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Thriller, intrigo industriale

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GIOVANNI GRIECO

C’EST L’AFRIQUE

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C’EST L’AFRIQUE Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-456-7 In copertina: Immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Ottobre 2012 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

A zio Peppino

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1 Quel pomeriggio di settembre l’istituto aveva quell’aria un po’ tetra e melanconica che è tipica dei periodi in cui non c’è lezione. Niente vocio di studenti per i corridoi, al massimo qualche laureando silenzioso in cerca di articoli in biblioteca, a colloquio con il relatore o isolato in laboratorio. Pio era in ufficio, se ufficio si poteva chiamare quel cubicolo di tre metri per tre che gli era stato assegnato quando aveva fatto il grande balzo dal seminterrato al secondo piano, e stava stampando le copie delle carte topografiche per l’escursione di una settimana con gli studenti all’Elba - come al solito si era ridotto all’ultimo minuto - quando squillò il telefono. «Pronto, Pio? Ciao, sono Paolo, dalla Tricocca». Paolo? Aveva sentito che da un po’ lavorava in Tricocca, d’altra parte i ricercatori del CNR erano dei senza patria, sempre a caccia di un ufficio in qualche istituto universitario, chissà se si trovava meglio che a Sondrio da dove veniva, e soprattutto chissà cosa voleva. Gli stava simpatico sì, ma si conoscevano appena. «Ciao Paolo? Come va? Ho saputo che ora sei in Tricocca» «Tutto bene, Pio, sono sceso giù dalle montagne… Senti, non so se ti può interessare ma mi pareva che ti occupassi di cromite». Sì, certo che si occupava di cromite, come facesse Paolo a saperlo gli era ignoto, ma nell’ambiente le voci girano, d’altra parte è così piccolo. Bene, pensò Pio, almeno viene subito al sodo, e mandò in stampa il primo set di carte. «Sì, certo, le cromiti erano l’argomento del mio dottorato e da allora continuo a occuparmene» la stampante intanto aveva cominciato a sfornare fogli: non si era inceppata, non mancava la carta e il computer la vedeva correttamente, una combinazione favorevole da sfruttare al massimo. Pio mandò in coda di stampa il secondo set di carte e così si perse le parole di Paolo. «Scusa, scusa, sono incasinato con la stampante, cosa stavi dicendo? Chi è che è venuto da te?», Paolo pazientemente riprese. «Dicevo che sono venuti da me nei giorni scorsi due tizi. Mi hanno chiesto di fare delle separazioni di sabbia di cromite con liquidi densi. Oggi sono tornati, chiedendomi se potevo seguirli in un lavoro più

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complesso sulle cromiti, ma io ne so ben poco e poi sto cercando di separare quelle londoniti che mi fanno impazzire…» Ecco che arriva la fregatura, pensò Pio, ora mi dirà che quindi gli ha consigliato di rivolgersi a me. Londoniti, e che bestie sono le londoniti? Possibile che questi cristallografi, mineralogisti e raccoglioni non riescano mai a studiare un bastardo di minerale qualsiasi? Ecco, aveva perso un altro pezzo di conversazione. Per evitare figuracce questa volta non si scusò e arrancò cercando di ricostruire, d’altra parte non era difficile: ci aveva indovinato in pieno, Paolo stava proprio dicendo «…insomma gli ho suggerito di rivolgersi a te e gli ho dato il tuo numero di telefono, spero non ti dispiaccia». «No, no Paolo, hai fatto bene, anzi grazie per aver pensato a me». C’era da recuperare il nome di costoro, che si era perso nella seconda stampata. Proprio in quel momento la stampante cominciò a occhieggiare – carta esaurita – beh dai il minore dei problemi, però, come al solito, aveva esaurito la carta in ufficio: gli toccava recuperare la chiave e scendere giù in magazzino. «Pio? Sei ancora lì?» Evidentemente si era perso ancora qualcosa. «Sì, Paolo, sono qui, hai fatto benissimo, ti ringrazio ancora, se mi chiameranno vedrò di cosa si tratta, ciao allora» Riattaccò e si alzò sbuffando, recuperò la chiave del magazzino carta e si avviò, dando un’occhiata velenosa alla stampante. Alla fine non aveva saputo né chi fossero né da dove venissero né, tanto meno, quanti fossero questi misteriosi individui interessati alla cromite. O forse Paolo aveva detto quanti erano? Tanto peggio, se mi vogliono chiameranno, pensò, intanto doveva ancora finire di stampare le carte, stampare il fascicolo introduttivo sulla geologia dell’Elba, recuperare il GPS, prendere un po’ di sacchetti per i campioni, chiamare Arianna per mettersi d’accordo sull’orario di partenza, verificare gli orari dei traghetti da Piombino, finire di leggere e mandare a Marianna le correzioni dei capitoli 5 e 6. Sulle scale incrociò Patrizia, che subito l’apostrofò «Pio, nella missione che mi hai dato l’altro giorno hai firmato solo davanti, ma quante volte te lo devo dire che devi firmare anche dietro, altrimenti i soldi non te li danno!» Ci mancava anche questa, e poi perché devo firmare dietro prima di aver compiuto la missione, ma neanche Indiana Jones firma la richiesta di rimborso prima di aver finito la missione, ed ecco che gli partì in testa il motivetto di Indiana Jones e qualche crociata, se lo sarebbe portato dietro come un chiodo in testa fino a sera, sicuro come l’oro. Inutile protestare, chinò il capo davanti alla burocrazia e ai suoi misteri e rispose.

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«Va bene, va bene, Patrizia scusa, dopo passo a firmare». Scese le scale a ritmo, tatarata, ma quale dei film di Indiana Jones aveva quella musichetta? Se si soffermava a pensarci ancora un minuto sarebbe diventato un altro chiodo fisso del pomeriggio. Con uno sforzo mentale considerevole, e aiutandosi cantando il motivetto a mezza voce, riuscì a evitare il secondo chiodo, ma incrociò lo sguardo perplesso di Giacomo, il laureando di Stefano, che saliva le scale con cautela portando uno scatolino di preziose sezioni sottili. Regola numero uno: non sputtanarsi con gli studenti! Scendere le scale a quattro gradini per volta cantando il motivo di Indiana Jones forse non era esattamente consono alla regola… vabbe’ saranno pure cavoli miei perché canto scendendo le scale, pensò Pio. Un paio di ore dopo Pio era intento ad aggiornare in word la lista degli studenti iscritti alla campagna geologica. Come al solito il modulo di iscrizione, rimasto appeso per mesi in bacheca, era pasticciato, pieno di cancellazioni, ripensamenti e aggiunte: farne una versione elettronica pulita e corretta non era impresa banale. Saltò sulla sedia al primo squillo, era concentratissimo nel decifrare una calligrafia impossibile, aiutato in questo dalla ripetizione ossessiva del mantra di Indiana Jones a fil di labbra. «Pronto?» «Pronto, buongiorno, mi chiamo Franco Mieli, potrei parlare con il Professor Geco?» Impossibile, chiamavano già i misteriosi cromitofili. «Buongiorno, sono io, anche se non sono professore almeno fino a ottobre, mi dica». L’interlocutore continuò con voce professionale. «Ho ricevuto il suo numero da Paolo Bassi, che mi ha suggerito di rivolgermi a lei, in qualità di esperto di cromiti. Saremmo interessati ad aprire una collaborazione con l’università sull’argomento. Se potesse darci un appuntamento le spiegheremmo i dettagli». Il nome non era più un mistero, restava da scoprire da dove venissero e quanti fossero. Cominciava, poi, ad affacciarsi nella mente di Pio una nuova domanda che lo incuriosiva: cosa volevano? Decise per un approccio del tipo sostenuto/indaffarato, d’altra parte con le cromiti non era mai riuscito a racimolare fondi di nessun tipo, sì certo tante belle collaborazioni, viaggi in posti impossibili, qualche pubblicazione di buon livello, ma soldi per la ricerca, mai. E con l’aria che tirava quella era la priorità numero uno e, probabilmente, anche la numero due e tre.

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«Senta, purtroppo domani mattina stessa parto con gli studenti per una campagna geologica di una settimana, se mi può accennare cosa vi serve, eventualmente ci possiamo sentire al mio ritorno». La voce che rispose suonava un po’ delusa. «Cercherò di essere breve, professore». Deve essere di una ditta privata, pensò Pio, solo loro danno del professore a chiunque in università e, soprattutto, dopo che gli ho detto che, a settembre, non lo sono, ma d’altra parte i misteri dei titoli universitari sono e devono restare tali per il profano. Indiana Jones e il mistero del professore a mesi alterni, bello: bisogna inventare una musichetta appropriata. Aiuto ecco che si stava di nuovo perdendo la conversazione. «…in mineralogia con Daniele Pozzi, con una tesi in Madagascar, da anni lavoro lì e da qualche tempo abbiamo avviato una collaborazione con una compagnia mineraria malgascia per lo sfruttamento e la commercializzazione di cromite, avremmo bisogno di un supporto tecnico, di alta qualità con competenze specifiche…» Madagascar? Un nostro laureato? Chi? Il nome rimbalzava nel cranio di Pio, che a questo punto stava cercando di riconvertire la sua attenzione dalla calligrafia ostrogota degli studenti a un’azienda (quale? probabilmente si era perso il nome) che trattava cromite in Madagascar. «Guardi, mi scusi se la interrompo, la cosa mi interessa molto, vediamoci quando torno dalla campagna geologica», al che Franco riprese. «Impossibile, purtroppo tra qualche giorno tornerò in Madagascar, possiamo fare un salto adesso?» Adesso? Ma chi sono questi? Ma che fretta. Partì il calcolo dei tempi: per la campagna in venti minuti finisco, la tesi di Marianna me la porto all’Elba e… «Va bene, vi aspetto qui fra mezz’ora, sa l’indirizzo?» «D’accordo arriviamo, ci mettiamo anche meno: siamo a 2 km dall’istituto».

