centro militare di studi strategici ricerca 2010 · decennio dopo il compimento dell'unità...

134
1 Centro Militare di Studi Strategici Ricerca 2010 Flussi migratori nel Mediterraneo:per una strategia internazionale di integrazione e difesa, con particolare riguardo per la situazione italiana. Politica di immigrazione, asilo e respingimento alle frontiere marittime;recettività ideologica transnazionale, degli odierni fondamentalismi. Direttore della Ricerca Prof. Giuseppe Sacco

Upload: trandieu

Post on 16-Feb-2019

215 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

1

Centro Militare di Studi Strategici Ricerca 2010

Flussi migratori nel Mediterraneo:per una strategia internazionale di integrazione e

difesa, con particolare riguardo per la situazione italiana.

Politica di immigrazione, asilo e respingimento alle frontiere

marittime;recettività ideologica transnazionale, degli odierni

fondamentalismi.

Direttore della Ricerca Prof. Giuseppe Sacco

2

INDICE GENERALE

PARTE PRIMA

L'ATTRAZIONE DELLA SPONDA NORD

DEMOGRAFIA E PRESSIONE ALLE FRONTIERE

Le relazioni trans-mediterranee: nuove percezioni

Le implicazioni politiche dei flussi migratori

L'inversione dei flussi e le migrazioni trans-mediterranee

Verso l’Italia: nuova dinamica e disciplina dei flussi migratori

La visione della Nato, e quella dell'opinione corrente.

La questione demografica oggi

La questione demografica nel futuro prevedibile

Il costo della denatalità

Una ripresa demografica?

Il fattore “vasi comunicanti”. Uno: i limiti dell'Europa

Un “serbatoio” che non c'è.

La corsa all'immigrato cristiano

3

PARTE SECONDA

LA SPINTA DALLA SPONDA SUD

DEMOGRAFIA E PRESSIONE ALLE FRONTIERE

1. I fabbisogni migratori dell’Italia: Tre obiettivi, tre politiche

2. Catastrofe pubblica e tragedie private

3. Il fattore “vasi comunicanti”. Due: la “riserva” trans-mediterranea

4. Barconi e disperati attraverso il Mediterraneo

5. Il fattore islamico

6. L'eccezione italiana

7. Coesistere con l’immigrazione?

8. La Lobby pro immigrazione

9. I costi per la società

10. Le politiche sull’immigrazione

11. Uomini o lavoratori?

12. Le braccia, non l’anima

13. In partibus infidelium

14. Il cigolìo del cancello che si chiude

15. Diritti, non paure

4

PARTE TERZA

LA NON-COMPLEMENTARITÀ TRANS-MEDITERRANEA

16. L'illusione “Barcellona”

17. Tra utopia e demagogia

18. Il senso politico di un tentativo

19. Gli elementi di unità

20. Mare nostrum ?

21. I tentativi di “forzare” gli ingressi

22. La questione dei cittadini comunitari

23. Il filtraggio alle frontiere: una necessità generale

24. I rapporti trans-mediterranei e i respingimenti in mare

25. I rapporti tra le due sponde

26. I rapporti con la Libia

27. Due attori diversi dagli altri

28. Attivismo diplomatico

29. Impatto televisivo e dettato costituzionale

30. Politica di immigrazione, asilo e respingimenti alle frontiere

31. Il “principe de non-refoulement”

32. Operato dei governi di centro sinistra

33. Operato dei governi di centro destra

34. L’applicazione di una politica dell'immigrazione e dei respingimenti

35. La “tirannia universale”

36. Immigranti e rifugiati

37. Tra immigrazione e terrorismo

5

PARTE QUARTA

LA QUESTIONE ISLAMICA IN EUROPA

38. Mediterraneo e sicurezza europea

39. Terroristi si diventa

40. L’arma della morte

41. Al banchetto seduto tra due sedie

42. Il diritto di cambiare idea

43. Terroristi come e perché

44. Terrorismo scientifico

45. Difesa alle frontiere: Una condizione necessaria

46. I Turchi in Germania: la fine dello “strappo”

47. L'identità tedesca tra Cristianesimo e Islam

48. Le antenne paradiaboliche

49. Il caso Al Jazeera

50. Il caso Al-Manar

51. La “cultura” eversiva “in rete”

52. Immigrati e terrorismo, ieri

53. Gli “Harkis”

54. Il tradimento

6

PARTE QUINTA

CONCLUSIONI

E

NUOVE LINEE DI RICERCA

55. Immigrati e terrorismo, oggi

56. Architettura “criminogena”

57. Il più istruttivo tema di ricerca

58. I ghetti della rivolta

7

PARTE PRIMA

L'ATTRAZIONE DELLA SPONDA NORD

DEMOGRAFIA E PRESSIONE ALLE FRONTIERE

1. Le relazioni trans-mediterranee: nuove percezioni

Ci sono fasi storiche, osserva Montesquieu nelle sue “Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei Romani” in cui alcuni paesi diventano eccezionalmente pericolosi per i propri vicini. E' il caso, ad esempio dei paesi in preda ad una guerra civile, dove non ci si scontra armée contre armée, ma faction contre faction, sicché alla fine la società civile scompare e – come dice il grande filosofo illuminista – “ogni uomo é soldato”. Nel non infrequente caso in cui due o più delle fazioni ideologiche (o addirittura culturali) in lotta esistano anche in altri paesi, lo scontro tende inevitabilmente a traboccare oltre i confini, trascinando tutti nel suo implacabile gorgo.

Non è difficile riconoscere nell'odierna situazione internazionale molte delle caratteristiche di questo quadro. A partire dall'interminabile conflitto mediorientale, gli scontri religiosi o settari si moltiplicano, si sovrappongono, e si compongono a conflitti nazionali, tribali ed economici, coinvolgendo comunità emigrate e diaspore, sino a far intravedere uno scenario ancora più estremo. Lo scenario in cui le linee di divisone che attraversano società formalmente in pace, ma in cui – come in quelle Europee – si sviluppano rapidamente comunità minoritarie od allogene, o in cui componenti preesistenti che sino ad allora hanno pacificamente convissuto incominciano a percepirsi come formazioni sociali diverse l'una dall'altra, discriminate dalle comunità più numerose e più potenti, fino a sentirsi in pericolo: lo scenario, insomma, dove ormai non solo ogni uomo, ma anche ogni donna, che sia appena “diverso” o “diversa”, può essere un nemico e costituire una minaccia.

Che ogni politica finalizzata a garantire la sicurezza, in una fase storica come quella attuale, abbia una larga area di sovrapposizione con la politica migratoria è quindi naturale.

Non si tratta, però, di una novità. Non mancano infatti gli esempi storici – di ogni epoca e di ogni parte del mondo – che possono far facilmente constatare quanto il fenomeno migratorio sia legato – sia come effetto che come causa – a fattori politici1

, e non solo a pur importantissime circostanze demografiche, economiche e sociali. E proprio perché esempi di questa natura possono essere constatati in molti e diversi paesi e fasi storiche, essi dimostrano la natura profonda di questa interrelazione.

1 Vedasi in particolare, Giuseppe SACCO, Les migrations en Europe. Pour une approche politique, in

“Commentaire”, Paris, n. 63, Autunno 1993.

8

2. Le implicazioni politiche dei flussi migratori

Persino il fenomeno migratorio transoceanico che ha caratterizzato l'Italia – quello proveniente dal Mezzogiorno d'Italia e diretto verso le Americhe, a partire da circa un decennio dopo il compimento dell'Unità nazionale, e soprattutto nei decenni a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo – ne può costituire un esempio Un esempio addirittura ovvio, anche non molto spesso citato.

Documenti d'archivio resi noti di recente hanno rivelato che è addirittura esistita, da parte del governo sabaudo, una deliberata politica tendente ad allontanare dal territorio del nuovo stato una parte quanto più numerosa possibile della popolazione meridionale, considerata – come sostenuto dalle teorie pseudo-scientifiche che avevano allora corso, in particolare quella del Lombroso – come razzialmente inferiori, naturalmente ed incorreggibilmente tendenti alla criminalità, e rispetto alle quali i Beduini erano “fior di civiltà”.

Secondo il periodico Limes, é possibile al di fuori di ogni retorica o intento polemico affermare oltre ogni dubbio, suffragati dalla mole del fenomeno, che quello che accadde in Italia nell’ultimo ventennio del diciannovesimo secolo deve essere considerato una “soluzione finale”. Secondo questo periodico di sinistra moderata, ci sarebbe stata una espressa la volontà di “ripulire” il territorio unificato nello Stato nazionale da una massa considerata eccessiva e inassimilabile, cercando di spingere questa “canaglia” fuori dal Paese.

L’idea era che, per completare, con le masse popolari, la costruzione della Nazione, andasse fatta quella che oggi si chiamerebbe un'operazione di “pulizia etnica”, o quanto meno una riduzione molto forte di quell'elemento meridionale difficilmente integrabile, senza il cui ridimensionamento l’unità nazionale sarebbe stata pressoché impossibile. L’emigrazione veniva vista come una deportazione definitiva.

Da ciò deriva anche l’assoluto disinteresse, anzi il volgare disprezzo, sempre dimostrato dalle nostre autorità diplomatiche e consolari2 all’estero nei confronti degli emigranti. Questo era il segno di una mentalità che non li considerava esseri umani e allo stesso tempo della chiara volontà di recidere qualsiasi legame tra loro e la madrepatria: in pratica, essi venivano deportati affinché non ingombrassero con la loro presenza il già difficile processo di unificazione nazionale. E ciò in un periodo storico in cui di nazionalizzazione delle masse non si poteva ancora parlare.3

Gli effetti concreti di questa politica non vanno naturalmente sovrastimati, anche se, nel clima anti-nazionale oggi alla moda, queste rivelazioni sono politicamente funzionali ad alimentare tanto i sentimenti divisivi del Sud (risentimento) quanto i pregiudizi riemersi in una parte del Nord un tempo detto “austriacante”. L'enorme ondata migratoria che ha caratterizzato il Sud è stata invece in gran parte dovuta ad un fenomeno di “rivoluzione delle speranze crescenti”; cioè col fatto che le attese delle popolazioni meridionali – e in 2 Vedasi, tra le centinaia di testimonianze su questo tema, Gli Italiani al Nuovo Mondo 3 Nei primi mesi del 1998, la rivista Limes ha notato come, storicamente, l’Italia pur potendo disporre di

una vera e propria diaspora . Infatti l’Italia, pur disponendo di sessanta milioni di oriundi (secondo i calcoli più ottimistici) è l’unico Paese a mantenere oscuro questo aspetto e a non sfruttare questa grande ricchezza, non avendoli mai mobilitati a difesa dei propri interessi nazionali.

9

particolare siciliane – avevano di gran lunga superato quelli che sono poi stati i risultati in termini di progresso sociale ed economico .

