ed era sposato per conto suo: sempre suo figlio, era. Una roba incredibile, adesso. Avevano ancora il latte da succhiare alla mammella, e pure erano già qui, petulanti e pieni di boria, che si tiravano addosso gli schiaffoni solo a vederli spuntare di lontano. Gente che le mani le aveva sempre morbide e con le unghie curate, guardassero lui, che calli, in tanti anni di fatica! Era impossibile che potesse durare, uno sconcio del genere. Sarebbe stata una troppo grave ingiustizia, una troppo brutta vergogna. Si sfogava solo in casa, lui, non parlava con degli altri, ma un giorno la finirebbe, com’è vero Dio, e si insegnerebbe ancora l’educazione ai figli … Mio papà buonanima mi chiudeva ancora nella stalla, che avevo già venti anni; e Andrea era già nato quando mi diede uno schiaffo perché mi ero permesso di contraddirlo … Era ore di finirla di camminare al rovescio, no? I bei risultati si stavano già vedendo, e non era pur basta. Il bello doveva ancora venire. E, intanto, il suo Andrea che non c’entrava per niente con nessuno; e il partito, lui, non sapeva neanche che cos’era, né il partito né la politica, gliel’avevano mandato via, tanto lontano. La guerra sulla frontiera, quella almeno è una cosa giusta: l’ho fatta anch’io. Ma era un’altra storia, allora! I confini ce li hanno dati i nostri vecchi, e bisogna che i loro sacrifici e la loro memoria abbiano tutto il nostro rispetto e la nostra considerazione. È come se Andrea mi mandasse in malora il Cascinone … È mica giusta, no? Ma andare a rischiar la pelle a qualche migliaio di chilometri di distanza, per la follia sanguinaria di quattro sciagurati, eh no, perdio, che non è mica una cosa sensata e ragionevole. Loro, non ci vanno al fronte. Gridano nelle piazze, fanno i gerarchi, scrivono, sbraitano, comandano: ma in guerra mandano gli altri. O se no, vanno là per qualche settimana, al sicuro e ben dietro, e poi tornano a casa con le saccocce più gonfie di prima e il petto più in fuori. Magari, con la profanazione dei nastrini e di una medaglia. Un povero cristo che muoia davvero, non gli refilano neanche uno sguardo di compassione. La loro giustizia, questa. Gli eroi del “fronte interno” … Quelli del “resistere”, che te lo fanno anche scrivere sul muro … Eh, guerra dura … E bisogna dire di sì, bisogna dare la mucca e il frumento e le patate – e fin qui va bene, che qualcuno almeno si sfama, e non sono mica un anarchico, io – ma anche un pezzo di maiale bisogna dare, che si sa, poi, come va a finire; e le gomme del camion e il rame del paiolo, perché possano ingrassarsi bene, imboscarsi, nascondere, vendere a prezzi da strozzino … Già, altro che i “pescicani” dell’altra guerra! Usurai,

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che bisogna anche riverirli. È come la storia del pugno di lana e dell’oro e delle cancellate. Sono fertili di inventive. Rende. Quanti non si sono fatti ricchi, di questi scalzacani, che prima non riuscivano a tener su le brache neppure con due paia di bretelle … E la vigliacca mascalzonata del bronzo dei Monumenti ai Caduti … Ma sono bestemmie che si possono fare, queste? Chi, chi gliene dava il diritto? Si riscaldava, Bastiano, e ad un certo punto incominciava a tirar giù anche qualche moccolo, nonostante la moglie lo scongiurasse di lasciar stare il Padreterno. Sì, venga qui lui, a vedere e a metterci un po’ di ordine, se no va tutto a rotoli … … Non commettesse imprudenze, intanto, il suo Andrea. La guerra è una cosa seria. Più seria di venticinque anni fa. Hanno dei sistemi più sbrigativi, adesso, con tutte ‘ste invenzioni nuove. Le pallottole non sono mica caramelle. Basta un colpo solo, una cartuccia sola, piccola piccola com’è, che sembra un innocente giocattolo. Non commettesse imprudenze, il suo Andrea, e si guardasse bene. Fare l’eroe, non ne era il caso. Badasse a non sporgersi troppo. Glielo scrivessero, anche se c’è la censura, che i coraggiosi sono quelli che finiscono per lasciarci la ghirba. Va bene una volta, e due, e tre. E poi, patapum, si va. Per carità. No no. Era sua madre, anch’essa, buona donna, che lo raccomandava caldamente. Cerchi di stare indietro – uno che ha studiato riesce sempre ad arrangiarsi! – e di venire a casa più presto che può. Di mamme che non condannino le guerre, nel loro istinto di conservazione dei figli, ce ne sono ben poche. Sono sempre dei piccoli bambini imprudenti, le loro creature. Sempre dei ragazzi, anche se hanno già trent’anni, quaranta, cinquanta. Bisogna sempre curarli da vicino, come il Luigino che lui non lo sa mica che cosa sia il pericolo e come siano freddamente capaci di fare del male, gli uomini grandi. ******************* Quando in casa le conversazioni erano impostate su questi argomenti, la Gisa per un po’ fingeva di non sentire, facendo forza su se stessa per concentrarsi nel pensiero del marito come se gli fosse vicinissimo, poi si levava in silenzio e si allontanava, raggiungendo la sua camera e andando a piangere accanto alla culla di suo figlio, che dormiva inconscio e sereno. Pochi minuti dopo la raggiungeva la suocera, che nel frattempo aveva tentato di calmare Sebastiano; e lo stesso Sebastiano, prima di andare a dormire, socchiudeva discretamente l’uscio: -Scusami, sai, Gisa, non volevo proprio dire niente che ti facesse male. E stai tranquilla, per Andrea. È un uomo con la testa sul collo … - tossicchiava. Poi: -Dorme, il Luigino? -Sì, papà, grazie. Non farci caso, hai ragione. -Buona notte, Gisa. -Buona notte … Ma il sonno tardava a venire, anche se carezzando il cuscino le sembrava che Andrea potesse sentirla.

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CXVII Quel che scriveva Luci, invece, aveva un tono incandescente. Parole infocate, ed un’offerta di amore anche più appassionata e completa di prima. Cose che, a leggerle, Andrea ne rimase quasi spaventato. O non farebbe mica qualche sciocchezza, per caso, quella ragazza così impulsiva? Luci tornava a scrivere del “loro” figlio, quel figlio che essa aveva tanto desiderato e che non era mai venuto. Adesso rimpiangeva che non ci fosse. Eh, Luci, quando capirai meglio, tu, tante cose di com’è montata l’esistenza e di come si faccia fatica a viverci dentro? È ancora una bambina in fasce, Luci, per questi problemi. N’ha da fare, della strada, per giungere alle conclusioni cui è arrivato Andrea. Sono poche, le donne che ci riescono bene: meravigliosamente poche. La vita non consiste soltanto nell’offrirsi a un uomo e nell’incarnarsi di una nuova vita. Consiste anche di ricerca e di comprensione e di ragionamento, il che vuol sacrificio: proprio quello che, a Luci, almeno per adesso manca paurosamente. Lo si vede subito; altrimenti non scriverebbe così. Educazione che uno ha ricevuto. Tempi che uno vive. Libri che uno legge. Parole alle quali crede o no. Suono delle parole. Esperienza, esperienza soprattutto di quella spiacevole. È tutta qui, la formazione mentale: oltre, logicamente, al sale che c’è in zucca al punto di partenza. Ha una consistenza strana e irregolare, Luci, fatta di impasti assolutamente disarmoniosi. Piange l’uomo lontano e lo desidera con una furia e un istinto quasi di animale; lamenta un imbastardimento non avvenuto (maternità, per lei, ma il mondo intanto adotta altre definizioni) e poi conclude: “ … nel nome della Patria e di questa santa guerra combattuta contro un nemico feroce e privo di scrupoli e di leggi umane e di pietà religiosa, alla quale sono dolorosamente fiera che anche tu stia apportando il tuo generoso contributo … “ Davvero sconcertante. A parte la “conoscenza diretta” che può vantare di cose di guerra e della Russia, c’è un’incoerenza enorme ed allarmante, in tutto questo. La Gisa, che è madre per davvero, non ha scritto così. È giovane, Luci, inesperta. Certe cose non soltanto non le sa, ma dimostra che non sarebbe neppure in grado di comprenderle. Crede di aver camminato e di “essere in marcia”; e invece è là, radicata come una statua, che prende stupidamente l’imbeccata da chi gliele porge, senza neppure pensare bene a quello che le parole possano significare, e tanto meno alle reazioni che possono far nascere. Bisogna che si affretti a disancorarsi, lei come altri numerosissimi, se no ne prenderà delle cantonate e ne farà prendere, di quelle veramente solenni e gravose. Bisogna indirizzarla verso il movimento … Ma guarda lì, che roba! Un inno alla vita e, dieci righe più sotto, l’esaltazione, sia pure retorica soltanto, della morte. È mai possibile? Come si può andare avanti, in queste condizioni? C’è tutto da rifare, tutto quanto. Dal principio. Tutto da demolire, per costruirci sopra qualcosa di più saggio e di più vero.

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Eh, sì, ha un bel dire, la Gisa, che bisogna credere in Dio e in noi stessi e nella vita! Davanti a lettere come queste, a uno che ci rifletta sopra appena appena, cascano le braccia. E viene la voglia di abbandonarsi a una piena abulia. Distendersi sull’erba e farci un sonnellino, se possibile. No, cara figliola, il tuo corpo è quello che io ho conosciuto, che io ho amato; ma la tua testa no, sicuro. Non ci siamo mai preoccupati, noi, di sapere quel che ci passava dentro: avevamo solo il tempo per cercarci fisicamente, e il tempo non bastava mai. Ma è evidente che abbiamo commesso un errore. Da vicino, avrei anche potuto fare qualcosa, per te: e so che cu sarei magari riuscito. Ma adesso, cosa posso tentare, di qua? Non ho neanche più in diritto di schernire me stesso, altro che voler raddrizzare te. Sei stata una magnifica droga, un eccitante incomparabile; ma adesso mi mostri l’altra faccia, tutto l’opposto, mi butti giù in fondo, e non abbiamo rimedio, né tu né io. Mi vorresti guerriero: ma allora non hai capito mai niente di me? E neanch’io di te, sai … A meno che tu mi scriva così per aiutarti e aiutarmi, ma mi convince poco questa spiegazione. No, non mi convince. Siamo proprio dei poveri lenzuoli distesi, Luci, sbattuti dal vento che gioca nelle pieghe, a piacer suo. E vi cade sopra la pioggia o il sole, secondo il tempo che fa; o la grandine. Siamo della povera spazzatura che imputridisce e se ne va chi sa dove, piena di una superbia catastrofica … Non è tutta colpa tua, però, Luci. Il cervello, di norma, ce lo fan girare gli altri, come vogliono loro e senza che noi ne abbiamo il minimo sospetto. Però, da te non me lo aspettavo. Ho paura che verrà il momento che tu per me sarai le parole di adesso, più che non le tante notti infuriate di Milano. È spaventoso pensare che riceverò altre lettere così, e non potrò fare a meno di prenderle come sono, e dovrò rispondere e non dirti niente in proposito. Come mi sei lontana, Luci, e non solo per i chilometri. Ma se tu fossi qui in questo momento, oh sì, ti prenderei a schiaffi, sai, anche se forse non servirebbe a nulla … No, neppure l’agitarsi sarebbe di aiuto. Il meccanismo ormai diventava abbastanza chiaro, ad Andrea. Lui si era reso conto, adesso un po’ meglio. Reso conto della sua ridicola nullità e della nullità più o meno tempestosa di tanti altri suoi simili. Loro si illudevano ancora, ma non c’era rimedio: più si agitavano, e più si farebbero soffocare. Cretini. Non li lascerebbero certo in pace, neppure per un istante solo. Fino a sopprimerli. Ad affogarli. A farli schiattare. Lui incominciava a diventare furbo, adesso (almeno, così gli pareva); furbo, e un po’ canaglia, in un certo senso. A non emozionarsi più. A vedere con l’occhio del paziente che ha già superata la crisi e che conosce tutti i sintomi, per averli sperimentati di persona: tutti quelli non letali, almeno. C’era da osservare gli altri, adesso, sbirciando se stessero seguendo quel medesimo processo tormentoso che egli, in buona parte indiscutibilmente aveva già attraversato. C’era da trarne anche qualche po’ di acido divertimento, e notevole conforto per proseguire. Capito, Luci? Tu che supponi di aver tanto camminato, e sei

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invece ancora nel “girello”. Vieni qua a vedere Zonchi, tanto per citartene uno, lui con le sue lettere di “federali” e mammalucchi del genere, che gli scrivono i paroloni e che sono a casa appesi a un filo, nella fifa che un giorno tocchi anche a loro. Vieni a sentire come incomincia a camminare forte anche lui, da qualche tempo. E intanto, però, anche Andrea ne aveva ancora della strada da fare, per giungere fino in fondo. Dallo stridio premonitore di cui accusano – a torto o no – la civetta, al cadaverizzarsi per davvero, ce ne sono ancora delle contorsioni! Da sborniarsene, uno. CXVIII Non era ancora giorno del tutto, e già la colonna degli alpini si allungava per la strada. Camminava incontro al sole che sorgeva. Si snodava lunga, due file su di un bordo e una sull’altro. Dietro, venivano i muli e le carrette. Gli automezzi erano già partiti, prima che il movimento della truppa iniziasse. L’ordine della partenza era giunto improvviso, la sera prima, che nessuno se l’aspettava. E chi aveva saputo prima, era stato capace di tacere. Era stata una giornata così placida, che quasi quasi gli alpini si dimenticavano di essere alla guerra. Pareva loro di essere al campo e di trascorrere un inconsueto periodo di sosta. Nella vasta spianata dove sorgeva la torre per paracadutisti, erano stati organizzati, al margine del boschetto, dei giochi sportivi, corse, salti e le belle cantate di un tempo. Poi, a un tratto, patatrac. DOMANI SI PARTE. Arrotolare le coperte. Versare l’alleggerimento (c’era qualcuno di cuore, almeno, che aveva pensato di scaricare un po’ il peso dello zaino) e … preparare le gambe. La primissima luce – quando il cielo era ancora bigio scuro, di un colore indistinto, e una lontana aurora lottava per fugare le tenebre tuttora tenacemente abbarbicate fra le piante del boschetto – aveva visto gli alpini affaccendarsi e spiantare le tende e affardellare lo zaino. C’era un tepore così amico e gradevole, sotto la tenda, che dispiaceva proprio buttarla per aria. Pure, l’avevano dovuto fare; e in fretta, anche se in grugniti. Sbottonare i teli molli di umidità notturna, arrotolarli con dentro la mantellina e la coperta. Fissare il tutto allo zaino. Già notevole che non si pretendessero anche i “rotolini”! Intanto che i fuochi delle cucine, vividi e rossastri nel buio, facevano scaldare il caffè, il trambusto era nel suo pieno fervore. Urlacci assonnati, richiami, qualche bestemmia. Ufficiali che giravano incespicando, e incitavano a sbrigarsi. Uno, con un moccolo di candela, che cercava qualcosa nell’erba. Un altro, che sbraitava perché gli avevano fregato le giberne … E, in tutti, un senso contenuto di rabbia per la levataccia e per il doversene andare così. Non è affatto vero che le partenze siano sempre allegre, eh no … E qui non c’era neanche un cane da salutare, neanche questa modesta consolazione! La drammatica avventura aveva preso le mosse molto tempo prima; ma in effetti, per loro, era di qui che incominciava veramente. Adesso, si faceva irrimediabilmente

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sul serio. Ogni ora di più, ogni passo di più avvicinerebbe la scadenza ormai non lontana. La strada all’inizio era lastricata, e ci camminavano sopra con passo sostenuto. Nella paglia abbandonata del boschetto, piglierebbero dimora i topi, e i grilli verrebbero a curiosare, stupiti di tutto il fracasso che c’era stato prima e del silenzio assoluto che ci sarebbe stato adesso. Anche le lucertole potrebbero tranquillamente indugiare nelle chiazze di sole: più nessuno le catturerebbe per mozzare loro barbaramente la coda. Il sole, nascendo al disopra di un cumulo di detriti di carbone, che si levava in lontananza, incominciò a buttare fuori i suoi primi sprazzi, contrastati da un banco spesso di nuvole che dipingevano il cielo di luce vermiglia e arancione, a sprazzi e contorni vividi. Uno spettacolo solenne e gigantesco. Aveva qualcosa di leggendario, quell’andare degli alpini per strade sconosciute, verso il sole, nella sua prima luce. Verso il sole, la vita: e, invece, era verso la morte. Il passo sembrava cadenzato dal muovere disuguale e un po’ ondoso degli zaini. Il comandante, in testa, caracollava su un bel cavallo bianco. L’aria del primo mattino era trasparente e fresca. Contrastava immensamente con l’afa che aveva durato di giorno e nella notte. Costeggiarono un cimitero di guerra – il primo, italiano, che incontravano – con le croci sovrastate dagli elmetti freddi e lucenti. Simmetrico e ordinato com’era, dava la sgradevole impressione che stessero, là sotto, quei poveri morti, tutti impalati nella loro posizione di “attenti”, a passare in rassegna quelli che passavano loro davanti. Li passavano in rassegna, e strizzavano l’occhio a qualcuno. Qualcuno che non ci faceva caso, magari, che era assonnato o distratto. Ma loro se ne ricorderebbero, sono fisionomisti, loro, e lo attenderebbero. Ce n’era, del posto! Ci ritroveremo, qualche giorno, anche se a qualche distanza da qui. Ti aspettiamo. Poi, passarono sui limiti di una grande città. Erano ancora tutti pieni di torpore e non facevano caso, forse, a quello che vedevano … Era un cumulo fenomenale di impianti industriali. Gomiti di metallo, altissimi, a venti o trenta metri dal terreno, colossali e imponenti. Tralicci e incastellature di ferro. Cemento armato nerastro di fumo. Cataste enormi di scorie nere, rossicce, biancastre, rugginose. Strani cappucci metallici, e tanti tubi grossi e piccoli, che si intrecciavano e si rincorrevano ordinatamente. Anche per i profani erano incontri impressionanti: dicevano chiaramente che là si sapeva parlare un linguaggio tecnico estremamente progredito. Dopo aver superato una “balka”, un piccolo stretto avvallamento, sfociarono di colpo nella pianura immensa. Da perdersi, là dentro. La strada selciata non c’era più. Era scomparsa alla chetichella, senza che nessuno se n’accorgesse. Sopravviveva una pista al livello della pianura, nient’altro. Intorno, per chilometri e chilometri, neanche un albero. In lontananza, alcune montagnole scure e regolari: i detriti del carbone.