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2 Lo studio di Pio era piccolo: sulla destra un vecchio armadio in metallo con le ante scorrevoli che faticavano a chiudersi - c’era sempre qualche scartoffia che scivolava dalle pile ammucchiate dentro; a sinistra una scrivania, per metà occupata dal monitor del computer, di quelli belli massicci di una volta, in attesa di potersi permettere un monitor piatto; un telefono, una cassettiera. Tutto ciò, stipato in tre metri per tre, lasciava appena uno spazio misero all’ospite per sedersi tra la scrivania e l’armadio. Se poi gli ospiti erano due, allora erano ginocchiate contro ogni spigolo. E in quel momento gli ospiti erano proprio due: Franco, alto, occhi azzurri, un naso che non si dimentica e completamente calvo, sedeva sullo sgabello a destra; Sergio, leggermente più basso, capelli castani chiari tagliati corti e un’aria da furbino, sedeva sulla sedia a sinistra. Stava parlando Franco, ricordando i suoi trascorsi, da studente prima e laureando poi, alla Sezione di Mineralogia. Si ricordava di Pio, allora dottorando in giacimenti minerari. Pio cercò nella memoria, ma non si ricordava di Franco, magari all’epoca non era il pelatone di adesso, certo conosceva bene il suo relatore, Daniele. Decise di bluffare «Sì, certo che mi ricordo di te» con i ricordi da laureando il passaggio dal lei al tu era praticamente automatico «Daniele usava il mio ufficio dell’epoca, l’ultimo grande in fondo allo scantinato, come deposito di casse di minerali misteriosi». «Erano i miei campioni che gli spedivo dal Madagascar» intervenne Franco. Il ghiaccio era rotto, c’era da inquadrare l’altro individuo che ancora non aveva detto niente dopo le presentazioni, quell’aria da furbino non era proprio convincente e poi si vedeva lontano un miglio che era a disagio, evidentemente non bazzicava gli ambienti universitari, e, probabilmente, era rimasto spiazzato da un approccio così informale con un ex studente. Si aspettava il classico professore universitario, borioso, sussiegoso e ampolloso, attorniato da schiere di portaborse, assistenti, laureandi e invece eccolo in un ufficio cella, da cui spuntavano sassi ovunque, un martello sul davanzale della finestra e quell’aria dimessa e alla mano del tizio dietro la scrivania.

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Franco stava spiegando che da anni conosceva e collaborava con Sergio, suo socio nella AM, azienda particolarmente attiva nel campo della cromite con contratti importanti, soprattutto in Madagascar, dove collaborava con la Morarano Chrome la principale compagnia mineraria malgascia. Sergio decise che era quello il momento giusto per prendere la parola. «Ecco professore, vede, io ho sempre creduto che l’attività produttiva di aziende impegnate come la nostra in campo internazionale, non debba limitarsi al lato commerciale. Noi siamo interessati a sviluppare un rapporto virtuoso con i nostri partner commerciali, dal quale tutti possano trarre vantaggi. Ci siamo resi conto che l’attività mineraria in Madagascar risente fortemente delle scarse conoscenze tecniche e scientifiche, per cui saremmo interessati a coinvolgere l’università in un progetto volto a studiare gli impianti e il minerale, per migliorarne la produttività. Se lei potesse visitare gli impianti per farsi un’idea della situazione…». Pio ascoltava con aria intenta, Indiana Jones si riaffacciò un istante alla sua mente ma, con uno sforzo, lo ricacciò indietro per fare rapidamente il punto della situazione. Prima di tutto quel professore che continuano a dargli, benché avesse detto di non esserlo ancora per un paio di settimane. Ma che fare, mettersi adesso a spiegargli i virtuosismi della nuova legge che attribuisce ai ricercatori il titolo di Professori Aggregati, ma solo quando fanno lezione? Non era proprio né il caso né il momento. Era il caso invece, forse, di venire subito al sodo, ché tra le tante cose che questi profani pensavano dell’università, c’era anche il fatto che credevano che si avessero i soldi per andare dove si voleva. A questo punto la linea di azione era decisa, inutile menare il can per l’aia, meglio chiarire subito. «Guardi, signor Sirtori, scusi se la interrompo, la sua proposta mi sembra molto interessante, però è meglio che chiariamo subito che qui di fondi per la ricerca non ce ne sono». «Non si preoccupi» riprese Sergio «ovviamente tutte le spese per questo primo viaggio saranno a nostro carico, poi valuteremo insieme la situazione. Franco ha insistito a lungo perché contattassi un esperto dell’università, io ero scettico, ma lui ha sempre sostenuto che l’università non sempre è quel mammuth inefficiente che viene dipinto e, soprattutto qui a geologia, ci sono grandi capacità e competenze sottoutilizzate». Possibile che si aprisse veramente uno spiraglio? Pio era stato preso in contropiede, convinto di ricevere proposte assurde o, semplicemente, proposte che prevedessero l’esistenza di fondi a lui accessibili. Era stato decisamente prevenuto. Come spiegare che tutta la sua ricerca al momento

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contava su 3.000 euro all’anno, e che quindi pur di riuscire ad andare sul terreno o fare un’analisi in più, rimandava da tempo l’acquisto di un monitor decente? Invece arrivavano questi ed erano disposti a cacciare soldi veri per utilizzare le sue competenze in campo industriale, minerario e commerciale. Una voragine si apriva davanti a Pio. Attività mineraria, processi di arricchimento del minerale, certificazione di qualità del prodotto finito? Ma chi aveva mai fatto quelle cose? Sì, è vero, Pio lavorava sulle cromiti da più di dieci anni, ma si era sempre occupato di scienza pura: genesi dei giacimenti, caratteri geochimici, fusione del mantello e chi più ne ha più ne metta. Sì, c’erano le pubblicazioni su riviste scientifiche di alto livello, ma mai applicative. Tutte cose che non trovavano più spazio e, quando aveva deciso, seguendo l’onda, di aprire filoni di ricerca più applicativi, Pio non aveva certo pensato alle cromiti e neanche ai giacimenti minerari, ormai praticamente chiusi in Italia. Aveva allora aperto un filone di ricerca in geologia ambientale, applicata alle miniere dismesse, di cui sì l’Italia abbondava. Ed ecco che ora gli prospettavano di finanziare una ricerca applicata proprio in giacimenti minerari e proprio sulle cromiti. Se c’era una cosa che l’università, almeno a geologia, insegnava, era la flessibilità. Se una cosa non la sai la puoi sempre imparare. Fu così che Pio decise che una proposta del genere non poteva essere lasciata cadere, quel che ci sarà da fare poi si vedrà. Però a questo punto sarebbe stato veramente utile riuscire a coinvolgere la sua dottoranda Arianna. Arianna lavorava proprio sulle cromiti. Negli anni precedenti, grazie a un finanziamento faticosamente recuperato da Pio, aveva lavorato a Cipro e in Grecia sulle origini e i processi di alterazione di giacimenti di cromite in miniere attualmente chiuse e ora si stava dedicando al lavoro di laboratorio. Ma le prospettive per il futuro erano praticamente nulle. «Va bene, Sergio, possiamo darci del tu?» disse Pio, d’altra parte anche Sergio come Franco era più giovane di lui, dovevano avere entrambi sui trentacinque anni e poi così magari smetteva di chiamarlo professore. «Volentieri, Pio» rispose Sergio. «Messa in questi termini» riprese Pio «la cosa si fa molto interessante, potrei anche coinvolgere la mia dottoranda Arianna che sta proprio lavorando sulle cromiti, ma quali sarebbero i tempi?» «Prima possibile» rispose Sergio «il tempo di organizzare il viaggio, un paio di settimane, ai primi di ottobre sarebbe perfetto». Tra un paio di settimane! Stamattina ero qui a pensare alla campagna dell’Elba e adesso mi ritrovo a partire per un qualche posto sperduto del

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Madagascar tra due settimane, pensò Pio. Certo che a fare il geologo difficilmente ci si annoia. «Penso si possa fare, devo verificare l’orario delle lezioni, spostare magari qualche esame, ma un paio di settimane a ottobre penso di riuscire a recuperarle». «Benissimo» lo sguardo furbino di Sergio pareva soddisfatto «allora quando torni dall’Elba ci sentiamo per pianificare il viaggio» si alzò e dopo una rapida stretta di mano uscì dall’ufficio con Franco. Pio rimase un attimo attonito, poi si affacciò alla porta dell’ufficio, giusto in tempo per vedere i due che imboccavano le scale verso il pianterreno.

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3 «Sì, Arianna, ti dico che ci pagano tutte le spese di viaggio e, se le cose vanno bene, poi ci finanziano lo studio» disse Pio. Ne avevano discusso a lungo nella settimana all’Elba e più i giorni passavano più la proposta di AM sembrava inverosimile, soprattutto ad Arianna, che non aveva parlato con Sergio e Franco. Erano nell’ufficio di Pio e stavano cercando sul Georef, il database di tutte le pubblicazioni di geologia del mondo, notizie sulla geologia del Madagascar e in particolare sulla cromite. «Guarda» disse Pio «il Madagascar è il decimo produttore mondiale di cromite, con 230.000 tonnellate l’anno». Le pubblicazioni dell’USGS, il servizio geologico statunitense, erano sempre una buona base di partenza, fornivano pochi dati sintetici ma praticamente su tutto. Arianna era pessimista di natura, per cui a Pio in queste situazioni toccava giocare il ruolo dell’entusiasta ottimista. «Non ci hanno raccontato palle» continuò «è vero, non avevo idea che ci fossero ditte italiane che trattassero cromite, per di più con sede a Milano, ma… a quanto pare una c’è e ha bisogno di noi». La ricerca però non portò ad altri risultati significativi, non esistevano pubblicazioni di rilievo sulle cromiti del Madagascar. Migliori risultati ottennero dalla ricerca sulla logistica. Ottobre era un ottimo mese per visitare il Madagascar, soprattutto non era nella stagione delle piogge e, inoltre, almeno sull’altopiano, non faceva particolarmente caldo. «Allora? Andiamo?» riprese Pio «il corso di modelli geoambientali inizia a fine mese, gli appelli d’esame li posso mettere più o meno quando voglio, basta saperlo in anticipo, altre scadenze urgenti non ce ne sono e le analisi possono aspettare, tanto a ottobre il Microscopio Elettronico è già tutto prenotato». «Va bene, andiamo» disse Arianna «ma tu lo sai come si arricchisce la cromite? E che figura facciamo a non saperlo? E poi non dimenticarti che c’è da fare le vaccinazioni e il tempo stringe». No, le vaccinazioni no, questo sì che era un colpo basso, Pio odiava medici e ospedali, gli provocavano una reazione epidermica solo al pensiero di averci a che fare, non parliamo poi di punture, una paura che non aveva mai superato fin da quando era bambino e la siringa veniva sterilizzata facendola bollire a lungo. L’immagine di quello strumento di