Con l'Unità nazionale, infatti, i grandi miglioramenti – un vero e proprio balzo in avanti – della situazione meridionale si erano verificati soprattutto nel campo dell'istruzione, dei codici, della libertà di pensiero, dei diritti civili, dei trasporti e della medicina: tutti campi di cui avevano fruito le classi medie e – in minor misura – quelle medio-basse, ma non gli strati più umili, da cui proverrà la grande maggioranza degli immigrati. La decisione di molti contadini poveri del Sud, di lasciare il proprio paese per cercare fortuna altrove è dunque strettamente legato a fattori politici Contrariamente a quanto si è voluto far crede negli ultimi decenni del ventesimo secolo, l significato politico del Risorgimento non fu certo quello gattopardesco “del cambiar tutto perché nulla cambi”, ma il progresso da esso introdotto fini per accentuare la frustrazione politica di quelle stesse categorie sociali che erano accorse in massa sotto le bandiere dei Mille, e che furono duramente represse con la lotta al banditismo, lasciando come unica via d'uscita quella dell'esodo.

Ancora più politiche le ragioni che portarono ai primi insediamenti inglesi in Nord America in Nord America.

3. L'inversione dei flussi e le migrazioni trans-mediterranee

Il fenomeno dell’immigrazione copre ormai un periodo storico della durata di circa quarant’anni, in quanto i flussi in entrata non sono diventati significativi se non a partire dagli anni ’70, quando è giunta a conclusione il fenomeno contrario che, per un periodo più o meno della stessa durata – dalla metà degli anni ‘870 alla Prima guerra mondiale, aveva visto gli Italiano prendere la via dell'esodo, con circa 28 milioni di emigrati a partire dall'unificazione nazionale.

Un luogo comune, ripetuto in tutto il mondo, è quello che l’Italia sarebbe stato storicamente un grande paese d’emigrazione. Si tratta di una delle tante inesattezze – implicitamente o esplicitamente denigratorie – che si dicono dell’Italia. I paesi europei da cui sono partiti i grandi flussi migratori sono infatti, sin dal 1500, l’Inghilterra, la Spagna, l’Olanda, il Portogallo, la Scozia, e più tardi la Germania, la Svezia e l’Irlanda. Nei secoli in cui questi paesi hanno popolato il continente americano, l’Africa meridionale, e più tardi l’Australia con orde di miserabili che si riproducevano come conigli, l’Italia era il paese più ricco ed avanzato del mondo. E lo rimarrà fino alla cosiddetta Rivoluzione Industriale, quando le raffinate tecnologie italiane, così come oggi le tecnologie occidentali vengono trasferite versoi paesi a basso costo del lavoro in l’Asia, vennero trasferite – quasi sempre con la frode4

I flussi migratori dalle zone alpine, in particolare dal bergamasco, erano diretti soprattutto verso l’Europa e, come quelli assai più folti provenienti dalla Svizzera, costituivano soprattutto forze mercenarie, indispensabili per le guerre di successione, che – al contrario

– in Francia e soprattutto in Inghilterra , cioé nei paesi in cui il costo dell'energia (grazie al carbone), delle materie prime e dei trasporti (per l'esistenza di fiumi navigabili) era più basso.

4 Il furto di tecnologie italiane è stata per secoli una consolidata tradizione, che va dal rapimento di alcuni

vetrai veneziani di agenti mandati da Colbert (senza di che non esisterebbero oggi né la Galleria degli Specchi di Versailles, né la Saint Gobain) all’esportazione fraudolenta, nascosti nell’impugnatura del bastone da passeggio, da parte di Beniamino Franklin, di un pungo di chicchi di riso piemontese di qualità unica al mondo, il cui contrabbando prevedeva la pena di morte. Il bastone si trova oggi alla Smithsonian Institution di Washington.

10

delle guerre di religione, che le avevano precedute, non suscitavano nessun flusso spontaneo di volontari.

Le migrazioni, in Italia, sono un fenomeno breve ed intenso – così come assai intenso è il flusso immigratorio degli ultimi anni – e si manifesta subito dopo l’Unificazione nazionale, soprattutto – ma non solo – a partire dal Mezzogiorno. Tra le cause c’é certamente il vento di novità portato dalla rivoluzione nazionale, il miglioramento delle condizioni sanitarie ed educative. Ma c’erano anche la spoliazione del sud di tutte le attività economiche che potevano fare concorrenza al Piemonte, l’espulsione forzata di quelle popolazioni in cui aveva più forti radici la resistenza antisabauda nota come « brigantaggio ». E poi l’introduzione, in regioni che non avevano mai conosciuto la coscrizione come il Regno di Napoli e lo stato della Chiesa, del servizio militare obbligatorio per periodi lunghissimi – fino a sette anni ! Tutto ciò culminerà nel 1913, quando dall’Italia emigrarono 900.000 persone, ma verrà meno negli anni successivi, quelli di una guerra in cui l’Italia, che a quell’epoca aveva 35.600.000 abitanti, avrà 1 270 000 morti (680 000 militari e 590 000 civili), e circa un milione di feriti e menomati.

L’emigrazione dall’Italia, a parte quella verso le colonie, la Libia e l’Africa Orientale, non riprenderà che dopo il Fascismo e la Seconda Guerra Mondiale. Ma si tratterà di un fenomeno completamente diverso. Bisogna infatti distinguere, nell’esperienza italiana l’emigrazione definitiva dai movimenti di breve termine. Le ultime migrazioni definitive in partenza dall'Italia risalgono ormai a più di cinquant’anni fà, e coinvolsero principalmente i 350.000 profughi dell’Istria e della Dalmazia che fuggivano i bestiali massacri perpetrati dagli Yugoslavi. Ma dopo quella tragedia, a partire dal 1955, et negli anni '60 non c'é dall’Italie che emigrazione di breve durata, o comunque non definitiva, soprattutto verso la Svizzera e la Germania. Sucessivamente, il flusso dei ritorni supera quantitativamente quello delle uscite verso il 1971.

In totale, si può calcolare che, in media, negli anni’ 50 e '60, circa 300.000 persone all'anno lasciano l'Italia. Mais la media delle partenze scende dapprima a 108.000 (negli anni '70), in contemporanea con un sensibile aumento dei rimpatri, e poi a 55.000 (negli anni '90) e ancora meno in quelli successivi. Sempre più rapidamente, a partire da quel momento, la forte diminuzione delle partenze verso l'estero coincide non più con i ritorni, ma con l'arrivo di immigrati stranieri.

Dati statistici sugli stranieri che sono presenti in Italia sono disponibili solo a partire dal 1970. Alla fine di quel'anno gli stranieri sul nostro territorio ascendono a 143.838, e solo ne 1979 viene superata quota 200.000.

4. Verso l’Italia: nuova dinamica e disciplina dei flussi migratori

I flussi migratori dall’estero verso l’Italia hanno avuto, in un arco di tempo in definitiva assai breve, una vero rivoluzionamento. In particolare tra il 1979 et 1980, si passa da 205.449 à 298.749 arrivi, con una crescita del 45.4%. In realtà, in questo periodo non si verificano eventi particolari, ma solo una modifica del sistema di registrazione dei permessi di soggiorno, per renderlo più adatto all'inquadramento e alla comprensione del nuovo fenomeno.

Fino al 1970, infatti, le statistiche sono relative agli stranieri presenti nel nostro paese con un permesso di soggiorno di durata superiore a tre mesi, mentre a partire dal1980 sono presi in considerazione i permessi di soggiorno con durata superiore ad un mese. D’altra

11

parte, è solo da questo momento che si può veramente parlare di immigrazione in Italia

Nel decennio successivo '80, gli aumenti si succedono di anno in anno, ma sono piuttosto ridotti, inferiori al 10%. Essi portano tuttavia oltre la soglia dei 400.000 stranieri presenti sul territorio nel 1984. Poco dopo (30 dicembre 1986) veniva approvata la prima Legge in materia, che garantiva agli extracomunitari piena parità di trattamento, ma non prevedeva nessuna norma relativa al controllo e all’espulsione che viene invece genericamente rimessa ai principi di pubblica sicurezza, e si inaugura la serie delle cosiddette “regolarizzazioni”, che esclude ogni forma di punibilità per illeciti commessi sino ad allora.

Si tratta di una misura assai significativa di quello che sarà nel successivo quarto di secolo l'atteggiamento della società italiana nei confronti di questo fenomeno così nuovo ed inatteso. Con questa legge viene disciplinato il fenomeno dell’immigrazione straniera, anche in attuazione della convenzione internazionale dell’Organizzazione internazionale del lavoro.5

La legge in questione

6

In realtà, la norma, contenuta nel titolo II della legge riguardante la programmazione dell’occupazione dei lavoratori subordinati extracomunitari, non appare concretamente volta a controllare i flussi migratori in stretta correlazione con le possibilità occupazionali. Infatti tale controllo è rimesso alla disciplina delle procedure per l’accesso all’occupazione: si prevede che l’ingresso in Italia per motivi di lavoro di extracomunitari è ammesso solo se lo straniero sia in possesso del visto rilasciato dall’autorità consolare sulla base dell’autorizzazione al lavoro concessa dal competente ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione.

contiene, quanto meno a livello di enunciazione di principio, i fondamentali elementi di garanzia per i lavoratori extracomunitari: all’articolo 1 si legge, infatti, che la Repubblica italiana garantisce i diritti relativi all’uso dei servizi sociali e sanitari, al mantenimento dell’identità culturale, alla scuola e alla disponibilità dell’abitazione, vengono istituite apposite commissioni presso il Ministero del Lavoro e della previdenza sociale e presso il Ministero degli Affari Esteri sia per quanto attiene le possibilità occupazionali che per quanto attiene ai flussi migratori. L’articolo 4 poi già prevede il diritto al ricongiungimento con il coniuge e i figli minori, che sarà il punto essenziale della Legge Turco-Napolitano.

Come si vede non ha tracciato un approccio sistematico alla questione, e tanto meno ha dato allo Stato gli strumenti di una vera e propria programmazione. La Legge infatti disciplina gli accessi, caso per caso, in relazione alle disponibilità occupazionali di volta in volta manifestatesi; le quali tra l’altro, sono subordinate al previo accertamento di indisponibilità di lavoratori italiani e comunitari aventi qualifiche professionali per le quali è stata richiesta l’autorizzazione.

In conclusione, si può dire che già nel 1986 è chiaro quel che verrà precisandosi successivamente, e cioè che il legislatore italiano è pieno di buoni propositi per garantire al lavoratore extracomunitario una piena parità di trattamento con quello nazionale, nonché condizioni di vita idonee a un inserimento nella società, prevedendo riconoscimento di titoli professionali, corsi di lingua, programmi culturali, corsi di

5 Convenzione del 24 giugno 1975, n. 143, che era stata ratificata dall'Italia con la legge 10 aprile 1981, n.

158. 6 Legge n. 943/1986

12

formazione e inserimento, protezione per i minori e per le donne vittime dello sfruttamento da parte dei loro stessi connazionali.