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CXIX E le scarpe vanno e vanno, inseguendosi. È lo scarpone delle settemila leghe, che si prende la sua vendetta. Ha riposato troppo e, adesso, deve riguadagnare il tempo perduto … La strada si stende davanti, senza fine. Pare lastricata un’altra volta, adesso. Ma con zolle di terra, con le zolle di questa terra, di questa crosta secca e dura, che si è spezzata sotto i raggi del sole e sotto il peso dei veicoli, e sembra formare ora un selciato rudimentale, con uno sfiatatoio tra l’una zolla e l’altra, uno sfiatatoio per ogni crepa. Ha pur diritto di respirare anche il sottosuolo, no? Questo sottosuolo ricco, in modo incommensurabile, di carbone e di ferro e di nichelio e di manganese e forse di che altro ancora. Vanno e vanno, le scarpe. Vanno, e conducono gli alpini. La pianura, intorno, è infinita; e l’orizzonte lo limita una linea un po’ più scura, appena accennata, dove pare di intravedere una lievissima ondulazione. Neppure il frinìo dei grilli è ancora sveglio, neppure le quaglie nascoste fra le alte erbe, incolte e inselvatichite. E gli alpini è già da un po’ che sono in movimento. Sembra che la natura faccia più fatica di loro, a svegliarsi. Che abbia addosso un torpore più denso e più pesante. Perché, anche loro hanno sonno, e non saprebbero affermare con precisione se quel che vedono è proprio vero o non è piuttosto la continuazione di quello che stavano sognando. È brusca, alzarsi così, quando la notte è ancora piena e si dormirebbe nell’acqua, tanto si è stanchi. È la terza mattina filata, ormai, che la storia si ripete: una storia poco divertente. Si arriva nel pomeriggio, completamente sfessati, pieni di polvere e storditi dal sole. Di acqua, non ce n’è. Se ne racimola a stento una borraccia, da bere: quella tiepida e sgradevole dell’autobotte. Si monta la tenda. Si mangia il rancio e ci si butta giù, su di un mucchio di sterpi o di erbaccia, secca o no, non importa. Non c’è nemmeno la possibilità di ascoltare le proteste dello stomaco … Nel bello della dormita, la tromba. E si ricomincia. Le prime ore, le si tira avanti in un modo molto confuso e indistinto, più per inerzia che per altro. Ognuno cammina sui passi del compagno che lo precede, e sa che un altro lo segue. Nient’altro. Le gambe sono un po’ legnose, stentano a mettersi in movimento. Chi sa se sono tutti vuoti di pensieri allo stesso modo? Un fantasticare lieve e silenzioso. Forse dormono ancora. Anche il comandante sul suo cavallo. Le voci giungono atone e sfocate. È già da quattro o cinque ore, che la colonna è in marcia. Gli uomini non hanno neanche più la voglia di maledire. Incominciano ad aver pena di se stessi, perché anche i piedi cominciano a dolorare. Ci vuol altro che le calze di lana, con i chilometri che si fanno, e lo zaino, e il calore opprimente! Sono le bolle, le fiacche famigerate e “deliziose”, che si formano progressivamente. La pelle, sotto la pianta del piede e nelle zone di maggior attrito, si è fatta fine fine; e allora un nervo trasmette al cervello la sensazione del caldo intenso che c’è in

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quel punto là, per via dello sfregamento continuo. È un meccanismo in gamba, quello del corpo umano. La sapeva lunga, quello che l’ha messo insieme … E il cervello comanda a una gocciolina di rimediare. Il fuoco si spegne con l’acqua, no? L’han mica inventato i pompieri, questo! Ma il calore cresce, e una nuova piccola stilla fluisce tra carne e pelle; e un’altra, e un’altra. La bolla aumenta, e il rimedio diventa peggiore del male, perché uno non sa più come poggiare i piedi. Tutte le volte che li mette a terra, è come se tanti aghi puntuti lo forassero all’impazzata, tutti in una volta sola, senza pietà. Ogni passo, una fitta feroce. E di chilometri ce ne sono ancora parecchi … Ma nessuno resta indietro. Sarebbe peggio. La strada, l’avrebbe da fare lo stesso, e da solo, per di più. Le auto carrette e i camions sono già passati tutti. Non c’è che da tirare avanti … Consolarsi, sbirciare i visi pietosi e sofferenti di tutti i compagni. Tutti, o quasi. Non sono tagliati per le strade del genere, gli alpini. Cosa le hanno inventate a fare le montagne, porco giuda; forse per mandarci le truppe celeri e i sommergibilisti? Andare avanti penosamente, consultando in continuazione l’orologio o chiedendo l’ora a chi ce l’ha. Quelle benedette sfere paiono incollate e non procedono mai, perse anch’esse nell’atmosfera di sopore meridiano di quella pianura illimitata, inondata dal sole. Che si sia finiti in un deserto di erbe ingiallite? Si tira avanti, masticando semi di girasole. Avevano tutti un certo senso di diffidenza e di ripugnanza, il primo giorno, gli alpini. Ma han fatto in fretta ad abituarcisi. Trovano che fanno compagnia, quei semi dolciastri e gratuiti. Ce n’è in giro a miliardi, corolle gialle enormi. Aiutano la salivazione, e distraggono. Qualcuno tenta, a strappi, di annodare un frammento di conversazione; ma desiste presto. Generalmente, tutti quanti pensano. Qualcuno prega, anche. Pensano in sordina, a cose inverosimili o remote: la propria casa, una donna in costume da bagno, un vaso di gerani rossi, un ballo di carnevale, un laghetto di acqua fresca e trasparente. Pensano a tutto questo con un desiderio umile, stancamente, come a cose di una lontananza irrimediabile, tanto lontane, forse, che non esistono neanche più … Non sono mai esistite, forse. Tappa. L’ultima tappa della giornata. Ci si abbandona sullo zaino, sdraiati giù, senza neppure staccarlo dalle spalle. Come per dormirci sopra. Come se fosse un’appendice del corpo. Non si è più capaci di pensare a nulla, se non a questo: ancora un’oretta, e poi è finita! Il mondo non esiste più. Né il domani, né la morosa né nessuno. Il mondo resta circoscritto lì, in quell’ora di marcia. Si fa acqua prima di ripartire, peggio dei cani, senza neanche ripararsi dietro un paracarro (non ce n’è di paracarri, là), e si ricomincia. I piedi sono di piombo, e per i primi cento metri si rifiuterebbero assolutamente di fare il loro dovere, se non ci fosse una determinazione violentissima di voler continuare. Si digrignano i denti, e si va; zoppicando, ma si va. È l’ultimo strappo della giornata. Appare un villaggio. Com’è lungo! Non finisce mai. Ma, in fondo ad esso, c’è la meta. Si tiene duro.

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Parecchie donne sono fuori, sulla strada larghissima e piena di erbaccia secca. Sono mamma. Sanno cosa vuol dire. Hanno dei secchi di acqua fresca e delle tazze di metallo smaltato. Bevano, ‘sti poveri uomini! Fanno veramente compassione, poveracci, col loro camminare squinternato, la maschera di sudore e di polvere sul viso e la stanchezza della lunga marcia. Bevano! Qualcuno dice: -Spasibo. Grazie -. I più non dicono nulla. Si avvicinano in silenzio, un po’ di corsa per non restare distanziati dopo, facendo tintinnare disastrosamente il contenuto della gavetta; bevono avidamente e se ne vanno, senza neppure una breve occhiata. Ma sono contente lo stesso, le buone donne. La riconoscenza non ha bisogno di parole o di sguardi. In certi casi, è più che evidente di per sé. Due figliole sono lì, accanto allo steccato della loro isba, con due grandi anfore piene colme di latte freddo. Questo è aver cuore e comprensione! Le bacerebbero di gratitudine, gli alpini, anche se non sono belle. Il villaggio termina. C’è un gran cumulo di detriti di carbone e, qualche cento metri più in là, l’orlo di un boschetto. Due fontane rovesciano uno scroscio di acqua limpida, nei pressi della strada ferrata dai binari a pezzi. Apre il cuore, uno spettacolo del genere. Si potrà fare davvero bucato generale, stavolta. L’orizzonte, dietro quegli alberi verdi e quelle fontanelle, si slarga in modo insospettato e meraviglioso. Quasi quasi non si avverte neppur più la stanchezza. Andiamo subito a toglierci gli scarponi. Poi drizzeremo la tenda e andremo a lavarci i piedi. I piedi e tutto il resto. Se ne resterà la voglia, si andrà anche in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Pomodori. Patate. Uova. Va tutto bene. Purché si trovi la possibilità del baratto. CXX La pista continua. E la polvere anche. E il tormento della sete. Trovare un corso d’acqua è una cosa che ha del miracoloso, un’utopia. I villaggi se li ingoia la pianura, l’uno dopo l’altro. I nomi, chi se li ricorda? Sono così strani e inutili. A Tzschittzjakowo, un giorno di sosta, intanto che gironzolava da solo nel tardo pomeriggio in traccia di viveri, giunsero ad Andrea i rintocchi di un pianoforte. Era la prima volta che gli succedeva, in Russia. Così, dopo essersi accertato di non prendere un abbaglio, entrò nella casetta dalla quale proveniva in suono. Non era una delle solite misere isbe. Era proprio una vera casettina, anche se a un solo piano. Aveva perfino il pavimento in legno e il tetto non di paglia. Si trattava di un “giardino d’infanzia”. In una stanzina graziosa e pulita c’erano una decina di marmocchi; il più vecchio avrà forse avuto quattro anni. La maestrine erano due, Natacha e Vera, bellocce, giovanissime, piene di esuberanza. Avevano un gran desiderio di dimostrare all’ufficiale italiano che loro, contro di lui, non avevano alcun motivo particolare di odio o di risentimento. Lo vollero far sedere a tutti i costi. Lui si prese sulle ginocchia uno di quei bambini, che avrà avuto sì e no l’età del suo Luigino. Era bello e paffuto, con tanti ricciolini chiari. Aveva due pomellini

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coloriti e le coscette stagne e sode. Non aveva paura, il piccolo Boris, dello sconosciuto che l’aveva preso in braccio e lo guardava con occhio intenerito. Lo stava ad osservare sorridendo timidamente, senza osare di muoversi. Sembrava enormemente interessato alla fibbia lucente del cinturone. Ad Andrea sembrò di ritrovarsi per un istante a casa sua, con suo figlio a ballare su di una coscia; e gli venne improvvisamente un pensiero impossibile: poter saltare là, d’un balzo … Qualcosa gli gorgogliava in gola, e dovette deglutire rapidamente perché la sua commozione non fosse scoperta. Si ricordò di avere in tasca delle zollette di zucchero, e ci frugò subito. Ne trovò. Una la diede a Boris e le altre ai piccolini che si erano serrati intorno a lui, curiosi e come in attesa. Intanto, il biondino sulle ginocchia dava segni manifesti di disagio. Si era messo in bocca la tavoletta dello zucchero ma, dopo averla succhiata per qualche istante con evidente soddisfazione, l’aveva ora ripresa in mano: pareva soprapensiero e lì lì per scoppiare a piangere. Vera allora lo condusse fuori a far pipì. Fu a questo punto che Natacha invitò Andrea a seguirla in un’altra camera. C’era l’immancabile pallottoliere delle case di città, una specie di divanino a una parete, ed il pianoforte, al quale lei si sedette, attaccando una fantasia indiavolata. La accompagnava con scoppi giocondi della voce e con un movimento vibrante di tutto il corpo. Sangue che fremeva, Natacha! Qualcosa come una puledra selvatica che senta, in una prateria, l’odor del maschio che il vento le porta alle narici. Mutò di colpo. Una nenia accorata, profonda. Aveva il respiro ampio di secoli di dolore e di attesa. Poi, Natacha si voltò a studiare l’effetto prodotto sul suo ascoltatore. Anche Vera si era affacciata, e nel vano della porta facevano ressa tutti i bambini. Andrea battè le mani, era sbalordito. Non sapeva cosa fare, d’altro. Avrebbe voluto dirle almeno: Brava!, ma non sapeva come si traducesse. “Krassijva”, le disse, bella. E aggiunse con voce emozionata: “Gut.Gut”. Molto bene. Faceva di sì con la testa e con le mani. Capiva, Natacha? Forse sì, aveva capito, perché di nuovo si accinse a suonare. E stavolta lo sbalordì completamente. Una cosa che, quando la raccontò – almeno in parte – ai suoi colleghi, i più gli dissero sul muso che era matto da legare, se l’era sognata lui e non poteva essere, ballista! Natacha suonava ora, a modo suo sia pure, una canzone italiana: “Campagnola bella”, imprimendole un ritmo frenetico e vertiginoso, di danza rustica cosacca. E senza quasi soluzione di continuità, attaccò di seguito le note di: “Va l’alpin su l’alte cime” … Stentava a credere ai suoi orecchi, Andrea. Bisogna viverle, certe situazioni, per rendersene conto. La maestrina serrò il piano di colpo e si voltò verso di lui, con un’occhiata profonda e piena di malizia, come se fossero complici di qualcosa di proibito commesso insieme. Gli sorrideva come se fossero amici da tanto tempo e ne avessero dei segreti in comune, loro due.

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Sempre ridendo e parlando con animazione (cosa mai dicesse, Andrea non lo comprendeva assolutamente), Natacha venne a sedersi sul piccolo sofà dove già stava lui, ancora affatto incapace di comprendere appieno quanto stava succedendo. Andrea istintivamente le afferrò le mani, di slancio, e le strinse forte. Ebbe appena il tempo di rendersi conto che i marmocchi si erano ritirati e che era scomparsa anche Vera, chiudendosi dietro la porta; e si trovò Natacha sulle ginocchia, fremente, coi seni che si sollevavano disordinatamente sotto l’esile vestitino. Andrea non riuscì più a pensare a nulla, né a dove si trovasse, né a quel che stesse facendo, né alle conseguenze che gliene sarebbero potute derivare. Natacha ricercò l’amplesso di lui con un’ansia addirittura febbrile, e si placò soltanto per la spossatezza che gliene provenne dopo. Il mattino seguente, al levar del sole, di Tzschittzjakowo non era più in vista, alla colonna degli alpini in marcia, neppure il cumulo alto della miniera di carbone. Natacha dormiva ancora, ma Andrea non l’avrebbe scordata più. CXXI Avanti ancora, nel polverone caldo che pigliava alla gola e mozzava il fiato. La direzione, adesso, non era più quella di oriente. Quando sembrava che si dovesse piegare verso mezzogiorno, per andare giù al Caucaso (come immaginavano), alè, si erano rivolti a settentrione, invece. Un colpo di naia, come tanti altri. Naia traduceva un po’ il “nitchevò” del luogo. Con la differenza che quando uno dice “naia”, si rassegna, sì, ma proprio per forza e, se può ribellarsi, lo fa volentieri, se non altro borbottandoci sopra come un mezzo temporale, ricamandoci intorno la sua rabbia e inventando qualche smoccolo nuovo. Avevano imparato a dire: “dio-fascista”, gli alpini; e anche: “dio-bolscevico” (e non è necessario ritenere che fossero proprio delle bestemmie, quanto una valvola di sfogo come un’altra); e ne infilarono parecchi, adesso che sembrava loro di essere stati lesi in un sicuro diritto, con quel cambiamento di itinerario all’ultimo momento. Non sapevano che cosa li attendesse dove erano diretti, come non sapevano quel che sarebbe successo al Caucaso: ma ‘sta novità era un motivo di grossa irritazione, e le timide puntate di “radio-scarpa” per spiegarne le ragioni, venivano accolte con invettive ed improperi sarcastici. Là, al Caucaso, almeno c’era il vino: glielo avevano assicurato. Pareva loro di esserci già stati, e che fossero luoghi incantevoli, dove trascorrerebbero un soggiorno meraviglioso, da gran signori (o non diceva, forse, uno dei tanti opuscoli di propaganda, che quello era uno dei luoghi più belli al mondo, dove fiorisce una perenne primavera e ci sono donne di una bellezza purissima e portentosa?); e adesso pareva loro, per conseguenza, di essere defraudati. Un colpo di naia al quale si sarebbero sottratti molto volentieri … Lo potrebbero solamente rimpiangere, il Caucaso, e intanto potevano crepare là, pieni di delusione, nella steppa infinita, senza una montagna all’orizzonte che ricordasse in qualche modo il loro paese. Cosa ci han mandati a fare, qui, allora? Non bastava la buffa, per questa pianura disadorna e uniforme? Fanteria ci vuole, qui, bersaglieri. Roba da truppe celeri,

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questa, non da “rociapic”. Anche l’addestramento è diverso, il nostro. Non era evidente che loro dovrebbero improvvisare completamente? Improvvisare a tu per tu con la morte, non è un gran piacere. E neanche tanto facile, poi. Le papere sono catastrofi. Anche gli ufficiali superiori avevano l’aria di non essere troppo entusiasti, di quella storia inaspettata. Dovevano non darlo a capire del tutto agli altri, ma era così. E la “gruma”, certe cose le lascia intendere anche se non si vorrebbe. Ohi ohi, quando si ha sulle spalle il peso vivo di qualche centinaio o migliaio di uomini, ci si riflette! Ci si deve riflettere. A meno di essere dei disgraziati. Ma i disgraziati son quelli che ci han mandati qui. Con l’attrezzatura e l’armamento di cui erano riforniti, se i comandi superiori non provvedessero immediatamente, starebbero ben freschi. Bella fregatura ne vien fuori. Come erano ridicoli, quei miseri cannoncini da 47! Cosa avrebbero potuto fare, di utile? Se si fosse parato davanti un bel carro armato, anche di modesta mole, cosa avrebbero potuto fare sul suo corpaccio quelle granate così esili? Con tutta la loro buona volontà, nient’altro che spiaccicarsi e spezzarsi. Spezzarsi loro, mica il bersaglio contro il quale fossero state dirette. CXXII Krasnji Luc fu raggiunta in un pomeriggio affocato. L’avevano scoperta da notevole distanza, avanzando sulle propaggini di un altopiano sopraelevato di qualche decina di metri. In quei paraggi la guerra aveva ripreso le mosse da poco. Là, durante la stagione invernale, i due opposti schieramenti avevano tenuto la linea. La pista sulla quale camminavano gli alpini era tutta sforacchiata dalle buche dei mortai e dai crateri, un po’ più vasti e consistenti, dei medi calibri. Il terreno era disseminato di frantumi di ghisa e di acciaio. Schegge angolose e puntute, di ogni dimensione, forma e spessore. Bossoli vuoti, scatolette arrugginite, frammenti di ruote. Pareva una terra disabitata da secoli. Rottami sparsi qua e là, irriconoscibili, a piccoli mucchietti. Qualche straccio. Camminamenti alti e fondi, scavati nella terra dura. Tutta una lunga fila di pali, che non c’erano più. Ne restavano i monconi segati, a un metro press’a poco dal terreno: il livello della neve che c’era allora, evidentemente. I pali li avevano usati per costruire le case sotterranee. Le ridotte. Le tane. A un “alt”, si fermarono in prossimità di alcune casematte interrate. Davanti ad una di quelle abitazioni trogloditiche stava ancora un cartellino: Bunker Grete, 93 bis. Dentro, era abbastanza ampio e comodo. C’erano le cuccette e un tavolo, con mensole ricavate nel vivo della terra. La luce filtrava all’interno da una specie di camino inclinato. L’avevano invaso i topi, ora, il bunker. Alcune scatolette vuote pendevano attaccate a un filo di ferro, che s’inoltrava in un camminamento. Telefono di fortuna, quello. Segnale d’allarme. Imparerebbero

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anche loro, gli alpini, a scavare la terra e a costruirsi così i loro abituri. A sotterrarsi da soli, in un certo senso. Più oltre, i pali svettavano ancora, non eran stati buttati giù: si era al limite di quello che era stato il fronte. La pista lo andava attraversando diametralmente. Il terreno, adesso, era crivellato in modo anche più intenso. Neanche un decimetro quadrato era rimasto senza la sua parte. Sui bordi della strada c’erano dei cartelli di legno. ACHTUNG! MINEN. MINEN. MINEN. E reticolati bassi, a terra. E reticolati a un’altezza media. Poi enormi cataste di filo spinato, in un avvallamento. Cavalli di frisia sovrapposti in un imbroglio confuso: colpa della neve, forse, che aveva ricoperto lo strato più basso. Gabbioni enormi di filo di rame, quello tirato giù dai pali, probabilmente. Ce n’era là per chi sa quante tonnellate, di quel materiale prezioso. Pensavano, molti di quei soldati, che a casa i loro familiari non avevano il solfato per bagnare la vigna. Qui ce n’era, di materia prima. Fin che ne volessero. Ormai, non si stupivano più di nulla. Però, avevano in gola un’amarezza enorme. C’era, dentro di loro, qualcosa che si sgretolava sempre di più. Di là scendeva in una breve valletta, uno scoscendimento di pochi metri, oltre i quali sorgevano i resti di un villaggio, intristiti, in preda a un vero allevamento di ortiche gigantesche. Meno filo spinato, di là. Qualche buca, qualche trincea. I cartelli con su scritto “mine” erano in carattere cirillico, adesso. E di mine, quei dischi spessi e sporchi di terra, ce n’erano piccole cataste, in mezzo ai campi e fra un’isba e l’altra. La città di Krasnji Luc aveva ancora le strade periferiche ingombre di materiale d’ogni genere: carcasse di automezzi, sbrendoli stracciati di divise, carrette frantumate come se un gigante ci avesse menato dentro all’impazzata delle sventole poderose. Travi anticarro infisse nella sede stradale. Travi di legno e putrelle di ferro. Rotaie contorte. Cumuli disordinati di ferraglie e di carrelli della Decauville. Mura a zeta. Postazioni interrate, ricoperte da cupolette metalliche circolari. Da restarne impressionati e spauriti. Passavano via dando una rapida sbirciata e senza cercare gli occhi di nessuno e senza fare commenti, quasi un’apatica indifferenza mortificasse la loro volontà. Constatavano, e serravano le mascelle, in silenzio, gli alpini che li avevano mandati fin là a fare la guerra. Altre scoperte di grande interesse li avrebbero attesi più avanti, lo comprendevano senza che nessuno glielo dovesse spiegare … La parte più interna della città era spaziosa e accogliente. Faceva dimenticare i villaggi grigi e disadorni, la Russia, le cimici e i pidocchi, e tutto quanto in resto. Almeno per un momento. C’erano i lampioni per le strade, e c’erano i giardinetti e viali alberati, spaziosi e allegri. La gente, anche se un po’ infagottata – gli uomini, in ispecie, dentro certe enormi e untuose giacche a trapunta, nonostante la stagione – aveva qualcosa di meno timido, di più cittadino. Molte donne vendevano semi di girasole, ne avevano pieni dei sacchettini di tela bianca.

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C’erano anche dei bei palazzi in muratura, all’occidentale, tutti bianchi e puliti come se li avessero intonacati allora allora, di fresco. Certo, non si sarebbe detto che quello era il centro di un bacino minerario ricco a milioni di tonnellate di carbone. La fantasia lo avrebbe immaginato nero e tetro e fumoso. A un crocicchio c’era un monumento, davanti all’ univermag, il magazzino per tutti, una specie di “rinascente” o di “upim”, con la differenza che là dentro vendevano soprattutto generi alimentari e ben poco d’altro (almeno finché era stato in funzione). Il monumento era il solito dedicato a Lenin, e della statua gli hitleriani non avevano lasciato traccia. Avevano anche tentato di strappar via le quattro falci e martello che erano alla base del piedestallo. Ma la costruzione era stata fatta con materiale troppo solido, e così avevano desistito, dopo aver reso un po’ sbilenco uno degli emblemi. In una grande piazza, al centro della città, sorgeva un teatro. Era il primo che gli alpini incontravano. Come era la prima volta che vedevano le fontanelle pubbliche per le strade e la gente vendere e comprare qualcosa, sia pure semi di girasole soltanto, in una specie di mercato. Gli abitanti guardarono passare la colonna col più grande riserbo, come se si trattasse di uno spettacolo che non li toccasse par nulla da vicino. C’era soltanto un panciolini, piccolo e tondo, che si agitava parlando concitatamente con un maestoso vecchio, dalla barba candidissima e patriarcale. Chi sa mai cosa si raccontavano … Gli alpini erano accantonati da poche decine di minuti in un edificio che sembrava essere stato una scuola, quando l’attendente di Andrea, che era andato in cerca di acqua (era periferia, e non aveva trovato fontanelle), tornò indietro trionfante, con le borracce piene e con un cartello di legno in mano. -Sciûr tenent, ch’el varda quel che c’è scritto, qua sopra. Ce n’erano anche degli altri, così. Ma io non ci capisco niente … MINE, c’era scritto, in carattere cirillico. Lui l’aveva strappato in un fraticello dov’era andato per certe sue faccende personali. L’aveva scampata bella, l’imprudente! Ottenuta la traduzione, il buon Giacomo si sbiancò in viso ed ebbe l’impressione di aver ricevuto un violento pugno allo stomaco. Ristette là, istupidito, con gli occhi sbarrati. CXXIII Camminarono ancora, gli alpini, fino a Lugansk, la città intitolata a Woroscilow. Una città-fungaia, di quelle sorte di corsa, nello spazio di pochi anni. Una città che aveva anche i suoi bravi viali e le sue strade asfaltate, con palazzi moderni e parecchie sedi universitarie. Si distendeva per chilometri e chilometri di sobborghi, fatta essenzialmente di molte migliaia di isbe e di decine e decine di case operaie.

