charlotte salomon

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DI REPUBBLICA DOMENICA 8 NOVEMBRE 2015 NUMERO 556 Charlotte Salomon Una vita Prima di morire a Auschwitz, quando aveva ventisei anni, disegnò la sua autobiografia Uno straordinario graphic novel che solo oggi viene pubblicato La copertina. Come nasce un capolavoro Straparlando. Pressburger: “Le mie fughe” Mondovisioni. Il fascino sfiorito di Alessandria in tre FABIO GAMBARO Cult colori PARIGI U N’OPERA ECCEZIONALE. Un capolavoro. Co- sì la stampa francese ha accolto la pri- ma pubblicazione mondiale dell’edizio- ne integrale di Vie? ou Théâtre?, straor- dinario libro postumo di Charlotte Salo- mon, la giovane ebrea berlinese rifugiatasi in Fran- cia e poi uccisa ad Auschwitz nel 1943 all’età di venti- sei anni. Ottocentoventi pagine a colori formato 28 x 28, oltre millecento riproduzioni di gouaches (una tecnica di colore a tempera, ndr), per un volume di quattro chili e mezzo che per la prima volta restitui- sce compiutamente il senso del progetto originario dell’artista tedesca, la quale con Leben? oder Thea- ter? aveva pensato a una sorprendente narrazione per immagini, parole e musica. Un vero e proprio ro- manzo grafico, anche se all’epoca il concetto di gra- phic novel non era nemmeno immaginabile. Un’ope- ra d’arte modernissima, dotata di una forza eccezio- nale e densa di emozioni, che è al contempo autobio- grafia e libro di passioni, tentativo di sfuggire ai ten- tacoli della depressione e testimonianza delle perse- cuzione subite dagli ebrei durante il nazismo. Charlotte Salomon fu l’ultima allieva ebrea dell’Accademia di belle arti di Berlino. Nel 1938, per metterla al riparo dalla minaccia hitleriana, suo pa- dre la manda nel sud della Francia, vicino Nizza, do- ve si erano già rifugiati i nonni materni. Quando scoppia la guerra e le minacce si avvicinano ogni gior- no di più, Charlotte vede la nonna suicidarsi davanti ai suoi occhi, scoprendo che anche la madre, a diffe- renza di quello che le era stato sempre raccontato, era morta suicida. Come se una maledizione pesasse su tutte le donne della famiglia. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE I luoghi. Quarant’anni dopo, che fine ha fatto il Leoncavallo La storia. Thor Heyerdahl alla ricerca dell’Italia perduta Spettacoli. Viggo Mortensen: “Non mi piacciono gli attori che vendono profumi” Next. Dalla Siria all’Europa navigando su uno smartphone CHARLOTTE SALOMON, AUTORITRATTO/COLLECTION JEWISH HISTORICAL MUSEUM, AMSTERDAM © CHARLOTTE SALOMON FOUNDATION/ CHARLOTTE SALOMON ® PER GENTILE CONCESSIONE DI LE TRIPODE IN COLLABORAZIONE CON L’AUTRE AGENCE Repubblica Nazionale 2015-11-08

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Page 1: Charlotte Salomon

DIREPUBBLICADOMENICA 8 NOVEMBRE 2015NUMERO556

CharlotteSalomon

Una vita

Prima di morire a Auschwitz,quando aveva ventisei anni,disegnò la sua autobiografiaUno straordinario graphic novelche solo oggi viene pubblicato

La copertina. Come nasce un capolavoroStraparlando. Pressburger: “Le mie fughe”Mondovisioni. Il fascino sfiorito di Alessandria

in tre

F A B I O G A M B A R O

Cult

colori

PARIGI

UN’OPERA ECCEZIONALE. Un capolavoro. Co-sì la stampa francese ha accolto la pri-ma pubblicazione mondiale dell’edizio-ne integrale di Vie? ou Théâtre?, straor-dinario libro postumo di Charlotte Salo-

mon, la giovane ebrea berlinese rifugiatasi in Fran-cia e poi uccisa ad Auschwitz nel 1943 all’età di venti-sei anni. Ottocentoventi pagine a colori formato 28 x 28, oltre millecento riproduzioni di gouaches (una tecnica di colore a tempera, ndr), per un volume di quattro chili e mezzo che per la prima volta restitui-sce compiutamente il senso del progetto originario dell’artista tedesca, la quale con Leben? oder Thea-ter? aveva pensato a una sorprendente narrazione per immagini, parole e musica. Un vero e proprio ro-manzo grafico, anche se all’epoca il concetto di gra-phic novel non era nemmeno immaginabile. Un’ope-ra d’arte modernissima, dotata di una forza eccezio-nale e densa di emozioni, che è al contempo autobio-grafia e libro di passioni, tentativo di sfuggire ai ten-tacoli della depressione e testimonianza delle perse-cuzione subite dagli ebrei durante il nazismo.

Charlotte Salomon fu l’ultima allieva ebrea dell’Accademia di belle arti di Berlino. Nel 1938, per metterla al riparo dalla minaccia hitleriana, suo pa-dre la manda nel sud della Francia, vicino Nizza, do-ve si erano già rifugiati i nonni materni. Quando scoppia la guerra e le minacce si avvicinano ogni gior-no di più, Charlotte vede la nonna suicidarsi davanti ai suoi occhi, scoprendo che anche la madre, a diffe-renza di quello che le era stato sempre raccontato, era morta suicida. Come se una maledizione pesasse su tutte le donne della famiglia.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

I luoghi. Quarant’anni dopo, che fine ha fatto il Leoncavallo La storia. Thor Heyerdahl alla ricerca dell’Italia perduta Spettacoli. Viggo Mortensen: “Non mi piacciono gli attori che vendono profumi” Next. Dalla Siria all’Europa navigando su uno smartphone

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la RepubblicaDOMENICA 8 NOVEMBRE 2015 28LADOMENICA

Primadelfinale

La copertina. Charlotte Salomon

Il tennis, l’amore, il disegnola fuga dalla Berlino nazistaNell’ultima tavoladella sua “operetta” la giovane artista ebrea e tedesca si dipinge sul marePoi ci sarà solo Auschwitz

DOMANI

SU REPTV NEWS (ORE 19.55, CANALE 50 DT

E 139 DI SKY) FABIO GAMBARO COMMENTA

LE TAVOLE DI CHARLOTTE SALOMON

ULTIMO DISEGNO, IN RIVA AL MAREEd è così che scorrono i miei giorni: la Vita o il Teatro?Vita o Teatro?

16 APRILE 1917, OGGI È NATA CHARLOTTE!Lo annunciano i signori Albert e Franziska Kann. Charlotte piange disperatamente, giorno e notte. La mamma è felice,è lei che la allatta. È triste solo quando deve darla alla tata

MA UN GRAN BRUTTO GIORNO...Franziska cade dal terzo piano, muore sul colpo. Albert si dispera: “Ho perduto la mia felicità!”. Charlotte di notte attende di vederne l’angelo, ma vede solo scheletri neri...

IL PENULTIMO DISEGNO DI CHARLOTTE“Nonno, tu dì pure quello che vuoi ma io continuo a credere che toccherà a noi ricostruirlo daccapo questo mondo...”

CHE L’OPERETTA IN TRE COLORI COMINCI! Personaggi principali: i coniugi D’Knarre, le loro figlie Franziska e Charlotte, il dottor Kann e sua figlia Charlotte, un professore... L’azione si svolge tra il 1913 e il 1940, in Germania e poi a Nizza

MAGGIO 1940, DI NUOVO IN FUGA!“Avviso. Tutti i cittadini tedeschi sono tenuti a lasciare immediatamente la città e la regione”. Sì, gettarmi fuori dalla finestra, forse è davvero arrivato il mio turno...

UNA TERRIBILE CONFESSIONEUna sera il nonno racconta a Charlotte: “Tua madre si gettò dalla finestra. E prima ancora la tua bisnonna. E poi tua zia, nel fiume. E ora tua nonna. E tu, quando ti ucciderai...?”

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COSTRETTA A NASCONDERSI per sfuggire alle retate naziste, tra il 1940 e 1942 la giovane artista lavora alla composizione di Vie? ou Théâtre?. Utilizzando solo i colori primari — rosso, giallo e blu — capace di fare i conti con l’arte del suo tempo, dall’espressionismo tedesco a Chagall, Charlotte dipinge con foga tutte le gouaches che formano l’ossatura del libro, scrivendo i testi talvolta sulle immagini altre volte su calchi da sovrapporre alle illustrazioni. Alternando di continuo le emozioni, oscillando tra tragedia e commedia, ironia e melancolia, speranza e paura, quella che l’autrice definisce semplicemente «un’operetta in tre colori» racconta la sua drammatica vita familiare, i suicidi, il nazi-smo, l’esilio, ma anche la spensieratezza dell’infanzia, la passione per l’arte, il disperato bisogno di amore e la sua complicata relazione con

un uomo di vent’anni più anziano. Spinta dall’urgenza, Charlotte reagisce alle minacce del mondo di-pingendo per vivere. Dopo la morte del nonno, rimane sola in un paese straniero e ostile. Si sposa, ma qualche mese dopo, il 21 settembre del 1943, quando è incinta di cinque mesi, viene arrestata e de-portata ad Auschwitz, dove scompare in una camera a gas.

Poco prima di essere deportata, Charlotte aveva affidato tutto il suo lavoro a un medico francese. Dopo la guerra, il padre, insieme alla seconda moglie, miracolosa-mente scampati alla Shoah, poterono recuperare le sue opere. Le mostrarono al pubblico, però, solo negli anni Sessanta, quando una parzialissima selezione di gouaches venne esposta a Amster-dam e Locarno. Solo dopo che nel 1971 il suo archivio fu donato al Jewish Historical Museum di Amsterdam, il nome di Charlotte Sa-lomon inizia a circolare più diffusamente. Alcune mostre in Euro-pa e negli Usa la fanno conoscere negli ambienti artistici. A Parigi nel 1992 e 2006, a Kassel nel 2012, la sua “operetta” fa il suo in-gresso definitivo nel pantheon dell’arte moderna. Parallelamente cresce l’interesse per il tragico destino dell’autrice. L’anno scorso, a Salisburgo, viene presentata Charlotte Salomon, un’opera del compositore francese Marc-André Dalbavie, mentre arrivano in li-breria Charlotte. La morte e la fanciulla di Bruno Pedretti (Skira) e il romanzo Charlotte di David Foenkinos (Mondadori).