Peraltro, con questa prima legg e si inaugura la serie delle regolarizzazioni a sanatoria, che esclude ogni forma di punibilità per illeciti pregressi a fronte della positiva volontà degli interessati, sia lavoratori che datori di lavoro, tesa a consentire l’emersione del fenomeno immigratorio clandestino. Questa prassi, la sanatoria ex-post, raggiungerà il suo massimo con la Legge cosiddetta Bossi-Fini, in contemporanea con la quale verranno sanate le posizioni di un numero di immigrati irregolari superiore a quello di tutte le altre sanatorie precedenti messe assieme.

Nulla è infine previsto in quella legge per quanto riguardi una disciplina specifica dell’espulsione che viene invece genericamente rimessa ai principi di pubblica sicurezza. Ed é questo ancora oggi un punto sul quale la politica italiana in materia di immigrazione si trova ancora in affanno La prima sanatoria provoca, nei due anni successivi, un forte aumento degli immigrati, in particolare nel 1987, quando da 450.277 stranieri presenti sul territorio nazionale si passa a 572.103 (+ 27,1%). E non si tratta di un boom solo dal punto di vista statistico, ma di flussi effettivi, generati dal diffondersi nei paesi di origine della “voce” che in Italia basta entrare in qualche modo per essere successivamente “messi in regola: un convincimento che le sanatorie successive non hanno fatto che rafforzare.

Negli anni 70 e 80, mentre si esauriva il flusso inverso, quello dell’emigrazione degli strati meno favoriti della popolazione italiana verso l’estero, i movimenti in entrata sono così passati, da un fenomeno di assoluta élite a un fenomeno con caratteristiche di massa. Si tratta infatti di una immigrazione molto diversa da quelle precedenti, quando si veniva a vivere in Italia, dopo aver fatto fortuna, magari come politici socialdemocratici in Inghilterra o in Germania, comprando una casa nel Chianti. Il fenomeno era così diffuso che un gruppo parlamentare Social Democratico tedesco venne ironicamente battezzato la ‘Toskana Fraktion’, mentre le elites londinesi si preparavano a trascorrere i mesi estivi nelle loro proprietà nel ‘Chiantishire’.

Dal punto di vista italiano, gli stranieri che venivano a vivere da noi sono passati da curiosità a necessità del sistema, senza i quali l’Italia rischia un rapido declino demografico.

5. La visione della Nato, e quella dell'opinione corrente.

Il carattere politico dei fenomeni migratori non è venuto meno con l'inversione dei flussi e la trasformazione dell'Italia da paese d'emigrazione in paese d'immigrazione. E questo carattere è, come vedremo meglio più avanti, particolarmente accentuato nelle migrazioni transmediterraneee, che avvengono tra paesi culturalmente e religiosamente diversissimi, segnati da un forte dislivello di sviluppo economico, e da processi politici che, sulla sponda Nord, prendono soprattutto in considerazione la comunità di interessi tra Stati nazionali un tempo rivali, mentre al Sud – da poco indipendente, e ancora impegnato a superare il frazionamento tribale - enfatizzano invece il processo di “nation building” e la rivalsa anti-colonialista, in qualche caso anti-europea, e all'estremo anti-cristiana.

Non può dunque sorprendere che – per citare il più recente di tutta una molteplicità di iniziative significative – l'Assemblea Parlamentare della Nato abbia, nel 2009, affrontato le questioni politiche e di sicurezza che discendono dalle migrazioni trans-mediterranee in

13

uno studio tendente a rispondere a tre quesiti: In primo luogo, quali sono i paesi di provenienza degli immigranti e quale è l'evoluzione degli schemi migratori nella regione? In secondo luogo, quali misure gli stati europei adottano per controllare i flussi migratori? In terzo luogo, quali incidenze l'immigrazione trans-mediterranea comporta sul piano socioeconomico e, più specificamente, su quello della sicurezza? Infine, quali sono i mezzi suscettibili di permettere una migliore regolazione dei flussi migratori?

Superfluo, data la fonte, è sottolineare che il Rapporto conclusivo di questo studio, di cui è stato relatore in Assemblea il deputato italiano Cabras, rappresenta la fonte politicamente più affidabile per ottenere un quadro della situazione politica e di sicurezza determinata dai flussi migratori tra le due sponde della regione marittima in cui l'Italia è così profondamente coinvolta.

Tanto più significativo risulta pertanto la valutazione complessiva che il Rapporto Cabras presenta del fenomeno migratorio attraverso il Mediterraneo, che viene tanto spesso presentato, per ragioni puramente demagogiche e di bottega partitica, come portatore di minacce apocalittiche per le società di destinazione, e in particolare per quella italiana.

L' immigrazione mediterranea – si legge infatti nel Rapporto Nato – “non deve essere considerata soltanto da un punto di vista negativo, come un problema da risolvere. Il Mediterraneo meridionale fornisce anche all'Europa una manodopera numerosa ed mobile pronta ad occupare le nicchie che si manifestano sul mercato del lavoro e a ristabilire l'equilibrio demografico. I paesi di destinazione traggono vantaggio dagli effetti benefici dall'immigrazione, che compensa le penurie sui mercati del lavoro nazionali, ne stimola l'efficacia ed agisce come un catalizzatore per la creazione di nuovi posti di lavoro.

I dati disponibili riguardanti l’incidenze dell'immigrazione sui salari e l'occupazione a livello nazionale non permettono di trarre conclusioni, ma non forniscono nessun argomento a favore del luogo comune secondo il quale l'immigrazione ha comportato un aumento della disoccupazione o un forte ribasso dei salari. Anche se i risultati variano da un paese all'altro, il bilancio netto dell'immigrazione sembra essere generalmente positivo anche per il bilancio degli Stati, perché le imposte versate dagli immigrati superano spesso il loro “consumo„ di servizi pubblici.7

L'immigrazione in Europa è poi anche un mezzo per aumentare il totale della popolazione in età di lavorare. Il fenomeno dell'invecchiamento della popolazione europea e dell'aumento del numero di pensionati rispetto a quello degli attivi pone un problema all'insieme del continente. Alcune stime segnalano che, negli Stati membri dell'Unione europea, più del 70% della crescita demografica registrata nel corso dell'ultimo decennio è il risultato diretto dell'immigrazione. Inoltre, secondo le previsioni, nei prossimi decenni, almeno il 30% della popolazione della maggior parte degli Stati membri sarà costituito da pensionati.

Senza un nuovo aumento della popolazione in età di lavorare, che sia grazie alla natalità o all'immigrazione, i sistemi di sicurezza sociale avranno sempre più difficoltà a garantire ai cittadini le prestazioni che questi legittimamente si aspettano. … Secondo le stime, negli Stati membri dell'UE, più del del 80% della crescita demografica durante

7 « Italy Announces State of Emergency Over Immigration », Deutsche Welle, 26 July 2008.

14

l'ultimo decennio deriva direttamente dall'immigrazione. 8

Altro grande vantaggio legato all'immigrazione nella regione mediterranea: la forte influenza che esercitano i lavoratori immigrati sull'economia del loro paese d'origine. Le loro rimesse di danaro alle famiglie rappresentano una quota non trascurabile delle entrate in valuta dei paesi esportatori di manodopera e possono avere forti ripercussioni positive sullo sviluppo locale. …. manodopera e, ben gestite, possono essere una leva importante per lo sviluppo del paese e la sicurezza.”

6

In conclusione, “per tutta una serie di ragioni, l'immigrazione può apparire come vantaggiosa tanto per i paesi di destinazione come per i paesi d'origine degli immigranti.. … L'immigrazione non è dunque un problema da risolvere, ma piuttosto una sfida da raccogliere in modo che i suoi vantaggi potenziali siano sfruttati al massimo e che i suoi svantaggi siano ridotti al minimo. La questione determinante che si pone è di sapere ciò che può essere fatto a livello nazionale ed internazionale per gestire al meglio l'immigrazione trans-mediterranea.”

Non è questa però l'idea che del fenomeno migratorio, e delle sue conseguenze sull'identità e la sicurezza nazionale, ha una larga parte dell'opinione pubblica, in particolare ne Nord Est, dove una classe medio-alta di recente arricchimento, non ha ovviamente nulla da obiettare a che gli immigrati vengano ad aggiungere le loro braccia all'offerta di forza lavoro, ma che poi paradossalmente è diffusa la protesta contro la presenza degli immigrati nella società. Anzi questa assume talora aspetti paradossali e francamente inaccettabili, quando le critiche si appuntano sul fatto che gli immigrati mandano una quota dei loro miseri guadagni alle famiglie, perché questo – si arriva a dire – costituisce un drenaggio di ricchezza che reca danno all'economia nazionale.

A parte il fatto che in una società libera, quale l'Italia pretende di essere considerata, ciascuno può fare quel che vuole della ricchezza prodotta col proprio lavoro, e che – nel caso specifico – gli immigrati smetterebbero immediatamente di lavorare e rientrerebbero in patria, o andrebbero altrove, se venisse loro di mantenere con i loro risparmi mogli, figli, genitori, etc., il ragionamento che è alla base di questa protesta non tiene conto del fatto che il bilancio delle migrazioni mosse da ragioni economiche è sempre un bilancio positivo per i paesi di destinazione.

La vita umana si compone infatti di tre fasi. Nella prima, quella che va da zero a 15/20 anni, la persona, specie se va a scuola, è totalmente a carico dei propri genitori e della società adulta in generale, sicché – quando entra sul mercato del lavoro – ogni uomo o donna rappresenta un investimento compiuto dalla società di origine.

C'è poi una seconda fase, quella della vita attiva, che dura circa quarant'anni e in cui quei giovani che ce l'hanno fatta a diventare adulti (cioé quelli che non si sono persi per strada, a causa della mortalità infantile, o che non sono malati, handicappati, drogati, ubriaconi, o tanto poco istruiti da essere disoccupati cronici, o semplicemente scelgono di vivere a carico dei loro mariti, o di un'istituzione religiosa) entrano nella vita lavorativa e producono tanto da mantenere sia se stessi che i loro figli e (spesso) le loro mogli, ma anche gli anziani.

Sono questi, gli anziani, coloro che vivono nella terza fase, che dura tra venti e

8 « Europe’s population would decline without migrants », EU Observer Online, septembre 2009.

15

tren'anni e in cui uomini e – soprattutto - donne hanno ormai messo ogni attività produttrice di ricchezza, pur continuando a consumare, anzi caricando la società di spese mediche e di assistenza tanto più pesati quanto più si allunga la vita media, e quindi il numero delle persone non autosufficienti che hanno bisogno di chi le assista.