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tortura che bolliva lentamente in attesa di infilarsi nel suo didietro gli faceva tuttora girare la testa. Con la fronte già imperlata di sudore cercò notizie in google sulle vaccinazioni indispensabili per il Madagascar. Nessuna vaccinazione obbligatoria, meraviglioso! Ma diverse fortemente consigliate, ahi. Febbre gialla, epatite A e B e profilassi antimalarica. Se non sono obbligatorie non saranno neanche indispensabili, pensò Pio. In queste situazioni tendeva ad autogiustificarsi a ogni costo e a nascondere la testa sotto la sabbia, sperando che sarebbe andata bene. «Guarda, nessuna vaccinazione obbligatoria» disse ad Arianna, la quale replicò «Già, però molte consigliate. Guarda, lascia fare a me, mi informo, a Milano c’è il centro malattie tropicali, e poi ti faccio sapere». «Sì, sì, va bene» disse Pio, l’importante era dilazionare, prendere tempo e sperare che la cosa cadesse nel dimenticatoio, intanto per ora il discorso era chiuso. L’ufficio era spazioso, un open space con quattro grandi scrivanie e una più piccola, e molto luminoso, una vetrata continua affacciava sul viale alberato in zona Corso Buenos Aires. Non era il centro, ma nemmeno la Bovisa, insomma da quel punto di vista la AM si difendeva discretamente. Pio e Arianna erano venuti per decidere insieme a Sergio - Franco nel frattempo era tornato in Madagascar - le date del viaggio e per saperne qualcosa di più sul lavoro da fare laggiù. Sergio mostrò la stampa di una tabella fatta in excel con date, nomi e località, abbastanza incomprensibile. Compariva il suo nome insieme a quello di Arianna in varie parti, associato a nomi malgasci, presumibilmente di località, dal sapore alquanto esotico. Mostrando fieramente la tabella Sergio cominciò. «Allora, arrivo ad Antananarivo il 20, qualche giorno per prendere i contatti con i dirigenti della Morarano Chrome, poi partiremo per la miniera, tappa a Moramanga e, in una dozzina di ore, dovremmo essere a Brieville. Poi tutto dipenderà da quanto tempo staremo lì». Mentre Sergio spiegava il piano di viaggio, Pio continuava a osservare la tabella senza comprenderne la chiave, finché si decise a chiedere. «Ma scusa, quanti saremo ad andare giù?» Sergio, un po’ sorpreso dalla domanda, rispose. «Quattro, come ti avevo detto: io, Silvana, che non avete ancora conosciuto, tu e Arianna» «Sì?» riprese Pio «allora questa tabella non la capisco, guarda qui e anche qui, chi è questo Diego e dove dovrebbe andare? È uno che vive lì?» Sergio scoppiò in una risata che irritò inizialmente Pio.

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«Ma no Diego è Diego Suarez, la città più bella del Madagascar, dove dovrò andare io per sistemare delle faccende agricole. Sta nel nord». Diego è Diego Suarez, ora la tabella acquistava un senso, Pio fece appello alle sue leggendarie conoscenze geografiche, che costituivano la curiosità di amici e conoscenti e il terrore degli studenti agli esami. Diego Suarez, il vecchio nome coloniale di Antsiranana. In Madagascar, come in molti altri paesi africani, si era cercato di scrollarsi di dosso anche i resti linguistici portati dai colonizzatori, per cui almeno le città principali, che avevano un nome dato dagli oppressori, l’avevano modificato facendo ricorso alla lingua locale. I risultati erano più o meno apprezzabili, soprattutto per quelle città fondate dai colonizzatori e senza, quindi, un loro nome locale originario, di certo si era creata un’enorme confusione e naturalmente entrambi i nomi continuavano a essere usati in contesti e situazioni diverse. Alla capitale del Madagascar non era andata tanto male, Tananarive era diventata Antananarivo, rendendo del tutto obsoleta la battuta che Pio ricordava, di Oreste Lionello, e che forse era stata la sua prima nozione sul Madagascar: sapete qual è la città più inospitale del mondo con i viaggiatori? Ta nan arrive. La seconda città, Tamatave, era diventata Toamasina, Diego Suarez, Antsiranana e Fort Dauphin, Taolagnaro. Come al solito Pio si era perso nei suoi pensieri, certo doveva avere una capacità notevole di mantenere un’aria assorta e attenta mentre i suoi pensieri vagavano, se raramente gli interlocutori se ne accorgevano. Ora Sergio stava dicendo «Il Madagascar è un mondo a sé, è Africa ma non è Africa, è un’isola abbastanza grande da essere autosufficiente e abbastanza fuori dalle rotte commerciali e povera da non avere subito tante invasioni, la popolazione è mezza asiatica e, insomma, non è l’Africa dello Zambia dove sono stato molte volte.» Africa, un successo di Enzo Avallone, il motivetto partì automaticamente e poco ci mancò che Pio cominciasse a ritmarlo con le mani o battendo i piedi: d’altra parte da ragazzino quella canzone gli era piaciuta tantissimo, lo aveva fatto sognare. No, no, basta, è ora di fare attenzione, Sergio stava tirando fuori da un cassetto delle foto di grande formato. «Queste sono alcune foto dell’impianto che abbiamo fatto io e Franco durante l’ultima visita. Praticamente loro macinano la cromite, la porzione più grossolana la mandano a un separatore a liquidi densi, mentre la sabbia di cromite viene inviata all’impianto di arricchimento a tavole a scossa. Ci sono anche delle spirali, qui vedi i ripartitori. In pratica il mix va alle spirali, ma in parte viene riciclato da una seconda serie di tavole a scossa che sono qui in fondo, vedi? Il concentrato andava prima a un

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impianto di defosforazione, costruito dai giapponesi, che però adesso è in disuso. Hanno anche un separatore magnetico, ma non so quanto lo utilizzino. Comunque l’impianto lavora male e il prodotto finito potrebbe essere certamente migliore: se riuscite a suggerire le modifiche opportune ci guadagniamo tutti». Quella tirata era stata veramente notevole, Pio ci aveva capito poco o nulla. Il difficile era capire quanto ciò fosse dovuto alla sua ignoranza e quanto al modo confuso e incomprensibile in cui Sergio aveva spiegato il funzionamento dell’impianto. Chissà quanto lui stesso ne sapeva? Sicuramente le due cose andavano a braccetto e insieme avevano provocato quel senso di stordimento che Pio provava davanti a quelle foto di macchinari incomprensibili, messi in un ordine che doveva avere pure una sua logica nascosta, ma al momento decisamente oscura, almeno agli occhi di Pio. In pochi attimi Pio ricapitolò le sue scarse conoscenze: tavole a scossa, bene, almeno teoricamente sapeva cosa fossero, delle tavole vibranti dotate di scanalature, in grado di separare in una sabbia i componenti pesanti da quelli leggeri, o meglio quelli più densi da quelli meno densi; certo però non ne aveva mai vista una in azione. Spirali, ecco qui andavamo decisamente peggio, a parte un metodo anticoncezionale ormai desueto, la parola gli diceva poco. Che ci staranno a fare delle spirali in una miniera? Ripartitore, beh questo era facile, qualcosa che serve a ripartire, probabilmente, nel caso specifico, la sabbia di cromite in parti uguali e omogenee. Come funzionasse era un altro paio di maniche. Il separatore magnetico tra tutti i macchinari citati era il più facile, ne avevano uno in laboratorio, praticamente un rullo metallico magnetizzato che trattiene i granelli magnetici e lascia andare quelli non magnetici. Il defosforatore? Peggio che andar di notte: a parte immagini improbabili di fuochi pirotecnici non gli veniva in mente nulla. «Perfetto, Sergio, mi pare tutto chiaro, quando saremo sul posto vedremo come organizzare il lavoro» in fondo erano macchinari molto semplici. Come tutte le cose meccaniche, ci sarebbe stato tempo per capirne il funzionamento e pianificare una strategia di intervento, intanto tra pochi giorni si partiva per l’Africa, cuore di sale dell’Africa. Ecco che Avallone era diventato di quel giorno il tormentone. Quando Pio arrivava a fare dentro di sé rime così squallide la situazione era grave, significava che, come spesso gli accadeva, forse per eccesso di fiducia, stava imbarcandosi in un’impresa ardua praticamente alla cieca, confidando nella sua flessibilità e capacità di imparare alla svelta e, soprattutto, seguendo i due motti che avevano caratterizzato finora la sua vita lavorativa in

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dipartimento: ‘mai dire no se ci sono i soldi’ e ‘tieni i piedi in più scarpe che puoi’. Prima di andarsene, Pio decise di tentare la scommessa e tirare fuori l’argomento più scabroso. «Sergio» disse «ma per le vaccinazioni come funziona? Sono veramente necessarie? C’è poco tempo». «Guarda, Pio» rispose Sergio «l’unica veramente utile è la profilassi antimalarica, ma va cominciata un mese prima di partire e poi non è un vero e proprio vaccino, è solo una profilassi e può farti stare veramente male, oltre a non garantirti al cento per cento. Io non la faccio mai. Poi voi starete sempre sull’altopiano e la malaria è sulla costa». Questa era musica per le orecchie di Pio, uscì dalla sede della AM che si sentiva leggero come una piuma, ci pensò Arianna a riportarlo con i piedi per terra «Quello è scemo, io all’Istituto per le malattie tropicali ci vado lo stesso e faresti meglio a venire anche tu». Pio, che aveva appena ricevuto su un piatto d’argento la giustificazione suprema per non vedere medici, si ritrovò a sfoderare la cattiveria gratuita e ingiustificata che, in casi come questo, lo contraddistingueva. «Tu fai quello che ti pare, purché ti fai i cazzi tuoi e mi lasci perdere», non si parlarono più per tutto il tragitto fino in Dipartimento. Nei giorni precedenti la partenza, Pio si era prefissato di cominciare a riempire le sue lacune sui processi di arricchimento della cromite ma, come ogni volta che aveva abbandonato la nave del Dipartimento in periodo di lezioni, gli impegni cominciarono ad accavallarsi: esami da anticipare, registri da compilare, laureandi che, dopo essere spariti per mesi, proprio ora avevano estremo bisogno di Pio, relazioni da scrivere, articoli da rivedere, riunioni, commissioni e tutto quanto riguardasse la vita quotidiana di un dipartimento universitario. Un giorno Arianna si presentò con i biglietti che era andata a recuperare da AM. «Ecco il tuo biglietto, Pio, voleremo con Air France via Parigi, un’ora e mezza fino a Parigi e poi dieci ore da Parigi ad Antananarivo, fuso orario più uno, arriveremo la mattina di mercoledì». «Mercoledì mattina!?» disse Pio sorpreso «ma allora partiamo martedì!» «Beh sì, il ragionamento non fa una grinza e, infatti, il volo per Parigi è martedì alle 17.40» disse Arianna con leggero sarcasmo. «Ma non si era detto giovedì?» riprese Pio.