Eppure, nonostante la crescente attenzione nei suoi confronti, finora nessuno aveva mai pubblicato integralmente Vie? ou Théâtre? nella forma libro immaginata dall’autrice. «Il suo lavoro è stato spesso presentato come una testimonianza della persecu-zione degli ebrei, ma in realtà quest’aspetto è solo uno tra i molti presenti nel libro», spiega Frédéric Martin, il coraggioso editore francese all’origine della pubblicazione: «Altre volte si è sottolinea-to il valore della pittrice, ma presentando solo alcune delle gua-ches in modo isolato, ignorandone la dimensione narrativa». L’arti-sta invece aveva numerato la sequenza organizzando il racconto in capitoli: «Charlotte Salomon è straordinariamente innovativa. All’epoca non esisteva ancora il graphic novel, ma oggi il suo emo-zionante lavoro lo definiremmo proprio così».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

<SEGUE DALLA COPERTINAF A B I O G A M B A R O

NOVEMBRE 1938, MORTE AGLI EBREI! Urlano: “Prendetevi tutto quello che potete! Morte agli ebrei”. Io ne ho abbastanza, ne ho abbastanza di questa vita.Ne ho abbastanza di quest’epoca...

NESSUNO AVEVA ANCORA AMATO COME IO TI AMO...Poi tutti i suoi nervi, così sensibili, vennero percorsi da una corrente che la mandò a fuoco...Questo disegno è stato fatto sulle note di “Nessuno aveva ancora amato come io ti amo”

IL LIBRO

“CHARLOTTE SALOMON, VIE? OU THÉÂTRE?” È USCITO ORA IN FRANCIA (LE TRIPODE, 820 PAGINE, 95 EURO) CURATO DA MARGARET GRAY E MARGHERITA MARIANO. I TESTI CHE ACCOMPAGNANO LE 14 PAGINE QUI PUBBLICATE SONO ORIGINALI. I TITOLI, INVECE, SONO OPERA DELLA REDAZIONE

PASSANO GLI ANNI, RICOMINCIA LA VITA!Charlotte è contenta, a scuola fa progressi, adora giocare a tennis, ed è davvero brava per la sua età! “Ah — sospira felice — il mio futuro sta ancora tutto davanti a me”

E PRIMA O POI L’AMORE ARRIVA! Ecco Charlotte seduta sul suo letto — quando ti vedo il mio cuore comincia a battere terribilmente,è come se il mondo intero si facesse in mille pezzi...

SÌ, DISEGNARE! BISOGNA OSARE!Impossibile continuare ad andare a scuola, basta! basta!Forse, se imparassi a disegnare, mi fa sentire talmente bene...Solo chi osa può farcela, solo chi osa può ricominciare...

IN FUGA DA BERLINO. DAI NONNI, A NIZZA!Ecco i miei sogni su sfondo blu! Come fate a essere così pieni di luce pur partendo dalla sofferenza e dal dolore? Sogno, parlami! Perché mi salvi? E il vento agita le foglie argentate...

30 GENNAIO 1933, SVENTOLA LA CROCE UNICINATAI nazional-socialisti hanno preso il potere. È con gli occhi pieni di speranza che marciando fissano la croce uncinata. Gridano: chi acquista da un ebreo è un porco egli stesso!

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la RepubblicaDOMENICA 8 NOVEMBRE 2015 30LADOMENICA

Leonka

I luoghi. Via Watteau 7

MILANO

UN CRESCENDO ROSSINIANO MONTA INTORNO A MILANO, dai fasti di fine Expo al colmo del prefetto Tronca spedito a rassettare l’ormai surclassata Roma. In questo edificante romanzo in progress sulla capitale del rinascimento italiano, c’è però una pagina in-congrua e spiegazzata. Per quanto in molti abbiano tentato più volte di strapparla (dal socialista Pillitteri al leghista Formentini), se ne sta ancora lì, montata a rove-scio nella storia per bene della città.

In via Leoncavallo 22, dove quella pagina è spuntata, al posto del casino organiz-zato dei ragazzi del ’75, c’è un condominio di mattonelle biancastre e una filiale del-la Banca Carige. Nel cortile che ospitò l’allergia al potere di un’avanguardia che dal quartiere Casoretto avrebbe fatto scuola di ribellione al resto d’Italia, un’Honda Point Service ha cancellato con pezzi di moto ogni pezzo del Movimento, dai muri in-cendiati di colori ai concerti da sballo, dalla scuola popolare all’ambulatorio di ago-

puntura. Lo spirito del Leonka è stato trasferito di forza altrove, è rimbalzato qualche mese in via Salomone, e ormai dal 1994 riposa in relativa quiete in via Watteau 7, la terza sede, dove ha da poco festeggiato i suoi primi quarant’an-ni di esistenza e resistenza.

Dietro un ponte della ferrovia in zona Greco, non distante dalla via Gluck di Celentano, in una cartiera dismessa di proprietà della famiglia Cabassi, la stessa che per colmo di ironia deteneva i diritti anche dell’ex fabbrica farma-ceutica di via Leoncavallo, incubatrice di tutti i Leoncavalli a venire, la chiesa consacrata alla disubbidienza si fa an-nunciare da navate di murales e graffiti, che Vittorio Sgarbi ha definito “la Cappella Sisti-na” della contemporaneità e che proseguo-no ininterrotti per ogni centimetro di muro all’interno (diecimila metri quadrati al co-perto, l’equivalente di due campi da calcio), dalle aule dove si insegna italiano agli stra-nieri e inglese agli italiani, fino ai laboratori di teatro e artigianato. La trama caotica di pitture, mandala e scarabocchi sale di un piano, raggiunge le stanze destinate a ospi-tare i senzatetto durante l’emergenza fred-do, e poi rotola giù, alle pareti delle botte-ghe e dei bar ospitati in un vasto e sganghe-rato giardino, il cui fiore iridescente è lo spa-zio “Game over”, dove smanettano sviluppa-tori indipendenti di software e videogiochi.

Dovunque, la luce è fioca, al contrario dell’o-dore di fumo, intenso e stordente. Uno dei motti della casa è “legalizzare e tassare”, marijuana libera come le sigarette, con un tanto allo Stato per il disturbo, come in Cali-fornia e Colorado (ma lotta dura a chi spac-cia roba pesante). Nei cessi, molti e alla tur-ca, geroglifici indecifrabili e una scritta biri-china: “Dio esiste ma è Lui che non crede in te”. L’ingresso è dalle 19 fino alle 2 del matti-no e oltre. Chiuso la domenica e il martedì, ma se per esempio il 15 dicembre, morte di Pinelli, cade proprio di martedì come que-st’anno, il turno di riposo salta. Volendo, si cena alla Cucina Pop, 14 euro dal primo al dolce, o si beve all’Hemp Bar (hemp sta per canapa), affacciato sul salone grande dove, sotto un imponente ritratto del Che e una fo-to ricordo dell’ex vicesindaco missino De Co-rato che venne in visita ma rifiutò il caffè per paura che l’avvelenassero, capita di assiste-re a stralunati tornei di bike-polo, con dei pazzi che rischiano di arrotarsi spingendo a bacchettate una pallina gialla dentro angu-ste porte. Quando il comitato di gestione, che si riunisce il lunedì, mette in program-ma concerti o spettacoli di richiamo, l’enor-me spazio si riempie come ai bei tempi ma senza neanche una sedia, perché se c’è musi-ca si balla e se passa un Dario Fo si sta seduti per terra. Quanta gente c’era ai bei tempi? Negli anni Settanta e Novanta, un mucchio. Adesso si rischiano giornate da cinquanta persone, compensate da altre con quattro-mila. L’impegno civile, caro signore, è in ca-lo dappertutto, ma qui siamo e qui restia-mo, è la nostra storia.

Per raccontare questa lunga storia in dire-

16 AGOSTO 1989

NONOSTANTE LA RESISTENZA DEGLI OCCUPANTI POLIZIA E CARABINIERI GIUNTI ALL’ALBA SGOMBERANO CON LA FORZA IL CENTRO SOCIALE. SEGUIRANNO CORTEI IN TUTTA ITALIA. LE RUSPE ABBATTONO L’EDIFICIO CHE VIENE PERÒ RICOSTRUITO

C A R L O V E R D E L L I

Milano,

18 OTTOBRE 1975

I COLLETTIVI DI VARIE AREE POLITICHE DEL MOVIMENTO MILANESE OCCUPANO UN EDIFICIO IN VIA MANCINELLI CON UN GRANDE MAGAZZINO SU VIA LEONCAVALLO, NELLA ZONA NORD DELLA CITTÀ, QUARTIERE CASORETTO

LA STORIA

18 MARZO 1978

DUE RAGAZZI DEL CENTRO SOCIALE, FAUSTO TINELLI E LORENZO IANNUCCI, CHE LAVORAVANO A UN LIBRO BIANCO SUL TRAFFICO DI EROINA NEL QUARTIERE, VENGONO UCCISI IN VIA MANCINELLI. IN CENTOMILA VANNO AI LORO FUNERALI

L’IMMAGINE

IN UN MURALESDEI WOLKS WRITERZ DEL 2008 (FOTOPER GENTILE CONCESSIONEDEL LEONCAVALLO)UN PEZZO DI STORIA DEL CENTROSOCIALE MILANESE:DALL’OMICIDIODI FAUSTO TINELLI E IAIO IANNUCCI (MARZO 1978) ALLA RESISTENZACONTROLO SGOMBERODELLA PRIMASEDE IN VIA LEONCAVALLO(AGOSTO 1989)

Il centro sociale più famoso d’Italia ha compiuto da poco

i suoi primi quarant’anni. Dal vecchio quartiere Casoretto

ha attraversato la storia di una città. Ed è proprio ritornando

sui suoi passi che siamo andati a vedere che fine ha fatto

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©RIPRODUZIONE RISERVATA

zione ostinata e contraria, prima di Natale uscirà un libro di centosessanta pagine, edi-to dalle “Mamme del Leoncavallo”, scese in trincea negli autunni caldi del secolo scorso a fianco dei loro figli contro “i fascisti in bor-ghese o in divisa” che gli volevano male. Le signore mamme sono l’unica associazione le-galmente registrata in questa isola vagante ai confini del diritto, e spesso oltre: grazie al-la loro tutela, stavolta editoriale, la frasta-gliata scia lasciata dal “centro dei centri so-ciali” verrà riepilogata attraverso una serie di rumorosi fotogrammi. Centinaia di istan-tanee che includono occupazioni, resistenze violente agli sgomberi, l’assalto alla prima della Scala del 1976, estenuanti battaglie “contro” (dal nucleare alla Tav) e “pro” (dall’Intifada ai diritti dei carcerati). Un ca-pitolo a parte avranno le morti indelebili di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, stu-denti diciottenni che per il Leoncavallo lavo-ravano a un’inchiesta sull’impennata di dro-ga pesante in zona Lambrate e che la sera del 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapi-mento Moro, vennero ammazzati con otto colpi di pistola da un commando a cui non sa-rebbe estraneo Massimo Carminati, “er ce-cato” della Banda della Magliana e poi di Ma-fia capitale: il telegiornale della sera parlerà di “regolamento di conti tra spacciatori”, i tribunali archivieranno.