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A non molta distanza di lì, una trentine di chilometri, gli alpini ebbero la possibilità di rendersi conto personalmente della spaventosa immensità di uno stabilimento siderurgico. Sorgeva nei pressi di Uspenskoje, ed era qualcosa di spettacoloso. Da restare a bocca aperta, davanti a una manifestazione di forza come quella. Chilometri di edifici. Chilometri di tubazioni metalliche delle più svariate dimensioni. Migliaia di metri cubi di materiale di ogni specie. Quegli impianti, dal punto di vista tecnico, potevano rappresentare un traguardo ben invidiabile. Eppure, là era tutto a catafascio. È l’uomo, il nemico eterno e insopprimibile. L’uomo, questa entità ridicola e spietata, che vive per annientare l’altro uomo, quello col quale ritiene di dover fare un giorno i conti. È una manifestazione miserevole di debolezza, più che di forza, questa della bestialità umana così sordida e incancrenita. “Viva la pace!” – si sbracciavano a gridare tutti. E, intanto, non sanno fare di meglio che prepararsi serratamente a fare la guerra. Se non si diventa sinceri e onesti, non c’è niente da fare, da qualsiasi parte ci si volga e qualsiasi simbolo si intenda agitare. I muri erano tutti dritti in piedi e intatti, ma uno spettacolo di rovina accasciante e di silenzio teneva, adesso, il posto di quella che, là dentro, doveva essere stata un’attività ben fervida e rumorosa. I tubi guardavano con stupore quei soldati che passavano alzando i piedi per non sbatterli contro i binari, contro i cumuli dei detriti, contro i residui di ogni specie che erano disseminati a grovigli un po’ dappertutto. Gli alpini camminavano col naso all’aria, verso gli squarci di quei mastodontici gomiti metallici, verso quelle incastellature che svettavano poderose e inutili. Osservavano con la gola secca e con occhiate incerte e un po’ furtive. Con soggezione. Un giorno, ne avrebbero avute delle cose da raccontare, se tornassero … Pani di ghisa. Cumuli di materiale grezzo. La torre di una miniera di carbone, con la solita montagnola conica di detriti e l’immancabile vagoncino rovesciato. Cataste di lamiere spesse un dito e anche di più. Carrelli mobili. Putrelle. Rotaie. Industria pesante sciorinata sull’erba. La solita automobile della WL, con le gambe all’aria. Parti di motori. Bulloni. Una mitragliatrice distrutta dal fuoco. Volate di cannoni. Pani di ghisa e di acciaio. Formelle. Lingotti. Fusi. Proiettili. A centinaia di migliaia di quintali. E il silenzio cupo dell’abbandono. Le lucertole ci camminavano sopra, stavano ad ascoltare il sole. Attira il sole, il metallo. La massa di un grosso trattore rovesciato sembrava voler sbarrare il passo. Perdeva ancora delle gocciole di olio denso, dalla pancia sventrata e nerastra. L’erba, sotto, ne aveva una gran macchia scura e grassa. E loro andavano avanti incontro al fronte, gli alpini. E si sentivano paurosamente umili e ridicoli, al cospetto di tutto quello che continuavano a vedere, loro, con quel povero fucilone lungo lungo e con la baionetta che sbatteva, camminando, contro il deretano.

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C’era poco da far guerra, con quelle armi là, neanche ad avercene la voglia più sfrenata. CXXIV A Woroscilowgrad li attendeva un nuovo colpo di naia. Il decisivo. Quando incomincia, è così. Pare che sia uno scherzo, ma non la finisce più, uno, di perseguitarlo la scarogna. E dire scarogna è dire poco. Non lasciarono loro neanche il tempo di riprendere fiato. La nuova stangata gliela scaraventarono tra capo e collo con una furia veramente poco cristiana. Fu già un vero regalo che li lasciassero dormire tutta la notte, fino alle prime luci dell’alba … Poi, li caricarono sugli autocarri. Il fronte reclamava la loro presenza con la massima premura. Eh già, qualcuno aveva messo in movimento la fornace, e adesso scopriva che il combustibile rischiava di scarseggiare. Ci andassero gli alpini, a farsi ingoiare … Cosa supponevano, di essere stati mandati fin là per una passeggiata? Carne da macero. Sotto di volata, a calci in culo. Ce li portavano addirittura in camion. Guarda che piacere, loro che si lamentavano sempre di dover camminare troppo a piedi … Incominciò una solfa nuova e traballante, su quell’infamia polverosa delle piste (ma le vere strade, dov’erano?). I salti erano tanti e poi tanti, che pareva un’autentica altalena, o un toboga: una gimcana gigantesca, lunga chi sa mai quanti chilometri. Stipati sulle panche, poggiati pesantemente l’uno addosso all’altro; c’era una polvere infernale, che entrava a folate, dappertutto. Altro che quella di prima, quando andavano a piedi: è come paragonare un principiante ai suoi inizi con chi è patentato, e il suo mestiere li conosce fino in fondo, in tutte le più curiose e avvelenate sfumature. La polvere veniva su senza intermissioni, dalle ruote di decine e decine di autocarri. Ne avevano tutti addosso una patina spessa e greve. A stare un momento senza il cappello in testa, uno pareva diventato canuto, come per incanto. Non avevano neanche più il tempo e la voglia, gli alpini, di indugiare con l’occhio sulle vecchie scorie rancide e sdrucite che andavano sorpassando. Non avevano neanche il modo di rendersi conto dell’attrezzatura meccanica che i cholchoz avevano a disposizione: trattori, aratri, erpici, seminatrici, trebbiatrici, macchine gigantesche certune, che al contadino dovevano indubbiamente risparmiare una bella porzione di fatica, e che di lavoro ne dovevano fare parecchio. L’autocolonna, a spirali ampie su di una strada che era uno spessore incredibile di sabbia impalpabile e caldissima, scese in riva a un grande fiume, ad un fiume vero, il primo che incontravano da quando avevano ripreso lo zaino sulle spalle: il Donez. Lo traversarono sopra un ponte montato sui barconi e pavesato di bandiere tricolori: facevano uno strano effetto, in quel luogo, le bandiere italiane … Quindi superarono una ferrovia e si buttarono dentro in una specie di deserto sabbioso, interrotto soltanto da qualche cespuglio smilzo.

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La polvere faceva dolorare gli occhi degli autisti e penetrava anche nelle cabine, che pure erano chiuse ermeticamente. I sobbalzi erano paurosi e frenetici. Altro che far saltare le balestre, a quei poveri camions! Dovevano essere proprio ottime, non buone solamente: se no, sarebbero state sgretolate. Si viaggiava in una nube bianca e calda, irrespirabile e odorosa di benzina. Da vomitare l’anima, con quella roba acre su per le narici. Era impossibile vedere più in là di qualche metro, e c’era in continuazione il pericolo di andare a sbattere nel didietro dell’autocarro che si seguiva. Chi sa mai se si era sulla pista o fuori di essa? Impossibile accertarsene. Si intravedeva soltanto quella massa scura che ballonzolava davanti: il posteriore di un altro camion. Beh, in qualche posto si finirebbe. Tanto è quasi lo stesso … Andare giù da un ciglio o in linea o dentro per la steppa è la stessa cosa. Non c’era strada e non c’erano paracarri ad indicarla. Tutt’al più si sconfinerebbe nella pianura o, altrimenti, al primo rudimentale ponticello su di una balka, infilandolo malamente, si rovescerebbe la baracca a gambe all’aria. Facevano male i polsi, agli autisti, oltre che gli occhi. E anche il deretano doleva, a furia di star seduti senza poter fare il più piccolo movimento di sollievo. Le gambe si erano rattrappite per conto proprio. Potevano tagliarle e portargliele via, come se non appartenessero a loro. Non se ne renderebbero neppure conto. Una cosa massacrante, da abbrutire completamente. Poter evadere, di là! L’avrebbero fatto senza esitare un istante … Erano condannati a camminare rombando per chi sa quanti chilometri: e, in fondo, non troverebbero proprio niente che ne valesse la pena. È un buco irragionevole, certe volte, l’esistenza. Ci si deambula dentro, aggrappati non si sa neppure a che cosa, storditi e balordi per lo stupore, ogni mattina, di trovarsi ancora vivi e al tiro della solita barcaccia che continua a fare acqua e non affonda mai. CXXV L’autocolonna, procedendo nella steppa, faceva degli incontri poco raccomandabili e attraenti. Ritornavano indietro, nell’opposta direzione, autolettighe cariche di povera umanità insanguinata. Dapprima incontrarono le autoambulanze regolari, quelle di dotazione. Poi, dei furgoni adattati con un arredamento un po’ sommario e di fortuna. Più avanti, erano soltanto dei camions, privi di qualsiasi attrezzatura sanitaria. Si vedeva che il calderone bolliva forte, là dove stavano mandandoci gli alpini. Per Dio santo, ma venissero qui, a vedere quello che succedeva, quei folli che li avevano mandati loro, quei soldati, a rimetterci la ghirba! Venissero qui, che li spedirebbero loro in avanti, a capire com’era la suonata; loro, e in ispecie quel grifagno maiale coi baffetti arcigni e il viso scialbo e impassibile. Ne avevano sulla coscienza, quelli là, di gente non colpevole. E non era per certo ancora finita, la catastrofe.

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A Millerowo, dove sostarono tutta la notte dormendo come dei disgraziati sugli autocarri, ne videro passare numerosi altri, di quei furgoni lugubri. Uno si fermò per qualche minuto, in cerca di acqua da dar da bere ai feriti. Per uno di quegli sventurati, un bersagliere, c’era più poco da durare. Era disteso sul fondo del cassone, insieme a tanti altri che si lamentavano. Gemeva a intermittenza, con fatica. Forse non sarebbe neppure arrivato alla prossima tappa. Non aveva più neanche una gamba, e le fasciature affrettate e con troppo poca garza erano intrise di sangue scuro, che colava giù e si spandeva enormemente sul pavimento. Si era strappata tutta la camicia, sul petto, e se l’era unghiato a più riprese. C’erano le tracce delle graffiature sanguinolente. Respirava stentatamente e straparlava: -L’è bestiale, Gilda. Tu non puoi capire.- Ansimava forte, sillabando le parole: -Già … uh uh, già … si-gnor-no. Sa-vooo-iia. L’è … uun … bel di-re … Sa-aa-vo-ia. Spa-ra-noo … No! No! Gii-ll-da, ti a-aamo. Spa-rrano … Schiff … Faceva andare la testa e sbarrava gli occhi, esausto, senza vedere più nulla. Era giunto al momento delle confessioni, e l’aveva fors’anche già superato. Perdeva bava, e una striatura sanguigna gli veniva giù da un angolo della bocca. Una macchia schifosa e impressionante, quel sangue grumoso sul viso pallidissimo, slavato come un cencio. Era giunto in fondo, quello. Gli fecero penetrare qualche goccia d’acqua fra le labbra. Sbarrò gli occhi come prima, quando delirava, e sbattè le palpebre come se fosse colto da uno stupore primitivo. Sulle labbra gli si formarono delle piccole bolle, intanto che mormorava: -Non ce n’ho coo-lpa … io … Le braccia gli penzolavano giù, come se fosse già andato. Boccheggiava, ormai. Andrea avrebbe ben voluto non averla vista, una cosa del genere; ma, ormai, era fatta. Quel rigo di sangue all’orlo della bocca, quelle parole smozzicate, come soffiate fuori con l’ultimo fiato, quelle gambe tagliate via, non gli sarebbero scomparse tanto presto dagli occhi. Se ne ricorderebbe per un pezzo … S’allontanò disgustato, con in corpo un’emozione che non aveva mai provata prima. Gli faceva male allo stomaco e alla pancia, come se avesse preso una violenta purga e dovesse precipitarsi al gabinetto; e tutto gli sobbalzava dentro per il bisogno di vomitare. Gli altri feriti, sull’autocarro, non si erano neanche accorti di lui. Puzzavano tutti intensamente di sudore, di polvere, di piscio, di sangue. Avevano i loro tormenti per conto proprio: doppia razione, tripla. E la giunta. Ce n’era uno che seguitava a sputar fuori una saliva liquida e bavosa. Se n’era già riempito il davanti della giubba, ma continuava lo stesso. Tanto, più lurido e sozzo di così, il ciarpame che aveva indosso non lo potrebbe certo far diventare … Un fante, che aveva una gran fasciatura alla testa, allungando una mano a grattarsi, disse con voce remota a quello che gli stava porgendo la borraccia dell’acqua: -Che roba. Che roba … un vero inferno …

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Come facevano, le donne, ad accostarsi ad uno spettacolo così? Ci vuole un coraggio formidabile e uno stomaco di struzzo, per fare le crocerossine. È un eroismo vero, in certi casi … Là, là a vederli certi spettacoli! Intanto che uno ci va dritto incontro, incontro a una sorte precisa, quella di far arrostire la propria pelle … Per quanto uno possa essere ipocrita, non ha proprio più niente da simulare, allora, neanche con se stesso. Si trova a nudo. A nudo, con la sua miseria e con quella degli altri. E tante altre cose capisce, che prima gli erano così difficili o ambigue. Li trova subito gli errori, dove ci sono. Li individua con precisione e senza misericordia. Non ci ricadrà più, neppure se campasse cento secoli. E la promessa, una delle poche, è sincera. Sono le paure e le constatazioni più crudeli e disperate, quelle che fanno bene, tante volte. A uno, spalancano gli occhi, di colpo: anche se lo atterriscono e gli fanno orrore, tremende come sono. Forse, per questo appunto. In un attimo si sconta e si espia tutta un’esistenza. Si misura di che insufficienza uno è impastato. Dalla piega dei pantaloni al ventre al cervello. Tutto. Non si va più a caccia delle attenuanti. CXXVI Viaggiarono ancora, sugli autocarri, per tutta la giornata e buona parte della notte. Sembrava che l’oscurità fosse un po’ illuminata da quel polverone rombante e puzzolente. Gli alpini dormivano dentro nei cassoni, buttati giù tra una panca e l’altra, sul pavimento. Era proprio che avevano le ossa rotte e gli occhi che si chiudevano da soli, per potersi addormentare in quelle condizioni disastrose. Là, stanchi morti, con lo zaino sotto la testa, o soltanto la giubba piegata e ripiegata, e il cappello. Povero cappello, del quale erano pure stati così fieri! “El capel del vecio”, è una cosa sacra e inesprimibile, il significato che ha. Adesso era anch’esso lì, come uno straccio polveroso che si avvia al macero. Ogni tanto, gli scossoni e gli sbalzi più indecenti facevano sbattere a qualcuno la testa o qualche altra parte del corpo. Pareva, a tratti, che fossero nel vortice di una danza imbrogliata e sconcertante, senza né capo né coda, che spingeva su dal sottosuolo il cassone e, non appena quello ricadeva, lo tornasse a proiettare verso l’alto. Uno sballottamento infame, da rovesciarne di intestini vigorosi … Nonostante questo, gli alpini si erano arrangiati a masticare la loro galletta – anche se qualche volta i denti perdevano i colpi – e ad ingoiare la carne della scatoletta; e avevano pur dovuto provvedere, in qualche modo, ai loro bisogni corporali. Il che, con quegli scossoni rudi e imprevisti, avrebbe anche potuto avere serie conseguenze: roba da finire sulla polvere della pista, con la certezza assoluta di essere presi sotto dal camion che c’era subito dietro e che non avrebbe avuto la possibilità di accorgersi in tempo di quanto stava capitando. Dormivano tutti, quando il movimento ebbe tregua. Non se ne resero neanche conto. Furono svegliati alla prima luce.

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Saltarono giù, con le armi e lo zaino. Si incolonnarono. Li condussero dentro a una specie di avvallamento paludoso, dove crescevano, oltre alle canne, alcuni stitici alberelli. Stessero là, tranquilli, gli alpini. Dalla loro sinistra giungeva, a intermittenze, la voce lontana del cannone. Altri feriti tornavano indietro, passando per il sentiero che costeggiava lo stagno. Chiedevano agli alpini, ignari, dove fosse l’ospedaletto. Più di uno era ancora tremante, per l’emozione, la fifa e il dolore. Tutto insieme. Inzaccherati, e col viso verde e alterato. A uno al quale chiesero come andasse la “faccenda” più avanti, nel rispondere spezzettato che fece, sbattevano le mascelle come ci fosse dentro un meccanismo con una molla. Quello, oltre che da uno squarcio in un braccio, era sicuramente sconvolto da una colica di prima forza. Era evidente al primo sguardo. Non rinfrancava mica tanto, tutto questo, perché ciascuno tiene in gran conto la propria esistenza: ed è del resto dimostrato che soltanto chi ha la vita in gran considerazione è, del caso, nella condizione di consumarla con qualche vantaggio per sé e per gli altri … I suicidi per istinto hanno sempre qualche rotella piuttosto svitata. Gli alpini avevano indosso uno spessore considerevole di polvere, ma pochi pensavano a lavarsi, tanto più che l’acqua dello stagno aveva un colore di fondo di caffè, davvero poco attraente. Non lo sapevano ancora – o fingevano di ignorarlo – che ne avrebbero bevuta avidamente, in seguito, anche della più sudicia! I più si buttarono giù, sulla rugiada fresca e abbondante, a continuare la dormita interrotta. Può succedere che il bisogno di dormire sia più forte che non quello di vivere. Intanto, qualcosa stava maturando. Se ne avvidero subito, perché nessun ufficiale si occupava di loro, nessuno veniva a rompere le scatole o a dire qualcosa. Avevano altro da fare, gli ufficiali; altre cose per la testa, altro che “sgonfiare” gli alpini! Al comando c’era un’eccitazione febbrile. Il motociclista, povero diavolo ancora tutto intontito per le stangate dalla “camionata”, era in perpetuo movimento. Aveva la testa pesante come un macigno, che gli ciondolava sul petto tutte le volte che stava fermo per un momento; per fortuna, ci sono i nervi che lavorano da soli … Il capitano Remondini gli faceva animo tutte le volte che gli arrivava vicino, promettendogli che gli darebbe lui una buona sorsata di cognac, “non adesso, però, perché allora non ti sveglieresti più”. Anche i portaordini a piedi scattavano forte. Passarono degli ufficiali e dei sergenti a svegliare una parte di quegli alpini addormentati. Avanti, in silenzio! Una lunga fila grigia serpeggiante ai margini delle canne. Tanti grilli che rintronavano addirittura. Un rospo che saltava nell’acqua. Negli uomini, una stanchezza indescrivibile e accasciante. Che consista in questo, la guerra, nel non lasciarlo dormire, uno? Per adesso, sì. Pazientassero. Verrebbe anche il resto. Una cosa per volta. Li portarono in un campo di girasoli, sul dorso di una collina bassa bassa. Misero in azione gli apparati ottici da segnalazione. Chi lo poteva fare si prendesse pure un’altra rata di sonno …

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Capivano tutti, confusamente, che stava per succedere davvero qualcosa di grosso. Ma non importava più niente. Sia quel che sia. Ormai non erano più in grado di reagire a nessuna novità. -Sembra che siamo di rincalzo, sembra. -Lasciami dormire, Aldo. -Stanotte passiamo in linea, e domattina … dentro! -Ma no, c’è un’azione in corso, possiamo andar su da un momento all’altro … -Uff, vi ho già detto di lasciarmi in pace. È lo stesso. Ho sonno … -Anch’io. Buona notte … Per quel che ne sa Andrea, pare che sia proprio così: azione combinata coi bersaglieri. Gli alpini saranno sostenuti dai carri armati, quei giocattolini arrivati di fresco dall’Italia, ancora verniciati di giallo, perché li dovevano mandare a far la guerra in Africa. Quei cosi là? Si sono accorti che erano troppo leggeri e fragili, e allora li hanno mandati qui, come se qui non ci fossero armi capaci di mettere fuori uso quei piccoli arnesi fragorosi, che lasciano indietro un fumo azzurro e così puzzolente … -Dio, che testa vuota! Dunque, diceva, signor maggiore? Ah sì … -Ma, sta dormendo, lei? Abbiamo tutti sonno, ma adesso dobbiamo resistere ancora … -Sì, signor Maggiore, la seguo. Ordini. Contrordini. Ordini nuovi un’altra volta. Altra pausa. Varianti. Assicurazioni scritte. Telefono. No signore, non siamo in condizioni fisiche da poter stare in piedi. Sì. Come? Sta bene. No. Come dice? Sì sì. Un momento … Sì, preso nota. Va bene. Attendo conferma scritta. Sì, intanto raduno tutti, pronti. Sta bene, sì, sissignore … L’azione non la si fa. Si attendono notizie da “su”. La si farà domani. Altro gracchio del telefono. Altra conversazione serrata. Si affaccia il viso impastato di polvere di un motociclista. Il breve foglietto è prezioso. Telefono. Portaordini. Segnalazioni a mano. L’azione non la si fa più davvero. È rimandata. La fanno altri. Tocca ad un altro reparto. Volevo pur dire, io. Richiamarli indietro, quegli alpini, indietro immediatamente. Altri ordini. Trasferirsi immediatamente a X … No. Aspettare. Chi lo sa? Aspettare. Verranno disposizioni nuove. Il trasferimento è deciso. Attendere ordini, per il movimento. Il sonno interrotto un’altra volta. Nuova sosta e nuovo appisola mento in riva alle canne. Nuove manovre di segnalazione. Nuove telefonate e nuove corse dei portaordini. Che cotta, oggi! La guerra è fatta così. Altro allarme. Tenersi pronti un’altra volta. Snervante. Non se ne fa nulla ancora. È cosa difficile e laboriosa, impostare un’azione in questa pianura, senza neanche sapere bene quello che c’è di fronte. Senza neanche sapere bene se le disposizioni le stanno dando gli italiani o i tedeschi. Il capitano Remondini sente, osserva, scrive, risponde, sbircia il viso assonnato di Andrea, e intanto rosicchia matite. Ne ha già fatte fuori quattro: appena ne finisce