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«Sì» disse Arianna «ma pare che giovedì fosse pieno, venerdì abbiamo l’incontro con i vertici di Morarano e mercoledì non c’è il volo. Almeno così mi ha detto la segretaria di AM». Era venerdì, Pio vide davanti a sé un week end a salutare amici e parenti e nel contempo a fare le valigie e, soprattutto, un terribile ultimo giorno di lavoro lunedì. Intanto doveva spostare a lunedì tutti gli impegni che aveva accumulato per martedì e mercoledì, sarebbe stata dura. Prima o poi l’avrebbe detto a Sergio, che non si spostano i voli all’ultimo minuto.

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4 L’aereo atterrò in una splendida mattina di sole su una pista nuova e, apparentemente, ben tenuta. Pio e Arianna scesero dall’aereo titubanti, in attesa dei primi tocchi di Africa non Africa che li avrebbero sorpresi. In primo luogo, non c’era alcun mezzo per trasportare i passeggeri: dall’aereo al terminal si andava a piedi seguendo una hostess. Il terminal stesso era piuttosto piccolo e mal tenuto, predominava il legno, il che faceva anche la sua bella figura. Appena dentro, una coda infinita per l’acquisto del visto e il controllo dei passaporti: il primo impatto con la disorganizzazione malgascia. Sergio pensò bene di sfruttare l’occasione per sfoggiare la sua boria di bianco pieno di soldi in un Paese povero. Si avvicinò tranquillamente a un poliziotto, confabulò un attimo con lui e poi gli passò qualche banconota. Il poliziotto partì a razzo e, facendosi scudo della divisa, fendette la folla in attesa davanti al baracchino che vendeva i visti. Dopo neanche un minuto tornò da Sergio e gli consegnò i visti, poi guidò il gruppetto di quattro bianchi verso il controllo passaporti e li fece passare per primi. In meno di dieci minuti erano al di là di tutti i controlli. Fu solo a quel punto che Sergio si rivolse a Pio. «L’Africa è così e il Madagascar in questo è Africa: corruzione ovunque, a tutti i livelli. Se non ti adegui sei tagliato fuori; e poi è proprio così che loro si aspettano che ti comporti, da vasà, come chiamano loro l’uomo bianco. Se non fai il bianco se ne approfittano e passano istantaneamente dalla riverenza al disprezzo. Può essere addirittura pericoloso». Pio ascoltava e, man mano che Sergio procedeva nella sua giustificazione, l’irritazione cresceva, così come le occhiate in tralice con Sergio e gli sguardi di intesa con Arianna. D’altra parte sia Pio che Arianna erano sbarcati in Africa con tutto il bagaglio di luoghi comuni e prevenzioni dell’europeo che non ci è mai stato o, al massimo, ha visto l’Africa finta dei tour organizzati e dei resort balneari. Erano pieni di buoni sentimenti egualitari e politically correct e questo primo incontro con una realtà diversa non aveva ancora intaccato le loro certezze: Sergio era il bastardo bianco sfruttatore e i malgasci le vittime. Fu distratto dai suoi pensieri equi e solidali da Franco che venne loro incontro all’uscita. Sembrava un altro: vestito in abiti kaki e cappellaccio coloniale si muoveva da padrone sicuro e deciso. Era accompagnato da due malgasci che cacciarono a male parole la folla di facchini che si erano

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avventati sui loro bagagli e se li caricarono addosso, mostrando notevoli doti di equilibrismo, oltre che muscoli saldi. Il goffo tentativo di Pio di portare la sua valigia fu ironicamente stroncato da Franco. «Sì, è normale, tutti i bianchi che arrivano la prima volta fanno così, ma ti abituerai presto, io ho quattordici malgasci che lavorano per me e ormai ho perso l’abitudine a fare qualsiasi cosa, anche quando mi cambio le mutande, quelle sporche le lascio cadere per terra, tanto ho tre cameriere. Certo in Italia non mi sarei mai potuto permettere uno stile di vita come questo, ma qui è diverso, qui la vita vale poco e l’unica cosa che abbonda è la manodopera a costo quasi zero. Ma ecco l’auto, saltate su che Michel ci porta al vostro albergo, vi ho prenotato il Tana Plaza, vicino alla vecchia stazione, rigorosamente solo per bianchi, vedrete che non ve ne pentirete». Accipicchia uno peggio dell’altro, questo addirittura si mette a fare il rajà ottocentesco e si permette di venire a dirci come dobbiamo comportarci. Pio non era più solo irritato, era scandalizzato e offeso. Provava un forte senso di vergogna, inoltre, verso i malgasci che lo vedevano accompagnarsi a individui di tale specie. Un’occhiata ad Arianna bastò a capire che condivideva in pieno i suoi pensieri e le sue emozioni. I quaranta minuti del tragitto dall’aeroporto all’albergo furono come un pugno nello stomaco, mentre dai finestrini sfilavano le immagini quasi irreali di realissime realtà, che però in televisione fanno un altro effetto. La strada attraversava le famigerate bidonville di Antananarivo: baracche e lamiere, sporco ovunque, melma e fango e in questa melma, bambini che giocano, mucche smagrite in cerca di cibo, donne che lavano panni o, semplicemente, persone buttate per terra a caso. A Pio vennero in mente le immagini di Gastone Moschin che attraversa in auto le strade di Calcutta in quello che era uno dei suoi film culto: Una moglie giapponese. All’albergo un ulteriore shock attendeva i due novellini. L’auto si fermò a pochi metri dall’ingresso. Subito due guardie malgasce dell’albergo si avventarono su una folla vociante che cercava di circondare l’auto, l’allontanarono facendo roteare con perizia il manganello in dotazione e assestando qualche colpo ben mirato ai più insistenti. Forse era così che si sentivano le stelle del cinema percorrendo la passerella di Cannes? Non era plausibile, in Pio prevaleva una vergogna che gli faceva tenere la testa bassa. I quattro percorsero i pochi metri fino all’ingresso tra due ali di folla che, timorosa, non si avvicinava, ma da lontano chiedeva, urlava, supplicava, mostrando i più variegati oggetti in vendita: ricami, cappellini, souvenir

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vari, ma anche cerchioni per auto, gabbie con uccelli tropicali, antenne per la TV e chi più ne ha più ne metta. Superata la soglia si entrava in un altro mondo, quello dei bianchi. Atmosfera ovattata di un albergo di lusso, ospiti bianchi e personale malgascio. Franco espletò per loro le formalità burocratiche e poi consegnò a Pio un pacco di banconote talmente grosso che Pio non sapeva dove metterle. «Sono per le piccole spese quotidiane, sembrano tanti soldi ma ricordati che un euro vale 2500 aryary e che la banconota di taglio più grosso in circolazione è quella da 5000 aryary per cui tocca girare con le tasche piene di soldi. Le monete credo che nemmeno le vedrete mai, non valgono niente». No! Questo era un problema per un appassionato collezionista di monete quale era Pio. La questione si affacciò per un attimo alla sua mente ma sparì subito sopraffatta dalle strane sensazioni di quell’arrivo in terra malgascia. «Ah, un’ultima cosa» riprese Franco «per ora è meglio che evitiate di uscire a piedi, sareste assaliti da questuanti di ogni sorta e, se non siete abituati, è veramente una cosa spiacevole. Lasciate perdere, vi porto io in giro più tardi». Franco salutò e si avviò verso l’uscita. I quattro presero ognuno la propria chiave e si recarono a riposare nelle rispettive stanze. Un paio di ore più tardi Pio e Arianna si ritrovarono nella hall, nessuna traccia di Sergio e Silvana, e Franco sarebbe passato solo nel pomeriggio. Decisero di tentare la sorte e uscire, almeno sulla soglia, per valutare la situazione. Fuori si vedeva molta gente camminare per strada ma nessuno sembrava fare attenzione all’albergo. Uscirono con circospezione, tranquillizzati dalla presenza della guardia con il manganello. Certo non era molto equo e solidale coprirsi le spalle con un poliziotto messo lì per manganellare mendici e questuanti, pensò Pio, ma tant’è, proviamo a vedere che succede. Un semicerchio virtuale del raggio di una decina di metri centrato sulla porta, questo è quanto garantiva la guardia. In men che non si dica si radunò una folla vociante al limite del cerchio. Non appena qualcuno, a giudizio insindacabile della guardia, ne rompeva la perfetta semicircolarità tentando di avvicinarsi, veniva aggredito in tre fasi. Per primo: le urla. Poi, la guardia che gli si avvicinava facendo volteggiare il manganello.

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La terza fase, fortunatamente solo supposta perché non si verificò, era ovviamente la manganellata ben assestata. Di sicuro, se fosse successo, Pio e Arianna si sarebbero subito rintanati, o peggio, avrebbero aggredito la guardia, con risultati catastrofici. Arianna, avendo visto delle bellissime tovaglie ricamate a mano, non resistette al suo istinto femminile e si avvicinò al limite del cerchio, seguita dalle imprecazioni di Pio «ma dove cazzo vai, con tutta la fatica che ho fatto per avere un posto di dottorato per te, non vorrai rimetterci le penne in un modo così stupido». Tutto inutile, Arianna stava già trattando in un francese improbabile - né lei né Pio lo avevano mai studiato, anche se Pio sosteneva di avere il francese nel sangue e di poterlo quindi parlare all’impronta - con una signora scalza, con un bel vestitino di pizzo rosso e verde, bucato e sfrangiato in più punti, con in testa un basco da militare. Dopo una decina di minuti di intense trattative tornò verso Pio sfoggiando un paio di coloratissime tovagliette veramente deliziose senza avere idea di quanto le avesse pagate. Risultò poi che si trattava di circa 1,20 euro e che la lunga trattativa aveva riguardato 20 centesimi in più o in meno. Paese che vai trattative che trovi, pensò Pio. Il successo della signora in verde e rosso incoraggiò la folla che si fece più numerosa e vociante. In quel mentre, i due furono raggiunti da Sergio che usciva a fumare una sigaretta. «Sai, è l’abitudine» disse a Pio «naturalmente qui si può fumare dove si vuole, ma sono talmente abituato a uscire per fumare…» Pio si guardava intorno in cerca della stazione ferroviaria accanto alla quale doveva sorgere l’albergo. Non vedendola, chiese a Sergio. «È questa» disse Sergio, indicando un bell’edificio semidiroccato in stile bell’époque all’interno di un cancello, proprio di fianco all’albergo. «Ma i treni dove sono? E i binari? Vedo solo un grosso schermo davanti all’entrata» replicò Pio, mentre con la coda dell’occhio aveva visto che Arianna era tornata alla carica trattando questa volta delle statuette in mogano. «Appunto, lo schermo è l’unica cosa funzionante» rispose Sergio «la stazione, così come l’intera linea ferroviaria, fu costruita dai francesi degli anni ’60 e oggi è in rovina, così come tutte le cose passate dai francesi in mano ai malgasci. La stazione viene oggi usata come cinema all’aperto, ogni tanto proiettano qualche film su quello schermo sgangherato. In quanto ai binari, li hanno rubati e venduti come ferro vecchio». Pio era spiazzato, sentiva un moto di repulsione verso le parole di Sergio che gli suonavano razziste. Però l’evidenza era davanti ai suoi occhi:

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un’intera linea ferroviaria, la più importante del Paese, forse l’unica, con la stazione della capitale mandata in rovina a quel modo. Chi era stato? Perché? Sergio riprese a parlare. «Qui siamo al centro della città bassa, quella costruita dai francesi, questo viale dritto che parte dalla stazione era stato pensato come un boulevard in stile Parigi. Guarda come è ridotto adesso. È il viale della rivoluzione, perché è il posto dove scende in piazza la gente a fare casino ogni volta che c’è una sommossa o un colpo di stato, ovvero molto spesso. Pensa che l’attuale presidente ha preso il potere con un colpo di stato appoggiato dagli americani, spodestando il predecessore appoggiato dai francesi. C’è stato qualche centinaio di morti e poi il vecchio presidente è scappato e tutti hanno cambiato bandiera. In questo il Madagascar non è come l’Africa, qui le rivolte e i colpi di stato si risolvono con qualche morto che ci scappa per sbaglio, non con le stragi dell’Africa nera. Il nuovo presidente è il re degli yogurt, ha cominciato così e, oggi, è il padrone della più grande catena di distribuzione di alimentari del Paese. Il palazzo presidenziale è su nella parte alta, magari più tardi ci facciamo un giro». Intanto Arianna aveva concluso il secondo acquisto, per cui i tre rientrarono per recarsi a pranzo nel ristorante dell’albergo, che offriva un ricco buffet all’europea, abbellito da cascate di frutti tropicali. Franco venne a prenderli con un pick up Toyota grigio metallizzato, coperto da adesivi della AM, alle quattro del pomeriggio. A quanto pareva un ritardo di diverse ore era abituale in Madagascar, tanto valeva farci il callo subito. Nel breve tragitto di dieci minuti fino alla città alta, Pio ebbe modo di imparare un altro paio di cosette utili su come i vasà si comportavano in Madagascar. Si fermarono presso un distributore di benzina e, subito, furono circondati da bambini sporchi e vestiti di stracci. Pio allungò una banconota di piccolo taglio alla bambina più piccola e più sporca. Istantaneamente la folla di bambini cominciò a ingrossare: prima dieci, poi venti, poi chissà quanti, la calca divenne presto insostenibile, i bambini spingevano e urlavano, Pio e Arianna venivano sballottati di qua e di là. Intervenne Franco con Michel, il suo tuttofare malgascio, che, a spintoni, cacciarono i bambini più vicini e fecero rapidamente salire in auto i due malcapitati. «Ragazzi» cominciò Franco «va bene che siete nuovi ma è meglio che impariate subito: non fate mai l’elemosina per strada se non volete finire, nel migliore dei casi, spintonati a terra da una turba di malcapitati e derubati di tutto. Se proprio ci tenete, vi faccio vedere ora come si fa».

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Proprio in quel momento l’auto era ferma a una rotonda, con un manipolo di questuanti che bussava ai finestrini. Appena la strada fu libera, Franco aprì rapidamente il finestrino, mise qualche banconota a casaccio in alcune delle mani protese e ripartì a razzo, chiudendo rapidamente il finestrino. «Ecco, questo è l’unico modo sicuro» riprese Franco «altrimenti date i soldi a Michel, o all’autista di turno, che ci penserà lui; i malgasci sanno come trattare i loro compatrioti». Nella città alta Franco, senza mai scendere dall’auto, cambiò degli euro, comprò una stecca di sigarette da un ragazzino e un improbabile cappello da cow boy, che regalò subito ad Arianna, da un vecchio zoppo totalmente sdentato. Ecco come fanno la spesa i bianchi ad Antananarivo, constatò Pio. Franco passò con l’auto davanti al palazzo presidenziale, presidiato da un manipolo di guardie dall’aria svaccata, ma armate di mitra e fucili che resero subito Pio alquanto nervoso. In una stretta via, presso il palazzo, Franco fece fermare l’auto affidandola a uno degli innumerevoli parcheggiatori abusivi. Beh, questo almeno l’ho già visto a Napoli un sacco di volte, pensò Pio senza rendersi conto che la sua attitudine equa e solidale stava decisamente avendo la peggio. «Non temi che te la rubino, Franco?» «Figurati» rispose Franco «se solo ci provasse sarebbe peggio per lui». Mentre Pio si chiedeva quale fosse il significato di quella frase oscura e inquietante, entrarono rapidamente nell’hotel Colbert, dribblando i questuanti. L’hotel Colbert era un albergo di altri tempi, lussuoso, con una clientela limitata a bianchi e pochi africani estremamente ricchi. Era arredato con gusto, mobilia d’epoca in legno, molti specchi, tappeti di pregio e un paio di corridoi di negozi decisamente costosi. Franco spiegò che era il miglior hotel dai tempi della colonia, dove alloggiavano tutte le personalità in visita. Anche se oggi era stato superato dal nuovo Hilton e forse anche dal Tana Plaza, rimaneva il più classico luogo di incontro dei bianchi di Tanà, come familiarmente veniva chiamata la capitale da chi ci viveva. Un’altra isola bianca in un mare di colore. Pio aveva cominciato a capire come funzionava la vita dei bianchi a Tanà. La città offriva un numero limitato e ben selezionato di posti dove i bianchi potevano dormire, mangiare, incontrarsi, bere, fumare, insomma stare tra di loro, al limite con qualche eccezione della élite ricca locale, senza essere disturbati anche solo dalla visione della povertà che li circondava. Il trasferimento da un luogo all’altro avveniva come in apnea, sempre in auto.

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Nonostante il lusso, il Colbert offriva un solo computer in rete, stabilmente occupato da bianchi desiderosi di comunicare con casa. A cento metri dal Colbert c’era però la posta centrale. Dopo un breve consulto, e considerato che erano nel cuore della città alta, l’unica zona che ospitava dei negozi all’europea e, addirittura, una libreria, Pio e Arianna decisero di tentare una sortita, mentre Franco e Sergio erano impegnati in una conversazione con dei loro conoscenti incontrati nella hall. Pessima scelta: l’area di fianco all’entrata della posta era ovviamente privilegiata da accattoni di ogni genere, tra cui spiccava un numero cospicuo di lebbrosi variamente mutilati. Quelli messi peggio non chiedevano nemmeno nulla, giacevano per terra in una sorta di torpore che poteva essere sonno, agonia e, forse, anche morte. Alla posta naturalmente erano al centro degli sguardi di tutti, cominciavano a sentirsi come delle scimmie in gabbia allo zoo. Il costo per un computer connesso a internet era addirittura irrisorio, come però era anche effimera la connessione e quasi impercettibile la velocità della stessa, una volta connessi. Pio ben presto si stufò e rinunciò a dare notizie di sé al mondo via internet. Decisero di fare altri venti metri e raggiungere la libreria, dove Pio si rifornì di carte del Madagascar in scala 1:500.000 e comprò un sottile libriccino scritto da un missionario italiano, dal titolo promettente ’Parlo malgascio’; di dizionari italiano-malgascio neanche l’ombra, l’influenza francese in quel campo era ancora dominante, quasi tutti i libri e dizionari erano in francese o dal francese. La prima giornata si chiuse con una cena in uno dei sette o otto ristoranti per bianchi della capitale. Ancora una volta clientela esclusivamente bianca e Pio, dopo le brevi ma intense immersioni nella realtà locale, si scoprì con orrore a tirare un sospiro di sollievo appena entrato. Neanche ventiquattro ore e metà almeno delle sue certezze erano crollate, mentre l’altra metà cominciava già a vacillare. Alla faccia della povertà nel mondo, ordinò una squisita e abbondante porzione di filetto di zebù al pepe verde, accompagnata da un discreto vino sudafricano. Per finire uno squisito dolce confezionato con il meraviglioso cacao e la deliziosa vaniglia malgasci. Quella sera Pio tornò nella sua camera stanco e piuttosto scombussolato, e il lavoro vero doveva ancora cominciare, anche se il concetto di tempo in Madagascar seguiva leggi proprie, per cui non si sapeva mai bene dove, come e, soprattutto, quando si sarebbe fatto qualcosa. Per ora si vagheggiava di un incontro con i vertici della Morarano Chrome che, dato per certo venerdì quando erano in Italia, pareva ora essere diventato un

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evento mitico che si poteva verificare, forse, in qualche tempo sospeso al di là del tempo. Con questi pensieri che gli giravano nel cervello Pio si addormentò senza bisogno della consueta lettura di qualche pagina a letto. Anche Tiziano Terzani poteva aspettare: in fondo leggere è una cosa, vivere un’altra.

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5 La mattina dopo, Sergio aveva stabilito una riunione tecnica, così l’aveva chiamata, senza notare l’alzata di sopracciglia di Pio e lo sguardo ironico e dubbioso di Arianna. Si ritrovarono tutti e quattro in una saletta dell’albergo, dove aspettarono Franco per quasi un’ora. Quando arrivò, Sergio lo apostrofò con aria efficiente e molto europea. «Stai diventando proprio un malgascio, neanche l’odore dei soldi ormai ti fa più alzare le chiappe per tempo e arrivare in orario». Franco non diede peso al rimbrotto scaricando tutta la colpa sull’autista. «Caro Pio, stiamo muovendo le nostre pedine» riprese Sergio «e, al massimo venerdì, dovremo incontrare i dirigenti della Morarano Chrome nella loro sede qui ad Antananarivo. Stamattina ho sentito Sam Fox, il direttore commerciale, e gli ho detto di far venire qualche geologo che possa dirvi qualcosa della miniera. Gli impianti poi li vedremo lì, hanno un ingegnere bravissimo che dirige l’impianto a Brieville». «Sì, va bene» interruppe Pio «ma non capisco qual è il nostro ruolo». «In primo luogo» riprese Sergio «farvi vedere. Loro pensano che i bianchi siano una specie di maghi, che riescono a far funzionare le cose e visto che solo il fatto che ci siano dei bianchi che girano per la miniera li rassicura e fa sentire importanti, sarà più facile per noi ottenere il contratto per la sabbia di cromite. Vorrei stringere l’accordo con Mozamaranado, il direttore generale, prima di ripartire. Se poi riuscite a migliorare il prodotto, tanto meglio, la qualità adesso è al limite minimo per il mercato e se peggiora ulteriormente dovranno chiudere tutto. Pensa che a Brieville vivono più di 3000 persone, tutte sulle spalle della miniera, c’è la luce elettrica, case in muratura, un piccolo ospedale e, addirittura, la TV. Se chiudono, è la fine di tutto questo». Insomma Sergio mischiava, con perfetto sincretismo etico-economico, interessi personali, questioni tecniche e problemi etici. Pio si disse che l’aria da furbino forse forse nascondeva un… furbino. Soprattutto non gli era piaciuta per niente l’idea che lui e Arianna potessero essere solo delle specie di fantocci bianchi che era importante veder girare per la miniera. E poi, senza TV a Brieville sarebbero sicuramente stati meglio. L’ospedale, però? Bah, tra qualche giorno avrebbe visto tutto con i suoi occhi, poteva aspettare.