C’è molto altro nella coda di questa bizzar-ra cometa, nata dalla disillusione del dopo Sessantotto e sopravvissuta a decenni diver-samente bollenti: da quelli del terrorismo, che intaccarono il Leonka con cellule della colonna Walter Alasia, alla mortifera fase del riflusso, un collasso per l’oratorio milane-

se degli indignati; dal rigurgito di furore del-le tute bianche, poi spento nella vergogna collettiva del G8 di Genova, fino alla presen-te e perseverante stagione del distacco dalla politica. Quando i leoncavallini prendono vi-ta e nome, il 18 ottobre 1975, un litro di ben-zina costa 350 lire, diecimila una dose di eroina tagliata con stricnina, un milione 960mila un Maggiolino, l’equivalente di un anno di stipendio di un tramviere. Alle Re-gionali, il Pci di Berlinguer cresce del 5,6 per cento e arriva poco dietro alla Dc di Fanfani, che però perde il 2,5 e lascia la segreteria a Zaccagnini. A seguire il Psi di De Martino e il Movimento sociale di Almirante. Tutti scom-parsi, persone e sigle. Il Leonka no.

A ogni 25 aprile, è ancora lo spezzone di corteo più numeroso. Alle ultime Comunali, maggio 2011, ha ospitato un seggio per le primarie del centrosinistra e dato una spin-ta a Pisapia (spinta di cui non godrebbe Giu-seppe Sala, mister Expo, fosse lui il candida-to di parte). I cani sciolti, i libertari, i marxi-sti-leninisti della prima ora sono stati in gran parte sostituiti dalle nuove leve dell’an-tagonismo, più sintonizzate sulle onde corte dell’hip-hop e del tempo digitale. Su Face-book sono a 59.406 “mi piace”, con post del tipo: “Giovedì, Horses Crew ha il piacere di ospitare Smashing Wednesday Sound Sy-stem per rendere meno freddo l’infrasetti-manale milanese”. Oltre alla musica, è stato anche adattato il marchio: da “centro socia-le” a “spazio pubblico autogestito”, il cui bef-fardo acronimo è S.p.a. In compenso, conti-nuano a chiamarsi “compagno/compagna” e stampano, in tiratura limitata, un calenda-rio di cui vanno fierissimi: il 2015 ha in coper-

tina un grappolo d’uva con il titolo “No Tav, No Tavernello” e a ogni mese la segnalazio-ne di qualcuno “da non dimenticare “, da Giuseppe Pinelli, anno di disgrazia 1969, a Carlo Giuliani, Genova 2001, e in mezzo Ro-berto Franceschi, Luca Rossi, Davide Cesare detto Dax, Claudio Varalli, Giannino Zibec-chi, tutte reclute spazzate via da una guerra mai dichiarata. Come Fausto e Iaio, l’apice di dolore di questi primi quarant’anni e il col-lante più potente che ancora tiene insieme la ditta, con i suoi credo (“Qui sono, qui re-sto”) e il conseguente, esibito disinteresse per gli avvisi di sfratto che ogni mese la Cor-te d’Appello recapita in via Watteau, pun-tualmente prorogati dai magistrati e disat-tesi dagli abusivi.

Giuliano Pisapia ci ha messo del suo per costruire ponti tra il Leoncavallo e il resto della città. Da sindaco, è quasi arrivato a un accordo tra la proprietà dell’immobile e gli occupanti storicamente morosi, con annes-sa la rivoluzionaria frase “pagare l’affitto”. Non ci siamo ancora, domani chissà. Un paio di vite fa, quand’era avvocato, proprio Pisa-pia difese settantanove leoncavallini da una grandine di accuse che andavano dal lancio di molotov alla violenza contro agenti e pub-blici ufficiali. I fatti risalivano al 16 agosto 1989, quando le “ruspe rosse” della giunta Pillitteri, approfittando del periodo di vacan-za, demolirono con un blitz buona parte del centro sociale e gli occupanti risposero dal tetto con un armamentario da guerriglia ur-bana. Il processo si celebrò nel giugno suc-cessivo. «Il clima era pessimo», racconta il sindaco avvocato. «Il presidente del Tribuna-le, Renato Caccamo, passava per uno molto

severo. Gli proposi, prima che si pronuncias-se, una visita alla sede del Leoncavallo. Fu ispezionato ogni angolo, alla ricerca di pro-ve a sostegno dell’accusa. Solo che dagli ar-madietti delle stanze saltarono fuori i qua-derni dei compiti di bambini e i diari degli in-segnanti che tenevano corsi per gli extraco-munitari. La condanna alla fine fu lieve, e con un’attenuante senza precedenti: “Aven-do gli imputati agito per motivi di alto valo-re morale e sociale”. Forse neppure loro se lo ricordano più».

Il 31 ottobre, mentre Milano e l’Italia inte-ra gonfiavano il petto a Rho-Pero per l’hap-py end dell’Expo, la signora Luciana Castelli-ni, presidente della “Mamme del Leoncaval-lo”, si è fatta a piedi, aiutata da un bastone per via di tre ernie alla spina dorsale, il lun-go e buio corridoio che dal portone di via Watteau 7 porta alla sala della Cucina Pop. Si è seduta a una tavolata vuota, ha comin-ciato a ricevere baci da vecchi compagni e compagne ricomparsi da chissà dove per il suo compleanno: «Stasera ne faccio novan-ta, mi aiuteranno a spegnere le candeline. I ragazzi qui mi vogliono bene. Da qua-rant’anni sono la mia vita». Partono in suo onore due minuti di fuochi d’artificio. Li ha comprati Elisa, stessa età del Leonka, scap-pata di casa quando aveva sedici anni, unica dipendente assunta in regola nella storia del centro sociale. «Perché lavoro qui? Per-ché ci ho creduto tanto». Ancora? «Sì». E ab-braccia la Luciana come fosse la sua, di mam-ma. Alle loro spalle, un cartello che resiste da qualche mese: “Chi non limona a Capo-danno, non limona tutto l’anno”.

OGGI

IL “LEO” R-ESISTE ANCORA. LA GIUNTA PISAPIA HA TENTATO UNA MEDIAZIONE TRA OCCUPANTI E PROPRIETARI MA FINORA SENZA RISULTATI. UN LIBRO, EDITO DALLE “MAMME DEL LEONCAVALLO”, NE FESTEGGERÀ I QUARANT’ANNI

20 GENNAIO 1994

IL SINDACO LEGHISTA FORMENTINICONCORDA LO SGOMBERO IN CAMBIO DI UNA NUOVA SEDE CHE VIENE A SUA VOLTA SGOMBERATA. IL 10 SETTEMBRE UN CORTEO DI PROTESTA SFOCIA IN VIOLENTISSIMI SCONTRI

19 SETTEMBRE 1998

NEL NUOVO SPAZIO OCCUPATO NEL ’94 IN VIA WATTEAU, I CENTRI SOCIALI DEL NORDEST PRESENTANO “LA CARTA DI MILANO”, UN DOCUMENTO POLITICO CHE SINTETIZZA LE RIVENDICAZIONI DELLE NEONATE “TUTE BIANCHE”

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la RepubblicaDOMENICA 8 NOVEMBRE 2015 32LADOMENICA

Alla ricercadella civiltà

perduta

G I A N N I C L E R I C I

Io e Thor

Dal Kon-Tiki

al fabbro di Alassio

Gianni Clerici ricorda

quando incontrò

Heyerdahl il norvegese,

il grande esploratore

che lasciata la Polinesia

approdò in Liguria

(e gli spiegò il perché)

THOR HEYERDAHL avrebbe cent’anni, anzi, uno in più, se i suoi talenti non si fosse-ro limitati a scoprire che, in Polinesia, le tribù peruvia-ne erano arrivate intorno al Cinquecento dopo Cristo, traversando quattromila miglia di mare con zattere simili a quella che si era co-struito lui, il “Kon -Tiki”.

Me ne sono accorto rileg-gendo miei vecchissimi articoli di cinquanta, o ses-sant’anni fa, per una mia presunta biografia, che chia-merei eterografia, dal momento che le persone che ho conosciuto, o magari soltanto intervistato, erano certo ben più famose del povero scriba.

Allora ragazzo di bottega de Il Giorno, fui inviato a parlare con Heyerdahl per una successione di intervi-ste che si sarebbero occupate di personaggi famosi che avevano scelto l’Italia quale loro residenza, a partire da Shelley e Byron. L’intervista fu facilitata dal fatto

che possedevo ad Alassio una villa non distante da Col-la Micheri, dove Heyerdahl aveva, per me sorprenden-temente, scelto di abitare, dopo esser divenuto un per-sonaggio di notorietà mondiale.

Trasportato da un autista amico di Heyerdahl, Gan-dolfi, lasciammo la strada per inoltrarci in un sentiero sterrato per il quale uno di quei Suv che ora sommergo-no vanamente i centri cittadini sarebbe stato ideale.