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una, la butta via; e ne attacca un’altra. Senza indugio. Le rode meticolosamente: hanno un sapore che gli placa il sistema nervoso e lo aiuta a pensare. Ne ha portata dall’Italia una scorta di alcune dozzine, si conosce bene, lui. Ne ha comperato un blocco, lapis da pochi soldi l’uno, di legno molle e dolciastro, quelli che vendono i ciarlatani sul mercato. Gli ultimi ordini, finalmente, vanno d’accordo. È stato deciso il cambiamento del settore operativo. Altro balzo notturno in autocarro. Altra attesa snervante, ma qui non ci sono più azioni in corso, c’è solo da dare l’avvicendamento alla linea, e da stabilizzarla. Un giorno. Due giorni. Si può dormire. Si può anche far cuocere il rancio. Ci si può anche sdraiare sotto la tenda. Stanotte si va in linea. È decisa per davvero, stavolta. Ma la linea è ferma, calma, zitta. Meglio così … Il comandante parla ai suoi soldati, nel buio della notte appena scesa. È meglio che sia un po’ scuro, uno non lo vedono in viso, se è commosso o no; e non si vedono neanche fra di loro. Non fa della politica, lui, e non è neppure di quelli che credano nelle stellette come in divinità infallibili. È un uomo, semplicemente, è come un buon padre che parla ai suoi figlioli: “ … perché io vi sento e vi considero miei figli tutti quanti, dal primo all’ultimo, e per tutti sono parimenti ansioso … “ e che li incita a fare serenamente il loro dovere, ma con la speranza e l’augurio fervido che la mano di Dio li salvi tutti quanti e che nessuno di loro debba restare per strada. Evita accuratamente le parolone, quelle roboanti, che riempiono la bocca ma non dicono mai niente al cuore. E lui il cuore ce l’ha; e questo cuore chiede che nessuno gli dia il dispiacere di morire. Parole oneste, che colano giù nella mente attonita degli alpini e occupano almeno una piccola porzione di quel vuoto allarmante che c’è dentro, sospesi come sono di fronte alla morte e al cospetto dell’ignoto. Belle parole, ma in questa landa sconsolata non c’è neanche un sasso da ripararcisi dietro, a pagarlo un milione. Tutta terra, disperatamente. È anche troppo facile che uno lo peschino e lo facciano pulito: la terra non diverrebbe se non un sepolcreto. CXXVII Pochi chilometri, da superarsi in un buio pesto e denso. Un silenzio prezioso e ostile, intanto che ogni fibra è tesa fino a spezzarsi. Qualche sparo isolato, che va di volta in volta facendosi più vicino e sempre più distinto. Schiocchi che si ripercuotono sinistramente nelle orecchie, come frustate brusche che zufolino a due centimetri dal naso. Se fosse possibile, ci sarebbe da togliere anche gli scarponi, pur di non far rumore e di non farsi sentire. L’operazione del cambio è una cosa delicatissima e pericolosa: è il momento più difficile e critico. Tutta la zona che attraversano, allo scoperto, può essere battuta, a un tratto, dai cannoni e dai mortai. Con un terreno come questo, magari anche dalle armi a tiro teso.

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Col fiato sospeso e maledicendo quel doversi muovere nell’oscurità impenetrabile – che pure era lo schermo sicuro della loro salvezza – la faccenda fu condotta a termine molto bene, in un tempo relativamente breve, e almeno una parte degli alpini potè anche dormire il resto della notte sulle nuove postazioni. C’era una balka, abbastanza sicura e riparata, e c’erano già anche delle buche rudimentali. Si distesero là, con la luce delle stelle a tener compagnia. Oh, non la si sente mica l’umidità e la durezza del terreno, quando si è tanto stanchi e si può dormire! Il giorno dopo avrebbero cominciata la sistemazione. Si inizierebbe a lavorare di pala e di piccone. Andrebbe bene anche la piccozza, in questa terra tanto dura, che c’è da spaccarsi la pelle delle mani, a doverla scavare. CXXVIII I camminamenti si vanno approfondendo. E le trincee anche. Tutti sterratori, gli alpini si preparano la loro buca sotterranea. Se arriverà giù una gragnuola di colpi di mortaio, potrebbe magari diventare una tomba. Ma fa niente. Non ci si pensa, a certe eventualità. Sarebbe inutile e di malaugurio, per di più. Dalla parte opposta, forse l’hanno compreso, che gli alpini non ce n’han colpa; o pensano che è meglio starsene cheti, e così stanno tranquilli. Anche gli alpini evitano di dare fastidi non indispensabili. Chi sa se si dimenticheranno, tutti, di sparare ancora? Mangiare una brodaglia puzzolente e scarsa, dove navigano malinconicamente quattro tubi di pasta. Una brodaglia biancastra per tutto lo scuotimento a dorso di mulo dentro nelle casse di cottura. Scavare la terra di giorno, e la notte spaccarsi gli occhi per tentar di penetrare nell’oscurità di questa pianura. La guerra è diventata tutto questo. Quanto saran lontani, gli altri? È un problema che si può risolvere solo dall’alto, con l’osservazione aerea. Qualche sparo, ogni tanto, scappa fuori a una sentinella innervosita o distratta, seguito a volte da un fioccare furibondo di bombe a mano. Paura? Ombre che si muovono? Rumore? Abbagli. Tutto lì. Ben pochi di notte sanno con assoluta precisione perché sparino. È solamente perché sentono e vedono gli altri fare altrettanto. Le armi automatiche intervengono a gracchiare sinistramente qualche caricatore: Ta-ta-ta-ta. Ta-ta-ta-ta. Ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta. Tac. Puum … Silenzio. Altri squarci vividi e fosforescenti, nella notte. Un rincorrersi furioso di proiettili traccianti. Fuoco d’artificio della linea. Hanno ben diritto di divertirsi un po’ anche loro, queste formiche della terra, che le han sbattute tanto lontano dal loro nido! “Pum, pum, pum”. Si saprà, poi, perché si è sparato? Così, forse per cacciar via la malinconia, un brivido nella schiena, la rabbia. M’era parso di sentir muovere qualcosa, là nei girasoli. Ma non c’è niente. Un rancio pessimo e scarso, almeno per i primi giorni. Ci si vive molto male. E, allora, si va a caccia di frumento, e lo si pesta in un elmetto con l’impugnatura della baionetta; o, altrimenti, con l’ausilio di una di quelle macine rudimentali e

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preistoriche che sono state abbandonate dagli abitanti nelle casupole del vicino villaggio. Sono tutte vuote, quelle isbe; e piene di porcherie maleodoranti e di ciarpame. Le si demolisce un pezzo per volta, una tavola, una trave, un’altra tavola. In qualcuna arrivano dentro le cannonate russe, e allora ci salta fuori un bel rogo. Non resta che un mucchietto di cenere, con qualche traccia di calcinaccio e di travi carbonizzate. Gli alpini vanno anche a caccia di patate. Ce ne sono dei campi interi, non le può raccogliere la gente che non c’è. E loro hanno fame. E vanno per zucche. I portaordini sono privilegiati perché, con la scusa che sono stati mandati in qualche posto, possono fare provvista. Però, nessuno li invidia: da un momento all’altro, può capitare di vedersela brutta, a quelli lì … Gavettate di patate bollite e, con quel grano frantumato in qualche modo, si cuoce una specie di polenta integrale e stranissima, con dentro crusca e tutto. Cosa importa, se manca il sale? Per una volta, si può ben fare senza; dopo, per mezzo di qualcuno che lo conosca, si manderà a pregare il cuciniere, che ne mandi su un pizzico. È mio amico, il cuoco. Un po’ di sale; e un po’ di caffè e di zucchero, se appena può. Del pane, anche … È meglio della manna. Il resto della giornata lo si trascorre aspettando la posta. O si scrive. Si scrive finché si hanno cartoline e biglietti in franchigia. Qualcuno – ma non in linea – ne ha a centinaia. Ha carta e buste e inchiostro. E può avere i francobolli, per la posta aerea. Sono fortunate solo le canaglie … Si fuma. È un po’ troppo poco, cinque sigarette al giorno. Si scrive a casa, e alla ragazza, che ne mandino, di sigarette, almeno due per lettera. Le lasciano arrivare. Si lascia crescere la barba, fino a quando non diventa un po’ ispida; e allora ci si cava il gusto di raderla e di rimirarsi, poi, in un cantuccio di specchio. È un vero gusto, ridà stima a se stessi, il carezzarsi la pelle ridiventata liscia e morbida … Si gioca a carte. Partite accanitissime e interminabili. Il mazzo nuovo è diventato unto in un momento. È incredibile come diventa spesso e patinoso, con un odore acre e cattivo. Cresce di statura ogni giorno. Si gioca la deca. Gli ufficiali, la mesata. A poker giocano, loro. È il gioco di classe, il più bello del mondo … Vincono. Perdono. Se lo scambiano in continuazione ancor prima che arrivi, lo stipendio. Lo maledicono. Lo stipendio, e chi glielo dà. La sera, dentro nel buco si recita il Rosario. Non è questione di bigotteria: è questione che con la solitudine di ciascuno di fronte a se stesso e con l’imminenza della catastrofe, a uno ritorna la religione, e anche ritornano altre cose del genere, che prima se l’era magari dimenticate quasi del tutto. Sono pochi, che fanno eccezione. Recitano con voce bassa e all’oscuro – tutt’al più con una scatoletta piegata a becco sull’orlo superiore e che, piena di un olio qualsiasi, manda fuori da uno stoppino di fortuna una fiammella giallastra e fumosa – come raccontano che facessero, un tempo, i primi cristiani nelle catacombe. Quelli, però, avevano uno scopo per morire e diventare, poi, dei “martiri”. Noi alpini no, invece. Noi siamo qui, sottoterra, a pregare, ma a pregare per aver salva la pelle, e non ci siamo venuti di nostra spontanea volontà. C’è una bella differenza.

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Oh, la gioia di un materasso e di un lenzuolo! La meraviglia di un piatto pieno di risotto, di un abito borghese e di una lampadina elettrica! Saranno cose ancora possibili, per noi? CXXIX L’irrequietezza e l’irritazione a poco a poco si andarono smorzando in tutti quanti. Sparirono. Tutte le cose, a un certo punto, hanno la loro fina. Si gira la pagina, e magari si scopre che il periodo termina subito, alla prima riga. È meraviglioso, quando non è così. Troppo bello. È stupefacente come uno fa in fretta ad adattarsi, come si attacca disperatamente a qualsiasi rampino, a qualsiasi appiglio che gli permetta in qualche modo di tirare avanti … Andrea, per conto suo, si sentiva dentro, invece, solo più un senso di tediosa sopportazione e di stanchezza, che non si curava neppure di dissimulare, né e se stesso né agli altri. Non era ancora giunto al punto di evitare la compagnia dei suoi colleghi, ma neppure li andava a ricercare. Non gli servivano. È possibilissimo, per più individui, vivere in comune in uno spazio di pochi metri cubi, e non conoscersi minimamente; e neanche venir loro la voglia di approfondire i loro rapporti. Lui, Andrea, viveva più che mai estraneo a tutti quanti. Viveva al loro margine. E gli altri, al suo. Ciascuno ha i suoi confini e, se non lo vuole lui, nessuno riuscirà mai a varcarli. Aveva scoperto, Andrea, che contro i suoi confini personali – così veri e reali anche se invisibili – solamente poche persone erano venute a sbattere qualche volta, ma che non era mai riuscito a nessuno di superarli decisamente e di penetrarvi in profondità. No, non era più, lui, l’impiegato meticoloso, sereno e privo di problemi interiori. Lui, che si sentiva dire un tempo di essere limpido e trasparente come un bicchiere d’acqua … Era diventato qualcosa di molto, molto complesso. Per quanto riguardava le donne della sua vita, Luci c’era arrivata meno di tutti quanti, a quelle sue sbarre invisibili. Succedeva che ci girasse d’attorno, curiosando, stando a cincischiare; ma non era mai venuta neanche a chiedere permesso. Le sue lettere erano sempre meno intelligenti, in questo senso; passavano al largo ogni volta di più. Sembrava che avesse paura di scoprire qualcosa che la spaventasse, e parlava come fosse su di un altro pianeta, al sicuro da lui. E lui da lei, comunque … La Gisa era quella, invece, che vi bussava più spesso. Le succedeva, a volte, di aprirsi anche qualche piccolo spiraglio. Poi si tirava subito indietro. Pareva, a lei, di aver sbagliato direzione e porta; richiudeva, chiedendo scusa sottovoce. Era tutto così scuro e impenetrabile, là dentro, che lei non trovava alcuna sicura via di entrata, alcun filo conduttore capace di guidarla in qualche posto. Forse, c’era solamente del terreno franoso, senza nessuna certezza alla quale sostenersi. Sembrava così, anche se forse non lo era.

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E da lontano, e con la censura di mezzo, e per lettera comunque non sono cose che possano essere chiarite. Il suo filo conduttore, Andrea lo conosceva solamente lui. Nonostante la cortese apparenza dei suoi modi e la cordialità esteriore dei suoi rapporti col prossimo, c’era ormai, là dentro, una tale indifferenza per tutto quanto, che doveva essere ben ben vicina allo stato di grazia. Un’indifferenza e un disinteresse tuttavia accorati, che erano andati sempre più sviluppandosi, quanto più egli si era andato inoltrando per quella strada. Di ragioni perché fosse così, ne aveva a migliaia; non si potevano più contare. Le loro origini erano remore, e gli accostamenti avvenivano in modo misterioso. Nascevano chi sa dove, e passavano per una scia contorta e penosa, piena di schiuma sporca e di rigurgiti, e illuminata qua e là da un lievissimo sorriso. Era contrassegnata da tanti segni che erano rimasti là: le unghie laccate della Nice, una manifestazione di piazza, l’odore dei capelli della Nerina, un titolo di giornale, un mughetto che dondolava, l’ultimo abbraccio della moglie, gli occhi ridenti di Luigino, tante immagini del Cascinone, un cranio spappolato contro una rotaia, un’ebrea nella penombra, la stretta di mano del maggiore, lo sguardo acceso di Natacha, un suono di chitarra, un canto di chiesa, le vecchie donne disseminate lungo la steppa, il filo di sangue del bersagliere sconosciuto, le metamorfosi di Zonchi, il pisolino in una poltrona … Perché non ci si vuol bene, a questo mondo? Tanti segni. Infiniti. Soltanto qualcuno di essi era riconoscibile distintamente. La più parte si confondevano e si sovrapponevano l’uno all’altro, in un immenso groviglio. Andrea solamente lo sapeva, da dove si dovesse cominciare a tirarlo, il filo che dipanerebbe quel groviglio apparentemente inestricabile. Forse, avendone la possibilità, un giorno la darebbe a qualcuno, quella chiave, qualcuno che ne valesse la pena, qualcuno che non avesse terrore di quell’apparente buio iniziale e che avesse il coraggio di percorrere almeno un po’ di strada da solo. Un giorno che poteva forse non venire mai, ma che poteva anche essere vicino, chi lo sa? Per adesso, però, non era ancora arrivato; e lui doveva continuare, andare più in là ancora, verso il traguardo definitivo. Non ne poteva più fare a meno. Cosa ci troverebbe, in fondo? Sulla sua strada, egli si era andato via via accorgendo che ne venivano a confluire delle altre. Tante altre. Le strade sembrano tutte isolate, ma poi si ritrovano, a un certo punto. Ogni giorno ce n’erano altre che lo raggiungevano o lo sfioravano. Ogni giorno di più. Un numero infinito di sentieri, che si trovavano insieme sempre più numerosi. Era evidente, per Andrea, che quella più intensa frequenza di incontri preannunciava l’imminenza della conclusione alla quale ciascuno di essi, sia pure per vie differenti, intendeva, ritrovandosi infine con tanti altri, dei quali lungo in cammino non s’era mai accorto, e c’era magari passato accanto chi sa quante volte. Quel che troverebbero, era ancora impossibile precisarlo. Giocava a poker con un’impassibilità straordinaria, Andrea. I primi giorni aveva vinto. Sempre, le prime volte, succede così. A tutti i giochi, in genere. Poi si era messo a perdere in un modo indecente. Adesso, tornava a vincere “da matto”. -Come un porco- dicevano i colleghi. E il Maggiore aveva addirittura proposto di pagargli al massimo in dieci per cento delle vincite, a meno di voler mandare in

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rovina tutti gli ufficiali. E Andrea lasciava che facessero. Diceva sempre di sì, lui, specie al Maggiore. Aveva in mente, fisso come un chiodo, il primo colloquio che avevano avuto insieme. Era avvenuto poche settimane prima, e parevano secoli. Lui lasciava che il Maggiore dicesse, e che gli decurtasse pure le vincite. Tanto, da mangiare ce n’era lo stesso, e i soldi sono carta straccia, specie quei marchi là d’occupazione, che se uno ne volesse un mucchio basta vendere l’orologio in un paese, che tutti lo rimirano e lo adorano come fosse piovuto giù dalla luna, e ti danno del “maleducato capitalista” se affermi che al tuo paese tutti ne hanno almeno uno, ma schiattano intanto dalla voglia di possedere un simile tesoro … Sì, qualche giorno Andrea parlerebbe al maggiore delle sue scoperte. E se ci sarà Zonchi e qualcun altro, molto meglio. Il fuoco veniva su dalle profondità, e stava arrivando per parecchi, anche se il Maggiore sembrava indubbiamente il più preparato a venirgli dietro. Anche lui era convinto che così non poteva più andare, né per loro né per nessun altro. Soltanto che era un militare, lui. Aveva delle prevenzioni radicate, organiche. Bisognava usare un minimo di prudenza e di accortezza. A uno che per tutta la vita ha abitato in una camera sola, non si può certamente dire – come introduzione preliminare – che quella camera bisogna abbatterla e spazzarne i resti nei rifiuti. Non si può fargliela franare sotto i piedi. Bisogna prepararlo, e non è poi tanto semplice. Quello, potrebbe anche essersi persuaso che il mondo esiste solo in funzione di quella sua stanza, e gli sembrerebbe di cadere nel vuoto, di precipitare senza rimedio, se gliela demolissero. È necessario prepararlo con un giro lungo e con un po’ di tatto, diamine, per non insospettirlo prima del tempo. La posta valeva bene la pena: occorreva una lunga passeggiata iniziale, prima di portarlo al punto dal quale, dopo, potesse camminare da solo. Se non si facesse così, con metodo e tranquillità, si rischierebbe di diventare responsabili di un crollo inutile, di un suicidio. Un suicidio morale, poi, che conta anche di più di uno fisico. È una tappa, questa, della quale si deve assolutamente fare a meno, specie quando già si incomincia a individuare il traguardo. Non sarà mica sempre una “fata morgana”, no? CXXX Sul fondo della balka c’era uno strato di sabbia, che serviva molto bene, agli alpini, per digrassare la gavetta. Era una sabbia fine e biondastra, trasportata là dalle acque che scendevano, quando pioveva forte, dalla sommità di quel ridicolissimo rilievo che avevano di fianco. Era forse l’una del pomeriggio, e il sole faceva piacere a starlo e sentire. Si era verso la fine di settembre, ormai, e l’autunno tentava volonterosamente di dare alla steppa qualche pennellata modesta di colori un po’ più vivi, prima che il grigiore della stagione fredda la uniformasse del tutto.