E' chiaro che, se la prima fase viene vissuta nel paese d'origine (in genere, povero) dei flussi migratori, la seconda in quello di destinazione (in genere, ricco) e la terza – come sempre accade nelle migrazioni non definitive, e spesso in quelle che si pensava sarebbero state definitive – i costi sono quasi esclusivamente a carico del paese d'origine, cioé del paese povero, e i benefici a vantaggio di quello di destinazione, cioé del paese ricco. Il fenomeno migratorio tende insomma a determinare un formidabile trasferimento di ricchezza dai paesi di origine a quelli di destinazione, cioè dal mondo ricco e sviluppato a quello povero e sottosviluppato.

Se la critica “economica” all'immigrazione è dunque assolutamente inaccettabile, un qualche fondamento può essere riconosciuto alla critica degli effetti negativi che questa ha sulla società, cioé sull'impatto che l'immigrato ha sulla società di destinazione non in quanto lavoratore, ma in quanto persona portatrice di un'altra cultura, di valori diversi, di abitudini che, nei paesi industriali, risultano oggi superati.

6. La questione demografica oggi

Quasi con meraviglia, nella seconda metà del secolo scorso, uno scrittore svizzero, Max Frisch, osservando i problemi creati dall’immigrazione, aveva lanciato una esclamazione destinata a restare famosa: “Es wurden Arbeitskräfte gerufen, aber es kamen Menschen.” , che in Italiano si potrebbe tradurre “Cercavamo braccia; e sono venuti esseri umani !”

In poche parole, ecco qui riassunto tutto il drama dei paesi che un’insufficiente dinamica demografica costringe ad aver ricorso alla importazione di Arbeitskräfte, di forza lavoro. Assieme alle “braccia“ necessarie per i lavori che i cittadini del paese d’arrivo non si possono permettere di rifiutare, arrivano inevitabilmente degli esseri umani, uomini e donne, che – oltre alla necessità di guadagnarsi da vivere – hanno altre esigenze: quella di vedere rispettata la propria dignità e di non essere considerate come bestie da lavoro, quelle di non essere offese nella propria moralità; quella di poter continuare a professare la propria religione; quella di non essere considerati inferiori, dal punto di vista razziale o culturale; quella, in una parola, di non essere schiacciati dal punto di vista spirituale dal rullo compressore della omogenizzazione obbligatoria nella società in cui essi offrono la propria forza lavoro in cambio di danaro e dei beni materiali che questo può comprare.

Difficilmente, negli anni ’60 – quando il problema dell’immigrazione si poneva in Svizzera, e quando molti di quegli immigrati provenivano dall’Italia – si poteva immaginare che ben presto le conseguenze sociali e politiche dell’insufficienza demografica, e del conseguente arrivo di tante “braccia” e di tanti esseri umani avrebbero assunto tanta importanza nel nostro paese. Al contrario, si faceva allora un gran parlare, in Italia non meno che in Francia o negli Stati Uniti, di una “rivoluzione” imminente o addirittura in atto. Con il senno di poi, è facile vedere che si trattò pià di un episodio di infantilismo collettivo che di un’esplosione di estremismo, anche se, in Italia, l’agitazione del periodo 1968 -1978, ha determinato un’ondata di terrorismo che ha raggiunto il suo apice e la sua

16

conclusione con l’assassinio di Aldo Moro.

Fu un periodo assai tragico, ma non molto serio e, a quarant’anni di distanza, il tentativo rivoluzionario appare totalmente fallito sul piano politico. Eppure alcune delle sue conseguenze rimangono incancellabili, soprattutto perché esso ha spezzato di netto la tendenza alla crescita economica e civile in cui l’Italia si era avviata fin dalla fine del secondo conflitto mondiale, ed ha fatto apparire un radicale cambiamento nel costume, in particolare della componente femminile della popolazione, verificatosi negli anni precedenti, anche sotto l’influsso dei òezzi di comunicazione di massa, e degli influssi d’oltre Atlantico, dando il via ad un forte movimento femminista e a tutta una serie di trasformazioni non più rinviabili in termini di parità professionale e sociale della donna.

Ma, soprattutto, ha prodotto un cambiamento del costume sessuale, che ha rapidamente mostrato di essere incompatibile con l’auto-riproduzione della società. Il numero dei nati in quell’anno, oggi più che trentacinquenni, segnano infatti un picco, come mostrato dai grafici che seguono, mentre i dati successivi evidenziano chiaramente un brusco calo delle nascite che può essere considerato la traduzione demografica della mutazione politico-culturale, che coincise per di più con l’invenzione della pillola anticoncezionale.

Successivamente, la dinamica naturale è andata diventando ancora più debole, e il risultato è quello che si ricava dal grafico relativo alla struttura della popolazione italiana per fasce di età alla fine del secolo. Oggi il tasso di nascita è pari all’1,3% per donna, inferiore a quanto necessario per la sostituzione generazionale, e per il mantenimento dell’equilibrio tra popolazione attiva e non attiva. Ciò ha un impatto sulla futura struttura della popolazione del nostro paese che è già scritto nei dati.

7. La questione demografica nel futuro prevedibile

Molto si è detto e scritto sullo stato attuale della questione migratoria in Italia, che appare chiaramente collegata all’andamento della popolazione nel nostro Paese. Sarà perciò possibile partire dalle attuali previsioni dello US Census Bureau in materia demografica9

Si utilizzano i dati USA perché il Census Bureau li rileva per tutti paesi del mondo, con la stessa metodologia, il che facilita le comparazioni. Ciò non toglie che essi siano talora distorti, perché alcuni elementi della tipica ignoranza americana sul mondo esterno si riflettano sulle valutazioni. Così per esempio, appare difficile da credere agli “esperti” americani che l'Italia – da essi sempre considerata, sulla base unicamente della propria breve esperienza storica, come un paese di emigrazione – sia in realtà una destinazione privilegiata dei flussi di migranti. Si ricorderà, a tale proposito che anche Samuel Huntigton, nel suo celebre libro in cui tratta argomenti sui quali , come fu notato da “Foreign Affairs”, egli “non sa praticamente nulla”, era convinto che gli immigrati irregolari provenienti dagli Stati Uniti che chiesero la regolarizzazione nel 1990 fossero “Italian Americans going back” . Si trattava invece invece di 64.000 donne americane che da anni

, per delineare quale sarà probabilmente in futuro la condizione del nostro paese, e compararla poi con quella dei paesi del Mediterraneo e da quelli da cui provengono in principali flussi. Per confrontarla infine con alcuni interessanti calcoli fatti dieci anni fa delle Nazioni Unite.

9 Vedasi, “The Clash of Civizations”, pag 200 della edizione tascabile Touchstone

17

soggiornavano illegalmente in Italia alla disperata caccia di un marito.

Secondo le attuali previsioni, continuamente aggiornate ai dati più recenti. l’evoluzione della popolazione in Italia sarà quella indicata nei grafici seguenti

Per il 2010 la struttura della popolazione, che mostra un pauroso vuoto delle classi d'età più giovane, è ben rappresentata dal grafico seguente.

Figura 1

Dai dati del 2010 appare evidente che c’è, nella popolazione della penisola italiana, una enorme prevalenza delle classi anziane rispetto a quelle più giovani, ed è facile capire che la caduta della natalità è il fenomeno che ha caratterizzato la società a partire dalla seconda metà dei fatidici anni sessanta. La decadenza demografica è così forte che questa rappresentazione grafica, ordinariamente chiamata “piramide delle età”, non ha più nulla di una piramide, ma appare come un rozzo romboide.

Ancora più negative ed allarmanti appaiono le prospettive future. Nella figura 2, che mostra le previsioni per il 2025, la base della piramide si è ulteriormente ridotta. Si delinea una situazione in cui in nessun modo le generazioni in età produttiva potranno produrre abbastanza reddito per provvedere ai bisogni delle abbondati generazioni anziane, oltre che dei pochi giovani con meno di 15 anni.

L'anomala distribuzione per classi d'età, e quindi l'invecchiamento generalizzato

18

della popolazione è confermato dal grafico del 2025.10

Figura 2

Nel 2050, poi, si prevede per l’Italia una ulteriore, seppur non vertiginosa, diminuzione del numero delle nascite e un aumento del numero degli ultra 85enni. Quella che doveva essere una piramide ha ormai assunto la forma di uno di quei vecchi salvadanai in coccio che, quando venivano rotti, rivelavano un piccolo tesoro. Ma, ahimé, non lo è. Essa, anzi, non racchiude niente di buono per il futuro.

Al contrario, lo schema della Figura 3 mostra bene che nei prossimi anni non ci saranno abbastanza risorse per fare fronte ai bisogni di larghi strati di una popolazione estremamente vecchia. Al termine ultimo della prevedibilità anche in un campo, come quello demografico dove l'evoluzione futura dei fenomeni è molto meno difficile che in altri campi, la struttura della popolazione nazionale appare insomma radicalmente irrazionale.

10 Attenzione! La scala non è sempre la stessa nei diversi grafici. Perciò, la forma indica il distacco dalla “piramide perfetta”, cioè l'equilibrio tra classi di età, ma la superficie non indica la popolazione totale.

19

Figura 3

Oltre all’abbondanza delle classi d’età che superano i 65 anni, tradizionale età della pensione, classi che pesano sulle generazioni più giovani perché non producono più reddito, si osserva infatti la formazione di un vasto strato di uomini e di donne con più di ottantacinque anni. Da notare, soprattutto, la formazione di una categoria che per la prima volta diventa significativa nelle statistiche, quella delle donne di più di cento anni.

Queste persone, oltre a non poter più contribuire in alcun modo al benessere collettivo, sono in genere non autosufficienti ed hanno bisogno di cure e assistenza personali. Secondo l’Istat, nella fascia di età 65-69 anni i non autosufficienti sono il 5.5%. Ma tra i 70 e i 74 anni sono il 9.9%, e tra 75 e79 anni si passa al 17,8 % e dopo gli 80 anni al 44,5%.

Spingendosi ancora più avanti, al 2050, appare poi chiaro che l’Italia deve aspettarsi un’ulteriore invecchiamento della popolazione, e quindi una ulteriore

20

diminuzione delle nascite, e un aumento crescente del numero degli ultraottantacinquenni.

Per rendersi conto di quanto sia anomala questa struttura della popolazione basta confrontala con quella degli USA allo stesso orizzonte temporale.

La forma arrotondata nella parte bassa della piramide mostra che anche negli Stati Uniti c'è un abbassamento del tasso di fertilità, dovuto in parte ad un più vasto riconoscimento sociale della scelta omosessuale, in parte alla diffusione del femminismo. Ma è evidente che non si tratta di un fenomeno neanche lontanamente paragonabile alla catastrofe demografica dell'Italia, della Germania e dei paesi europei in generale.