Arrivammo, dice l’articolo prevalendo sulla memo-ria, in una piazzetta con tanto di fontana e case medioe-vali “restaurate con educazione“. Heyerdahl si presen-tò come un prototipo del genere scandinavo, quello che mi era solito incontrare, allora, nel mio sport prefe-rito insieme al tennis, il fondo con gli sci.

Grande, capelli chiari, occhi azzurri. Come mi spinsi a congratularlo per la sua scoperta rimase un istante in-certo: erano infatti passati diciassette anni da quando, con la zattera, aveva percorso la via Tiki del sole. «Quel-lo è stato un lavoro da antropologo, e da marinaio», sor-

La storia. Due uomini in barca

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UN SIGNORE ANZIANO con un bel maglione norvegese ricamato sfoglia un vecchio album di fotografie accanto a un bambino che potrebbe essere suo nipote. Dall’album fuoriescono per

magia televisiva fiordi, boschi di conifere, sciatori nordici, folletti, eleganti pattinatori sul ghiaccio. La scena passa davanti agli occhi di un miliardo di spettatori. Per la presentazione e inaugurazione dei XVII Giochi Olimpici Invernali di Lillehammer, febbraio 1994, la più bella ed ecologica delle edizioni, la Norvegia scelse lui, Thor Heyerdahl. L’anziano e sempre vitale personaggio in cui tutta la tradizione di un paese concentrava la storia dei suoi tenaci pionieri.

In un arco molto esteso della sua vita attiva Thor fu antropologo, archeologo, esploratore, scrittore, documentarista, incredibile e polipesco atleta-studioso in tutti gli angoli del mondo. Nel 1947 costruì una zattera di totora, una pianta vigorosa del Sudamerica (non di balsa, come dicono i siti internet). Si chiamava “Kon-Tiki” (dal nome Inca del dio della pioggia). Con essa Heyerdahl attraversò l’oceano Pacifico dal Perù alla Polinesia. Sbarcò a Raroia dopo 101 giorni e 6.929 chilometri. Di mare. Il tutto per dimostrare che le popolazioni amerindie potevano essere emigrate nelle isole polinesiane. Nel 1970 con una imbarcazione di papiro, progettata in base ai reperti degli antichi Egizi, il “Ra II”, partì dal Marocco e giunse all’isola di Barbados, sempre per dimostrare i collegamenti via mare delle antiche popolazioni precolombiane. Le cronache internazionali spesso dimenticano che a bordo del “Ra II” c’era pure il nostro Carlo Mauri, ottimo alpinista, degno compagno di corda di Walter Bonatti (per esempio sul Gasherbrum IV, con Fosco Maraini e Riccardo Cassin). Nel 1978 Thor costruì un’altra imbarcazione di materiale antico, il “Tigris”, per navigare oltre i fiumi Tigri e Eufrate e confutare la tesi degli storici che sosteneva che gli antichi Sumeri non si erano mai avventurati oltre la foce di quei fiumi. E così via per tante imprese, che solo apparentemente discendono da quelle di Roald Amundsen (Passaggio a Nord Ovest e Polo Sud nel 1911) e dal maestro di tutti, Fridtjof Nansen, grande organizzatore di viaggi polari e groenlandesi, sperimentatore di slitte e sci, poi Alto commissario per i rifugiati della Società delle nazioni e, in quanto tale, premio Nobel per la Pace. Tutti personaggi che si portavano dentro, ben nascosta,

l’angoscia borghese e antiborghese e il conseguente nomadismo esistenziale e onirico del loro connazionale Henrik Ibsen. In realtà le traversate oceaniche di Thor erano un mix strano di teorie azzardate e di passione per le avventure più rischiose esplodenti a raggiera a ogni latitudine, con preferenza per i paralleli tropicali piuttosto che quelli artici e antartici così cari ai suoi conterranei. Già scettico a quel tempo, il mondo scientifico gli diede poi torto e a volte lo derise. Oggi le trasmigrazioni dei popoli si osservano nel Dna, senza bisogno di bizzarri viaggi in barche di canne del Titicaca. Il pubblico di milioni

di appassionati, invece, lo premiò con una generale stupefatta ammirazione. Il filmato “Kon-Tiki” gli valse l’Oscar hollywoodiano per il miglior documentario (1951). Poi vennero “Galapagos” (spedizione nel 1953); “Aku-Aku” (nel 1957); “The Ra expedition” (1971) e altre pellicole e libri di successo. Un’Europa stremata dalla guerra e desiderosa di nuove pacifiche gesta che inoculassero la forza del riscatto vide in lui lo spericolato promotore di imprese reali e simboliche di sopravvivenza e di successo.

È significativo che all’ultimo trovasse riposo e sepoltura non in un’isola esotica ma tra le pietre, i muri, i tetti e gli orti di un borgo medievale del Mar Mediterraneo ligure, ovvero nel cuore della vecchia, cara civiltà europea.

rise. «Credevo mi facesse i complimenti per la Liguria. Attività da archeologo» sorrise ancora, e, indicandomi Gandolfi commentò: «Ho avuto buone guide».

Venni dunque a sapere che Thor era arrivato ad Alas-sio nel 1948, senza riuscire a trovare qualcosa che gli andasse, come era accaduto al celebre Lord Hanbury, fratello del super botanico de “La Mortola”. Sinché Gan-dolfi si era ricordato di una collina subito prima del Ca-po Mele, di ciclistica notorietà, e, insieme ai bambini di Heyerdahl, aveva percorso il sentiero, in cima al quale Thor si era arrestato, aveva spaziato con lo sguardo sul golfo, che giungeva sino all’isola Gallinara, e aveva esclamato: «Andiamo a comprare, voglio vivere qui».

Qui significava duecentocinquantamila metri qua-dri di collina ligure, sui quali venne issata la bandiera norvegese. La bandiera avrebbe dapprima sovrastato una piccola tenda, e all’interno un sacco a pelo che ave-va difeso Thor dalle insidie marine durante la traversa-ta del Kon-tiki. Da un’esplorazione più attenta dei luo-ghi, emerse una casa diroccata che sogguardava una chiesetta e un chiostro del 1400. «La ricostruimmo» mi informò, invitandomi a visitare lo studio «qui, sopra il mulino».

Lo studio era tappezzato di libri, e non solo delle ses-santré edizioni di Kon-Tiki. Heyerdahl mi mostrò il la-voro che stava facendo, «una monografia sull’Isola del-la Pasqua, che ho iniziata addirittura prima della guer-ra, e che non finisce mai. Allora ero uno zoologo, da zoo-logo stavo diventando antropologo, ma al contempo mi ero reso conto che la specializzazione stava condu-cendo a una mutilazione umanistica. Mi capitava sem-pre più spesso di sentire problemi assolutamente di-scordi, al contempo apparentemente risolti all’interno delle varie discipline. Così mi ritrovai antropologo e umanista, e riuscii ad affrontare la mia spedizione».

Rimasi insieme lieto per lui, e perplesso. Ma cosa l’ha spinta sin qui? Purtroppo il Rinascimento è finito, e anche dimenticato.

«Le dirò che, prima di venire qui, io conoscevo i paesi europei dei quali parlavo la lingua, scandinavo, ingle-se, tedesco, un po’ di francese: non l’italiano. Quando arrivai, affiorò tuttavia una sensazione che andavo cer-cando. Quella della civiltà».

Piuttosto incredulo, affermai di non aver capito.Heyerdahl si appoggiò alla porta del mulino, ad acca-

rezzare un chiavistello che mi parve antico, e comun-que complicatissimo e, nel suo genere, interessante.

«Questo me l’ha fatto Chiolini, il fabbro di Alassio» affermò. «Avevo trovato qui una chiave abbandonata, e lui ha ricostruito perfettamente il chiavistello, com’e-ra nel Seicento. La porta che regge il chiavistello non è, nemmeno lei, originale. Me l’ha costruita un falegna-me intagliatore, che ha imparato da suo nonno. I vetri, quelli, li ho scambiati con vetri nuovi, che interessava-no maggiormente alcuni parroci della zona».

Qui mi pare di essere tra l’artigianato e l’antiquaria-to, obiettai.

«Io la chiamo civiltà» disse lui. «È la stessa della qua-le scrive Veronelli, per il cibo».

Affermai che di Luisin Veronelli mi onoravo di esser-gli amico.

«Ecco, sono stato in un ristorante da lui consigliato, a Imperia. Si tratta di civiltà, non solo di gastronomia».

Tacqui, sentendomi improvvisamente erede di una tradizione che probabilmente non rappresentavo. E, dopo quasi sessant’anni, ne avrei voluto parlare anco-ra con Heyerdahl, dicendogli se non era ormai il caso di rimettere in mare il Kon -Tiki, ospite del Museo di Oslo, e dirigerci insieme verso lidi immaginari, dove ancora esistessero gli eredi del fabbro Chiolini, del falegname, di Veronelli.

Ma forse Thor è scomparso prima che un mondo vici-no alla scomparsa scomparisse, senza nessuna speran-za di ritornare.

GLI AUTORI

LA PAGINA DE “IL GIORNO”, GIORNALE IN CUI CLERICI NEL 1956 INIZIÒ LA CARRIERA GIORNALISTICA, CON L’INTERVISTA A HEYERDAHL CITATA NEL SUO ARTICOLO.GIANNI CLERICI HA APPENA PUBBLICATO LE SUE MEMORIE IN “QUELLO DEL TENNIS” (MONDADORI, 200 PAGINE, 20 EURO). GIORGIO BERTONE INSEGNA FILOLOGIA ITALIANA ALL’UNIVERSITÀ DI GENOVA. APPASSIONATO DI MARI E MONTI, IL SUO ULTIMO SAGGIO È “LESSICO PER NATALIA GINZBURG” (IL MELANGOLO)©RIPRODUZIONE RISERVATA

L’uomo del Nordche ai Tropicipreferì gli olivi

©RIPRODUZIONE RISERVATA

G I O R G I O B E R T O N E

IL PROTAGONISTA

NELLA FOTO GRANDE THOR HEYERDAHL (LARVIK, NORVEGIA, 1914 - COLLA MICHERI, SAVONA, 2002) NEL 1947 DURANTE LA FAMOSA SPEDIZIONE NELL’OCEANO PACIFICO,DAL PERÙ ALLA POLINESIA,A BORDO DEL KON-TIKI, UNA ZATTERA DI TOTORA, VIGOROSA PIANTA SUDAMERICANA. LA MISSIONE DURÒ 101 GIORNI E TENDEVA A DIMOSTRARE CHE LE POPOLAZIONI AMERINDIE POTEVANO ESSERE EMIGRATE PROPRIO NELLE ISOLE POLINESIANE .IN ALTO, LA MAPPA DELLA SPEDIZIONE DISEGNATA DA E. G. MORTON PER RAND, MCNALLY & CO., CHICAGO

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ViggoMortensen

Non

di me

Spettacoli. Lontano da Hollywood

una

LE IMMAGINI

VIGGO MORTENSEN, 57 ANNI.