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Le foglie degli alberi che crescevano sparpagliati intorno al villaggio di ……. avevano assunto una bella colorazione gialla e rossa. Finalmente appariva qualcosa di diverso, in quel paesaggio così triste, piatto, sconsolante. Il sottotenente Loredani era venuto giù al posto-munizioni, insieme alla corvèe che doveva reintegrare i colpi sparati la notte precedente. Gli alpini che erano là, al P.A.M., con i mezzi di fortuna di cui avevano potuto disporre, avevano catturato qualche decina di pesciolini nello stagno che veniva a terminare proprio a pochi passi dal loro ricovero sotterraneo. E ne offrirono, di quei pesci, all’ufficiale. Non poterono proprio farne a meno, perché arrivò al “posto” intanto che li stavano mangiando … Era da tanto tempo che non ne assaggiava più, Loredani, che gli pareva che non esistessero neanche più, i pesci. Ne era ghiottissimo. Anche se non erano trote, delle quali poi era addirittura un fanatico. Intanto che masticava questi qua, di razza sconosciuta – e, nonostante tutto, non finiva più di trovarli buoni, gustosi, saporiti – spiegava come lui andasse sempre alla pesca delle trote. Non quelle di lago, veh, né quelle di allevamento, ma quelle di fiume, quelle di torrente. Quelle che risalgono i rigagnoli di montagna, e sono picchiettate di rosso. Una passione ci faceva, lui. Da fare delle ore di treno e la notte in bianco, pur di andarle a pescare. Vuoi mettere la soddisfazione che uno ci prova, quando incominciano adagio adagio a sogguardare il verme, sospettosamente (gli pareva di vederle, a Loredani ), e poi, trac, si decidono e ci piombano su, a bocca spalancata! Ci vuole una sensibilità non comune – la pratica, anche lunga, non è mica sufficiente; è tutta una questione di istinto! – per darci il colpo giusto al momento buono, e tirarla fuori, a volte dopo una lotta entusiasmante e di parecchi minuti, specie se è di dimensioni superiori ai tre o quattro etti … Era contento come un bambino goloso, a poterne parlare con gente che lo stava ad ascoltare volentieri, lo comprendeva e interveniva con competenza, perché avevano quella passione anche loro. Si sfogava, una volta. Tornò su alla balka ancora tutto entusiasta e come trasognato. Non solo gli ballavano le trote davanti agli occhi, ma avrebbe raccontato ai suoi colleghi che lui aveva mangiato i pesci fritti, e stavano freschi che dicesse dov’era andato a procurarseli. Era rimasto in parola, con quelli del posto-munizioni, che qualche giorno andrebbero insieme a pescare nello stagno, con le cartucce di tritolo. Ne farebbero una raccolta eccezionale. ************************* Era giunto a pochi passi dalla buca di Andrea, quando sentì che stava arrivando un proiettile; ma non fece neanche l’atto di mettersi maggiormente al riparo. Era tanto stretta e fonda, la balka, in quel punto, che mai più sarebbe venuto a finire là dentro. La bomba di mortaio piombò giù sibilando e scoppiò con uno schianto rabbioso contro la parete di terra dura e nera. Uno scheggiose rovente colpì Loredani netto alla tempia e si piantò dentro nell’osso, friggendo. Lui cadde all’indietro, senza emettere un solo grido. Cadde di piombo, come se l’avesse fulminato la corrente elettrica. Il sangue filava giù, dalla ferita, nella sabbia

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fine, e la macchiava granello per granello. Gli alpini non la userebbero più, quella sabbia, per togliere l’unto alla gavetta. Andrea, dopo qualche minuto, convintosi che si trattava soltanto di un colpo isolato, venne fuori dalla sua tana – dove stava scrivendo una lettera – con le orecchie ancora tutte rintronate e il viso pallido per l’emozione. Loredani era là, privo di vita, con quel pezzo di ghisa ancora calda piantata in fronte come un pugnale, a tradimento. Un anello di più si era aggiunto ai tanti della catena di Andrea. Il traguardo si avvicinava vertiginosamente e senza possibilità di dubbio. Per la scadenza, era questione soltanto di tempo. Questa volta era stata ancora differita, chi sa come. CXXXI Cambiarono di settore ancora una volta, gli alpini. Ancora camminarono nella polvere e nel sole. Ma non c’era più, adesso, il calore massacrante di prima. Venivano giù delle folate fredde e premonitrici. Centinaia e centinaia, migliaia di corvi, apparsi nel cielo a un tratto rannuvolatosi, scavarono negli animi un solco funesto di timore, con il loro stridere bieco e male augurante. Ecco, se fossero rimasti là, su quella terra, morti, quei corvi li avrebbero verosimilmente dilaniati tutti … Lunghe teorie di autotreni della WH e dalla WL, quasi tutti di fabbricazione francese, trasportavano con ritmo frenetico enormi cataste di travi squadrate e di altro materiale. Tavolame. Listelli. Tela incatramata. Stufe. Parti smontate di baracche. La guerra non la si fa soltanto con il rancio e la polvere da sparo … Era il tempo di prepararsi a svernare. Il trasferimento, per un certo tratto, dopo una buona sfuriata a piedi, venne fatto per ferrovia. Veniva giù un’acqua fine e fredda, che non preannunciava niente di buono. La brutta stagione rischierebbe di sorprenderli prima che si assestassero. Bestemmiavano e recitavano il Rosario, gli alpini, con un infantilismo sincerissimo e veramente stravagante, inconsci della loro contraddizione. Quando scesero dal treno, sembrava che si fosse addirittura in pieno inverno. Mancava ancora la neve, ma faceva un freddo cane e soffiava un vento pungente. La pioggia, caduta con troppa abbondanza, aveva formato dei laghetti lividi un po’ dappertutto, che riflettevano la nuvolaglia bigia e scura che si rincorreva a poca altezza dal terreno. Da sentire nelle ossa dei brividi, non soltanto di freddo, ma anche di nero presagio! Gli alpini dovettero camminare ancora a piedi per un po’ di chilometri, ma non troppi. Trovavano sulle strade i soliti residui. La pianura aveva adesso, come punti di riferimento, dei mulini a vento e dei trattori abbandonati. Due bombe di aereo, inesplose, stavano in un fosso; una di esse si era infissa profondamente nel terreno. A poca distanza di là incontrarono la carcassa rugginosa di quello che era stato un “organo di Stalin”, una delle cosiddette “katiusce”. Prima di abbandonarla, i sovietici l’avevano distrutta per quanto avevano potuto, e le avevano dato fuoco. Non restava che uno scheletro di chassis con sopra alcune putrelle di ferro bruciacchiato.

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Stavolta gli alpini andavano davvero incontro al destino. Lo percepivano con una lucidità che non ammetteva dubbi. Camminarono senza inconvenienti fino a pochi chilometri dalla linea, e qualche giorno dopo diedero il cambio a reparti ungheresi che erano là attestati. Il Destino era sul Don. Il fiume scorreva in mezzo, tra loro e i russi. La linea aveva un andamento irregolare e, per così dire, collinoso. Seguiva, a un dipresso, il corso del fiume e da alcuni tratti si poteva scorgere quell’acqua così intensamente trasparente e tanto pigra che, a non aver saputo prima da che parte defluisse, uno aveva da restarne perplesso, per poterlo capire. Le trincee furono ricavate il più possibile vicino all’alveo e occuparono due collinette e un avvallamento, nel quale crescevano i resti di uno di quei villaggi lunghi lunghi, fatti di misere capanne col tetto di paglia (solo qualcuna ostentava un’orgogliosa copertura di lamiera), che ormai gli alpini si erano abituati ad incontrare sul loro cammino. Un’isola in mezzo al fiume, intorno alla quale l’acqua faceva una gran svolta, scorrendo in quasi tutto il suo volume dalla parte dei sovietici, nascondeva alla vista la città che c’era dall’altra parte. Dagli osservatori sulle due collinette si potevano discernere bene – magari con l’uso di un binocolo – le persone che ostinatamente ci vivevano, che non erano scappate via dalle loro abitazioni, come se la guerra non ci fosse per nulla, non li riguardasse o distasse enormemente. L’isoletta, la occupavano i russi, o almeno così sembrava. Forse ci tenevano soltanto delle vedette e ci mandavano delle pattuglie, la notte. Una chiesa sconsacrata da decenni, che svettava su una delle collinette, aveva il campanile ricoperto da una cupoletta graziosa, un po’ bombata, di stile bizantineggiante. Era l’unico edificio in muratura … Là gli alpini scavarono una quantità incredibile di terra. Dovevano sistemarsi per passare l’inverno, e valeva la pena di faticarci un po’, pur di essere il più possibile al sicuro. Sembrava che là ci fossero solo quattro gatti, e che sarebbe stato un giochetto attraversare il fiume e prendere posizione nella città. Ma con quella pianura, coi mezzi corazzati e veloci, non si può mai sapere quello che possa piombare addosso da un momento all’altro. E non era certo il caso di buttare un saliente dall’altra parte, per farlo mozzare magari all’improvviso. Del resto, la cosa non dipendeva da loro. Non dovevano proprio pensare con la loro testa: solo fare quello che veniva ordinato, senza neanche sapere da chi e perché. Come sempre. Costruirono le loro solide case completamente interrate, e vi edificarono dentro delle enormi stufe di gesso. Il combustibile non sarebbe venuto a mancare, con i boschi che avevano alle spalle, e le cui propaggini venivano a terminare quasi nel fiume. Studiarono accuratamente la postazione delle armi, avendo particolare riguardo per i cannoni da usarsi contro eventuali carri armati. Andrea pensò ai campi delle mine e alle soluzioni controcarro. L’avere un compito preciso da svolgere era un gran sollievo.

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La situazione fu studiata meticolosamente in ogni dettaglio e tenendo conto il più possibile di ogni futura eventualità. Bisognava fare in modo di non doversi comunque muovere, a nessun conto. Sarebbe stata la tragedia più assoluta e catastrofica se, nel bel mezzo dell’inverno, fossero stati sloggiati. Guai, se l’ipotesi si verificasse! Ne fecero, del lavoro, e ne spesero, delle energie; non badarono a economizzarle. Per migliorare il rancio e irrobustirlo, anche là c’erano dei prodigiosi campi di patate. Tuberi grossi e gustosi, abbondantissimi (servivano anche a raccontare le pietose bugie sul rancio e sulla serenità delle giornate che vivevano, nelle lettere mandate in Italia). Quella era una terra ricchissima e di fertilità rara. Ne sfamerebbe della gente, quella terra là, se appena appena fosse coltivata un po’ intelligentemente. Poterne portare a casa qualche zaino … Campi smisurati, lunghi e larghi chilometri e chilometri. La coltivazione, in tempo di pace, era stata fatta meccanicamente, coi mezzi tecnici del cholchoz. Adesso, restavano in giro solo più dei trattori enormi, inutilizzati, e varie macchine agricole, che andavano irrugginendosi senza speranze. Gli alpini trasformarono in un caposaldo l’edificio della chiesa sul dorso della collina. Intorno e sotto scavarono la terra e postarono, incavernati, dei cannoni controcarro. Li avevano trascinati all’imbocco della galleria in gran silenzio, e nel colmo di una notte assolutamente scura. Il comando superiore aveva rinforzato l’armamento, agli alpini. E loro si sentivano più tranquilli. Se fossero stati attaccati, si sarebbero difesi a dovere. Non era mica che, adesso, avessero entusiasmo per la guerra, tutt’altro. È solamente che, sparando, avrebbero difesa la loro pelle, mica quella di un altro. Per la faccenda politica avevano le loro idee in testa, e nessuno gliele cambierebbe. Ci volevano altro che i pacchi – uno in tre o quattro e dieci – del treno “A.P.E.”. Vi mandiamo a morire, è vero, ma in cambio vi regaliamo quattro cartoline del dopolavoro delle “forze armate”, un pettine da due soldi, un paio di calze di filato misto e le lamette per farvi la barba. È un po’ troppo comoda, così. Quelle lamette, loro, le avrebbero adoperate volentieri a segare il collo di quello scalmanato là, del quale avevano mandato la fotografia dentro nel pacco. Se lo potessero fare, la guerra finirebbe per incanto. E non ci sarebbe più da star qui a sacramentare. I russi e noi non ci spareremmo più addosso. E ognuno tornerebbe a casa sua. Altro che il contentino del panettoncino e delle quattro gocce di vino acidulo! Ma intanto siamo qui, e non possiamo mica farci impallinare senza neanche difenderci. Eh no! Quel solco del fiume, là in mezzo, pareva di buon augurio. Sembrava che dall’altra parte comprendessero la loro situazione e i loro pensieri; e non li costringessero a fare quello che proprio non volevano. Quella barriera naturale che li separava, dava un gran senso di fiducia e di serenità. Può darsi che si stia di qua noi e di là loro, fino a quando non si siano chiarite le cose … L’inverno è lungo. E tutto, alla fine, si chiarisce; anche se costa magari un po’, l’arrivarci. Una ventina di chilometri più indietro era stata costituita la base arretrata, con i magazzini di rifornimento. Sembrava che avrebbero potuto attendere pazientemente, ora. I preparativi erano fatti, coscienziosamente. E la vita, in definitiva, non è poi

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nient’altro che una perenne attesa. Ed è già gran cosa, quando si sa perché e che cosa si attende. È meraviglioso, davvero. Dopo la sfuriata di freddo e di pioggia durante il trasferimento, il tempo era tornato bello. La temperatura si manteneva discreta e l’inverno non pareva più che fosse tanto imminente. Invece, una notte, il termometro scese repentinamente; e il cielo lasciò venire giù uno sfarfallio minuto di granellini candidi e diacci. Era la prima neve. Faceva troppo freddo, perché riuscisse a cadere abbondante. Più di 10° sotto zero, di colpo. Da incominciare a battere i denti, se non fossero giunti provvidenzialmente gli indumenti pesanti qualche giorno prima. CXXXII Tornava un’altra volta a diventare esasperante, la faccenda. Adesso, oltre che prigionieri della “buca”, erano diventati prigionieri anche della neve. Se uno tentasse di muoversi anche soltanto un poco, dall’altra parte lo vedrebbero senza fallo e, se gli mandassero in qua una buona raffica, a quello passerebbe per sempre la voglia di dimenarsi! Era intervenuta una visibilità chiarissima e trasparente, come se le cose si fossero cristallizzate. O di là avevano poche munizioni da spendere o erano della brava gente, a non sparare neppure in tali condizioni di luce. O lo facevano perché anche di qui si stava regolarmente zitti, con le armi, con qualche raro colpo, tanto per avvertire che c’erano anche loro, che non si pensasse che se n’erano andati. Più che fare la guerra, era evidente che stavano a controllarsi a vicenda, che a nessuno venisse la mattana di fare delle corbellerie assurde … Era venuta soltanto una spruzzata di neve, ma era quanto bastava a dare al paesaggio un aspetto infinitamente triste. E c’era lo svantaggio, tutt’altro che trascurabile, che adesso non si poteva più andare a raccoglier patate … Però, a riguardo del rancio, gli alpini ormai non si lamentavano neanche più tanto. Era sempre un po’ scarso, ma la confezione ci aveva guadagnato enormemente, da ultimo. Davano la pasta bianca, e questo a loro pareva un gran regalo, se pensavano a quella specie di segatura impastata che dovevano mangiare, in Italia, le loro famiglie. E inoltre ricevevano il caffè vero – anche se era proprio poco in modo indecente, due dita nel gavettino, non di più; e avrebbero dovuto avere regolarmente anche il cognac e il vino. Avrebbero, si intende. Le razioni che assegnavano sulla carta non erano tali da farci proprio su la fame. No, no. La razione individuale sarebbe stata più che sufficiente, se non ci fossero state intorno chi sa quante persone, a grattarci sopra. E bisogna far finta di non accorgersene, per di più. Di non sapere. Quelli della Posta Militare ne dovevano avere qualche notizia, loro, dei nomi di quei tali che, con la scusa di spedire a casa dieci chili di frumento per volta (come se le famiglie di certi tipi avessero proprio avuto bisogno, in Italia, di quel frumento, per non morire di fame), spedivano invece regolarmente chi sa quali altri generi. È

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impossibile o per lo meno sospetto, no?, che uno mandi via una cassettina ogni due o tre giorni, o magari due o tre in un giorno solo. Era pasta bianca, quella che viaggiava. Pacchetti di galletta, scatolette di carne (i verbali che si trattava di merce avariata, non era poi tanto difficile farli … ), marmellata, zucchero, caffè. Tanto caffè. Pesa poco e rende molto, il caffè. Incominciavano a fare la cresta, sulle razioni, non appena venivano fuori dai magazzini della “sussistenza”. Tutti quelli ai quali stavano fra le mani un solo memento, si ritenevano in diritto di servirsi. A meno di essere “fessi”. Temevano di essere onesti, in mezzo a tanti che rubano. Come può uno, in coscienza, fare una figura del genere, specie quando lo stomaco incita? Sarebbe troppo da imbecille … L’arcano delle razioni scarse – un arcano pulcinellesco, perché era noto perfino ai sassi (anche se là di sassi non ce n’era) – era tutto in questa losca camorra. E così succedeva che una volta ogni tanto riuscisse ad arrivare, ai soldati in linea, anche qualche cucchiaio di cognac, mentre c’era gente, dotata di grande previdenza, che ne beveva delle mezze borracce per volta. È un genere di conforto, il cognac, … e quelli si confortavano, dal distributore più lontano e iniziale al conducente che lo trasportava sul mulo, fino all’ultimo capo-squadra che potesse stare da solo un momentino con la spiritosa e invitante bevanda. Tutti, forse, coscienziosamente. Le eccezioni erano poche, i cosiddetti minchioni, secondo la morale corrente. Gli onesti, sono sempre classificati così. Tutti lo sapevano, che era montata a ‘sta porca maniera. Ma stavano zitti. Un po’ per vigliaccheria, molto di più per impotenza, e anche un pochettino forse per le segreta speranziella che un giorno, in un modo o nell’altro, capiterebbe anche a loro l’occasione buona, e allora si vendicherebbero. A loro gran rischio, logico: perché, se fossero pescati, la pagherebbero per tutti. Sono sempre gli stracci piccoli che volano per aria, lo avevano imparato ormai. Ma non era soltanto per le cibarie che le cose … andavano bene. Era un po’ per tutto quanto, come se ci fosse stata una parola d’ordine, scrupolosamente osservata. Dalle scarpe, i soldati rischiavano di veder uscire i piedi: e indietro ce n’eran migliaia di paia, si diceva, ben al calduccio nei magazzini. Il cappotto foderato di pelo, ai comandi superiori l’aveva anche l’ultimo degli scrivani, anche se stava sempre chiuso come un topo in una stanza caldissima, a cavallo della stufa; in linea, invece, arrivava col contagocce. Una storia simile, e anche più ripugnante, avveniva per il munizionamento. Chi sa che cosa c’era, dietro quella storia: ma il fatto si è che, a morire, erano là loro, gli alpini, i fanti, i bersaglieri e gli artiglieri e i legionari – sì, anche le camicie nere, “volontari” più o meno per forza – mica gli altri. La politica è fatta sempre sulla pelle altrui, ed è quasi sempre uno sporco affare, da disinfettarsene accuratamente se capita di sfiorarla. Guai se i soldati l’avessero saputo, ma c’erano delle circolari di carattere “riservatissimo”, le quali dicevano, senza nessuna tergiversazione, che era necessario sparare poco o non sparare affatto, perché – quando avessero consumato le munizioni che avevano là – non ne sarebbero più arrivate. C’era la “certezza assoluta” – stava scritto proprio così, sottolineato, su una di quelle circolari – la “certezza assoluta” che

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altre spedizioni non potrebbero verificarsi dalla patria, se non a scadenza imprevedibile. Era ben vero che la guerra la si faceva … per conto dei tedeschi (anche i fessi, ormai, l’avevano capito), e che loro avrebbero dovuto supplire a certe deficienze; ma la intendevano in un modo tutto particolare, quelli, l’alleanza. La intendevano facendo camminare a piedi per centinaia e centinaia di chilometri i loro “kamaraten” – italiani, ungheresi, romeni o altro che fossero – mentre loro andavano sempre almeno in motocicletta, se proprio non avevano sottomano qualcosa di più comodo. La intendevano sbafando il burro spalmato sul pane insieme ai lunghi salsicciotti, intanto che i loro alleati andavano a cavar le patate nei campi, anche se dall’altra parte sparavano magari addosso con i mortai. La guerra, i germanici la intendevano in un modo del tutto “padronale”. Entravano nelle isbe e non importava chi ci dormisse, in quel letto. Dovevano prepararglielo per loro, quella notte là. E la successiva, se fosse necessario. E chi sa fin quando. Gli inquilini si arrangiassero. È vasto il mondo, c’è spazio per tutti, ma fuori di qua dentro … Io, qui, sto bene, e non mi muovo. Portatemi dell’acqua, “vadà”, dell’acqua calda dentro una bacinella, perché voglio lavarmi i piedi. E mi aiuta a lavarli quella ragazza lì, per intanto mi serve solo in questo modo … Come, non avete neppure una bacinella? Il vostro Stalin non vi ha dato neppure questa? Ci penseremo noi, a suo tempo: questa e altro. Intanto, arrangiatevi a trovarla, di corsa. Altrimenti uno quell’unico tegame fondo che avete in casa, dove ci fate dentro da mangiare. CXXXIII Fu a proposito di come intendevano la guerra i tedeschi, che Andrea ebbe modo di assistere a uno spettacolo tremendo e raccapricciante, un giorno che era andato indietro, per una certa faccenda, al comando della sua Divisione. Sulla strada per KH..….. , e precisamente nel grosso villaggio di SS………. , a una ventina di chilometri dal fiume, i tedeschi avevano deciso di costituire una linea arretrata di resistenza, per il caso che gli alpini cedessero e lasciassero passare i sovietici. Il fatto aveva dato immensamente sui cosiddetti, agli alpini. Un affronto del genere non lo avrebbero perdonato facilmente, e restava inoltre lo scherno odioso che quelli se ne starebbero a poltrire nelle calde isbe del villaggio, a toccare su, se ci riuscissero, la Nadia e la Maruska, mentre a loro toccava di fare la vita del boia e dell’impiccato, e di tenere la linea … Ai tedeschi, almeno apparentemente, l’irritazione degli alpini interessava poco. Certo, si tenevano prudenzialmente alla larga – perché, se no qualche cazzottone potrebbe volare, sono decisi gli alpini italiani ed hanno un carattere così poco favorevole ai plufer – e, per il resto, badavano a farla da padroni. Dunque, incominciarono a scavare qualche badilata di terra. Poi siccome si accorsero che, nonostante il freddo intenso, toccava loro di sudare, escogitarono