Figura 4

La denatalità e la decadenza demografica italiana, assomigliano a quella di quasi tutti gli altri paesi europei, ad eccezione della Francia, che grazie a circa un secolo di politiche tendenti a accrescere l’occupazione del territorio nazionale presenta la situazione che si può dedurre dalla figura che segue.

Figura 5

21

La crisi demografica non va dunque considerata come una caratteristica da “paese ricco”. Il caso Americano e quello francese dimostrano che si può essere ricchi e mantenere una struttura demografica assai più equilibrata.

Guardando in successione, per avere un quadro dinamico, le tre immagini relative all’Italia, si ha l’impressione che le generazioni – molto abbondanti – nate nel dopo-guerra, le cosiddette generazioni del “baby boom”, abbiano attraversato tutta la struttura demografica dal basso verso l’alto, come un embolia, fino a raggiungerne la testa.

8. Il costo della denatalità

La situazione promette di diventare assolutamente insostenibile. Tanto insostenibile da portare ad una auto-correzione, con un aumento brutale del tasso di mortalità, dovuto alla incapacità del sistema economico di garantire le pensioni e l’assistenza. Il peso sui bilanci privati e pubblici di questa evoluzione rischia di essere tremendo, specie per quel che riguarda il costo di servizi alla persona. In pratica, ciò ha incominciato a verificarsi a partire del 2006, quando è giunta a sessant’anni la generazione più abbondante di tutte quelle viventi, la generazione nata nel 1946.

Come abbiamo visto, la degradazione della situazione italiana appare sempre più più evidente man mano che ci si proietta nel futuro. Se infatti attorno al 2000 per ogni persona in età di pensionamento c’erano 4 persone in età lavorativa, nel 2050 questo rapporto sarà diventato di 3 a 2. Vale a dire che, se il peso di un anziano a carico della società gravava su quattro persone in grado di lavorare, nel 2050 toccherà a tre attivi farsi

22

carico della sopravvivenza e del benessere di due anziani.

Per fare un esempio numerico non molto distante dalla realtà, ciò significa che, se nel 2000 quattro persone in età lavorativa producevano un valore aggiunto di 25.000 Euro ciascuna, contribuendo al PNL per un totale di 100.000 Euro, questa somma andava divisa per cinque, dando un reddito pro capite di 20.000 Euro. All’orizzonte 2050, ipotizzando – per semplicità – che ciascuna delle tre persone in età di lavorare produca ancora 25.000 Euro, il totale del valore aggiunto di tre persone attive, pari a 75.000 Euro, dovrà ancora una volta essere diviso per 5, dando un reddito pro capite di 15.000 Euro, nettamente più basso di quello del 2000. Per mantenere inalterato al livello di 20.000 il reddito pro capite, bisognerebbe perciò che il valore aggiunto di ciascun attivo aumentasse dello 0,7% l’anno. Tenuto conto del fatto che anche il PIL degli altri paesi cresce, occorrerebbe quindi che l’Italia, per non perdere terreno a causa dell’invecchiamento della propria struttura demografica, si sviluppasse ad un ritmo che superi dello 0,7% il tasso di crescita annuo dei paesi in cui la popolazione si riproduce pienamente, come ad esempio la Francia, che ha un tasso di fertilità femminile di poco superiore a 2 figli per ogni donna.

C’è da tenere presente tuttavia, che sia in Italia che negli altri paesi sviluppati il fenomeno dell’allungamento della vita media viene a complicare considerevolmente le cose, dato che da un numero ormai significativo di anni, la durata della vita si accresce di oltre 3 mesi l’anno, cioè di 2 anni e mezzo ogni 10 anni. Ed il fenomeno, anche se ovviamente non potrà essere di durata indefinita, si prolungherà prevedibilmente per molto tempo ancora.

Crescere di uno 0,7% in più di un paese come la Francia non è tuttavia cosa facile, e richiederebbe anzi un’inversione di tendenza rispetto a quando verificatosi negli ultimi 30 anni; un’inversione di tendenza realizzabile solo attraverso un congruo volume di investimenti su una durata indefinita, ed un cambiamento ancora da inventare del modello di sviluppo.

Alla base di questo drammatico declino demografico c’è una insufficiente fertilità delle donne italiane. Secondo il Rapporto Istat “Noi Italia”, pubblicato nel Gennaio 2010, il livello di fecondità11 in Italia è stato nel 2008 di 1,41 figli per donna. Nel contesto internazionale, l’Italia si colloca perciò in una posizione molto diversa non solo da quella della Francia (2,02) ma anche del Regno Unito (1,94), e ai i paesi che tradizionalmente praticano politiche per il sostegno attivo alla famiglia e alle donne, come la Svezia (1,91), la Danimarca (1,89) e la Finlandia (1,85). Cioè molto diversa dai paesi cheriescono più o meno a garantire la riproduzione della specie.

Il dato italiano è invece simile a quello di altri paesi come l’Austria (1,41), la Germania (1,37) e il Portogallo (1,37), e nel complesso segnala un aggravamento della situazione relativa, dato che le donne Italiane sono passate, nella graduatoria europea della fecondità, dal 18° posto nel 2001 al 20° posto nel 2008. Questa graduatoria – va aggiunto – è la graduatoria della “quinta serie” mondiale, dato che nessuno dei paesi europei presenta tassi di fecondità superiori al valore di 2,1, livello di nascite che permette a una popolazione di riprodursi mantenendo costante la propria consistenza demografica.

11 Il tasso di fecondità totale, cioè il numero medio di figli per donna in età feconda (15-49 anni), è dato dalla somma dei quozienti specifici di fecondità calcolati rapportando, per ogni età feconda, il numero di nati vivi all’ammontare medio annuo della popolazione femminile.

23

9. Una ripresa demografica?

Da qualche anno si parla spesso nel nostro paese, di una ripresa della natalità12. Le donne, si dice, fanno più figli. Non è del tutto falso, dato che un certo abbandono della mentalità femminista anti-maternità si nota tra donne più colte ed evolute.

C’è infatti da notare che l’attuale numero medio di figli per donna è il più elevato dal 1991 ed è in linea con dell’andamento crescente iniziato dopo il 1995, anno in cui la fecondità italiana ha toccato il minimo storico con un valore di 1,19 figli per donna. Un’ulteriore aumento delle gravidanze e delle nascite, per il quale mancano ancora dati certi, sembra peraltro evidente nel 2009, soprattutto nelle regioni del Centro-Nord.

Su questa modesta ripresa della natalità si sono dette ogni sorta di sciocchezze, anche per la tendenza degli statistici e dei demografi a parlare con toni la cui perentorietà è direttamente proporzionale alla loro incompetenza. I demografi, come indica il nome della loro disciplina, che termina infatti in “–grafia”, sono dei semplici raccoglitori e presentatori di dati. Il loro tentativo di dare spiegazioni sociologiche dei fenomeni rilevati, e persino a trarre da tali dati conclusioni e proposte strategiche - operazioni che essi non hanno gli strumenti per fare – non possono riuscire a trasformare la demo-grafia in demo-logia, ma solo a farli contribuire efficacemente al coro universale della demagogia.13

Una “politica della famiglia” viene spesso proposta, nelle molte chiacchiere da “Bar dello sport” che si fanno su questo argomento, come un’alternativa all’immigrazione. Ma

12 In particolare a seguito di un articolo di Alessandro Rosina, Professore Associato all’Università

Cattolica di Milano, Il tramonto demografico del Mezzogiorno.

13 Così, per esempio, il già citato articolo del Prof. Rosina, che stabilisce, senza alcun fondamento di prova, una correlazione – certo verosomile, ma nel suo articolo del tutto indimostrata – tra condizione occupazionale delle donne, fertilità, e servizi. Se l’ostacolo alla natalità fosse – come sostengono i luoghi comuni del “femminismo volgare” ormai diffuso nell’Italia post-comunista – il fatto che le donne occupate non hanno asili nido dove lasciare i loro piccoli quando sono al lavoro, il fenomeno della bassa fertilità dovrebbe essere avvertito meno nelle regioni in cui l’occupazione femminile è più bassa, e le donne trascorrono più tempo in casa. Ovviamente, quando le donne non lavorano, il reddito familiare è più basso, e questo è un fattore che scoraggia la natalità.

Il risultato è lo stesso ? No. E non si tratta di sottili distinzioni accademiche senza interesse concreto. Al contrario, si tratta di distinzioni di interesse assai concreto.

Se infatti si parte dall’idea che ciò che scoraggia le donne dall’aver figli è la scarsezza degli asili nido, si può può pensare ad una politica di sgravi fiscali per quei datori di lavoro che dotano la propria azienda di una apposite struttura. Se si parte dall’idea che a scoraggiare la fertilità sono I redditi familiari troppo bassi, si possono prevedere invece dei versamenti alle famiglie. In questo secondo caso, del beneficio fruiranno tutte le famiglie, anche quelle che vivono in regioni dove la disoccupazione è cronica, mentre nel primo beneficerebbero solo le famiglie in cui le donne che desiderano esser madri sarebbero in grado di trovare un posto di lavoro, ma non possono prenderlo per l’impedimento rappresentato dalla necessità di prendersi cura dei figli. In altri termini, una politica natalista fondata sui servizi alle madri, favorisce le zone più sviluppate del paese, a danno di quelle più povere, e le donne più istruite e professionalmente qualificate, che hanno migliori possibilità di occupazione, a scapito di quelle meno fortunate. Le sovvenzioni dirette ai nuclei familiari con più figli sarebbero invece più equamente distribuite tra classi sociali e regioni economiche più o meno ricche.

24

queste posizioni non tengono conto della complessità e dei tempi di attuazione che una tale politica comporterebbe, anche se – non lo si dirà mai abbastanza forte e chiaro – è comunque necessario metterla in atto al più presto.

Non è falso che una politica di incentivazione delle nascite, di protezione e di sostegno alla maternità potrebbe rappresentare un altro importante risvolto di un’articolata politica dell’immigrazione che volesse rispondere alle esigenze messe in luce dall’evoluzione demografica della società italiana. C’è da tenere presente tuttavia che anche in questo caso si andrebbe contro un costume ormai profondamente radicato nella società italiana, e che richiederebbe interventi anche impopolari come la tassazione assai pesante che in Francia grava sui celibi: circa due mesi di stipendio l’anno.

Non bisogna dimenticare naturalmente che una tale politica, quand’anche desse risultati immediati – nel senso di un cosa già di per sè difficile ed improbabile aumento nel giro di pochi anni del numero di figli per donna tra 25 e 35 anni –, mostrerebbe degli effetti sull’offerta di lavoro soltanto una ventina di anni più tardi. E che comunque l’invecchiamento della popolazione italiana successivamente alla caduta delle nascite della fine degli anni 60, fa sì che sia particolarmente scarso il numero di persone – e quindi donne – al di sotto dei 40 anni, cioè la base su cui occorre puntare per una politica di incentivazione delle nascite. Una ripresa demografica sarebbe cioè molto più lenta di quanto non sia stata la caduta anche se i tassi di fertilità dovessero tornare ai livelli pre-anni sessanta.