NELLA PAGINA ACCANTO,

DALL’ALTO: NE “LA PROMESSA

DELL’ASSASSINO” (2007)

DI CRONENBERG

E NEL “DESTINO

DI UN GUERRIERO” (2006)

DI DIAN YANEZ.

IN BASSO: LA COPERTINA

DI UNA SUA RACCOLTA

DI FOTOGRAFIE,

“THE HORSE IS GOOD”,

PUBBLICATA

DALLA SUA CASA EDITRICE

(LA PERCEBEL).

SOTTO: UNA SUA POESIA

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I REGISTI SONO I COMANDANTI DELLA NAVE MA IL CINEMAÈ UN LAVORO COLLETTIVO DAVID OELHOFFEN, DÍAZ YANES O CRONENBERG, CON I QUALI HO LAVORATO, TI DANNO ENERGIA E FIDUCIA, RISPETTANO LE TUE IDEE DURANTE LE RIPRESE

MI SONO SEMPRE PIACIUTI I PERSONAGGI UN PO’ SINISTRI SONO PIÙ INTERESSANTI DA INTERPRETARE. MA ALL’INIZIO IN QUEI RUOLINON MI CI VEDEVANO, VOLEVANO SEMPRE FARMI FARE IL BRAVO VICINO DELLA PORTA ACCANTO

...HO VIAGGIATO DI NOTTE/MI MANCA LA TUA LUCE/L’ARIA INTORNO A TE CHE SALVA E CURA/ HO LA BARBA/ TI AVVERTO/ MI COLMA SAPERE DI TE/ RESPIRO CON TE/ CONSERVO LE CAREZZE CHE MI HAI DATO/ E HO VOGLIA DI RIDARTELE... ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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A M E L I A C A S T I L L A

MADRID

VIGGO MORTENSEN NON PASSA INOSSERVATO. A cinquantasette an-ni ha un fisico impeccabile, messo in risalto da una camicia a quadri a maniche corte e da un paio di jeans. Parla piano, qua-si sussurra. All’inizio si presenta serio, perfino un po’ antipati-co, ma è solo un meccanismo di difesa. Al riparo dagli occhi dei curiosi prepara il suo mate (ha tutto il necessario in una busta di plastica), si accende una sigaretta e si trasforma subito in una persona cordiale e disponibile alla chiacchierata, più pre-occupata dell’attualità di Camus o della deriva totalitaria del Venezuela che delle «sciocchezze» che circondano il circo me-diatico hollywoodiano. Attore, certo, ma anche pittore, foto-grafo e editore, vive dedicandosi alle sue molteplici attività

culturali. Alle quali si aggiunge la sua passione per il San Lorenzo de Almagro, squadra di calcio di Buenos Aires che segue in tutto il mondo.

Come attore Viggo Mortensen si è conquistato prima il rispetto della critica e poi quello del grande pubblico che lo ha scoperto come Aragorn, il capitano dei Raminghi del Nord nella trilogia de Il Signore degli Anelli; dopo sono venute le straordinarie interpretazioni in A History of Violence e ne La promessa dell’assassino, entrambi diretti dal canadese Da-vid Cronenberg che ha saputo vedere in lui un attore capace di infiniti registri, compresa una terza collaborazione in A Dangerous Method dove interpreta Sigmund Freud, un per-sonaggio nel quale, almeno all’inizio, dice, non riusciva proprio a vedersi: «Cronenberg cambia così tante volte registro da avere a volte seri problemi di finanziamento semplice-mente perché i produttori ne hanno paura mentre lo dovrebbero promuovere e fargli fare almeno un film all’anno. Come Woody Allen. Con lui non ci si rimette mai».

Parliamo della difficoltà di accedere ai finanziamenti. Con il suo ultimo film, “Far from Men”, adattamento di un racconto di Al-bert Camus diretto dal regista David Oe-lhoffen (e non ancora distribuito in Ita-lia, ndr), lei fa un ulteriore passo verso il cinema cosiddetto indipendente. Prima aveva girato “Jauja”, poi “I due volti di gennaio”: due film che se hanno avuto molto successo nei festival certamente poi non hanno sfondato al botteghino. «Questa successione è una pura combi-

nazione, ma riconosco che ci sono maggiori possibilità di trovare una buona sceneggia-tura nei piccoli film. I grandi studios in ge-nere rischiano di meno, soprattutto se ci so-no molti soldi in gioco».

Lei ha raccontato che quando cominciò, nelle prime audizioni, con quegli occhi chiari veniva sempre preso per le parti del “bravo ragazzo della porta accanto”. Eppure nella sua carriera praticamente non ci sono commedie. Come si è ribella-to a questa immagine? «A me è sempre sembrato che, parlo in

generale, nelle sceneggiature i cattivi e i personaggi un po’ sinistri fossero scritti me-glio e quindi anche più interessanti da in-terpretare. Il problema, appunto, è che i re-gisti in quei ruoli non mi ci vedevano. Alme-no finché non ne interpretai uno e non lo in-terpretai bene. Fu una specie di sfida, per me stesso e per i produttori».

Quanto la sua carriera è stata condizio-nata dal fatto che lei sia bello?«Non lo so, non ci penso molto, sicura-

mente la bellezza ti aiuta a trovare lavoro. Poi entrano in gioco altre cose. La personali-tà, il mercato e, appunto, il successo che hanno avuto i tuoi film al botteghino».

Si dice che a lei piacciano i registi capaci di parlare sul set, quelli che non si sento-no minacciati dalle domande degli atto-ri. È vero che lei chiede e interviene mol-to, cercando di portare delle idee sue du-rante le riprese di un film? «I registi sono i comandanti della nave,

ma il cinema è un lavoro collettivo. David Oelhoffen, Díaz Yanes o lo stesso Cronen-berg sono persone intelligenti, si esprimo-no bene, conoscono la letteratura e la sto-ria, non si sentono in alcun modo obbligati a far vedere chi comanda e quindi ti danno energia e fiducia, e rispettano la tua perso-nale ricerca rispetto al personaggio che de-vi interpretare».

Prima delle riprese di “Far from Men”, conosceva bene Camus? «Abbastanza ma non avevo mai letto i

suoi scritti giornalistici degli anni Trenta,

di quando viveva in Algeria, né le sue lette-re ad altri scrittori. È stato molto interes-sante conoscerlo meglio e immaginare che cosa faceva e cosa pensava, cercare il suo la-to umano rispetto al personaggio ostinato e isolato del suo racconto».

Di Camus cosa la attrae in modo partico-lare? «Diceva che bisogna scegliere costante-

mente, ma senza farlo in modo ideologico. Non temeva di diventare amico dei suoi ne-mici pur di andare in fondo alle cose. C’è an-cora una minoranza nella sinistra francese che non gli perdona di aver criticato Stalin. I seguaci di Sartre o di Simone de Beauvoir lo punirono molto ingiustamente per moti-vi politici, e credo anche per una certa gelo-sia. Era molto popolare, e viveva la sua vita senza chiedere il permesso di pensare o di cambiare idea. Una volta disse: “Sono comu-nista, ma certe cose non le posso accetta-re”. Avrebbe detto lo stesso di Cuba se ne avesse avuto il tempo o, oggi, del Venezue-la. Non ricordo le parole testuali, ma diceva che la democrazia non si può basare sui van-taggi del totalitarismo. Osò dirlo e non glie-lo perdonarono. Non si può ricorrere alla storia per giustificare ciò che accade in ogni momento, come quando Chávez co-minciò a chiudere le reti televisive: lì ebbe totalmente torto, per quanto potesse avere ragione riguardo all’imperialismo america-no. Quando cominci a usare la censura non hai più ragione, è successa la stessa cosa con Fidel Castro».

Lei è un attore politicamente impegna-to. Che cosa la preoccupa di più del mon-do in cui vive? «La calcificazione ideologica mostrata

dall’attuale discorso politico. Nonostante le possibilità di imparare e di comunicare meglio grazie al mondo digitale, vedo una durezza nei punti di vista senza essere moti-vata da un vero discorso. Viviamo nell’epo-ca più ricca di informazioni della Storia, ma continuiamo a non sapere la verità sulle co-se. Tanto i giornalisti che la gente con il pro-prio computer cercano risposte facili, punti di vista con cui semplicemente continuare ad alimentare le proprie posizioni. Sono ap-pena tornato dagli Stati Uniti, ho viaggiato molto in macchina e il novantanove per cen-to delle cose che senti alla radio sono le ar-gomentazioni di una destra assurda che, tanto per fare un esempio, ancora nega l’e-sistenza di un problema climatico o il fatto che oggi in America ci sia un conflitto raz-

ziale. Dicono ancora che Obama non è ame-ricano».

Lei è una vera miscela esotica. Nato a New York da madre americana e padre danese, ha vissuto in Danimarca, Stati Uniti e Argentina e da alcuni anni nel centro di Madrid. Dove si sente più a ca-sa?«In realtà né in Danimarca, né a New

York e né qui ho particolari rapporti. Dicia-mo che mi trovo bene con la gente che fre-quento, ma non sono un tipo molto festaio-lo, non partecipo alla vita mondana. Cono-sco delle persone, vado a trovarle, andiamo a teatro o ci si vede per strada, tutto qua».