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subito il modo di fare meno fatica. Senza aggiungere che era umiliante che la gente li vedesse toccare la terra. Divisero il villaggio in alcuni settori e nominarono – tirandoli fuori tra i pochi uomini rimasti sul luogo – degli “starosta” improvvisati, dei “sindaci”, insomma, muniti di pieni poteri. Gli ordini li darebbero loro, agli starosta. Il mestiere della spia e del galoppino, tutt’in una volta. Prima di tutto, siccome la “paciatoria” ha la sua essenziale importanza, vediamo un po’ le risorse locali … Dunque, censimento del frumento, della “kukurusa” e di tutto il resto, del bestiame, ivi compresi i maiali, le oche e le galline: tante mucche = tanti litri di latte al giorno; tante galline = tante uova al giorno; Totale = tanto alla settimana per ciascuno e da ciascuno. Il cholchoz, insomma, trasformato da sovietico a nazista. Una cosa semplicissima. Cambiato solamente il padrone, e probabilmente assai peggiorato … Sono in gamba, quelli della svastica, in fatto di contabilità. Rapidissimi. I conti fecero in fretta a farli. Ad ognuno fu stabilito il quantitativo settimanale di cibarie da consegnare. Avvertirli che ne andava di mezzo la pelle, a chiunque tentasse di sgattaiolare fuori da quei numeri. Non c’era alcun: “Ja gne pagne maiu” che valesse. Alla residua possibilità di incetta alimentare, ci penserebbero direttamente loro. Burro, patate, qualche altra cosuccia. C’erano anche delle api, nel paese. È pur così buono, il miele! A questo punto restava in sospeso la questione degli scavi fortificatorii. È presto risolta anche questa, senza regolo calcolatore e senza il vostro pallottoliere. Ogni starosta censisca per iscritto, seduta stante, gli abitanti del suo settore. Il controllo, poi, lo faremo noi: servirà anche per il rimanente. Ohi ohi, in che bell’imbroglio si sono andati a ficcare, ‘sti poveri tovarisc! E adesso, con questi dannati qua, non c’è rimedio possibile. Presi al laccio. Il censimento, ci si mette poco a farlo; e se ne tiene una copia per uno, così passa l’eventuale voglia di fare i furbi. E lo starosta incominci pure a trottare. Avverta del latte e delle uova, e convinca la gente che nascondere la roba è peggio che non averla: sono grane dell’altro mondo. E dica anche che domani mattina, alle sette (non avete orologi? Pezzenti … Comunque, affare vostro), alle sette precise, arrangiatevi, tutte le persone atte al lavoro devono trovarsi nella piazza dove ci sono i ruderi della chiesa. Vengano con una pala o un piccone o una vanga. Tutti ce n’hanno, di quegli attrezzi lì. Chi non verrà, passeranno i tedeschi, dopo, a prendere provvedimenti. Lo starosta è diventato, di colpo, un aguzzino. Scapperebbe, ma non può farlo. Non può più. Dove andare, adesso? Anche lui ha una famiglia. E pensare che aveva sperato di potersi rendere utile in qualche modo alla gente del suo villaggio … Sente confusamente che il suo destino è segnato senza scampo, sia da una parte che dall’altra. Però, non si può mai sapere: uno ce l’ha sempre, la speranza di cavarsela. E, così, fa il suo sudicio mestiere, mettendoci tutto lo scrupolo e tutto il buon senso che può. Le occhiate oblique che gli largiscono e i brontolamenti che gli sembra di sentirsi tirare dietro, lo rendono edotto anche troppo bene dello stato d’animo dei suoi compaesani verso di lui. E siccome può succedere che la paura

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abbia delle strane ripercussioni, che cosa pensa? Pensa che, ormai, è dall’altra parte: tanto vale, dunque! Farà il prepotente in nome degli invasori e ai danni del popolo. Si sente infinitamente colpevole, ma non riesce a tirarsi indietro,ormai. Qualcosa succederà. “Nitchevò”. I padroni, ora, sono i tedeschi. Lo proteggeranno. ************************* Il mattino dopo, all’ora fissata gli abitanti erano tutti là, col loro arnese in ispalla, disciplinatamente. Gli uomini erano scarsi, non ce n’erano più molti, nel paese. Numerose le donne, invece. Dai quattordici anni in su, tutte. Meno che le inabili e le assolutamente vecchie. Erano là, infagottate nei loro miseri indumenti scuri e privi di qualsiasi grazia, con la testa incappucciata da un fazzoletto nerastro e vestite di un giaccone unto e pesantissimo e di una gonna sbiadita. Ai piedi calzavano i loro caratteristici stivaloni di feltro, bei caldi, tutti d’un pezzo. Agli ordini gutturali di un soldato tedesco, lo strano corteo si avviò dietro a lui. Gli uomini avevano il loro tipico copricapo di pelo. Ed ecco che l’hitleriano si avvicina a uno, gli strappa il berretto e se lo prova. Non va bene. Tenta con un altro e un altro ancora. Oh oh, questa è proprio la sua misura! -Danke. Spasibo.- dice al legittimo proprietario, che lo sta osservando sorpreso. E gli fa una certa incomprensibile chiacchierata. L’altro non è del suo parere. Affatto. Spasibo, un corno. Vuole indietro il suo copricapo. Protesta. Protesta forte, fino a quando il sodato “jermanski” non perde la pazienza e tira fuori il portafogli. Ne cava un biglietto d’occupazione da qualche marco e lo rifila in mano al povero tapino, ingiungendogli urlando che la pianti, adesso. L’ha pagato, e basta. Cosa vuole ancora? Lui il contratto lo considera regolato. Non sgonfi più. All’altro non resta che continuare a maledire in sordina e fulminare di traverso il prepotente con occhiate irose. Cosa se ne fa, adesso, di quel pezzo di carta? Mica può metterselo in testa. È il berretto di pelo, quello che gli serviva. Il tedesco, con la gradevole sensazione del calduccio sulla cuticagna, non pensa neanche che, a parte il resto, ha compiuto un’azione antigienica e che là dentro ci potrebbero essere dei parassiti. Contento come un asino, accende la sua pipa e conduce “la greggia” al punto prescelto, dove farà scavare la terra gelata. Intanto la ronda dei kamaraten entra nelle isbe, a perlustrarle. Le case sono tutte vuote. Ma non portano via niente, loro, quando il padrone non c’è. A loro, le cose piace farle in regola. Trovano solo delle povere donne malconce e vecchie, dei marmocchi, una giovane sciancata. In età e in forze da lavoro, nessuno. Sono quasi giunti in fondo al paese, quando scorgono un uomo che se ne sta tranquillo e indifferente, intento a “impagliare” l’esterno della sua abitazione. Eh sì, siamo quasi all’inverno, e non c’è più tempo da perdere. Fra poco cadrà molta neve, e si metterà a soffiare anche di più il vento. La bufera sarà la padrona assoluta della steppa, e i cristallini ghiacciati fileranno a cinquanta chilometri all’ora. Bisogna affrettarsi a mettersi al riparo. L’han già fatto quasi tutti, ‘sto lavoro così essenziale. Lui, Ivan Tukalowski, è già in ritardo … Prende i fascetti di paglia e li accomoda per bene intorno ai muri

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dell’isba; poi li fissa con dei listelli. L’opera procede alacremente. Fa freddo, e non bisogna perderne, di tempo. Di questo passo, prima di sera avrà rivestito accuratamente tutta la sua casupola … I tedeschi di ronda si sono arrestati sbalorditi, quasi non credono ai loro occhi. Quell’uomo sta trasgredendo i loro ordini. E li sfida pure, l’insolente, fa finta di neppure vederli. Li irrita violentemente, la sua indifferenza. Li fa montare su tutte le furie. Con voce rabbiosa lo fanno voltare. Desista da quello che sta facendo. Immediatamente. Venga con noi. Poche storie! Si spiegherà al comando. Ci segua. Via, con due violente scrollate. Lui, Ivan, non sa per nulla cosa vogliano, quelli; ma capisce che bisogna seguirli. Gli hanno anche spianato contro le armi, per la miseria! Al Comando c’è poco da spiegare. Non la vogliono mica intendere, quelli là, che lui non sa di che cosa si tratta. Parlano tutto da soli, fan tutto loro. Dopo averlo interrogato in quattro e quattr’otto, l’han mandato in un’altra stanzetta. Passano cinque minuti, e ne passano dieci. Cosa attendono? Una mezz’ora. Perché non mi lasciano andare? Io ho da rivestire la mia isba, se no quest’inverno avrò freddo … La paglia, il caldo lo tiene dentro, loro magari non lo sanno. È come uno quando si mette il giubbone. Glielo voglio spiegare, adesso, che io non posso star qui a perdere altro tempo … Timidamente butta fuori il naso dal vano della porta. Ce n’è più soltanto uno, di soldato: è seduto a un tavolo e sta giocherellando con una matita. Ha la faccia del brav’uomo. Magari mi capirà. Ivan si inoltra di un paio di passi, sgualcendo fra le mani, dietro la schiena, il suo vecchio berretto di pelo. -Io volevo dirci … - incomincia. L’altro lo guarda con occhio incoraggiante. Conosce qualche parola di ucraino, e potranno comprendersi: -Il comandante non c’è. Viene più tardi. Spiegherete a lui. Io non posso proprio farci niente. -Ma io volevo dirci che devo rivestire l’isba. Che non posso stare qui … Ha parlato con voce umile e sommessa. Avrà avuto quasi sessant’anni, Ivan Tukalowski. Quel tedesco là potrebbe ben essere suo figlio. Lo lasciasse andare, che lui aveva la paglia fuori … Ma che cosa volevano, da lui? -Non si può. Tornate là dentro. Vi chiamerò quando viene. Dovete proprio parlare con lui. Perché? Cribbio, ma cosa vorrà dire, proprio a me, quello là? Un’ora. Due ore. Tre ore. E la paglia è la mia, è là che mi aspetta. Forse ho anche lasciata aperta la porta di casa … Il fuoco si sarà altro che spento, a quest’ora. Ma cosa vorranno, da me? Eccolo che arriva, finalmente, ‘sto comandante. Parole secche, poche: -Vediamolo, ‘sto Ivan Tukalowski della malora! Ivan è un po’ intontito, dell’attesa e di tutto. Uno, in certi casi, sente anche colpe che non si è mai sognato di commettere. C’è un’atmosfera così inconsueta, per lui, là dentro. Non sa più tener fermo il berretto, lo fa rigirare continuamente fra le mani.

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-State fermo!- gli intima tuonando quel “comandante”. Che grado abbia, Ivan non lo sa (cosa ne deve sapere, lui?), ma nota che gli altri soldati dimostrano un gran rispetto. Inconsciamente si mette a tremare anche lui, spaventandosi. -Lasciatemi andare … Quelli parlano fra di loro, e lui non capisce una sola parola. Cerca di indovinare dagli atteggiamenti, sbircia con la testa di traverso, per spiare ogni cenno, se approvano o no. C’è uno di quegli starosta venduto ai tedeschi, verde e tremante, che non sa più come cavarsela neanche lui. Se dirà che non ha avvertito Ivan, chi sa cosa gli fanno, adesso. Forse è un male meno grosso stare sulle generali, dire che lui il suo dovere l’ha fatto. Tanto Ivan non sa neppure di che cosa si tratta, di quale dovere. Ecco, sì, dirà certamente in questo modo. Però, che situazione: roba da sudori freddi … Oh, tutt’al più potranno dare una strapazzata, a Ivan. È vecchio, lui, cosa possono mai fargli? Eh, una strapazzata … E si decide. Bisogna dire una menzogna grossa, ma è così – quando uno si mette su una strada falsa e incomincia a scivolare e ad invischiarsi, va giù fino in fondo, di solito; è raro che riesca a fermarsi e tornare indietro – è così, senza rimedio. E lui, evitando gli occhi di Ivan che lo cercano col desiderio di un sorriso rasserenante, butta fuori le parole decisive, senza battere ciglio. Il ragionamento è un po’ lungo a spiegarsi, ma lui l’aveva concluso in poche decine di secondi. Tanto, eh, per una strapazzata … Ci sarebbe sempre tempo, poi, a chiarire la questione. Ivan fu rimandato di là, che si torceva le mani perché non gli permettevano di spiegarsi e non lo lasciavano andare a continuare il suo lavoro. Chi darebbe da mangiare al suo gatto? Era quasi mezzogiorno, ormai. Incominciò a tossire forte, stando in piedi come un fantoccio in mezzo alla stanzetta. Forse si impietosirebbero e lo lascerebbero andare più presto. Cosa doveva restar là a fare, per tanto tempo? Cosa desideravano da lui, infine? Per quale motivo? CXXXIV Fecero in fretta. Ci misero proprio solamente il minimo indispensabile per montare la baracca. Poi radunarono tutta la popolazione del paese, e lo impiccarono, che non sapeva neanche il perché. Elemento che dava sul naso. Farlo fuori. Un esempio va sempre bene. Fa passare a tutti la voglia delle bizze. Così anche gli italiani vedono che qui comandiamo noi e non esitiamo. Lo condussero, scortato da alcuni soldati con la baionetta inastata, fin sul margine orientale del villaggio, dove una forca rudimentale era stata montata, in tutta fretta, sulla destra della strada. Lessero in tedesco la loro sentenza e gli passarono la corda al collo, che lui non capiva ancora bene quello che stesse succedendo. Gli pareva di sognare e che, intorno a lui, stessero tutti impazzendo. Fecero per bendargli gli occhi, ma lui non volle. Li allontanò da sé, per nulla turbato, con un gesto grave e maestoso. Se doveva davvero morire, e senza

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conoscerne il motivo, lo lasciassero almeno con dinanzi agli occhi lo spettacolo, triste e pur tanto caro al suo cuore, di quella terra sconfinata e piatta, dove aveva trascorsi tutti gli anni della sua magra esistenza. Non si era mai mosso di là, Ivan, neppure ai tempi della rivoluzione; aveva sempre lavorato la terra e basta. E adesso gli toccava fare, all’improvviso, un viaggio lunghissimo e tenebroso, senza che neppure lo avessero preavvisato e ci si fosse preparato almeno un poco. Gli venne in mente, per un istante, di vedere in faccia quello che avrebbe tirato la corda. Ma ci rinunciò. Era un’idea stupida. Lo fecero montare su di una sedia impagliata, e Ivan si accorse che andavano tenendo la fune sopra di lui. Dettero un gran strattone alla sedia, e gliela tolsero bruscamente di sotto i piedi. Rimase là, strangolato, a mezz’altezza, in mezzo a tutta la gente che lo osservava. Non c’era mai stato tanto pubblico, a interessarsi delle sue faccende … Da un punto imprecisato della steppa, ma lontano, giungeva l’abbaiare rabbioso di un cane. Era simile a un ululato lugubre e di cattivo gusto. Una carretta degli alpini spuntò fuori dall’ultima curva della strada; e lo videro, Ivan Tukalowski, che non era più nient’altro, ormai, che un macabro fantoccio di materia tiepida appeso ad un palo per un tratto di corda. Nella notte, sfidando in coprifuoco, qualche anima pietosa lo andò a distaccare da quella posizione così orrenda e incomoda; ma lui, il “comandante” hitleriano, non la intendeva così: “Aveva bisogno, ‘sta gente, di rendersi conto che chi dava gli ordini era lui, e lui solo. Fosse impiccato un’altra volta, da morto; e nessuno si attentasse a toccarlo prima di quarantott’ore.” Fu eseguito. E così Ivan restò là, al vento diaccio, a riceversi indosso quei ghiaccioli di neve minuta che, adesso, non importerebbe più se entrassero davvero nella sua isba. La paglia, qualcuno se n’impadronirebbe. Se no, potrebbe marcire tranquillamente. E anche il gatto troverebbe ospitalità presso qualche vicino. O, altrimenti, un soldato lo ammazzerebbe per mangiarlo. Oppure finirebbe per inselvatichire. ********************* Non soffrirebbe di solitudine, Ivan Tukalowski: non era certo il caso di inquietarsi, per questo. Ne troverebbe, che avevano ricevuto lo stesso suo trattamento, a migliaia. Colpevoli, come lui, di un solo, enorme reato: quello di essere vivi. O non erano forse venuti qua, i tedeschi, per combattere una guerra “santa”, di redenzione dalla barbarie? Bisognava pure che dimostrassero, in qualche modo, quello che erano capaci di fare con la loro “civiltà”. CXXXV Di neve ne venne ancora. Alcune decine di centimetri. La pianura si nascose tutta e si addormentò in un torpore opaco e snervante. Spuntavano fuori solamente le sommità dei cespugli, mentre i boschi parevano ovattati di silenzio.

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Era diventato tutto quanto di una solennità religiosa e disgregatrice. Le voci, là dentro, avevano un suono strano e diverso. Sembrava appartenessero ad altre persone. I conducenti, che tutti i santi giorni dovevano portare fino in linea le provviste e poi tornavano indietro, a una base posta a mezza strada tra il fiume e il paese di ….. , parevano degli esseri primitivi e fin allora sconosciuti, spuntati su per incanto e condannati a una fatica bestiale e infinita. Pareva scontassero, in un silenzio torvo e accasciato, la condanna di una colpa secolare. Camminavano nella neve, insieme ai loro muli, nel paesaggio quasi lunare di quella terra, dove si stentava a capire se la luce venisse giù dalla volta del cielo grigio o non la trasudasse piuttosto quel lenzuolo bianco e soffice che abbagliava. Era come la via della desolazione, quella sulla quale dovevano camminare. Affondare nella neve e tirare avanti faticosamente, sotto il cielo lattiginoso e rassegnato, che pareva un enorme coperchio chiaro e vaporoso, di un vapore pressato e immobile che verso oriente andava a stemperarsi nel fiume. Il Don era da un bel po’ che non aveva più quella sua apparenza azzurra di leggerezza e di serena luminosità: era diventato un’irregolare fettuccia inamidata che si distendeva a curve, capricciosamente, in un solco qua e là più aperto o incassato. Un silenzio incredibile pesava sugli uomini e sulle cose, pieno di raccoglimento e di torpore. I muli avanzavano decisi, quasi rabbiosamente. Erano innevati sulle zampe e fin sotto la pancia. Non sempre avevano la ferratura più idonea, e scivolavano sbuffando forte, povere bestie. Eppure, anche a quel percorso disastroso i conducenti si erano andati in qualche strano modo affezionando. Si vuol sempre bene, alle cose che costano fatica … Quando tornavano indietro dalla linea, l’accoglienza cordiale dei “mugiki” faceva tanto piacere. ‘Sti poveri alpini, che arrivavano tutti intabarrati e grondanti di nevischio, erano uomini anche loro, e facevano sincera pena ai contadini, che li salutavano gravemente: Do svidania!, facendo loro un po’ di posto accanto alla stufa-forno, vicino ai loro “malenki”, i loro figlioli. Per diverse forme riconoscevano un’unità di destino, che li accomunava al di là del linguaggio, della condizione e della divisa. Di là da tutto quanto, guerra compresa. Ed era naturale che fosse così. Uomini a nudo gli uni e gli altri. Nelle isbe c’era una temperatura veramente confortevole; e col caldo c’era la compagnia cordiale di quella buona gente di campagna, che dava la meravigliosa impressione, ai conducenti, di non essere soli al mondo a migliaia di chilometri da casa. C’era da scaldare il corpo e il cuore, là dentro, specie quando all’esterno soffiava il vento e la tormenta suscitava una nebbiolina di neve svolazzante, a raffiche. La conoscevano, i conducenti, quella tormenta! A trovarsi là in mezzo, con quello sbioccolìo accecante e gelido, non c’erano più né occhialoni né passamontagna né guanti che potessero servire. Una vera iradiddio, fatta di tanti e tanti spilli implacabili di ghiaccio, che mordevano la pelle senza tregua. Da maledire le mille volte, uno, di essere venuto al mondo!

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È incomprensibile come se la potessero cavare, gli uomini e i muli. Come non si buttassero giù, su un bordo della strada, inginocchiati nella neve e con la faccia premuta contro una pianta, ad attendere ardentemente che finisse. La tormenta e l’esistenza. CXXXVI Insieme alla posta, le partite a carte erano quasi diventate il solo argomento per il quale ci si accorgesse di tirare avanti. Non era neanche più il caso, adesso, di mettere fuori la punta delle scarpe dal rifugio sotterraneo, se non per le esigenze strettamente personali e per i motivi di servizio assolutamente irrimandabili. Il torpore della natura si era andato insensibilmente comunicando agli uomini, e la naia degli alpini si accostava sempre di più al nitchevò dei russi. Un’alzata di spalle, e tutto finiva lì. Un bisogno sempre più profondo di tacere era entrato negli uomini e nelle loro manifestazioni. Si evitava di sparare anche più di prima, per non destare gli echi del fiume. Era venuto, per ciascuno, il gran momento di raccogliersi in se stesso, e di confessarsi e di riconoscersi per quello che era veramente. Nessuna occasione così favorevole potrebbe ritornare. ************* ****************** Anche Andrea era da alcuni giorni, ormai, che parlava liberamente con alcuni colleghi, e in ispecie col Maggiore. Si comprendevano discretamente. Anche il Maggiore dimostrava di avere delle idee molto chiare e precise, su molte cose. Ed era veramente confortevole e di buon augurio, che un militare parlasse così. Avevano discusso a lungo sulla faccenda delle responsabilità che uno può avere a riguardo delle condizioni nelle quali un giorno scopre di essere. Quando veniamo al mondo, sono i genitori che avallano la nostra cambiale, spesso senza averne la minima coscienza. Poi, ad un tratto, senza quasi che uno se ne avveda, loro svaniscono, passano indietro. Magari di schianto. E si resta soli. Soli, ciascuno a garantire se stesso di fronte agli altri. Si determinano delle situazioni davvero strane, allora! Ci vorrebbe dell’humor sviluppatissimo, e di quello ben ben amaro, per dire adeguatamente qualcosa di quel che capita, allora … Ne succedono davvero delle belle. Dalla politica alla religione, dalle convenzioni sociali alla morale singola, dagli istinti individuali alla ragione comune, a tutto il resto. E uno è in ballo, e deve ballare, lo voglia o no; spinto dallo stomaco e dal cervello, dal cuore e dai nervi, dai muscoli e dalle nausee. E deve diventare quasi inevitabilmente la maschera di se stesso, molte volte una maschera grottesca. Normalmente si scopre quasi tutti, ad un certo punto, che ci han costretti a camminare per una strada che non era affatto la nostra, che magari è tutto l’opposto. E bisogna andare ben cauti, allora, perché se ci si distrae un momento prende libero abbrivio quello che si ha di dentro, e sono poi stangate colossali, quelle che piombano tra capo e collo … C’è la patria, quella scritta con la lettera maiuscola, la patria “locale” insomma, che di cambiali così ne firma a milioni, e nessuno ne sa proprio niente. Poi deve

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rispondere lui, quello che di colpe non ne ha e i prestiti non si sognava neanche, lui, di andarli a chiedere … deve rispondere lui, e lo mandano a finire qui, in questo inferno bianco, quando potrebbe farne intelligentemente a meno e combinare altrove tante cose molto più utili; più utili anche alla firmataria della cambiale. Sono le secolari scoperte, che relegano l’uomo al ruolo comune di strame umano, ruolo uguale – almeno una volta – per “quasi” tutti, dinanzi alla Terra da ingrassare. E così succede anche per la storia della politica. Uno si trova magari legato da una parte o dall’altra, senza che ne sappia il motivo: perché è vivo e per vivere, semplicemente, mica altro. O per soddisfare almeno in piccola parte a certe esigenze spirituali che, più o meno, tutti hanno. E, fra l’una e l’altra ideologia (ammesso che ci sia una percentuale decente di persone che davvero va al fondo delle ideologie), non si può essere solo teorici, bisognerebbe essere pratici, anche. Ciò va bene per me, per te non va. Per un altro solo in parte. È difficile decidersi per una giusta scelta, per una scelta onesta, e riconoscerla davvero tale, se prima non si sono visti i risultati … Già, un problema che sembra una cosa da nulla! Perché i risultati pare proprio che dipendano essenzialmente dagli uomini, più che dalle idee, anche se queste sono le ispiratrici di partenza e di arrivo. Come idee, se le si guarda dall’esterno, sono quasi tutte belle e interessanti, anche le più sballate. La politica – nella sua teoria – non è nient’altro che una forma filosofica. E la filosofia tiene in considerazione anche i sofisti perché, se non altro, rappresentano un “momento” nella storia e nello sviluppo del pensiero. Un momento di decadenza, sia pure; ma sono le crisi negative che preparano le reazioni e mettono sulla strada buona, no? Era il maggiore, che parlava così. Il Maggiore, che anche lui li aveva visti e provati certi risultati di quella che ormai egli medesimo definiva “questa tremenda infezione”. Diceva, il maggiore, che era un po’ tutto un gran cesso puzzolente, che costringeva a tappare il naso e faceva gridare vendetta da tutte le parti. Tutte le oppressioni finiscono, alla lunga, allo stesso modo: disintegrandosi nella violenza e in uno strascico di odio e di brutture. Se uno non semina zucche, non raccoglierà peperoni. E se si parte con l’odio, all’odio si deve arrivare, infine. Durerà anni o decenni, durerà magari secoli – lo insegna la storia, anche se gli uomini non lo vogliono imparare, ché tutti si ritengono più capaci di quelli vissuti prima – ma poi tutto va a rotoli. Basta che ci sia un esile pensiero che dura, di libertà – e la libertà non muore mai, non la possono mettere in prigione o spedire all’altro mondo – e un bel giorno anche il più colossale edificio tremerà sui suoi pilastri, e si abbatterà infranto. Era ora che tornasse nel fango, dunque, per quanto li riguardava direttamente, quello che di fango era stato impastato e di niente altro, e invece tentavano con ogni mezzo di dimostrare chissà che cosa, nei barbagli di una cornice splendente, ma che non era oro – no, quello se l’erano rubato e messo al sicuro – era soltanto un vilissimo metallo da pochi soldi il chilo. Oh, l’oro, la rabbia che fa venire a pensarci, come l’oro è capace di rovinare tutto quanto, quasi sempre! Era il Maggiore, che parlava così. Anche lui, per tanti anni, non aveva trovato la via per esprimere liberamente se stesso, pensiero e volontà. Adesso, stava riguadagnando a grandi passi il tempo perduto. Ed era una magnifica rivelazione.