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Intervenne Arianna «Scusa, Sergio, ma come facciamo a migliorare il prodotto, non è che sono bruscolini, bisogna fare una campionatura accurata, un sacco di analisi… ma che tipo di cromite è questa? Podiforme o stratiforme? E la ganga cos’è?». Sergio, che probabilmente sperava di avere colpito nel segno con la storia di Brieville e di non dovere dare ulteriori spiegazioni, si rigirò inquieto sulla sedia. «Queste sono questioni che dovete vedere voi, siete voi gli esperti, vi abbiamo chiamati apposta, comunque va bene così, più li riempite di paroloni incomprensibili e più si convinceranno che siete dei veri esperti». «E che! Siamo forse degli esperti per finta?» sbottò Pio. «Ma non volevo dire questo» riprese ancora Sergio, alzando leggermente il tono della voce, ma fu interrotto da Franco che, nella triplice qualità di geologo, azionista della AM e malgascio d’adozione, pensava di essere la persona adatta a mediare la situazione. «Ragazzi, cerchiamo di capire la situazione, noi abbiamo bisogno di chiudere un contratto importante con la Morarano Chrome per la fornitura di sabbia di cromite. Cosa abbiamo in più degli altri concorrenti? In più vogliamo fornire a nostre spese una consulenza tecnica qualificata, voi appunto, tenuto conto che il materiale è di qualità al limite del vendibile e che, pare, ma non sappiamo bene perché, potrebbe peggiorare ulteriormente in un futuro prossimo, almeno così dice Sam. Pio, tieni conto che queste cromiti non sono mai state studiate scientificamente, noi te ne diamo l’opportunità, il tutto a spese nostre. Voi però, se c’è da fare un po’ di scena con i malgasci, dateci corda». A questo punto Pio non sapeva cosa pensare. Un istante si sentiva un fesso sfruttato da due furboni per fare un lavoro gratis, l’istante successivo gli sembrava di avere per le mani l’occasione che aspettava da tempo: fare un lavoro applicativo, utile e totalmente finanziato, per di più da privati. Decise in questo caso di adottare la strategia di Quinto Fabio Massimo… era lui? I ricordi di scuola erano un po’ vaghi, comunque si riferiva al temporeggiatore che aveva sconfitto Annibale senza dare battaglia. Insomma, in poche parole, avrebbe fatto per ora buon viso e seguito il progetto, riservandosi di tirarsi indietro nel caso lo avesse ritenuto opportuno. Ecco, di nuovo si era perso nei suoi pensieri mentre il suo sguardo attento aveva ingannato la temibile coppia AM. Anzi, evidentemente avevano interpretato il suo silenzio come un cattivo segno, infatti adesso che aveva ripreso a prestare attenzione, lo stavano blandendo.

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«Ovvio che se il progetto procede bene e la situazione si stabilizza» stava dicendo Sergio «ci sarà da guadagnare per tutti, penso a finanziamenti ulteriori, alla possibilità di portare qui dei laureandi, anche eventualmente al finanziamento di una borsa di studio». A quelle parole gli occhi di Arianna si illuminarono. Aveva davanti a sé ancora solo un anno di borsa di dottorato, poi il buio più assoluto. A Pio arrivò un calcio sotto la sedia, decise che forse era il caso di interrompere quel silenzio alla Celentano. «Va bene, faremo i fantocci che girano per la miniera, però mi dovete assicurare che si potrà campionare e che spedirete tutti i campioni, rapidamente, in Italia». Sergio rideva sotto i baffi, aveva vinto, decise che si poteva cedere su questioni banali come quelle. «Ma certo, manderemo tutto in Italia per DHL e poi ti ci vedo benissimo a fare il santone che volteggia sulla miniera. Allora siamo d’accordo, mi raccomando: alla riunione fai domande difficili, tempestali, insomma fai capire che ne sai più di loro». Si alzò poi di scatto per andare a fumare fuori, seguito da Franco. Pio questa volta cadde in una specie di letargo, immerso nei suoi pensieri. Saperne più di loro? Come, questi lavorano a quella miniera da chissà quanti anni, c’è a Brieville un ingegnere che gestisce l’impianto da chissà quando, arrivo io e ne devo sapere più di loro?! La solita boria degli europei, e io mi devo prestare al gioco, quasi quasi mando tutto a monte, e poi cosa cavolo gli dico dell’impianto se non ho mai visto una spirale o una tavola a scossa? Gli venne in soccorso un banalissimo proverbio: non ti fasciare la testa prima di averla rotta. D’altra parte non era sbarcato a Berkeley come un incosciente dottorando alle prime armi che manco sapeva decentemente l’inglese? E non era partito per la tundra siberiana senza sapere cosa lo aspettava? Poteva anche lanciarsi nell’avventura di una miniera dispersa nella savana del Madagascar settentrionale. Poi si sarebbe visto. Silvana, che pur essendo entrata nella AM da poco conosceva molto bene Sergio, essendo una sua amica d’infanzia, evidentemente preoccupata da quella specie di catalessi, decise di intervenire, mentre Sergio e Franco erano ancora fuori. Estrasse una sigaretta, ne fumava un numero incalcolabile senza badare al luogo o alle persone, e cominciò. «Pio, guarda che Sergio è una persona seria. Sì, fa il giocherellone, ma ti puoi fidare, quello che promette lo mantiene sempre, altrimenti non sarei qui. Cavolo, siamo al terzo giorno e ho già la diarrea, chissà come ne uscirò».

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L’ultima frase fece uscire definitivamente Pio dalla trance: cavolo, non aveva portato nessun medicinale contro il morbo di Montezuma, anche se qui dovrebbero chiamarlo della regina… porco cane, non si ricordava il nome della famosa regina che aveva regnato sul Madagascar prima dell’arrivo dei francesi, d’altra parte tutti questi malgasci avevano nomi lunghissimi e impronunciabili. Avalomanana, Romolofotro e cose del genere, chissà da dove veniva il nome di Sam Fox che stonava con tutti gli altri, forse era solo un soprannome. La frase con la quale Pio uscì dalla trance forse non fu da incorniciare ma, per lo meno, era molto pragmatica. «Arianna hai portato del dissenten?» Silvana lo guardò stralunata e decise che i professori universitari erano certamente tutti matti e che era il caso di raggiungere gli altri due a fumare fuori. Il terzetto AM rientrò dopo alcuni minuti. Sergio dichiarò chiusa la riunione tecnica e, con quella, la giornata lavorativa; lui e Franco avevano da fare e li avrebbero lasciati liberi l’intera giornata. Due pensieri saettarono nella mente di Pio. Primo: la giornata lavorativa è conclusa che non sono ancora le 11, va bene che siamo in Africa ma qui ce la si prende proprio comoda. Secondo: che potevano fare, da soli, tutto il giorno, da bianchi blindati in albergo? Ma Franco, come leggendogli nel pensiero, o meglio nei loro sguardi persi, intervenne. «Potreste andare a fare un giro a la Digue, è il mercatino dove vanno i turisti, è divertente». Silvana si mostrò entusiasta dell’idea e chiese di accompagnare Pio e Arianna. I tre si misero d’accordo per andarci subito dopo pranzo e si accomiatarono da Sergio e Franco. Poco dopo le 14 Pio, Arianna e Silvana uscivano dall’albergo e si dirigevano decisi, fendendo la folla, al più vicino taxi. Dall’autovettura balzò fuori un giovane malgascio, evidentemente l’autista, che si era appisolato e che dimostrava a malapena sedici anni. Si sistemò in testa un ridicolo cappellino di lana beige e disse qualcosa in francese. Fortunatamente Silvana conosceva la lingua dei cugini latini meglio di Pio e Arianna e rispose qualcosa in fretta, dopodiché i tre si tuffarono nell’auto, mentre la folla si stringeva su di loro, Pio davanti e le due donne dietro. Fu solo quando, dopo vari tentativi gracchianti, l’autista ragazzino mise in moto l’auto, che Pio si rese conto del mezzo su cui era salito. Era una Citroen due cavalli di età imprecisata, ma assolutamente decrepita, ridotta all’osso, come spolpata: mancavano le maniglie alle porte, le manopole per i finestrini, quello di Pio era abbassato e una mano ne aveva