Una volta diventato Aragorn ha dovuto fronteggiare i paparazzi americani, per fortuna senza mai dover ricorrere alla spada come nei suoi film. Ora accade la stessa cosa con quelli spagnoli, ansiosi di immortalarla accanto all’attrice Ariad-na Gil, con la quale ha una relazione ini-ziata durante le riprese de “Il destino di un guerriero” e che ha tutta l’aria di es-sere una grande storia d’amore. «Effettivamente non do molta soddisfa-

zione ai paparazzi, ormai non trovano più neppure molto interessante quello che fac-cio, se scendo a comprare il pane, o che ne so, se vado dal veterinario. Alla fine si stan-cano anche loro, e mi lasciano in pace a fare la mia vita privata».

Pur vivendo lontano migliaia di chilome-tri da suo figlio Henry, frutto della sua rela-zione con la cantante Exene Cervenka, lea-der del gruppo punk X, Mortensen riesce a mantenere con lui un rapporto costante. Negli Stati Uniti, da cui è appena tornato, ha visto un suo documentario sugli Skating Polly, una band punk dell’Oklahoma («so-no due fratelli con genitori diversi che han-no fatto il loro primo disco quando avevano dieci e quattordici anni»), e tra qualche giorno si rimetterà di nuovo in viaggio ol-tre l’Atlantico. Non è uno che ama stare con le mani in mano. Ama viaggiare e fare fotografie dei luoghi che visita. Parte di queste istantanee, scattate in diversi posti del mondo, sono state pubblicate da Perce-bal, la casa editrice con sede a Santa Moni-ca che dirige con pugno di ferro e che propo-ne anche libri sulla musica, sull’economia e sul cambiamento climatico. Come pittore cerca l’astrazione, come fotografo predili-ge i ritratti o i particolari delle persone, ma è sempre particolarmente attento alla na-tura e ai panorami solitari con uno sprazzo di luce. Spesso li accompagna con brevi te-sti, o poesie. Tipo questa: “Ho volato di not-te / e mi ha scosso non trovarti / mi manca la tua luce / l’aria intorno a te che salva e cura / ho la barba / ti avverto / mi colma sa-pere di te / voglio che tu lo sappia / respiro con te / conservo le carezze che mi hai dato / e ho voglia di ridartele”.

Lei non ha mai voluto interpretare i pan-ni del supereroe. Preferisce essere una persona normale?«Le star sono un prodotto del mercato

che vende attori e film. Mi sembra una cosa noiosa. Ci sono attori e attrici che hanno un grandissimo talento, degli autentici arti-sti, ma quando apro una rivista o accendo la tv e li vedo vendere orologi o profumi, beh questo distrae tanto dal lavoro quanto dall’arte. E poi alla fin fine devo dire che so-no stato molto fortunato. Per dire: se Far from Men fosse il mio ultimo film sarei sod-disfatto. Impari solo quando accetti le sfi-de, e quando interpreti dei personaggi che comportano una sfida».

© El País / LENA, Leading European Newspaper Alliance

(Traduzione di Luis E. Moriones)

Il grande pubblico lo ha conosciuto come l’Aragorn del “Signore degli Anelli”

I critici lo adorano da sempre. Lui si sforza di essere come è il suo cinema:

“indipendente”. E quindi, oltre a recitare scrive poesie, scatta foto. E studia Camus

“Che noia quando apro una rivista e vedo gli attori vendere orologi e profumi”

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App, siti e cloudse la Rete accogliel’umanità in fuga

A N N A L O M B A R D I

Refugees

WelcomeTechnoU

N SELFIE APPENA SBARCATI: per dire “siamo vivi” a chi è rimasto a casa. Accade sull’isola di Lesbo, sulle spiagge di Lampedu-sa. I migranti che scendono dai barconi ancora tremanti e ba-gnati tirano fuori i cellulari dai palloncini di gomma in cui li chiudono per tenerli asciutti — tecnica, racconta la rivista Ti-me, descritta sui gruppi Facebook dove chi è già partito dà consigli a chi è in partenza — e celebrano il loro arrivo in Euro-pa alzando al cielo lo smartphone appena acceso: in cerca di campo. Perché in quella che è la prima crisi di rifugiati dell’e-ra digitale (750mila persone arrivate in Europa nei primi no-ve mesi del 2015, saranno tre milioni entro il 2017) sempre più spesso è proprio lo smartphone il ponte verso una nuova

vita. WhatsApp e Viber a garantire le comunicazioni con gli amici già all’estero e con i familia-ri rimasti a casa. GoogleMaps e Facebook per trovare i percorsi meno insidiosi e scambiarsi informazioni: confine dopo confine. Così a ogni frontiera si rinnova il rito della caccia al segna-le: e dunque al wi-fi pubblico e a prese per caricare le batterie.

«È un fenomeno nuovo» spiega Cesare Fermi, responsabile dei progetti dell’organizzazio-ne umanitaria Intersos. «Chi arriva in Europa ha un bisogno di informazione estrema. Ma evi-ta applicazioni dove bisogna registrarsi, identificarsi. Il viaggio è illegale. Non si vogliono con-dividere le mosse con chi può bloccarle». Spesso lo smartphone è l’unico bene portato da ca-sa. Oppure comprato appena superati i confi-ni della Siria per evitare di essere costretti a dare la propria password Facebook — lo rac-conta il New York Times — ai check point: Stato Islamico e uomini di Assad controllano così da che parte sta chi vuol passare.

«Quando, a luglio, siamo intervenuti sul campo» spiega Candida Lobes di Intersos ap-pena rientrata dal confine fra Serbia e Croa-zia «ci siamo resi conto che gli aiuti tradizio-nali, cibo e vestiti, non bastavano più. E ab-biamo predisposto un furgone con batterie mobili in grado di ricaricare più cellulari con-temporaneamente e wifi gratuito. Ogni gior-no lo usano centinaia di persone. Per capire

dove sono. E per mandare messaggi. Basta-no pochi minuti: poi si riparte».

La tecnologia gioca dunque un ruolo sem-pre maggiore nell’emergenza. Tanto che per-fino Obama ha chiesto a Silicon Valley un contributo economico, sì, ma anche creati-vo. Le prime risposte ci sono già: Facebook si è impegnata a portare Internet nei campi profughi delle Nazioni Unite. La piattaforma di crowdfunding Kickstarter ha raccolto in meno di una settimana un milione di dollari per l’Unhcr. E Google ha appena lanciato un progetto open source chiamato Crisis Info Hub — per ora disponibile solo sull’isola gre-

Davanti alla prima emergenza rifugiati dell’era digitale cibo e vestiti non bastano più

Next. Odissee

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ca di Lesbo, epicentro degli sbarchi, presto in altri punti caldi Ñ che in inglese e arabo of-fre informazioni essenziali, dai trasporti ai centri accoglienza Ñ in formato leggero, che non consumi batteria.

In Europa, dÕaltronde, la vasta comunitˆ di programmatori e startuppers si • resa con-to subito della necessitˆ di dare una risposta tecnologica alla crisi e lavorando con gli ope-ratori umanitari sta cercando di trasformare il web in vera rete di accoglienza. Cos“ • nata Gherbtna, la app sviluppata da Mojahid Akil, un rifugiato siriano in Turchia. Guida pratica agli aiuti in ogni paese, che con oltre 20 mila download • la pi• scaricata nel genere. In Germania • attivo il sito Flüchtlinge Willkom-men (Benvenuti rifugiati): che sul modello Airbnb mette in contatto i profughi con chi, in Germania e Austria, ha un letto da offrire. Venerd“ • stata lanciata RefAid, nata dalla collaborazione dellÕitaliana Francesca Zotta di EuGen con lÕinglese Shelly Taylor di Trel-lyz: ÇUnÕapp che interfacci rifugiati e associa-zioni garantendo la privacy di chi la usa. Man-da notifiche in tempo reale su servizi fonda-mentali: dove trovare cibo, alloggio e cure mediche, in base alla posizioneÈ racconta Zotta. CÕ• poi chi, come lÕamericana Creative Associates International, si preoccupa dei bambini in viaggio o nei campi profughi che non vanno a scuola. E ha elaborato un piano di insegnamento disponibile su Cloud. O lÕin-glese What3words che ha lanciato un siste-ma universale per attribuire indirizzi l“ dove non esistono, da oggi anche in italiano.

Proprio per coordinare gli sforzi, Mike But-cher, editor della rivista TechCrunch, vera

Bibbia del settore, a ottobre ha organizzato a Londra il primo ÒTechfugeesÓ, dove mettere in contatto esperti e terzo settore. LÕiniziati-va • stata subito rilanciata in Italia dove si • appena concluso il Techfugees della veneta H-farm, uno dei principali acceleratori di start up italiani. A organizzarlo Benedetta Arese Lucini, lÕex manager di Uber in Italia che ora Ñ dice Ñ vuol Çmettere in contatto onlus certificate e talenti che magari non hanno mai pensato di essere utili in questo senso e invece possono dare un grosso contri-butoÈ. Fra i progetti presentati, Trace the fa-ce di Croce Rossa, piattaforma internaziona-le online dove attraverso la pubblicazione di foto si cerca di far ritrovare persone che si so-no perse in viaggio. Hug — Tap to donate, prima app italiana che permette di fare dona-zioni a Onlus trasparenti e seguire i progetti finanziati. Mentre Intersos sta lavorando a Meoieos, realizzata con Ibm, una app Ñ ban-ca dati di cartelle cliniche, in italiano ed ingle-se. ÇAl nostro ambulatorio medico di Croto-neÈ racconta Cesare Fermi Çdove cÕ• il secon-do ÒCaraÓ pi• grande dÕItalia dopo quello di Mineo, si fanno visitare in tanti: ma partiti i pazienti, quelle informazioni mediche anda-vano perdute. Ora le cartelle cliniche potran-no essere ritrovate facilmente per consulta-re analisi e lastreÈ. E nel futuro immediato che cosa servirˆ? ÇAgli operatori umanitari, ma anche a chi fugge, servono strumenti eco-nomici, portatili, che non consumino troppa energia, utilizzabili in condizioni gravose. Abbiamo chiesto questo agli esperti del Te-chfugees. Aspettiamo il miracoloÈ.

“Quello di cui hanno bisogno i migranti è un internet diffuso e libero. E batterie che durano”

LA FOTO

SU UNA SPIAGGIA DI GIBUTI MIGRANTI ALZANO I TELEFONINI AL CIELO ALLA RICERCA DI SEGNALE.