Si tratta di un sintomo sicuramente incoraggiante, ma sarebbe un’illusione pensare che si tratti di una inversione di tendenza, da cui possa discendere una spontanea soluzione del problema: un’illusione ancora più grave di quella –celebre- che Napoleone cercava di diffondere nella Francia decimata dalle guerre continue: che i Francesi in una notte sarebbero stati in grado di colmare i vuoti creati dalle sue battaglie. E più grave perché, al passaggio tra 700 e 800, la popolazione femminile della Francia era ormai numerosa e di bassa età, mentre in Italia, con l’invecchiamento generale della popolazione, la percentuale delle donne tra 18 e 35 anni sul totale della popolazione, si è drasticamente ridotta. Una eventuale ripresa della natalità partirebbe perciò da una base assai ristretta. Anche se, per assurda ipotesi, la fertilità andasse a livelli da Terzo Mondo, avrebbe un andamento assai diverso da quello che ha avuto la caduta, e prenderebbe un tempo molto più lungo.

L’improbabilità di una eventuale ripresa è poi aggravata dal fatto che i tempi dei fenomeni demografici in Italia sono estremamente rallentati. Le maternità vengono spinte sempre più avanti negli anni, tanto che ormai una generazione prende in Italia il doppio di anni che prende, ad esempio, in Colombia.

E va detto, infine, che il fatto che nel 2004 per la prima volta da molti anni le nascite non sono state drasticamente inferiori alle morti non indica nessuna inversione di tendenza. L’anomalia del 2004 è stato dovuta all’ondata di calore dell’estate del 2003, che ha sterminato molte persone anziane che, in condizioni climatiche normali, sarebbero probabilmente vissute ancora un altro anno. Il fenomeno assumerebbe significato di un lungo periodo solo se il peggioramento del clima, determinato dal riscaldamento ambientale, portasse ad una riduzione della durata della vita media.

Non c’é insomma da contare su una ripesa della natalità come correttivo della situazione demografica italiana, almeno in tempi che abbiano significato ai fini di evitare

25

un collasso nel funzionamento del sistema socio-economico.

10. Il fattore “vasi comunicanti”. Uno: i limiti dell'Europa

La situazione demografica dell'Italia - ai fini dell'analisi della questione migratoria – non può vista solo in confronto con quella degli altri paesi a simile struttura socio-economica e politico-culturale. Al contrario, è solo dal confronto con la situazione nei paesi d'origine dei flussi migratori che si può avere un'idea delle prospettive future del fenomeno, almeno per quel che riguarda le determinanti più “fisiche” del trasferimento di popolazione da un paese all'altro, quello che potremmo chiamare il “fattore vasi-comunicanti”.

La principale componente dell'immigrazione italiana è oggi costituita da Romeni che, avvantaggiati dalla loro partecipazione a pieno titolo all'Unione Europea hanno creato nella Penisola una “testa di ponte”, che facilita fortemente il ”richiamo” di nuovi immigranti. Se però si ipotizza che, nel futuro prevedibile, i vuoti lasciati in Italia dalla scarsa fertilità degli Italiani de souche saranno colmati dall’immigrazione, diventa spontaneo l’interrogativo su quali siano in paesi che forniranno i significativi contingenti umani diretti verso il nostro paese.

Molto dipenderà ovviamente da come si svilupperanno e modificheranno i fattori che, nei vari paesi del mondo spingono alla partenza, o attirano gli immigrati.’ Ciò non è facilmente prevedibile, ma due fattori sono invece chiari: che i flussi migratori provenienti da un certo paese tendono ad orientarsi verso quelle destinazioni dove già esiste una componente immigrata della stesa origine; e poi dal fatto che i paesi che già sono largamente rappresentati nella popolazione immigrata nei paesi di destinazione non sempre hanno le risorse umane che sarebbero necessarie per soddisfare i bisogni dei paesi d’accoglienza.

Negli ultimi anni, l’immigrazione proveniente dai paesi islamici e diretta in Italia è diventata meno importante di quella proveniente dai paesi cristiani dell’Europa dell’Est e, in piccola parte, dal Sud America. Tuttavia è praticamente impossibile che tali fenomeni si prolunghino nell’avvenire, perché i paesi cristiani da cui sono venuti negli ultimi anni i principali flussi migratori non hanno le risorse umane e la struttura demografica che sarebbero necessari per continuare ad alimentarli. Si prenda l’esempio della Romania, la cui popolazione totale è solo, al 2010, di ventidue milioni di abitanti, e la cui struttura demografica, presentata nel grafico seguente, non è molto diversa da quella dell’Italia.

E’ chiaro che il trasferimento verso l’Italia sarà limitato nel tempo. Nel giro di pochi anni, di circa un milione di cittadini rumeni, in maggioranza “nel fiore dell’età”cioè del 5 % della popolazione della Romania, è un fenomeno legato alla libertà di movimento ottenuta con l’ingresso, all’inizio del 2008, nell’Unione Europea, ma che non può perpetuarsi, al massimo stabilizzarsi. Cio è ancora più evidente se si guarda all’evoluzione futura della situazione demografica della Romania, non solo per quel che riguarda il numero totale degli abitanti pari, nel 2010, a soli 22.181.000, ma anche – e forse soprattutto – per la struttura per classi d’età.

26

Vedasi il seguente grafico, relativo al 2025, anno in cui la popolazione della Romania sarà inferiore a quella attuale: solo 21.260.000.

Figura

Nel 2050, infine questo paese che oggi può “esportare” verso l’Italia un ventesimo dei suoi abitanti sarà precipitato ad una popolazione totale di 18.678.226 persone, cioé

27

avrà perso circa il 14 percento della sua popolazione attuale, e – come mostra bene il grafico – sarà popolato soprattutto da vecchi. E non potrà certo fornire all'Italia energie giovani così come, nel bene e nel male, ha fatto nei primi anni del ventunesimo secolo.Figura

11. Un “serbatoio” che non c'é Il caso della Romania non è però, nel quadro generale dell’Europa, un caso isolato. Ed anche il quadro generale va tenuto presente, anche se la Romania è assai importante per l’Italia, se si considera quanto questo paese ha influito in questi ultimi anni sul fenomeno migratorio che ha consentito all’Italia di limitare il fenomeno dell’invecchiamento, di mantenere ed addirittura accrescere la propria popolazione, e di vedere un equilibrio tra immigrati cristiani e di altre confessioni. Tutta l'Europa invecchia e la sua popolazione diminuisce. Le proiezioni demografiche delle Nazioni Unite e della Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo et economico (OCSE) sono unanimi : nel 2050, l'Unione europea avrà soltanto 470 milioni di abitanti; ne avrà cioè perduto circa 20 milioni. L'Ufficio europeo di statistica – l’Eurostat – è però più ottimista, e spera in 506 milioni di Europei per il 2060. In tal caso, la popolazione dell'UE supererebbe quella degli USA, che il Centro Americano di Studi sull'Immigrazione valuta a 468 milioni nel 2060. La composizione strutturale sarebbe però nettamente diversa.

28

Anche Eurostat, nelle sue proiezioni 2008-2060, pubblicate nell'Agosto del 2008, conferma, per il 2060, questo inevitabile invecchiamento. A quella data, ben il 12,1% degli Europei sarà oltre gli 80 anni, e il 30% oltre i 60. Secondo le Nazioni Unite, nel più favorevole dei casi solo il 24,5% degli Europei avrà meno di 18 anni nel 2050. I paesi che hanno aderito per ultimi arrivati alla UE, che sono poi quelli da cui provengono i flussi migratori degli ultimi anni, sono i più gravemente danneggiati da questo gravissimo processo di invecchiamento. Dappertutto, la loro popolazione stagna o arretra. Nove dei dodici paesi entrati nell'Ue dopo il 2004 hanno già adesso un andamento demografico negativo. La Bulgaria, che manifesta il più forte arretramento demografico, vedrà la propria popolazione quasi dimezzata dal momento della cosiddetta “transizione democratica”. Secondo gli ultimi dati del loro Istituto Nazionale di Statistica, i Bulgari si prevede saranno 5,1 milioni nel 2050, contro 9 milioni nel 1989. In pratica, come sottilneato dagli specialisti di questioni dell'Europa centrale presso la Banca mondiale, a partire dal 2025 un bulgaro su cinque avrà più di 65 anni, a causa di una combinazione di fattori specifica dei paesi d'

29

Europa centrale ed orientale, in cui si cumulano le conseguenze di una povertà relativa e di una transizione incompiuta verso l' economia di mercato. Ne risultano, secondo gli esperti dell’Istituto nazionale francese di studi demografici, una natalità insufficiente, una mortalità precoce ed un saldo migratorio molto spesso negativo, nonostante che in questi paesi già si verifichi, e dovrebbe continuare a verificarsi, un afflusso di immigrati provenienti dall’Asia sud-orientale e meridionale. I tassi di fecondità che, nei paesi di l'ex-blocco dell'Est erano, come la produttività, già inferiori alla media degli altri paesi dell'UE prima del 1989, si sono ulteriormente abbassati dopo la caduta del Muro, e restano inferiori a quelli degli altri paesi europei, nonostante un piccolo aumento tra il 2003 e il 2006. Il passaggio all'economia di mercato ha avuto per conseguenza per une parte della popolazione, uno abbassamento del tenore di vita, che – secondo i demografi – rimane il principale fattore che determina la riduzione della fecondità. Al tempo stesso, sono state abbandonate le politiche di incentivazione delle nascite che caratterizzavano il socialismo reale. L' impatto è stato quasi immediato, persino in Germania Orientale, dove la fecondità è passata da 1,50 bambino per donna nel 1990 ha 0,98 nel 1991. E in questa parte privilegiata del blocco dell’Est, non ha giocato un altro fattore che è stato invece assai importante negli altri paesi: il crollo del sistema di assistenza e previdenza sociale, che nel regime socialista era organizzato su base aziendale e che, disorganizzato dal passaggio al capitalismo, non è stato in alcun modo restaurato. Una mortalità precoce è l’altra caratteristica negativa dei paesi dell’Est. Sempre secondo l'Istituto nazionale francese di studi demografici, la crescita della speranza di vita è stata molto più debole in Europa centro- orientale che in quella occidentale. Dal 1970, un Polacco ha guadagnato quatte anni d' speranza di vita, un Ungherese tre ed un Lituano ne ha perduto due, mentre un Italiano o un Francese ne ha guadagnati nove. I sistemi sanitari pubblici sono in piena decadenza, sotto la concorrenza di strutture sanitarie private, più efficienti, ma costose. Le strutture mediche sono spesso obsolete e l' accesso alle cure molto disuguale. “Le cattive condizioni di vita (abitazioni insuffcienti, inquinamento…), l' alcolismo, gli alti tassi d' omicidio e di suicidi contribuiscono a questo fenomeno di mortalità precoce. I paesi baltici e l'Ungheria detengono il primato dei deboli tassi dei bassi tassi di speranza di vita alla nascita nell'ambito dell'Ue, ha meno di 70 anni per gli uomini. Il paese in migliori condizioni è la Slovenia (speranza di vita alla nascita 74,7 anni), che beneficia d' un tenore di vita elevato. In Romania, Bulgaria e Lettonia in particolare, la mortalità infantile è invece assai elevata. Secondo l' Istituto di Berlino per la popolazione e lo sviluppo, l'unica riserva di popolazione in Europa (ma in una parte d'Europa assai particolare sarebbe la Turchia, la cui eventuale adesione all'UE potrebbe evitare – sotto il profilo della popolazione totale l'arretramento demografico dell'Europa. Ma questo potrebbe essere un rimedio assai costoso, perché con suoi circa 75 milioni di abitanti, la Turchia sarebbe allora – per numero di abitanti – il secondo paese dell'Unione dopo la Germania. Questa aveva 82,7 milioni nel 2007, ma continua a declinare, perché – con l'invecchiamento generale della popolazione cominciato negli anni 60 - declina il numero delle donne in età di procreare. Secondo la Destatis, l'ufficio statistico ufficiale del governo federale, nel 2009 il numero dei nati è sceso al minimo storico 665.126, cioè 17.400 meno che nel 2008 ). Ciò