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approfittato per sventolargli sotto il naso dei biglietti di una qualche lotteria, lo specchietto retrovisore interno era ridotto ad alcuni frammenti incollati al telaio e quello esterno mancava del tutto. Pio sentiva innumerevoli molle sotto il sedere, un rapido controllo con la mano confermò che il sedile era completamente sfondato. Dal monoblocco, dove l’autista aveva inserito la chiave, fuoriuscivano cavi e fili elettrici. L’auto si avviò con serafica lentezza e il ragazzino, che a malapena giungeva a vedere la strada, si voltò con un sorriso a tutti denti dicendo «Je m’appelle Remy». Il prezzo della corsa fu concordato da Silvana a 10.000 aryary e l’auto attraversò il vialone, dirigendosi verso il più vicino benzinaio. Qui Remy si fece riempire una bottiglia di plastica da un litro e mezzo e ne versò una parte nel serbatoio, facendo attenzione a non disperderne neanche una goccia. La manovra colpì Pio che, abituato alla ricerca, ricercò le cause di quel comportamento. Le trovò subito nel prezzo indicato sul distributore: 2720 aryary al litro, più di un euro, ovvero poco meno che in Italia. Nella mente di Pio partì un altro dei suoi trip, che lo contraddistinguevano, quello del calcolo mentale. Considerando che uno stipendio malgascio, per i pochi che avevano uno stipendio, si aggirava attorno ai 30 dollari al mese, valutando il cambio euro/dollaro e quello euro/aryary, facendo una stima del consumo di benzina di quel catorcio su cui viaggiavano, rapidamente calcolò che un malgascio discretamente fortunato, ovvero dotato di uno stipendio, potesse comprare, investendoci tutti i suoi guadagni, benzina per non più di 200 km, contro gli oltre 12.000 che poteva permettersi lui. Si sentì a quel punto in grado di apprezzare meglio le qualità dello zebù malgascio come lento ma sicuro e, soprattutto, economico mezzo di trasporto. Il taxi nel frattempo aveva lasciato la città e ora stava attraversando una periferia di baracche, campi di riso e fogne a cielo aperto, che si alternavano senza un ordine apparente e, probabilmente, nemmeno sostanziale. Silvana aveva preso in simpatia Remy e lo apostrofava con la sua voce roca, indicandogli buche, carogne, venditori e mendicanti che intralciavano il passo. In una ventina di minuti raggiunsero la Digue e scoprirono, con loro sorpresa, che si trattava in effetti di una diga, o meglio dell’argine di un canale fangoso e puzzolente, costeggiato da una strada sterrata, dove, in centinaia di baracche di legno allineate, venivano venduti souvenir per turisti: stoffe, pietre più o meno preziose, fossili, oggetti di rafia o legno e poco altro, il tutto ripetuto fino alla nausea. Il periodo era decisamente

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fuori dalla stagione turistica e i pochi turisti erano oggetto di un assalto continuo, che si ripeteva di bancarella in bancarella. Pio si chiese, dato il rapporto sicuramente superiore a dieci a uno tra bancarelle e turisti, quanti affari riuscissero a concludere in una giornata. Si rispose da solo che, probabilmente, anche una sola vendita permetteva a una pur numerosa famiglia malgascia di sopravvivere diversi giorni. I tre uscirono dall’estenuante prova dopo oltre due ore, distrutti ma felici, con il loro carico di oggetti più o meno belli, ma certamente inutili, che caricarono sul taxi di Remy. Quest’ultimo, per non perdere una corsa di bianchi, li aveva aspettati tutto il tempo seduto in auto, calandosi sul viso il suo berretto di lana. Silvana apprezzò tanto il gesto da farsi dare da Remy il numero di cellulare - pare che per quanto povero ogni malgascio ne sia dotato almeno a Tanà, dove la copertura è decente - promettendogli di chiamarlo ogni volta che avessimo avuto bisogno di un taxi. Quella sera né Sergio né Franco si fecero vivi e i tre cenarono in albergo. Più tardi Pio ne approfittò per iniziare il Terzani che aveva portato con sé. La mattina seguente era venerdì, in teoria il giorno della riunione con i vertici della Mormorano Chrome, ma Franco si fece vivo solo verso le 11, con un piano completamente diverso. «Pio, ho parlato con un professore di geologia del Politecnico di Antananarivo, ci aspetta stamattina per una visita all’università, forse ci affiderà anche qualche studente, che verrà con noi a Brieville. Non sarebbe male mettere in piedi una collaborazione ufficiale». Pio era decisamente contento della piega che stavano prendendo le cose. Finalmente avrebbe potuto parlare con un collega, sapere qualcosa di più sulla geologia del Madagascar e, magari, delle cromiti. La possibilità di aprire una collaborazione internazionale, poi, era la benvenuta. Il professor Roger, il cognome-scioglilingua passò come un lampo e rapidamente svanì dalla mente di Pio, li accolse con entusiasmo presentandogli Aina, studentessa di geologia che stava facendo una tesi sulla miniera di Brieville. Le cose si mettevano bene. L’illusione però durò poco, la visita fu deprimente: gli furono mostrati un laboratorio chimico polveroso e spoglio, evidentemente in disuso, a cui fecero seguito due microscopi Zeiss degli anni sessanta, tenuti sotto chiave come fossero reliquie, e l’unico strumento moderno, un assorbimento atomico, dono di qualche università europea se non addirittura della Banca Mondiale, come spiegò Roger in un francese del quale Pio comprendeva rari frammenti. Purtroppo lo strumento non aveva mai funzionato. Non c’erano mai stati i soldi per l’acquisto del materiale di consumo, inoltre i donatori non

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avevano pensato, o più probabilmente non si erano minimamente interessati, alla formazione di personale qualificato, in grado di far funzionare l’apparecchio e di eseguirne la manutenzione. Di conseguenza, in mani inesperte, i consumabili della fornitura iniziale erano bastati giusto a dare il tempo per rompere l’apparecchio. Attualmente lo strumento giaceva coperto di polvere in un angolo in attesa di qualche donatore un po’ meno esibizionista che, invece di donare un apparecchio costoso, fosse disponibile a donare la ben meno appariscente capacità di farlo funzionare. Pio apprese infine che l’istituto non era dotato di una biblioteca e che gli studenti si limitavano ad apprendere lezioni teoriche - un vero paradosso in un Paese geologicamente così vario e interessante - dato che, oltre a qualsiasi strumento di laboratorio, mancava il denaro per portare gli studenti sul terreno. Già, ricordò Pio, con un mese di stipendio si può comprare benzina per 200 km. Pio uscì da quella visita sconfortato. Pensava ai tagli che si ripetevano all’università italiana e che, nel suo dipartimento, già avevano cominciato a farsi sentire pesantemente, con riduzione del personale tecnico, meno soldi per la manutenzione, riduzione degli abbonamenti alle riviste scientifiche, tagli alle escursioni didattiche e così via. Tra poco saremo come l’Africa, concluse Pio, per nulla felice di una tale fratellanza con il continente nero. Mentre stavano salutando Roger e gli altri professori e prendendo il numero di cellulare di Aina, con la promessa di portarla a Brieville, squillò il telefono: era Sergio, che li incitava a tornare in albergo al più presto poiché l’incontro con i vertici della Morarano Chrome ci sarebbe stato quel pomeriggio stesso. Improvvisamente, come le acque del Mar Rosso davanti agli ebrei, tutti gli ostacoli si erano fatti da parte e ogni tassello del puzzle era andato a posto. Pio, preso da visioni mistico-bibliche, trascorse il viaggio nel taxi di Remy, dal politecnico all’albergo, canticchiando un’Alleluia di Beethoven o di qualche altro musicista classico. Eh sì, pensava nel frattempo, la musica classica è proprio un buco nero che andrebbe, almeno un minimo, colmato. L’incontro era fissato per le sedici nella sede della Morarano Chrome e Pio e Arianna trascorsero l’attesa a fare congetture su ogni possibile questione tecnica o geologica che sarebbe potuta saltare fuori. Alle 16 passò a prenderli Franco e, in dieci minuti, raggiunsero il luogo dell’incontro. Era un edificio grigio e basso, anonimo, abbellito però, almeno agli occhi di Pio e Arianna, da un enorme blocco di cromite

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all’ingresso. Pio resistette alla forte tentazione di calcolare il valore di quel blocco in base a una stima del prezzo della cromite, del tenore possibile, del volume e della densità. Dieci minuti di ritardo in Madagascar era come dire almeno cinquanta minuti di anticipo e alla Morarano Chrome si fecero cogliere del tutto impreparati. La segretaria, evidentemente spaventata da quei quattro bianchi, sparì nei corridoi alla ricerca disperata di qualcuno a cui scaricarli. Tornò poco dopo, accompagnata da un giovane occhialuto dall’aria intellettuale, che si presentò come Emile Movoloqualcosa. Sergio e Franco pensarono bene di approfittare della situazione per uscire a fumare, lasciando Pio e Arianna nelle mani di Emile, che li accompagnò nel suo studio. «Dai» disse Arianna «è il momento di sfoggiare il francese che hai nel sangue». Pio si accomodò, sentendosi su un letto di spine. «Eté vous un geologue» provò, tanto per dire qualcosa. «Oui» rispose Emile. Pio andò avanti annaspando e buttando continuamente l’occhio al corridoio, nella speranza di vedere comparire Franco. A un certo punto ebbe la fortuna di chiedere a Emile. «Etè vou jamais en Europe» e la felicità di sentirsi rispondere. «Oui, j’ai travaillé huit ans en Russie». Pio si attaccò con speranza a questa informazione passando al russo, che conosceva, non bene, ma certo meglio del francese. «Vi govorite po-russkii?» «Da, kaniechna» rispose Emile. La conversazione poté quindi proseguire in russo, non senza difficoltà ma in modo abbastanza scorrevole. Emile era un geologo appena assunto dalla Morarano Chrome e, a quanto diceva, non per lavorare sulla cromite, di cui ne sapeva poco e non poteva essere molto d’aiuto in quel campo. Possedeva però delle carte geologiche della concessione mineraria di Andriamena, dove si trovava la miniera di Brieville. Prese da un cassetto una carta e la dispiegò sulla sua scrivania. Finalmente qualcosa di geologico! Pio fece scorrere rapidamente il suo occhio esperto sui dettagli più importanti. Scala uno a cinquantamila, coordinate Laborde, il sistema di coordinate specifico del Madagascar - un problema in più - anno di pubblicazione 1962, lingua francese. Giunto alla legenda Pio rimase a bocca aperta ma, soffermandocisi un attimo, giunse rapidamente alla conclusione che in fondo era ovvio. Oltre a essere in francese la legenda era infarcita di una terminologia antiquata e inadeguata, oltre che