LA FOTO DI JOHN STANMEYER PER IL NATIONAL GEOGRAPHIC HA VINTO IL WORLD PRESS PHOTO

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BisteccaIl trionfo della “ciccia” con l’osso (costata) o senza. Carne a temperatura ambiente, scottata 7 minuti per parte e rifinita qualche minuto in forno, per portare l’interno a temperatura

Antica Macelleria Cecchini (con ristorante)Via XX Luglio 11Panzano in Chianti (Fi)Tel. 055-852020

CrudaFiletto e scamone, ma anche i tagli magri della coscia (fesa francese, noce, girello). Taglio a punta di coltello (il tritacarne scalda), prima a fettine sottili e poi in cubettini

Macelleria Damini & Affini (con ristorante)Via Generale Cadorna 56Arzignano (Vi)Tel. 0444-452914

Salsiccia di BraNata in Langa con sola carne di vitello — pancetta e copertina sgrassate — oggi prevede il 20-30 per cento di carne suina (pancetta), sale, spezie e budello naturale. Si gusta cruda

Macelleria Salumeria BrardaVia Peyron 28Cavour (To)Tel. 0121-6295

Bollito mistoDue scuole: il “carrello” della tradizione piemontese ed emiliano-romagnola (con brodo di accompagnamento) o la cottura sottovuoto dei singoli tagli poveri ideata da Massimo Bottura

Macelleria ZivieriPiazza XXIV Maggio 9Monzuno (Bo)Tel. 051-6771533

LA FINE DELL’ARROSTO. IL DISONORE DELLA CHIANINA. Vade retro bra-sato. E in quanto ai salumi, l’anatema è collettivo e senza solu-zione di continuità, dal culatello al ciauscolo. Rischiamo di vive-re i primi, veri brividi di freddo senza il conforto goloso di piatti che vestono il menù invernale come un abito di sartoria, dalla battuta di fassona col tartufo bianco alla lunga, odorosa sequen-za dei brasati. Più della scienza, potè la statistica, se è vero che la task force dell’Oms ha prodotto un poderoso incrocio di dati, senza troppo badare a contestualizzarli. Eppure, le carni rosse sono tutt’altro che demoniache. Certo, il colore non aiuta. Tutta colpa dell’eme, la trappola molecolare di emoglobina e mioglobi-na che imprigiona l’ossigeno e lo porta in giro per il corpo per

L I C I A G R A N E L L O

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L’appuntamento/2

A Casalecchio sul Reno, Bologna, domani e martedì la “Maratona degli Chef - 42

ore in Accademia” con alcuni tra i migliori cuochi emiliani

in una non-stop culinaria, tra nuovi apparecchi

da cucina, cotture diversificate e ricette originali

Sapori. Sulla graticola

Rossa ma buona.Qualità, quantità e cotturatutti i piaceri della carne

L’appuntamento/1

Oggi a Thiene, Vicenza, la prima edizione del Festival

del Burro, con la giornalista americana Nina Teicholz,

autrice di “Big Fat Surprise”, che scardina i pregiudizi sui grassi: degustazioni, interventi di nutrizionisti

e lavorazioni dal vivo

DOPO L’ALLARME DELL’OMS PARLIAMO

DI ARROSTI, BRASATI

E CHIANINE PER DIRE

CHE NON VANNO PER FORZA ELIMINATI DAL MENÙ

INVERNALE.BASTA EVITARE

GLI ECCESSI, LEGGERE

BENE L’ETICHETTA E METTERCI

ACCANTO TANTA VERDURA

piattidi manzo& indirizzi

La cena

Giovedì 26 novembre, al Four Season di Milano

la cena “Il Bianco e il Rosso”: protagonisti tartufo bianco d’Alba e Barolo. Tra i piatti

del cuoco stellato Vito Mollica, la battuta di fassona

piemontese e il capriolo con pinoli e crema di castagne

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la RepubblicaDOMENICA 8 NOVEMBRE 2015 39

MortadellaNella migliore, tagli pregiati di maiale, cubetti di grasso di guancia, miele e aromi naturali. Niente lattosio, polifosfati, glutammato. Cottura in forno in cotenna naturale

Salumificio Mec PalmieriVia Canaletto 16San Prospero (Mo)Tel. 059-908829

Prosciutto crudoLe Dop vincolano l’alimentazione dei maiali e vietano gli additivi. Le cosce, massaggiate col sale e coperte di grasso nelle parti magre, vengono stagionate almeno un anno

Prosciuttificio Zanini Gio BattaVia Da L’Ancone 2San Daniele del Friuli (Ud)Tel. 0432-956017

StrolghinoIl principe dei salami si realizza con i ritagli della lavorazione del culatello, macinati e insaccati in sottile budello naturale. Delicato e senza additivi, va gustato morbido

Antica Corte Pallavicina (con ristorante)Strada Palazzo Due Torri 3Polesine Parmense (Pr)Tel. 0524-96136

CarréLa parte dorsaletra quarta costola e coda comprende la lonza e il filetto. Cotto intero (forno, spiedo) viene chiamato arista. Disossato, equivale al roast-beef di manzo

Carni Santa CroceVia Annibale Vecchi 80PerugiaTel. 075-43650

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produrre energia. Il guaio è che oltre un certo limite, i tessuti subiscono una progressiva involuzione infiammatoria. Ma perché si formino quantità intollerabili di ages (proteine glicate che si depositano nel connettivo creando lo stress ossidativo) devono concorrere una serie di elementi. A partire dalla qualità della carne.

In Spagna esiste un’azienda che produce — a detta unanime degli esperti — il miglior prosciutto crudo del mondo. I maiali della “Joselito” vengono definiti olive con le zampe. Perché avendo tre ettari di pascolo e bosco a disposizione a testa e nutrendosi per due an-ni quasi solo di ghiande e castagne (con 70mila nuovi alberi piantati ogni anno) il loro grasso è ricco di acidi grassi monoinsaturi, simili a quelli dell’extravergine, e di vitamina E. Fior di ricerche internazionali certificano che il prosciutto Joselito contribuisce a far ab-bassare il colesterolo cattivo. Il tutto, a carico di un salume sano per status, né cotto, né af-fumicato, né addizionato con qualsivoglia additivo. Carne, sale e tempo, niente altro. Suc-cede anche da noi e anche con altri salumi, quando a farli sono artigiani dall’etica spec-chiata e fieri di allevare animali felici.

Il nutrizionista milanese Vanni Zacchi concorda: «Al di là di scelte individuali, noi siamo onnivori, basta vedere i nostri canini, fatti per mordere e masticare fibre animali. La car-ne è un ottimo cibo, contiene ferro, proteine. Il problema sono gli eccessi, le lavorazioni e la qualità. Va mangiata con moderazione, insieme a verdure crude o poco cotte, che ne tamponano la tendenza acida, evitando il più possibile la cottura su griglie e piastra, dove si formano gli idrocarburi aromatici policiclici (cancerogeni)». E poi la differenza la fa l’al-levamento. «Gli ormoni permessi in America sono un disastro, come i pesticidi, i nitriti e i nitrati. Sono queste sostanze che abbassano le difese immunitarie e ci fanno ammalare. Ma associare carne e tumore è una sciocchezza». Per questo, non si possono mettere sullo stesso piano gli hamburger dei fast food e le costate, gli hot dog e il culatello. Bisogna leg-gere le etichette, diffidare della cosiddetta carne “separata meccanicamente” — centrifu-gato di scarti di macellazione — controllare la percentuale di carne nei piatti pronti, paga-ti come costate di angus. Poca ma buona, insomma, facendo coincidere salute e impatto ecologico (i famosi quindicimila litri d’acqua per chilo di carne). In caso di barbecue, at-trezzatevi con montagne di insalata a coté.

PER UN GASTRONOMO della mia generazione è inevitabile che, a domanda precisa, la mente si affolli di

memorie legate alla carne. Due cose accomunano gran parte di questi ricordi: le feste comandate e il consumo del cosiddetto “quinto quarto”. Questi due momenti ci insegnano entrambi qualcosa rispetto all’approccio odierno alla carne e alle storture o rischi che esso porta con sé. La festa: un barbecue tradizionale negli Stati Uniti; un “asado” in Argentina; i piatti della macellazione del maiale in Emilia; la fiera del Bue Grasso di Carrù in Piemonte e i bolliti; la “feria” di San Fermin a Pamplona e il “rabo de toro”; una vacca fatta a pezzi e cotta con pietre ardenti sotto terra, per tutta la notte, in un villaggio indio in Brasile…

L’elenco certamente spaventerà qualunque vegetariano e messo così assume quasi i tratti di un’orgia carnivora, ma tutte queste preparazioni, per lo più lente, con cotture lunghissime, sono in realtà legate a celebrazioni, a un’alta socialità, a qualcosa che avviene una volta l’anno o in occasioni speciali. La carne era il piatto della festa, non si mangiava tutti i giorni, il consumo, seppur esagerato in quel giorno, poi rallentava molto e nella quotidianità si seguivano diete con molte meno proteine animali. Paradossalmente, queste feste condite con tanta carne ci parlano di una morigeratezza e una misura che oggi abbiamo perso. Sappiamo tutti con quali conseguenze per la salute del pianeta, degli animali e per la nostra.

Se poi vado a Parigi fatico a resistere a un piatto di rognone alla “moutarde”, quando vedo la trippa in un menù l’occhio mi cade subito sopra: la “finanziera”, i “tajarin” con i fegatini di pollo e il “batsoà” (il piedino di maiale, da “bas de soie”, in francese “calze di seta”) del mio Piemonte rappresentano un imprinting sensoriale quasi ineludibile. Le frattaglie a Roma, a Firenze (il panino al Lampredotto), a Palermo (il “pani” con la “meusa”), sono specialità tradizionali deliziose, anche se per molti di difficile approccio. Gusti e scelte etiche a parte, anche in questo caso i piatti ci parlano di un tipo di consumo diverso: l’animale si mangia tutto, con ricette pensate per tutte le sue parti, non soltanto i filetti, le cosce e i tagli pregiati. È un altro mondo che non c’è più: non si tratta di sfizi curiosi, ma di lasciti di un approccio alla carne forse ormai perso. Che però dobbiamo assolutamente recuperare: meno carne ma migliore, da allevamenti sostenibili, perché sia di nuovo qualcosa che ci unisce, che ci piace e che ci parla della nostra civiltà.