30

non ostante, aumentano le resistenze ad un ulteriore afflusso di immigrati provenienti dalla Turchi L'emigrazione dall'Europa dell'Est può dunque contrastare solo provvisoriamente il deficit di forza lavoro che si manifesta in Italia, ma ha uno impatto assai marginale sul declino della popolazione e sull’invecchiamento. Il ruolo degli immigrati provenienti dall’Europa non è considerato dunque molto importante nelle strategie di politica della popolazione portate aventi dai governi dell’Europa Occidentale. Non esite, infatti, né una vera “minaccia”, né una vera “occasione” nei flussi migratori provenienti dall’Europa orientale. E nella maggior parte dei paesi europei verso i quali nell’ultimo ventennio si sono diretti costanti flussi migratori, è stato solo per dare soddisfazione a quella rumorosa e volgare parte della popolazione che grida ai pericoli dell’invasione da parte degli immigrati, che sono state adottate – nei confronti di paesi in piena decadenza demografica – misure di severa chiusura all’emigrazione. 12. La corsa all'immigrato cristiano Fanno eccezione alcuni paesi, in particolare la Svezia e la Gran Bretagna, dove più forte è il sentimento razziale, che – subito dopo l’adesione di molti dei paesi ex-satelliti alla UE – hanno immediatamente aperto le porte a questi immigrati di origine europea, in coincidenza però con misure assai pesanti contro l’immigrazione di origine islamica. Gli Inglesi, in altri termini, hanno visto in questi paesi un serbatoio di immigrazione “bianca” e “cristiana”, ma un serbatoio semivuoto cui bisognava attingere immediatamente, grattando il fondo del barile, prima che ne approfittassero gli altri paesi europei. Nel primo anno dopo l’adesione alla UE di un blocco di dieci paesi, da questi sono entrati in Gran Bretagna circa 800.000 tra Polacchi e Baltici, contro circa 800 in Francia; addirittura mille volte di meno! Ciò rientra in una deliberata politica di potenza. Grazie ad una strategia dell’immigrazione molto aggressiva, nel 2060 il paese più popoloso dell'UE sarà, infatti, il Regno Unito. Con 76,6 milioni d' abitanti, i Britannici saranno più numerosi non solo dei Francesi, ma anche dei Tedeschi, a causa non tanto della loro fertilità, quanto del saldo migratorio positivo particolarmente elevato. La Germania dovrebbe così perdere, per la prima volta nella sua storia, e nonostante la riunificazione con la RDT, il suo titolo di paese più popolato dell'UE. Per l’Inghilterra, sotto il profilo politico e di immagine, si tratta del coronamento – più simbolico che reale, in verità – di una lotta implacabile condotta per più di un secolo contro la supremazia della Germania, e che è costata al mondo intero due guerre terrificanti, ed all’Europa un vero e proprio suicidio. Le Isole Britanniche avranno poi un altro primato demografico. Nei prossimi 50 anni, cioè da oggi fino al 2060, l' Irlanda, dovrebbe essere il paese europeo che registra il più forte aumento della sua popolazione (+ 52,9% rispetto al 2008). Queste cifre sono tuttavia da considerare con prudenza, perché non tengono – e non possono tenere – conto delle conseguenze di eventuali cambiamenti che potrebbero derivare dalla crisi del modello “celtico” di sviluppo, o che i governi potrebbero decidere di introdurre nelle attuali politiche della famiglia o di immigrazione. L’altro paese cristiano (e cattolico) che fornisce un importante contingente all’immigrazione e che non fa parte dell’UE, non si trova sul Mediterraneo, ma in Asia. Si tratta della Repubblica delle Filippine, la cui emigrazione è già massicciamente presente in Italia con una comunità assai numerosa, ben organizzata e solidale. Le Filippine hanno 100 milioni di abitanti nel 2010 (e se ne prevedono 170 per il 2050) e una struttura

31

demografica che mostra un immenso potenziale migratorio, che potrebbe facilmente dirigersi verso l’ Italia. Si veda a tale riguardo il quadro demografico delle Filippine al 2010.

Come è facile vedere, la struttura demografica delle Filippine si configura in maniera da poter essere rappresentata con una piramide pressoché perfetta, mentre quelli al 2025 e al 2050 mostrano i primi segni di una appena accennata “europeizzazione” dei costumi riproduttivi. Se anche l'Italia decidesse un giorno di entrare nella gara per accaparrarsi il più grande numero possibile di immigrati cristiani, le Filippine sarebbero probabilmente il suo naturale “pozzo” cui attingere. Né la situazione si presenta molto diversa all'orizzonte del 2025

32

Da questo quadro non emerge però nulla che possa tranquillizzare chi si ponesse il problema di come ridurre l'effetto “vasi comunicanti” tra questo paese cattolico dell'Asia la cui popolazione letteralmente esploderà nei prossimi quarant'anni (passando come abbiamo detto da 100 a 170 milioni di abitanti), e l'Italia, affetta da un grave declino demografico.

33

PARTE SECONDA

LA SPINTA DALLA SPONDA SUD

DEMOGRAFIA E PRESSIONE ALLE FRONTIERE

13. I fabbisogni migratori dell’Italia: Tre obiettivi, tre politiche

Secondo proiezioni elaborate, sulla base di dati ONU, dall’economista Ornello Vitali, l’utilizzazione della forza lavoro immigrata per compensare i vuoti lasciati dalla demografia italiana porterebbe ad una radicale eversione della situazione del paese. Il rapporto tra popolazione in età lavorativa ed ultra-sessantacinquenni passerebbe dal 3,94 del 1999, al 1,73 del 2049; in altri termini, mentre oggi vi sono circa quattro persone in età lavorativa per ogni ultra-sessantacinquenne, nel 2049 tal rapporto ammonterebbe a meno della metà”[2]. La popolazione italiana dovrebbe infatti raggiungere i quantitativi indicati nella tabella seguente.

Figura 1 Senza

immigrazione Flussi necessari per mantenere costanti…

…popolazione …popolazione in età lavorativa

…rapporto attivi/non attivi

IMMIGRATI

1995/2050

13.000.000 19.160.000 119.000.000

POPOLAZIONE.

TOT. 2050

40.700.000 57.300.000 66.400.000 193.000.000

POP. IN ETÀ

LAVORATIVA

21.600.000 33.000.000 39.000.000 126.000.000

%IMMIGRATI/POP.

TOT.

29% 39% 79%

RAPPORTO

ATTIVI/NON

ATTIVI

1,52 2,03 2,25 4,00

34

Source: UN Population Division, World Population Prospects (New York: United Nations, 1999).

Si tratta, come si vedrà, di previsioni che implicano del flussi estremamente massicci. Solo per mantenere costante la popolazione dell’Italia al livello quantitativo dell’ultimo anno del XX secolo, senza preoccuparsi della composizione interna, dell’età media e del rapporto tra attivi ed inattivi – cioè per fare una molto semplice, la più semplice POLITICA DELLA POPOLAZIONE – bisognerebbe fare entrare per cinquant’anni di fila un totale di 235 000 immigrati all’anno. Che poi non è un numero altissimo, se si pensa al singolo anno, perché corrisponde a circa due terzi o la metà del numero di stranieri che sono annualmente entrati per lavorare in Italia, regolarmente o no, nel corso degli ultimi anni.

Ma se si guardasse non alla popolazione totale dell’Italia, ma alla sua economia e alla necessità di mantenere invariato il numero delle persone in grado di produrre reddito, cioè par attuare una molto semplice, la più semplice POLITICA DELLA FORZA LAVORO – bisognerebbe reclutare all’estero circa 500 000 lavoratoti l’anno, che è più di quanto in realti attualmente non entri, dato che non tutti gli immigrati sono in età di lavoro.

E se infine si tendesse all’obiettivo di mantenere inalterata composizione e gli equilibri interni che rendono attualmente possibile il funzionamento dello Stato sociale – vale a dire un rapporto tra attivi e non attivi situato intorno a 4 contro 1 – , se si puntasse cioè ci ad una POLITICA DELL’EQUILIBRIO SOCIALE, ci si scontrerebbe a ad un compito totalmente impossibile. Bisognerebbe fare entrare qualcosa come 2,2 milioni di immigrati all’anno per quasi mezzo secolo senza interruzione, ed ovviamente creare un numero di posti di lavoro corrispondente ai bisogni di questa nuova componente della popolazione italiana. Da qui al 2050, l’Italia conterebbe così più di 190 milioni di abitanti, contro i 60 di oggi. Di questi 190 milioni, solo una quarantina sarebbe di “stirpe” italiana, mentre 150 milioni sarebbero originati dall’immigrazione. E bisognerebbe creare circa 90 milioni di nuovi posti di lavoro, perché la popolazione attiva dovrebbe passare da una trentina di milioni di persone a 120 milioni circa.

Questi dati non hanno bisogno di essere commentati. Essi mostrano abbastanza chiaramente che – allo stato del fenomeno, quale constatato negli ultimi dieci anni, tra il 2000 e il 2009 – , l’immigrazione si colloca spontaneamente tra quello che sarebbe l’obiettivo della politica della popolazione e la politica della forza lavoro

A ciascuna di queste politiche dovrebbe logicamente corrispondere un diverso trattamento legale degli immigrati. Se si volesse perseguire il primo obiettivo, quello di mantenere numericamente inalterata la popolazione dell’Italia, sarebbe forse logica una politica tendente a facilitare l’ottenimento, da parte degli immigrati, della cittadinanza italiana (come aspetto legale) e la loro nazionalizzazione (come aspetto culturale), e quindi la partecipazione alla vita politica attraverso la partecipazione elettorale.