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Ecco: se a uno portano via la capacità, il diritto di guardare, di giudicare, di esprimersi, cosa gli lasciano a fare gli occhi e la lingua e il cervello? Lo trasformino addirittura in un fantoccio automatico e lo facciano diventare una macchina umana e niente di più, dal momento che la intendono così. È un discorso che vale per tutti i tempi e per tutti i luoghi, questo. Che vale per tutti. Per i morti, i vivi, e quelli ancora da nascere. Bisogna finirla una volta per sempre di costringere le persone, se vogliono vivere “da uomini”, a procedere barcollando, in perenne disgusto con se stesse e con tutto quello che le circonda. Era il maggiore, che parlava così. I risultati stavano davanti agli occhi, un’infame catasta di menzogne incrostate di vigliaccheria e grondanti di sangue. Il sangue di decine, centinaia di secoli mai saziati. Ma il Maggiore non traeva conclusioni, ancora. O le traeva solamente parziali. Non era maturato del tutto, ancora, si vede. Aveva ancora della reticenza. Però stava arrivandoci, perché dalle idee ai fatti è ben vero che c’è una gran differenza –come diceva lui stesso – ma che questi dipendano dalla messa in pratica di quelle è innegabile come la luce del sole. Fra non molto supererebbe se stesso, il Maggiore. Era sulla strada buona per continuarle da solo, le sue scoperte, e per provarci anche gusto, adesso. Un gusto forse amaro, come quello di Andrea e di quanti altri, ma che avrebbe assaporato fino in fondo, non saprebbe più rinunciarvi, ormai. Quando uno incomincia a perdere l’intransigenza e a fare delle concessioni, vuol dire che sta per arrivare anche lui … È ben vero che di argomenti di estremo interesse ce n’erano ancora innumerevoli – dalla religione alla donna, ai sentimenti, a tante altre cose che non sono affatto da prendersi alla leggera, come invece normalmente accade -; argomenti di peso determinante sulla formazione di uno e sul suo cammino … Ma era evidente, ormai, che il Maggiore e Andrea stavano per darsi la mano. In due che ci si conosca e che ci si possa guardare negli occhi senza trasalire, si cammina meglio e a passo più sostenuto. Ci si chiacchiera sopra, si ragiona da buoni amici del più e del meno, e quel residuo di strada che resta ancora da superare, si fa più in fretta a percorrerlo. Non ci si accorge neanche, e ci si trova in fondo. ************************** -Stanotte scriverò due lunghe lettere, una per il Cascinone e una per Milano. Anche l’ultimo diaframma si è spezzato, le cose sono definitivamente chiare. Ci si sente meglio, adesso … CXXXVII Anche la posta, per quanta buona volontà ci mettesse, arrivava ormai solamente quando poteva. Era diventato un vivere al lucignolo, quello della “buca”. Da uomini primitivi, anche se organizzati. Facevano delle partite a carte che non finivano più, e chi non giocava stava seduto in silenzio, con il suo povero testone tenuto su nella conca delle mani, pesante e quasi svuotato. Se no, scrivevano. Scrivevano a casa che stavano bene, non avessero

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pensieri (di quel che stava succedendo in Africa settentrionale ben pochi erano informati, ai comandi, ed evitavano col massimo scrupolo di far conoscere le allarmanti novità); stavano benone e, a parte la neve, era una vita abbastanza allegra e divertente, per nulla pericolosa … Quelli che avevano carta in abbondanza buttavano giù anche delle lettere per indirizzi immaginari, lettere che non sarebbero mai state spedite. Si sfogavano, là sopra, stendendo i documenti miserabili del loro abbrutimento incipiente. Parlavano male di tutto quanto, con sincerità spietata e felice. Solo degli affetti parlavano con cuore commosso, quasi con una forma di religiosità. Oh, è difficile, raro e rischioso, dire la verità! Ci vuole del gran coraggio; e sono pochissimi, quelli che ce l’hanno, quelli che possono fare a meno di fingere … Incominciavano col maledire il governo e tutti i partiti, dal fascismo a quanti altri esistevano, e finivano per prendersela anche con l’ultimo dei graduati, che sfruttava a suo vantaggio personale tutte le possibili occasioni … Ficcavano furtivamente una mano dentro nello stomaco, carezzavano il farsetto a maglia e ne cavavano uno di quei cento pidocchi ai quali davano da mangiare gratis. Lo schiacciavano – di schifo, ormai, non ne faceva proprio più – e lo piegavano nel foglio che stavano vergando. Poi ci scrivevano sotto frasi del genere: -Questa è, per i posteri, l’impronta di uno di quei mille pidocchi, nostri disperati amici di guerra e nostri insopprimibili coinquilini di buca … Quando avevano delle trovate tanto entusiasmanti, sorridevano stranamente di se stessi e poi, con aria colpevole, da cospiratori, confidavano il loro prezioso segreto all’amico più intimo, quello col quale dividevano il contenuto del goloso pacco giunto da casa e la gioia e la trepidazione della corrispondenza in arrivo o in partenza. Le lettere, ormai, erano riservate esclusivamente alla famiglia o alla ragazza, tutt’al più a qualche caro amico; tutti gli altri corrispondenti, anche femminili, non interessavano più … Era avvenuta una decantazione spontanea anche in questo: via il superfluo. Restavano le persone veramente importanti, oh quelle sì; perché nella vita non ci si può trovare completamente soli. Ci si trascinerebbe senza alcun scopo. Quando erano liberi dal servizio – e sul servizio nessuno pensava a prendere le cose alla leggera, neppure per ischerzo – giocavano un po’ a carte, a stop e a sette e mezzo, ma molto stancamente ormai; non si trattava più di un divertimento, era soltanto un modo per riempire almeno parzialmente il vuoto del troppo tempo inutile che dovevano pur consumare … Altrimenti se ne stavano distesi nella semioscurità, a pancia all’aria sul letto rudimentale. Faceva caldo, là dentro. Ci si poteva stare anche in maglia e mutande. C’era un’atmosfera untuosa, pesante e scompartimentata – fra i giocatori, i pensatori e gli scriventi – da tante cortine invisibili e impenetrabili: ciascuno era con gli altri, ma era più che mai se stesso. Le cuccette erano strette e basse; sembrava fossero state fatte così proprio perché uno, entrandovi, dimenticasse che esisteva il mondo, o lo ricordasse esclusivamente per quanto lo interessava di persona. Neanche più il rancio riusciva a scuoterli. A parte il fatto che era assai migliorato rispetto ad altri tempi, ci si erano abituati del tutto e non ci smoccolavano neppure

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più. Il bell’entusiasmo di un tempo, quando urlavano che era una camorra schifosa, quel bell’entusiasmo li faceva sorridere di commiserazione, adesso. Terminato il loro turno all’aperto, al gelo violento e con tutto il corpo in tensione, pronto a scattare ad ogni istante come una molla, quando tornavano “dentro” riuscivano addirittura a scordare perfettamente che ci fosse la guerra e tutto il resto: si sentivano in uno stato di assurda sospensione che non sarebbe durata sempre, perché al di là di quella stagnante penombra da un momento all’altro la vita tornerebbe, e tornerebbe il sole, con dischiuse tutte le gioie di un tempo e le golose prospettive sognate in tutta quella lunga attesa. Contemplavano con visi inteneriti e imbambolati le fotografie delle fidanzate, e pareva loro che fossero degli angeli meravigliosi e irraggiungibili, eppure tanto vicini. Fra poco, forse, le potrebbero ancora serrare fra le loro braccia, ancora baciare; ancora sognare e vivere insieme. Che sogni, che sogni ci facevano sopra! E la mamma, che significato incredibile aveva la “mamma”! La vedevano con occhi nuovi, intenta a scrutarli e seguirli ad ogni istante. Riandavano col pensiero a momenti che prima erano passati via senza che li osservassero e che adesso scoprivano, invece, quanto fossero importanti! E tutti i membri della famiglia, e gli amici, e i luoghi, e tanti infiniti episodi e tante infinite cose. E ne traevano dei sospironi enormi … Il turno di “lavoro” era diventato un compito come un altro, anche se da svolgersi con assoluto scrupolo, per evidenti ragioni. E le armi erano diventate degli oggetti innocui e passivi, di uso comune e quotidiano, come un tempo la zappa, il falcetto o la scure. Non erano più armi, ma compagni noiosi e malinconici, dei quali non si poteva fare a meno, perché erano lo strumento della loro vita attuale, quella vita da conservarsi intatta per tornare a quella di un tempo, a quella che sognavano, più bella che mai pur con tutte le sue manchevolezze. A quella vita che avrebbero vissuto, “dopo”, a modo loro, ammaestrati dalle loro dure esperienze. Erano i pensieri più cari, questi: commovevano e facevano spuntare un’ombra di sorriso … Di fronte a loro, sembrava proprio che “gli altri”, di là dal fiume, la pensassero allo stesso modo. Uccidersi: perché? Stavano silenziosi e immobili anche quelli. Non valeva proprio la pena, si vede, di interrompere quella stasi, quel raccoglimento degli uomini e delle cose … Se una volta ogni tanto si faceva un po’ di fracasso, di qua o di là, sembrava che fosse stato per errore. E questa situazione durò abbastanza a lungo, lasciando tempo al Natale e al sorgere dell’anno nuovo. Quali fossero i pensieri e gli stati d’animo in tali circostanze non sembra difficile immaginare. E coi pacchi giunti da casa, col rancio speciale, con visite straordinarie, con funzioni religiose e con raccoglimento commosso si entrò in una fase anche più torbida di prima, anche più stagnante. ******************* Al comando del Battaglione, forse, era il posto dove più di tutti si stava sul “chi vive”. Là, e nelle posizioni più avanzate, dove si avvertiva una tensione più acuta, per l’estrema vicinanza al fiume, con tutto quello che da lì sarebbe potuto nascere. Ci si

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credeva poco, all’inganno di quella pausa. Quel torpore malefico un giorno diventerebbe un furibondo uragano di ferro e di fuoco. E quel giorno può incominciare anche fra un minuto: non tiene conto del calendario. La guerra è quello che è. Saremo noi a scatenare la tempesta, o gli altri? Chi lo può sapere. Noi siamo qui, e dobbiamo tenere gli occhi ben aperti, ecco tutto. E fare quello che ci ordinano. E quando nessuno ci ordinerà più niente, se arriverà quel momento, sarà anche peggio. È la guerra, che è fatta così. Però, non è il caso di drammatizzare più del necessario. Nessuno si fa amputare una gamba sana solo perché pensa che un giorno potrebbe ammalarsi e dover ricorrere a tale soluzione … Abbiamo predisposto tutto nel migliore dei modi: trincee, camminamenti, comunicazioni, piani di emergenza, incrocio di fuochi, mine, sbarramenti anticarro, postazioni. Abbiamo armi buone ed efficienti e, sul posto, un munizionamento da poter reggere secondo il previsto; gli uomini hanno buona salute, nonostante tutto; il rancio funziona; in complesso anche le condizioni morali non sono negative, pur se c’è qualche stanchezza inevitabile; la posta, sia pure a strappi, arriva e parte senza troppi incagli; i magazzini sono sufficientemente riforniti ed i collegamenti sono regolari. La coscienza di aver fatto e di fare tutto il possibile, nelle nostre condizioni, ci dice di stare sereni. Preoccupandosi dunque di oliare la macchina in continuazione, perché nessun ingranaggio arrugginisse e rischiasse di incantarsi o saltar via al momento dell’uso, era veramente il caso di stare tranquilli. Di sigarette ce n’era qualche scorta, e così di altri generi di conforto. Sono compagnie buone, che consentono di farci su le chiacchierate nostalgiche con noi stessi … Ecco, visto che adesso abbiamo anche cenato, si attaccherà magari il solito pokerino. Tanto, con l’oscurità plumbea e persistente che c’è, è quasi il caso di dire che qui la notte dura una ventina di ore. Giochiamocene una parte. Una telefonata, un’altra, un’altra. Tutto in regola. -Allora, la partitina? -Al tenente Mestica, però, decurteremo le vincite a seconda del totale che riuscirà a fregarci. -Ci ha un fodero rotto, che fa spavento. -Va bene, signor Maggiore. Non è colpa mia … -Dite al Pelizzi che ci lasci in pace, e non si addormenti sul telefono. -Dov’è l’altro posacenere? Ah … è qui. -Dunque, a chi tocca dar carte? CXXXVIII -Beh, Remondini? -Non gioco. -Passo anch’io. -Aperto.

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È il Maggiore, che apre. Il Maggiore, che è di mazzo. Saranno almeno quattro ore filate che stanno giocando. Il Maggiore ha perso, naturalmente … E continua a perdere. Ha sempre l’apertura , lui, gli tocca perennemente di fare il portinaio. Poi, gli altri gli soffiano regolarmente il piatto. Vince anche il tenente Castagna, quello dei collegamenti, che pure è così impreciso nel giocare. -Sì. -Giocato. -Giocato. Il Maggiore distribuisce le carte. Sono tutti in coppia, meno quell’animale di Mestica, che vuole una carta sola. Quello va per la “scala”, lo giurerei. Sta a vedere che mo frega anche questa volta. Si dà tre carte anche lui, il Maggiore, e intanto che Remondini e Castagna fanno: -Parola- apre adagio adagio le carte. È il momento più intenso ed emozionante. I nervi sono tesi. Quasi quasi si leggono le carte ancora prima di averle scoperte. Mestica, lui, non ha detto. -Parola-. Ha detto: -Venti-. Il Maggiore legge in fretta, e sbotta: -Cinquanta-. L’ha buttato fuori con tanta precipitazione che, mentre gli altri sono scappati, Mestica non gli crede. Viene a vedere. Eh, ci ha poco da fare, con la sua scaletta al fante … C’è un full, stavolta! Un full di quelli che lo inorgogliscono, un giocatore! Partendo con due assi, il Maggiore ne ha pescato un terzo, insieme a due donne. Era da tanto tempo che non centrava più un full di assi … Il gioco continua. È in forte ripresa, adesso, il Maggiore. Un altro full. Una scala. Titanic. Un tris di re. Non lo credono, e lo vengono a vedere. Vince come non gli succedeva da chi sa quanto; è il suo quarto d’ora, finalmente. Ecco, adesso ha in mano addirittura un “servito”. Un servito su un piatto di parola. Questa, vuol dire ripresa! Chi è, che ha bussato alla porta? Lo sanno bene che non vuole essere disturbato, quelle poche volte che gioca a carte. Che gli devono telefonare, se proprio non possono fare a meno di rompergli … Lo lascino in pace, almeno una volta tanto. Bussano ancora. E senza neanche attendere che finiscano di gridare: -Avanti!- l’altro è già venuto dentro. Ha la faccia congestionata, il piantone; e parla stravolto, col fiato in gola: -I russi! Ci sono i russi … ! -Eh … ? -Ma sei matto? -Dove? I russi … -Cosa ti salta in mente? Le carte vanno per aria. Nessuno si preoccupa più di loro. Balzano tutti in piedi, insieme, e si precipitano, chissà perché, verso l’esterno, traverso lo stretto pertugio del corridoio. C’è là, ansante, un portaordini sciatore, che è venuto come una furia dal più vicino posto di scambio.

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Lo portano dentro quasi di peso nella grande buca del Maggiore. E intanto che gli danno una borraccia di cognac per aiutarlo a riprendere fiato, quello incomincia il suo strabiliante, smozzicato rapporto: -I russi sono arrivati a …………….. verso le quattro del pomeriggio … Arrivavano … dalla parte della ferrovia … Il … telefono non funziona … Non si sa … da dove sono passati. A noi … sono arrivati a dircelo che … erano quasi le dieci. Il … sergente Scaranzoni mi ha man … dato subito. Ha detto che lui … attende ordini fino a … alle otto di stamattina. Poi … non sa ancora … ma qualcosa farà … forse ripiegherà verso ……………. Era passata la mezzanotte da un’oretta, e infuriava una tormenta feroce. Su tutto l’arco del fiume, non un solo colpo di fucile, non il più lieve movimento. Adesso si trattava di tenere i nervi a posto, stabilire i contatti con quanti più possibile e decidere il da farsi. Non un solo istante da perdere. CIXL Avanti, dunque, avanti nella neve che mulinava da tutte le parti. Uomini, muli, carriaggi di materiale, artiglieria. Un andare vigliacco, alla cieca, col fiato pesante e gli occhi dilatati. Adesso nessuno sapeva più a cosa appigliarsi: ogni appoggio era crollato, di colpo. Priva di puntelli, potrebbe resistere la già precaria impalcatura? Sotto i piedi si formavano degli zoccoli spessi di neve pressata, che faceva camminare da zoppo e poi cadere. Rialzandosi, non si preoccupavano neanche di tirarsi via la neve d’addosso. Spettri grigi e nebulosi, si muovevano in uno scenario irreale, negli elementi scatenati a flagellarli con furia schiacciante. Avanti! La vita era tutta in questa parola. Andare avanti! Orientarsi come potevano. Dove le piste si biforcavano, non valeva più né l’uso delle carte né di nient’altro. Anche la bussola non era più, ormai, che un giocattolo inutile e presuntuoso. Si doveva scegliere a caso, di istinto. Il Destino. Non c’è più né fronte né retrovia. A un tratto scoprivano le orme inconfondibili dei cingoli, e allora bisognava che dirottassero. Passavano sottocosta alle collinette, con qualcuno sui fianchi che tentasse di penetrare con lo sguardo in quel turbinio candido e accecante. Raccoglievano qua e là altri uomini armati, italiani e ungheresi, romeni e tedeschi. La nazionalità e i simboli non cantavano più nulla di fronte all’esigenza comune; né la simpatia o l’antipatia; né tutto il resto. La notte, in qualche posto si finiva pur per arrivare. Si accatastavano come potevano e dove potevano, nelle isbe e intorno ad esse; contro i fianchi e sotto la pancia dei muli; a ridosso del materiale che si trascinavano dietro .. La gente dei villaggi li guardava sbalordita, con negli occhi un gran senso di compassione e di angoscia. Pochi, con un lampo di trionfo. E caricavano maggiormente la stufa-forno, che mandasse più calore. In cambio, dopo la loro partenza raccoglievano quanto veniva di volta in volta lasciato indietro.