Quandomangiarlaera sempreuna festa

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piattidi maiale& indirizzi

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la RepubblicaDOMENICA 8 NOVEMBRE 2015 40LADOMENICA

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ROMA

NON È PIÙ UN RAGAZZO, anche se la percezione che molti hanno è che sia eternamente giovane, da sempre l’ultima leva della can-zone d’autore italiana, nonostante i successi (da Cohiba a Sali-rò), nonostante gli album alle spalle (sette dal 1994 a oggi), no-nostante i tour, i video, insomma nonostante sia uno dei miglio-

ri cantautori italiani. Perché Daniele Silvestri è uno che sa scrivere e cantare, e che gode di una straordinaria stima da parte dei colleghi. «Non so se mi me-rito tutto questo», dice sorridendo e con l’aria timida che ha sempre, persino quando è in scena — ed è come se cercasse il punto d’ombra nel quale coprirsi un po’ per poter cantare in santa pace.

Ventuno anni di musica alle spalle, in una costante ricerca di un punto d’e-quilibrio, di una chiave di lettura del mondo, della vita, passando per grandi canzoni e piccoli club, festival di Sanremo e teatri, Daniele Silvestri, classe 1968, romano, nel suo lungo viaggio è ora a un punto di svolta. Un nuovo album che sta per concludere e che risponde a uno spirito di rinascita. «Sono andato in studio, a Lecce, assieme a un gruppo di musicisti che ho scelto per le loro eccellenti doti e a un iPhone pieno di idee musicali, alcu-ne strutturate, altre solo abbozzate», racconta. «Ci siamo chiusi dentro senza sapere cosa avremmo fatto, i musicisti non avevano mai sentito le canzoni. È stata un’esperienza fantastica, la musica era viva davanti ai miei occhi…». Un nuovo inizio. Il Daniele Silvestri del 2015 è un uo-

mo più maturo, rilassato, cosciente delle sue qualità ma anche pronto a cogliere senza esitazioni le occasioni, le possibilità, che il futuro può offrire. Maturità? «Forse, non c’è dubbio che le vicende personali contino molto nelle scelte di ogni persona, perché non do-vrebbero contare per me? Sono padre tre volte, con due famiglie di-verse e con gli obblighi che tutto questo giustamente comporta: non è che posso mollare tutto e andarmi a chiudere in studio per scrivere o suonare, e quindi quando ottengo a fatica questi spazi, questo tempo, forse gli dò un valore che prima non gli davo. Dicia-mo che l’inafferrabilità che avevo un tempo forse non mi sta addos-so più allo stesso modo. E poi diciamo anche che cominciavo a prova-re una certa stanchezza nei confronti del mio mestiere, della cosiddet-ta forma canzone. Mi sembrava insomma di essere arrivato a un punto in cui avevo detto tutto quello che c’era da dire e che non potessi andare

oltre. Nella mia vita ho depositato circa duecento canzoni, temevo che avrei cominciato a “essere Daniele Silvestri” rispondendo più a un cliché che a una necessità. Ecco, oggi posso dire che è non andata così».

A contribuire in maniera determinante a questo cambio di passo è stata l’e-sperienza con Max Gazzè e Niccolò Fabi che ha dato vita a un album splendi-do, Il padrone della festa, e a uno splendido tour. «Un’esperienza bellissima, al di là delle nostre stesse aspettative. Non pensavamo di poter arrivare così lontano, confrontarsi costantemente restando ciascuno sempre se stesso, condividere due anni di vita artistica. E poi alla fine è arrivata la musica, è sta-ta lei ad avermi richiamato, e lo ha fatto con forza». Detta così potrebbe an-che suonare strana, ma Silvestri è davvero uno di quei pochi artisti italiani a essere realmente posseduto dalla musica. «È diventata parte essenziale della mia vita quando avevo sette, otto anni, e da allora non ha mai smesso di esse-re il gioco più bello, la passione più resistente. La musica ma anche le parole, cioè il racconto, l’infinito gioco delle rime, l’invenzione... Fortunatamente continuo ad avere bisogno di poche ore di sonno per stare bene. E chi mi sta accanto ha imparato a riconoscere i momenti in cui il mio sguardo si perde completamente dietro un’idea, un pensiero, un’intuizione... e in quei momen-ti mi lasciano tornare ad avere i miei sette, otto anni. Oggi, poi, so che non de-vo essere ma che posso essere, il che mi lascia una straordinaria sensazione di libertà. Mentre prima mi sentivo in qualche modo obbligato a essere puntua-le nel mio rapporto con il mio tempo, adesso penso che ci siano molti modi per essere in sintonia con la realtà senza necessariamente dover commentare l’ultimo fatto di cronaca». È L’uomo col megafono che scompare? «Ma no, la mia attenzione per le cose del mondo resta intatta. È solo che ho voglia di fare cose nuove rispetto al passato».

Nostalgico Silvestri non lo è mai stato, però la memoria conta molto nel suo percorso sempre rivolto al futuro: «Da bambino avevo un insegnante di piano-forte che sapeva tutto dei computer musicali, e così mentre i miei erano con-vinti che andavo a fare solfeggio io ero diventato il ragazzo di bottega in un mondo tecnologico fantastico». Queste due anime sembra che oggi abbiano trovato un nuovo equilibrio: «Seguo ancora il consiglio di mio padre, “butta la prima cosa che hai scritto”, e poi ci lavoro su. Ho avuto un padre meraviglioso, quasi perfetto come genitore, per la capacità mai venuta meno di farmi senti-re contemporaneamente amato e rispettato, protetto e liberato, farcito di sti-moli e insegnamenti e costantemente invitato a trovare da solo i miei. Proba-bilmente non sono altrettanto bravo con i miei figli, ma quell’esempio così lu-minoso continua a guidarmi anche in questo mondo così diverso e complesso rispetto a quello in cui crescevo io. Forse anche per questo non ho mai dubita-to, già da ragazzo, che prima o poi sarei diventato padre anch’io. Ci sono popo-li e culture del passato, o ancora esistenti in alcune zone dell’Africa e del cen-tro-America, in cui è prassi consolidata e inamovibile che a prendere decisio-ni per la comunità possano essere solo persone che hanno figli. Perché sono quelle che più sapranno guardare al bene della comunità stessa. Qualcosa vorrà pur dire, no?».

Silvestri rappresenta in maniera limpida cosa può essere oggi un artista

immerso in un mondo in costante cambiamento, in un’Italia sempre in bilico, convinto che le canzoni siano importanti e che si possa esse-re «impegnati» e «leggeri», intrattenere facendo possibilmente ra-gionare. Ma è davvero ancora possibile per un artista oggi essere li-bero? «Domanda difficile, ma d’istinto mi viene da rispondere di sì. Anzi, forse oggi più che mai, visto che sono saltate tutte le regole,

vuoi per la “svalutazione” economica della parte discografi-co-aziendale di questo mestiere e vuoi per il crescere espo-

nenziale dei sistemi di produzione e diffusione dell’arte in genere grazie alla rivoluzione delle tecnologie che hanno buttato all’aria barriere geografiche, linguistiche, cultura-li. Semmai, come spesso accade, tanta libertà non coinci-de con la capacità di usarla, e soprattutto con l’esigenza di usarla. Quando ci si deve battere per la libertà, si diven-ta rivoluzionari. Quando invece è già disponibile si fini-sce spesso per inseguire — magari inconsapevolmente — l’omologazione. Probabilmente un artista deve esse-re capace di continuare a battersi, anche se la guerra non

è più sociale ma quasi intima. Se guardo a me stesso, non posso non prendere atto del fatto che gli anni che avanza-no e una professione che si consolida e che mi dà mezzi per vivere e contratti da rispettare, possono diventare una zavorra. L’incoscienza e la vitalità del primo disco forse non potranno più tornare. Però continuo ad amare e a inseguire l’inatteso — che poi riesca a raggiungerli oppure no questo è tutto da vedere. Però diciamo che se

per caso mi trovo a un bivio in cui a destra si va verso “si-curezza e comodità” e a sinistra verso “rischio e imponde-rabilità”, beh di solito imbocco la seconda. E credo pro-prio di averlo fatto anche questa volta».

Dopo aver fatto tre figli, messo in piedi due famiglie, scritto due-

cento canzoni e girato l’Italia in trio con Fabi e Gazzè, ha deciso

che la sua vita artistica aveva bisogno di una svolta: “La musica mi

è entrata dentro molto presto, da bambino, e solo ora, per la pri-

ma volta, è tornata a chiamarmi. E l’ha fatto con forza: mi ha detto

di stare attento a non diventare un cliché, e poi di preferire i rischi

e l’imponderabilità alle comodità e alla sicurezza”. Da questa

“chiamata” nasce il nuovo disco

che sta per finire: “Sarò sempre

un uomo col megafono, ma non

mi sento più in dovere di com-

mentare con una canzone l’ulti-

mo fatto di cronaca”

CI SONO CULTURE IN CUI È PRASSI CONSOLIDATA E INAMOVIBILE CHE A PRENDERE DECISIONI PER LA COMUNITÀ POSSANO ESSERE SOLO PERSONE CHE HANNO FIGLI, PERCHÉ SAPRANNO GUARDARE AL BENE COMUNE. QUALCOSA VORRÀ PUR DIRE, NO?

Daniele

SEGUO SEMPRE IL CONSIGLIO DI MIO

PADRE: BUTTA VIA LA PRIMA COSA CHE HAI FATTO,

E POI LAVORACI SU.COMINCIO

CON LE NOTE, CHE SONO SOLO SETTE, POI CON

LE PAROLE CHE SONO MOLTE DI PIÙ

ESSERE UN ARTISTA LIBERO OGGI FORSE È PARADOSSALMENTE PIÙ FACILE DI IERI: SONO SALTATE TUTTE LE REGOLE ECONOMICHE E LE TECNOLOGIE HANNO ABBATTUTO OGNI TIPO DI BARRIERA

E R N E S T O A S S A N T E

Silvestri

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L’incontro. Splendidi quarantenni

Repubblica Nazionale 2015-11-08