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specificamente francese. La geologia, di tutte le discipline scientifiche, era la più giovane: la teoria fondamentale delle scienze della Terra, la tettonica delle placche, risaliva appunto agli anni sessanta, per cui un carta di cinquanta anni e, spesso, anche di quaranta o trenta, risultava assolutamente inadeguata, non basandosi sui principi della teoria unificante della disciplina. Alcune informazioni molto utili si potevano comunque ricavare: le rocce erano tutte di età archeana, ovvero antichissime, oltre i 2500 milioni di anni; prevalevano, pareva, gneiss e complessi intrusivi. Pio notò che la concessione mineraria era molto estesa, di forma rettangolare e copriva almeno 600 chilometri quadrati. Al suo interno la cromite era indicata sotto forma di “indices” con un simbolo e un numero progressivo, ce ne erano a decine. Pio stava cercando di individuare Brieville e la miniera quando entrò la segretaria informando Emile dell’arrivo di Sam Fox. Emile mise via rapidamente la carta, chiedendo scusa e tornando a parlare in francese. Un attimo dopo Sam Fox entrò accompagnato da Sergio e Franco. Era un omino piccolo e iperattivo, sempre in movimento, con occhi vispi e modi garbati. Pio lo inquadrò subito come una persona intelligente, di quelle che contano e agiscono. Salutò Emile e condusse i quattro bianchi in un’ampia sala riunioni, con al centro un grande tavolo quadrato. Ordinò alla segretaria di offrire tè a tutti. Nel frattempo cominciarono ad arrivare altre persone. Verso le diciassette e trenta qualcuno stabilì che c’erano tutti e la riunione cominciò. Da parte AM c’erano Pio, Arianna, Sergio e Franco. Da parte malgascia si contavano in tutto otto persone, i cui ruoli non erano ben chiari. Aina, comparsa chissà da dove, fluttuava tra i due gruppi, Pio non sapeva bene come collocarla. Sam Fox si presentò ufficialmente come direttore commerciale della compagnia e fece i convenevoli di rito. Passò poi la parola a Franco, il quale presentò Pio e Arianna in modo piuttosto ampolloso e cominciò un discorso che, per quel poco di francese che Pio capiva, sembrava fatto di aria fritta e parole vuote, pieno però di lodi per tutti i presenti. In modo del tutto inconsapevole Franco ogni tanto intercalava nel discorso qualche parolaccia in italiano, ma in modo così naturale che i malgasci forse le prendevano per espressioni forbite. Ben presto Pio perse del tutto il filo del discorso e decise che era meglio concentrarsi su qualcosa di più utile, tipo farsi un’idea dei presenti. Dopo alcuni minuti di osservazione attenta decise di catalogare i malgasci in tre classi: quelli intelligenti e che contano, come Sam Fox, quelli che contano e basta, come la maggioranza in quell’assemblea e, infine, quelli

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intelligenti ma che non contano. A quest’ultima categoria apparteneva solo un individuo, tale geologo Romeo, il gatto del colosseo, aveva subito pensato Pio al momento delle presentazioni, citando gli aristogatti della sua fanciullezza. Pio lo aveva individuato come l’unica fonte possibile di dati geologici sulla miniera, oltre a Emile, naturalmente, che avrebbe messo nella stessa classe, ma che non era stato invitato alla riunione. Pio si piegò verso Arianna e le sussurrò all’orecchio. «Quel Romeo potrebbe fornirci molte indicazioni utili, dobbiamo marcarlo stretto». A Pio toccò solo un breve intervento che, assodata la sua scarsa conoscenza del francese e la altrettanto scarsa conoscenza dell’inglese della maggior parte dei presenti, fu in italiano, tradotto in francese da Franco. Poche parole generiche, un ringraziamento per l’ospitalità e un augurio per una lunga e proficua collaborazione. Pio, valutato come tirava il vento in quella riunione, si guardò bene dal mettere sul tavolo questioni geologiche o tecniche, nonostante quello che gli aveva raccomandato Sergio la mattina del giorno prima. Al termine della riunione Sergio si accostò a Pio. «Vedi» iniziò «queste riunioni non servono a nulla di pratico, conta solo chi c’era, non cosa si dice, e c’erano le persone giuste, erano anche tutti curiosi di vedere questi professori dell’università di Milano. Ovviamente abbiamo fatto passare per docente anche Arianna. Tu, mi raccomando, non smentirci». Ma allora era davvero una specie di gorilla in gabbia e i malgasci erano venuti a vedere il fenomeno da baraccone. Pio si rabbuiò e gli venne in mente, in modo abbastanza incongruo, una canzone di De Andrè, su di un gorilla che brutalizzava un professore, o era lui che si ricordava male? E, soprattutto, lui era il gorilla o il professore brutalizzato? In entrambi i casi non c’era da stare allegri. Comunque qualcosa si era stabilito, sarebbero partiti per la miniera lunedì, portando con loro Aina. Alla miniera avrebbero trovato Romeo, che li avrebbe seguiti per tutto il tempo della loro permanenza, due o tre giorni. Tornarono in albergo sommersi dal diluvio di parole di un entusiasta Sergio. Pio non conosceva ancora quel lato del carattere di Sergio, il quale, quando era di buon umore, era in grado di sparare un numero esorbitante di parole al minuto, su qualsiasi argomento dello scibile umano. Pio la prese con filosofia, in fondo era Sergio che pagava tutto, gli si poteva anche far passare quella mania. Era il caso però di mettere in atto delle contromosse. Compose una faccia da ascoltatore attento e, dal

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suo repertorio di mantra, scelse un classico che gli dava sempre grandi soddisfazioni: ‘Vanità di vanità’ di Angelo Branduardi. Dopo cena, ancora in fase euforica, Sergio decise che bisognava festeggiare e che nessun luogo era meglio, per questo, che l’Indra, il locale più malfamato ed equivoco di Antananarivo. Pio decise che era un’esperienza da non perdere e, dopo avere promesso che non l’avrebbe abbandonata per andare con qualche puttana, riuscì a convincere Arianna ad andare con loro. Arianna poi trascinò Silvana, ricordandole che avrebbe potuto tranquillamente fumare tutto il tempo. L’unico che declinò l’invito fu Franco, che disse di essere una personalità troppo in vista a Tanà per farsi vedere in un posto come quello, per non dire del fatto che era sposato con una malgascia. Naturalmente andarono con Remy, prima a cena, poi all’Indra. L’autista, ben felice di essere stato adottato, li scarrozzò per la città alta in cerca di un ristorante che Sergio conosceva, ma non sapeva più ubicare. Giunti in cima a una ripida salita, finalmente, riuscì a riconoscere dei punti di riferimento e disse a Remy di tornare indietro. Remy, con serafico sorriso, spense il motore, mise in folle, e si fece i duecento metri della discesa di corsa, all’indietro e contromano. Al termine della discesa tutti scoppiarono in una risata liberatoria. Va bene il prezzo della benzina, pensò Pio, ma rimetterci le penne per un decilitro di super era veramente troppo. Più tardi, nel tragitto verso l’Indra, l’autista si esibì in un’altra perla. Pio, come al solito, data la sua mole non indifferente, sedeva davanti e, dal finestrino abbassato, entrava una brezzolina decisamente fredda. A Tanà, 1400 metri sul livello del mare, di notte la temperatura scende facilmente sotto i dieci gradi. Pio fece notare l’inconveniente a Remy, il quale intervenne prontamente, recuperando il vetro nella portiera, tirandolo su alla meglio e fissandolo con un cacciavite. Raggiunsero l’Indra verso le ventitré. Fuori del locale stazionava un gran numero di sfaccendati dall’aria truce. Arianna fece un ulteriore tentativo di dissuadere il gruppo. «Ma siete proprio sicuri di voler scendere in mezzo a queste facce?» In effetti anche Pio titubava, ma fu Sergio a prendere in mano la situazione. «Non preoccupatevi, venite con me», poi, rivolto all’autista, disse «Tu aspettaci qui». Non era chiaro se per le parole di Sergio o perché non si sarebbe mosso da lì nemmeno a cannonate - dopo aver trovato ben quattro vasà che erano la

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sua gallina dalle uova d’oro - ma Remy si apprestò a una lunga attesa accucciandosi nel sedile e tirandosi sulla faccia il suo cappellino. I quattro entrarono nel locale con circospezione, dopo essere stati evidentemente gli unici a pagare il biglietto. Dentro giovani uomini e donne malgasci - minorenni? pensò subito Pio - ballavano: solo un attimo di stupore per l’ingresso di ben quattro vasà tutti in una volta. I vasà stessi non erano comunque gli unici bianchi del locale. In angoli diversi del locale due uomini, un attempato signore in camicia bianca chiazzata di sudore e un quarantenne dalla barba incolta, erano circondati da ragazze, che palpeggiavano e dalle quali si facevano palpeggiare sorridenti. Pio li squadrò attentamente mentre Arianna gli urlava nell’orecchio: il volume della musica era decisamente troppo alto. «Hai visto? Questo è un bordello e quei due sono certamente pedofili in caccia». Pio ricordò i numerosi avvisi, appesi ovunque a Tanà, soprattutto nei locali per bianchi, che ricordavano che la pedofilia è un reato. Se c’erano gli avvisi c’erano certamente anche i pedofili, pensò. Il gruppetto si mantenne compatto addossandosi a una parete. Inaspettatamente le prime a essere abbordate da un paio di ragazzoni sorridenti furono Silvana e Arianna. Pio ricordò che in Africa è fiorente il turismo sessuale al femminile, anche se i malgasci non sembrava potessero essere dotati virilmente come altri popoli del continente, e se ne fece una ragione. Non altrettanto fecero Silvana e Arianna che si destreggiavano con difficoltà, con un’aria tra il lusingato e l’impaurito. C’era da dire, pensò ancora Pio, che i due ragazzoni, da gran signori, sembravano non fare conto della differenza tra i 25 anni di Arianna e i quasi 50 di Silvana. Pio se la stava ridendo da un po’ quando una ragazza, non più di un metro e cinquanta - per cui l’assalto arrivò dal basso all’improvviso - lo colse impreparato abbordandolo, ma in maniera decisamente meno elegante di quanto era capitato a Silvana e Arianna. In men che non si dica Pio si ritrovò circondato da ragazze che gli si strusciavano addosso. Istintivamente la mano destra, carica di tutti i pregiudizi europei, scattò, incollandosi alla tasca destra del pantalone dove teneva il portafoglio. Saranno preconcetti da bianco capitalista? Sarà pure, pensò Pio, ma con il passaporto in tasca c’è poco da scherzare, ne va del rientro in Italia. Il resto della serata passò tra i lazzi e le risate di Silvana e Arianna e l’imbarazzo di Pio. A un certo punto spuntò anche una macchina fotografica. Speriamo che le foto non arrivino in qualche modo agli studenti, pensò Pio mentre veniva immortalato. Sergio intanto, da uomo di

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mondo, sedeva bevendo una three horses, la birra locale, in un posto recuperato chissà come. Con la solita mancetta capitalista, pensò Pio cercando di svincolarsi da un abbraccio fin troppo focoso. Quando le offerte sessuali divennero più esplicite e variopinte i quattro decisero che era l’ora di guadagnare l’uscita. Cosa che avvenne a suon di spintoni e tra la costernazione generale. Remy dormiva beato nel taxi. Dovettero svegliarlo scuotendo l’auto. Silvana si prese il compito di tenerlo sveglio nel breve tragitto fino all’albergo. FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...