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Per mangiare, per un po’ riuscirono a cavarsela con qualche regolarità; poi, non restava che arrangiarsi. E arrangiarsi un po’ in tutto, evitando però di sbandarsi o di perdere il sentimento. In condizioni del genere è anche troppo facile non rendersi conto di quel che si fa: l’arrivare all’abbrutimento o il non arrivarci dipende dalle risorse fisiche e morali che si hanno a disposizione. I più deboli incominciavano a restare indietro. Per un po’ c’era l’amico che li incoraggiava o che li sosteneva. Poi: -Lasciami. Vai pure, tu. Io mi fermo un momento a prendere fiato … - e incominciavano a perdere terreno. Pareva loro che gli altri corressero a velocità vertiginosa, mentre loro avevano i piedi di piombo. Ad un certo punto scoprivano di essere arrivati a contatto di un reparto che non era il loro. Sembrava che un silenzio sconfinato stesse per ghermirli con infinite mani … e allora buttavano via un altro po’ della roba che ancora avevano nello zaino, e si sentivano subito leggeri leggeri, incredibilmente, e si mettevano a correre in avanti, scrutando i visi fino a riconoscere quelli noti. Gli occhi arrossati schizzavano dalle orbite e le pulsazioni si erano fatte frenetiche e violente. Qualcuno, nella tormenta, restava ad un tratto solo, chissà come. Quando se n’avvedeva, ricercava affannosamente le peste degli altri, e sotto di corsa. Incominciava a discernere di nuovo qualche sagoma scura e indistinta. Correva ancora. Incespicava. Cadeva, sbattendo la faccia nella neve. Barcollando come inebetito, rientrava. Non c’era disponibile la coda di un mulo? Cessava, la bufera. Alt … Verificare la “forza”. Passare la voce. Non è rimasto indietro nessuno. Avantiii … Restava il cielo livido e la pianura grigio-chiara. Bisognava procedere guardinghi, con la più grande cautela. Gruppi di esplorazione davanti e sui fianchi. Un gruppo di retromarcia. Collegamento a vista. In caso di allarme sparare in alto, fermarsi, mandare subito notizie. Direzione? Per di là … Una migrazione spaventevole e orrenda, di migliaia di esseri sempre più vicini all’angoscia, allo sbigottimento – non pochi ridotti ad essere più larve striscianti e faticose che non uomini! – che avevano uno scopo solo: Andare, Andare avanti! Non importa dove, purché non ci sia sbarrato il cammino. Sentivano sparare, ogni tanto, da lontano. Quando sparavano su di un fianco, interveniva in tutti una frenesia folle, di correre, correre forte. Poi, quasi insensibilmente il rombo del cannone si andava affievolendo, decresceva di tono. Era dietro a loro, ormai. Tiravano il fiato, come se tutto stesse ormai finendo. Doveva pur venire anche quel momento, no? Qualche reparto si trovava chiuso dentro, senza via di scampo. Quelli che non erano fatti a pezzi dalla mitraglia o dai cannoni restavano là istupiditi, a farsi indrappellare fino al più vicino villaggio, dove qualcuno li avrebbe presi in consegna. E gli altri continuavano la loro camminante agonia. Ecco che, adesso, sparavano proprio dinanzi a loro. Erano bloccati, stavolta. Bisognava divergere. Non si poteva più, era troppo tardi. Le granate, ormai, arrivavano addosso. Li inchiodavano. Era segnata!

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Farsi sotto. Stringersi sotto. Passare. Passare a tutti i costi. Seminando di macchie scure e urlanti la neve bianca. Avanti, con una testardaggine cocciuta e fenomenale, senza rendersi conto di nient’altro, se non di questa sola necessità. Dallo stato della greggia informe passavano impetuosamente a quello di fiere selvagge, che lottano per la loro vita. Postavano i cannoni che avevano ancora. Era una fatica massacrante. Sparavano. Sparavano con tutte le armi, recuperando i caricatori di quelli che non li avrebbero più potuti usare. Una tregenda atroce di vampe e di scoppi. Sgattaiolavano da un paese all’altro, da una collinetta all’altra, da un avvallamento all’altro, come belve inseguite e con gli artigli tesi. Avrebbero fatto uso dei denti e delle unghie. Scivolavano tra le colonne sovietiche, che scorrazzavano dappertutto, pareva fossero onnipresenti. Forse erano arrivati al limite della “sacca”, stavolta. E anche stavolta erano passati. E, adesso, arrivavano sopra gli aerei. Venivano a quota bassissima, con un rombo massiccio, da lacerare i timpani. Scrosci di bombe. Mitraglia infuocata e rapidissima, che arava la neve e seminava la morte. Chiazze scure sulla neve, chiazze scure e immobili un’altra volta, mucchi di stracci inanimati e pieni di sangue. Urla di terrore e di spasimo. I feriti, come si fa a raccoglierli e a portarseli dietro tutti? Come li si cura? Li si lascerà al primo paese, con quelli che non ce la fanno più a proseguire. Qualcuno penserà a loro. Non saranno dei selvaggi … La popolazione ci ha sempre detto: -Karosc, talianski … In alto, stridono follemente migliaia di corvi. A quale prezzo inaudito, verrebbe il riscatto? Non si era dunque espiato basta, ancora? Quali colpe così terribili avevano commesso quegli uomini? Basta. Basta. Basta. CXL La testa, Andrea non l’aveva perduta ancora. Però comprendeva chiaramente che ci sarebbe più poco da durare, in una situazione così. La tremenda migrazione, chi sa se durerebbe ancora molto? Fino a che ne restasse uno solo? O non era tutto un miraggio, ormai? Ciascuna ora che passava gli pareva che fosse l’ultima, e che dopo schiatterebbe. Reclinerebbe su se stesso, come un cencio afflosciato. Non ne poteva proprio più. La minaccia del collasso era imminente. Aveva dormito, l’ultima notte, senza né coperte né niente, appoggiato al muro di un’isba; e la mattina, al momento di riprendere quella marcia ossessionante, aveva scoperto con stupore di non essere morto. E non gli si erano congelati i piedi, e neanche le mani. Come poteva essersi verificata, una cosa del genere? Ricordava confusamente che la sera prima aveva mangiato un pezzo di carne cruda, di mulo. L’aveva stracciata via da una coscia con la baionetta di un soldato, e la baionetta non tagliava, non aveva più filo per le tante scatolette che aveva aperto.

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Aveva dovuto usare i denti, per staccarla del tutto. Il sangue, ancora tiepido, aveva un sapore dolciastro, e la carne fumava al contatto della temperatura esterna. Non sapeva più, Andrea, se fosse il terzo o il quarto giorno che camminavano. Magari, era passata già una settimana. Forse anche parecchio di più. Sì, era probabile che fosse così. Chi sa dove si trovavano, adesso? Il nome di un villaggio non dice proprio niente. Chi sa se ne incontrerebbero ancora, di colonne russe, o se la faccenda stesse per terminare, o se comunque non servisse proprio a niente … Lui, personalmente, non si faceva illusioni: di là, non ci scapperebbe fuori. Lo sentiva con lucidità inequivocabile. È inutile che uno cerchi furtivamente di far dimenticare che è vivo. Di passare inosservato o di fare il sornione. Non si gioca a rimpiattino, qui. È ora di farla finita di scappar via per il buco della serratura. Il ciclo, ormai, era compiuto. Camminarono ancora per qualche ora, senza incontrare nessuno. Era quasi mezzogiorno quando i velivoli scopersero la colonna e incominciarono a far fioccare giù il loro carico di bombe e di proiettili. Altre carcasse di bestie e di uomini si aggiunsero alle tante che già disseminavano la tragica gimcana che loro stavano correndo. Altre scene spaventevoli aumentarono l’incipiente disperazione che già serpeggiava in molti animi. Nel silenzio ritornato opprimente, scoppiarono di nuovo le cannonate. La neve parve accendersi di bagliori da tutte le parti, intorno a quegli sventurati in cerca di salvezza. Alcune voci gridarono, concitate e frenetiche, che era ora di finirla, alzassero bandiera bianca. Ma una voce calma e irreale diede degli ordini, come se nessuno avesse parlato, come se nessuno avesse udito. Bisognava prepararsi un’altra volta a ”passare”. Sparare, e andare all’assalto. GLI ALPINI NON LA MOLLANO! Ubbidirono, eccitati, come soggiogati da quella volontà più forte che additava loro, ancora una volta, il limite nuovo da superare. Avevano le mani rattrappite dal freddo, ma trovarono modo lo stesso di caricare forsennatamente le armi e di far partire i loro colpi. Spingendosi avanti come dei dementi, strisciando sulla neve o barcollando come ubriachi, andarono avanti un’altra volta. CXLI Andrea, adesso, non si mosse più. Ne aveva basta, lui. Aveva gli occhi gonfi e doloranti, e gli pareva che il viso gli scottasse come per fuoco. Si pose a giacere nella neve, con la testa sulle braccia. Qualcuno lo chiamò, lo scosse, lo urtò con un piede: non rispose, non diede cenno di vita. Quando fu sicuro di essere rimasto solo, si rizzò a sedere e, nel frastuono turbinoso della battaglia, sbottonò con tranquillità estrema il cappotto, si tolse i guanti e ficcò lamano sinistra nella tasca interna della giacca. Ne trasse due lettere, le ultime ricevute da Milano e dal Cascinone, proprio il giorno prima del disastro. Le considerò un momento, poi ne lacerò una, in tanti minutissimi pezzetti.

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-Mi spiace per te, Luci, ma la moglie … la moglie sei tu, Gisa. Lo sei in pieno. Aperse ancora una volta l’altra busta (quante volte l’aveva fatto, in quei giorni? Non viveva che per quella lettera, ormai) e ricominciò la lettura di quelle frasi che conosceva a memoria. Dopo poche righe, però, gli occhi gli si velarono, e così andò subito all’ultima pagina, dove c’erano le firme di tutti: la Gisa, Luigino, il papà, la mamma … Due lacrimoni gli rigarono il viso: -Effetto del freddo e della congiuntivite in arrivo- tentò di pensare. Strinse i denti e rimise in tasca la lettera sgualcita. -C’è un’altra cosa da fare, stavo dimenticandomene … Dal portafogli gli sorrideva una Luci scapigliata. Prese la piccola fotografia, la osservò malinconicamente e fece a minuzzoli anche quella. -Adesso va tutto bene. D’accordo, Gisa? D’accordo con tutti, no? Il gruppo della sua famiglia sembrava consentire con lui. Vi posò un istante le labbra, prima di rimetterlo sotto la custodia di cellofane. -E adesso non mi resta che aspettare. Non ci vorrà molto … Trasse fuori una sigaretta e fece per accenderla, ma non ci riusciva. Tirava vento. Strano che non se ne fosse accorto prima. Doveva trovare un posto un po’ più riparato … Si accostò al corpo di un soldato che giaceva riverso, e gli si inginocchiò accanto, abbassandosi vicino alla sua faccia per dar fuoco alla macchinetta. Un filo di sangue gelato macchiava quel viso sfigurato e pallido, uscendo dall’angolo della bocca … Proprio come il bersagliere sconosciuto incontrato a Millerowo! Era il destino, che prendeva la sua vendetta. Non c’è davvero più niente da fare, quando è così. Accese e si sedette vicino al morto, recitando mentalmente una preghiera. L’angoscia andava scomparendo: gli entrava in cuore una tranquillità assoluta. Il pensiero corse per qualche istante alla sua terra lontana, alle tante persone e alle tante cose della sua povera vita, ma tutto ormai gli sembrava estraneo e incapace di suscitare la minima reazione … Per far passare il tempo, si mise a contemplare, con occhi assenti e sfocati, lo sviluppo della battaglia. Gli alpini – e tutti quelli che erano con loro – erano ormai soltanto più dei puntolini neri che si muovevano in direzione di occidente. In mezzo a quelle formicoline scure ogni tanto si levavano degli spruzzi enormi di neve e di fuoco. Buttavano per aria, a volte, anche qualcosa di più consistente, un pezzo di soldato o di mulo. Ma quelli progredivano lo stesso. Ostinatamente. E la fanteria russa non la si vedeva più. Ormai gli alpini erano lontani di un paio di chilometri. Forse riuscirebbero anche stavolta, a passare! Sembrava proprio di sì. -Chissà se i morti li verranno a raccogliere presto o se attenderanno molto a seppellirci? Vorrei proprio sapere dove sarò sotterrato … Almeno a casa, però, avvertiranno: sulla busta della Gisa c’è l’indirizzo. Ci sarà pure un’anima pietosa che li vorrà informare, anche se non serve proprio a niente … Lo struggimento di un istante. Non è molto semplice partirsene così, qualche sussulto è inevitabile. Ma è questione di poco, adesso mi addormenterò per l’ultima volta, non me ne accorgerò neppure …

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Andrea pensò ancora alla barbaccia lunga e ispida che doveva avere. E a come era malconciato. Era pur vero che là dove stava per giungere non si baderebbe tanto alla forma, ma dispiace sempre non essere presentabili … Beh, meglio non pensare neanche a questo e fumare una nuova sigaretta, intanto. Dovrebb’essere l’ultima. Ricerca sempre più affannosa in tutte le tasche: non ce n’è rimasta neppure una … E come si fa, adesso? Eh no, almeno queste mi dovrebbero tener compagnia fino in fondo … Stette un momento a contemplarsi le dita fredde e macchiate di nicotina; poi, come illuminato da una grande idea, cominciò a spostarsi faticosamente da un morto all’altro: qualche sigaretta ci sarebbe pur stata. Uno di quei sacconi di grigioverde era ancora in vita, anche se aveva la faccia stralunata. Era stato colpito a una spalla, ma doveva essere solo una scalfitura; gli erano uscite poche gocce di sangue. Non si lamentava neppure, ammise di essere rimasto là aspettando solamente di morire. Ad Andrea sembrò di aver ricevuto in faccia un tremendo schiaffo, che lo faceva tutto rintronare. -Eh no, che ti piglia?- la sua voce risuonò aspra e irriconoscibile, violenta come una frustata. Si drizzò di colpo, con un vigore sorprendente lo afferrò sotto le ascelle e lo aiutò a rimettersi in piedi. Gli staccò freneticamente con le unghie la neve che gli s’era incrostata addosso, e lo prese sottobraccetto. La voce, adesso, gli usciva dalla gola a fiotti, dolce e trepidante come non se l’era mai conosciuta: -Gelati, i piedi? -Non so. Non credo. Qualche passo esitante. Si reggeva. Gli stropicciò le mani e il viso: -Forse sono passati, sai. Magari ce la facciamo anche noi. -È ferito dove, lei, tenente? -Io? No … Solo stanco. Mi ero sentito male. Ma è passata … Dopo una ventina di passi Andrea si arrestò, di botto: -Aspettami qua, tu, in piedi. Se no rischiamo di non trovarci più. Tornò, rapido e deciso, nel posto di prima. Non ne poteva proprio fare a meno. Gli era venuta un’energia straordinaria. Febbrilmente fece passare i morti, finché non ebbe ritrovato il “suo”, quello della striatura scarlatta all’angolo della bocca. Si chinò su di lui e trasse dalla tasca una delle sigarette ricuperate prima. La accese e, apertegli a forza le labbra serrate e ormai quasi diacce, gliela ficcò dentro. Lo stette a riguardare un momento, intenerito, si segnò e quindi raggiunse il compagno, che aveva assistito in silenzio alla scena incredibile. -Aveva voglia di fumare- sussurrò Andrea. –Adesso sarà più contento. Per noi, ne abbiamo ancora tre, di sigarette. E ne possiamo magari trovare delle altre. Loro non le fumano più lo stesso. -Ma non è morto, quello là? -Sì sì, è morto. Ma è una cosa che tu non puoi capire. Era una faccenda soltanto tra noi due, questa … -Ah … E adesso, noi?

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-Vorrai mica star qui, no? Te la senti di camminare? -Credo di sì. Ma non so se ce la faremo. -Se sono passati loro, passeremo anche noi … Se no, quel che Dio vuole … Il soldato stette un momento soprappensiero, poi fece di sì col capo, gravemente. Si rimisero a camminare, sottobraccio. Il fragore della battaglia era terminato quasi del tutto. Nei momenti di maggior intensità era sembrato, ad Andrea, di sentire un lontanissimo suono di campane a festa, e come l’eco di una sonagliera acuta e gioiosa. Ormai non c’era più che qualche raro colpo di cannone. Le armi automatiche e i fucili l’avevano piantata da un pezzo. E di carri armati non se ne vedevano. Gli alpini, dunque, erano passati ancora una volta. Sulla neve della steppa i ghiaccioli portati dal vento urtavano tanti corpi che non si sarebbero mossi più. Ma Andrea e il suo compagno erano ancora vivi … In silenzio, sorreggendosi a vicenda quando incespicavano, loro due continuarono ad andare. Non sapevano quel che li attendesse più avanti, ma non era neppure il caso di pensarci. Fin che cammina, uno sa di essere vivo. E fin che vive può permettersi il lusso di sperare.

Francesco Lova

-Finito di scrivere il 26 agosto 1944 -

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AL CONFINE DELLA VITA

Inchiniamoci di fronte alla Morte. Essa è nostra Madre più che sorella. Perché tutto eguaglia – le cose e noi. Superbe invidie, orgogli e sogni. Passa con la sua ala bordata di nero, e di bianco, e di velo dorato. Tutto spiana al suo passaggio – e le cose ne ascoltano, in trepida attesa, la voce solenne e inesorabile. Tutto si tace di fronte a Lei nel mondo. Perché, se è l’unica giustizia? Ma la giustizia vera la si teme sempre. Intorno ad essa è un silenzio vasto e arcano – pieno di sussurri – mesto di fiori, di lacrime, di petti ansanti in un fremito nuovo. Intorno ad Essa è pace. E’ la Potenza inesorabile che a nessuno perdona. E’ l’unica a essere da tutti temuta. Se ne parla con reverenza mistica e religione timorosa. Di rado si indugia intorno ad Essa. Non si osa. E, forse, sarebbe profanazione. E’ uno scroscio silenzioso e arcano che viene – calzato di felpo: e passa – tragicamente grandiosamente uguagliatrice e serena – livellando di casa in casa – di uscio in uscio. Dal casolare alla stamberga al palazzo. E nessuno le chiude l’accesso – le sbarra il cammino. Taluno la chiama. Si cela in una spuma d’acqua, frigida – in un pendio di neve riposante – in un crudo strapiombo di roccia. S’aderge scatenata – sanguigna e maestosa – urlante sui Campi sui Mari nei Cieli. E’ confusa nel rombo di un motore – nello sventagliare prepotente e impetuoso di un’elica – nel sibilo frenetico e ardente di una granata che squassa e dirompe – nel lacerto fioccoso di una nube – nella pace di un mare lagunoso. Sovrasta. Incombe. Posa sul tuo guanciale! Giace nel tuo giaciglio – al fianco: Spesso ti sfiora … e allunga su te lamano diafana – materna – come a vegliare il tuo sonno. … Poi, sente il tuo cuore che batte. Il sangue che pulsa e colora le guance di vita. Legge nell’avvenire che SOLA conosce … e si ritrae atterrita. La vita ancora ti attende per darti ancora un briciolo di gioia e di amore. E si ritira nell’ombra a vegliarti per rapirti a sé quando l’esistenza sarà colma e lo stame finito. Ha sete d’affetto, di tenerezza, ma le sue dita di seta, fini, sono di gelo e agghiacciano se soltanto carezzano. E’ triste!

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E’ buona e benefica e a tutti vuol bene – di uno stesso amore! – e nessuno trascura nella sua ultima carezza infinitamente dolce e trepida e affettuosa. Nell’atto della dipartita, l’Uomo le si concilia, forse. Dà tutta se stessa all’Uomo, infatti, che pure ne è indegno. E l’Uomo, per questo, la odia e – ingrato – le vuol male. E’ buona. E tu non lo sai. La temi inorridito. Quando più nulla è per te, su questa terra, allora Essa viene, col passo felpato, lieve, carezzoso o violento – di impeto di schianto o adagio adagio – temendo recarti spavento. Inginocchiati e benedicila. Ti prende. Sei suo. La Morte. E forse è l’unica forma di Vita che duri e non passi.

Francesco Lova

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Biografia � Alpino Lova Francesco di Giovanni e Cantoia Maria, nato a Romagnano Sesia il

12-05-1919, residente a Varallo Sesia (VC).

� Numero di matricola 3530/75/1919.

� Chiamato alle armi nel dicembre 1941/XX°in qualità di studente universitario della Facoltà di Lettere presso la R. Università di Torino.

� Ammesso al Corso Allievi Sottufficiali presso la Scuola Militare di Alpinismo di Aosta.

� Inviato al 5° Reggimento Alpini e assegnato al Btg. “Morbegno” conseguiva la promozione al grado di caporale maggiore sotto la data del 1° luglio 1942 e al grado di sergente sotto la data del 1° ottobre 1942. Da tale data prestò servizio presso la Compagnia Comando del Btg. Edolo.

� Partito con la tradotta da Almese il 21 luglio 1942 per la Campagna di Russia. Lungo il viaggio in tradotta fu corrispondente di guerra per il “Corriere Valsesiano”, diretto da Oscar Zanfa, e per altri giornali delle province di Vercelli e Novara. Mentre era sul fronte del Don scrisse altri articoli che inviò al “Corriere Valsesiano”. Dopo la campagna di Russia ritornò in patria e fu mandato a Bassano del Grappa.

� Dopo l’8 settembre 1943 fu partigiano sulle montagne della Valsesia.

� Venne nominato tenente con anzianità assoluta in data 1 luglio 1947.

� Scrisse un romanzo, intitolato “Come le formiche”, in cui raccontò le vicende che gli accaddero nella campagna di Russia.

� Redattore del giornale “La voce della Sicilia”.

� Giornalista e collaboratore dei quotidiani “La Stampa” e “La Gazzetta del Popolo”.

� Fu segretario del “Consiglio della Valle” della Valsesia quando ne era presidente l’onorevole Giulio Pastore. Successivamente fu egli stesso presidente del medesimo “Consiglio della Valle”dal 1956 al 1958.

� Fu insignito del titolo di “Cavaliere al Merito della Repubblica”, in data 03 giugno 1953, dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.

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� Da civile fu professore di Lettere presso Licei e scuole Medie nelle province di Vercelli e Novara. Appassionato di pittura dipinse molti quadri con le tecniche del carboncino, del colore a olio e dell’acquarello.

� Si sposò il 27 giugno 1953 con la giovanissima Rosina Teresa Giglio Tos. Ebbero tre figli: Paolo, Marisa e Maura.

� Morì il 18 novembre 1966, a Vistrorio Canavese (TO), residenza dei suoi suoceri, a causa di una emorragia cerebrale, a soli 47 anni.