. Essa, cioè, riesce a determinare un leggero aumento della popolazione totale della Penisola, presa come un dato greggio, ma a correggere solo in misura scarsa l’invecchiamento rapido e crescente. In effetti, il contributo che gli immigrati possono apportare al tasso di natalità non deve essere sovrastimato. Non bisogna contare sulle donne immigrate per mantenere, una volta installate in Italia, i tassi di natalità caratteristici dei loro paesi di origine. Al contrario, infatti, l’esempio e le condizioni di vita del paese di accoglienza le spinge ad adottare rapidamente le abitudini locali in materia.

35

Ma se l’obiettivo fosse quello di preservare la capacità produttiva e di crescita del paese, mantenendo inalterato il numero delle persone economicamente attive, cioè attraverso la politica della forza lavoro si dovrebbe puntare soprattutto su una politica di permessi di lavoro della durata di tutta l’età attiva, senza ricongiungimento familiare, favorendo dapprima la formazione professionale, e poi il godimento della pensione, nel paese d’origine.

Se il fine che ci si propone fosse invece quello di mantenere la forma dello stato sociale costruito a partire dagli anni venti dello scorso secolo, bisognerebbe prendere atto che ciò non può essere perseguito attraverso la politica dell’immigrazione. Un flusso migratorio come quello ipotizzato dall’Onu per mantenere a quattro contro uno il rapporto tra attivi e inattivi non ha alcuna possibilità di realizzarsi nella realtà. La politica dell’equilibrio sociale sarà perciò certamente perseguita con altri strumenti, come un forte aumento dell’età pensionabile, l’introduzione del servizio civile obbligatorio per entrambi i sessi, e un totale rivoluzionamento dei metodi di prestazione dei servizi alla persona, per accrescerne l’efficienza economica. E’ chiaro che in nessun caso è possibile mantenere l’attuale equilibrio tra attivi e non attivi facendo ricorso all’immigrazione.

Infatti, probabilmente, molto prima che il flusso migratorio raggiungesse la consistenza sufficiente per portare la popolazione della Penisola ai livelli previsti, o anche a livelli corrispondenti alla metà di questi ultimi, si manifesterebbe una crisi di rigetto, e il passaggio dall’attuale atteggiamento maggioritariamente favorevole nei confronti dell’immigrazione ad una posizione di chiusura, o almeno di selezione molto selettiva nei riguardi degli immigrati, e molto severa sulla loro ammissione nel Paese.

E questo rigetto toccherebbe non solo la popolazione italiana de souche – sostenuta probabilmente dai governi e dalle opinioni pubbliche dei paesi confinanti -, ma anche gli strati della popolazione originati dalle prime ondate di immigrazione. E’ chiaro infatti che un fenomeno così massiccio, come quello ipotizzato da Vitali, se assumesse carattere di continuità negli anni, finirebbe per mettere in pericolo quel tanto di benessere conquistato dagli immigrati della prima ora. E ciò non solo e non tanto per il timore “politico” che la crisi di rigetto finisca per danneggiare anche loro, che erano stati inizialmente accolti in maniera non ostile, ma anche per il timore “economico” di una forte pressione demografica sulle risorse dell’Italia, che sono in definitiva limitate, anche in termini di patrimonio abitativo, di infrastrutture e di semplice spazio, nonostante gli effetti di “liberazione”determinati dalla decadenza quantitativa della popolazione italiana.

14. Catastrofe pubblica e tragedie private

L’immigrazione già oggi in atto nel nostro paese, in realtà, più che colmare i vuoti creati dalla crisi demografica, tende a correggere le anomalie del mercato del lavoro, e a colmare alcune carenze specifiche di manodopera. In pratica, consiste in un flusso spontaneo di lavoratori attratti dalla possibilità di lavoro che offre l’economia della Penisola e – come ci si può aspettare – finisce per colmare i vuoti esistenti nel mondo del lavoro, ma non il vuoto demografico causato dal calo delle nascite. E dal momento che non esiste alcuna politica volta ad attrarre quelle donne e quegli uomini stranieri che possono in qualche modo salvare l’Italia dalla sua catastrofe demografica, i fattori economici si dimostrarono incapaci di innescare un cambiamento sostanziale nel trend della popolazione.

Quindi, secondo le previsioni più realistiche, si può concludere che non c’è una

36

soluzione “demografica” alla crisi italiana, ma solo una soluzione “politica”, in particolare una soluzione che passi per una riforma delle leggi sulle pensioni che innalzi l’età pensionabile ai 75 anni.

In questi tempi si parla molto di un innalzamento dell’età pensionabile, ma in termini assolutamente irrealistici. Per rendersene conto, basta tenere presente che le statistiche – anche quelle sulle quali noi stessi abbiamo fondato le nostre valutazioni – considerano potenzialmente attivi tutti coloro che si trovano tra i 15 e il 65 anni. Ciò era probabilmente vero in una società prevalentemente rurale e formata da coltivatori diretti, ma non corrisponde in nessun modo alla realtà dell’Italia del XXI secolo. In una società evoluta la soglia inferiore, quella dell’ingresso nel mondo del lavoro (15 anni) è estremamente bassa. Ed anche il “tetto” dell’età lavorativa (65 anni) mostra una non corrispondenza tra criteri statistici e realtà.

Una progressiva postecipazione dell’età pensionabile – che è stata oggetto di aspre controversie politiche, pur prevedendo un semplice spostamento da 57 a 60 anni –alleggerirebbe il problema sino al 2020 circa. Ma dopo questa data è facile prevedere che non sarà più possibile mantenere un livello di vita accettabile, così come previsto dal nostro “welfare state”.

La situazione italiana non è dissimile da quella degli altri paesi europei, compresa la Francia. Infatti, anche se in Francia il tasso di fertilità è leggermente superiore ai due figli per donna, ossia circa la quantità necessaria a garantire la soglia di sostituzione della popolazione, tale tasso è totalmente insufficiente per fronteggiare gli effetti destabilizzanti dell’aumento della durata della vita. Se, lasciando fuori dai calcoli l’immigrazione, il rapporto fra attivi e non attivi in Italia passerà dal 4:1 dell’ultima metà del XX secolo a 1.5:1 nel XXI, in Francia è prevedibile un rapporto di circa 2:1. L’allungamento della vita media è però in azione anche in Francia, con effetti anche qui di forte alterazione della struttura per età. Secondo le preevisioni dell’INED, nel 2060, su 71,8 milioni di francesi, 10,8 milioni sarebbero di oltre 80 anni e 25,9 milioni di oltre 65 anni.

Il pericolo che i costi dell’assistenza per gli anziani, divenuti insostenibili per il governo, ricadano sulle istituzioni religiose e sulle famiglie è dunque imminente. Le conseguenze sarebbero drammatiche dal momento che, una volta drasticamente ridotta la spesa pubblica per le pensioni e l’assistenza sanitaria, il problema della mancanza di popolazione in età lavorativa diverrà un problema dell’intera società. Sarà un problema per le famiglie e per gli individui.

Dunque, solo un numero esiguo di Italiani che oggi sono pienamente adulti avranno avuto abbastanza figli da poter contare sul loro aiuto per la vecchiaia. Le coppie che hanno oggi un figlio –per non parlare di quelle senza figli - si ritroveranno, dopo il 2025, in una situazione insostenibile. E solo pochissimi degli italiani che stanno cominciando ad invecchiare adesso, hanno prole abbastanza numerosa per poter contare sull’aiuto dei figli. La dura pianificazione delle nascite a partire dalla fallita rivoluzione del ’68, rischia ora di ritorcersi contro di loro, lasciandoli soli, senza forza, senza risorse, e senza assistenza di fronte ad una società che sembra nell’impossibilità di garantire quei servizi e beni, che il Welfare State ci aveva abituati a considerare come spettanti di diritto a ognuno di noi. Il carico rischia perciò di tornare a gravare in gran parte sulle famiglie e sulle istituzioni religiose.

Si può anche facilmente ipotizzare una situazione in cui il problema del numero

37

eccessivo di persone anziane venga brutalmente risolto attraverso una “rivolta degli schiavi”, che comporti una ridistribuzione di risorse tra “vecchi” e “nuovi” italiani, cui potrebbero aggiungersi – magari rifacendosi ideologicamente al “giovanilismo” del ’68 – i pochi italiani de souche in giovane età. Qualcosa del genere non è impensabile, dato che sta già avvenendo negli Stati Uniti, dove uno dei temi agitati dai cosiddetti Tea Parties, è la “schiavitù” di chi produce reddito e paga le tasse nei confronti di chi beneficia dello Stato Sociale. In pochi decenni, i “vecchi Italiani” – quelli che formano la popolazione italiana in senso stretto – saranno troppo deboli ed esausti, troppo dipendenti dal sostegno anche fisico dei loro infermieri e domestici immigrati, per opporsi in qualche modo ad un enorme tsunami migratorio, o più probabilmente, ad un riequilibrio del loro sistema economico e previdenziale.

Il processo non sarà indolore, naturalmente, e ci sarà una – o più – comunità di “nuovi Italiani” che reagiranno, e rivendicheranno i propri diritti non solo per sbarazzarsi dei propri indifesi ospiti, ma anche per escludere i nuovi arrivati, su una base analoga a quella dei “nativisti” del continente americano contro l’immigrazione, anche italiana, di fine ottocento. Dove, per “nativisti” non si intendeva – come qualche ingenuo europeo potrebbe credere – i Pellerossa, bensì quei colonizzatori britannici, olandesi e scandinavi che fondavano la loro prelazione sul quella parte del mondo perché per primi avevano sterminato gli Americani de souche, e si erano impossessati con la forza delle loro terre.

Indubbiamente, è facile obiettare che le caratteristiche strutturali del panorama demografico italiano fanno assumere come assai probabile che nel giro di qualche decennio i “vecchi Italiani” scompaiano. La presenza in Italia di più comunità immigrate –e non, come in Francia e in Germania, di un gruppo assolutamente prevalente- influirà su questo processo, anche se non è dato sapere come. Forse ritarderà questa “presa del potere” da parte dei “nuovi italiani”. O forse lo farà accompagnare da scontri tra gruppi di origine diversa.

15. Il fattore “vasi comunicanti”. Due: la “riserva” trans-mediterranea

A fronte dei fabbisogni che abbiamo visto esiste, al di la del Mediterraneo una enorme riserva umana: paesi islamici fortemente popolati – anzi più popolati di quanto le loro fragili economie possano decentemente sostenere, e soprattutto caratterizzati da una dinamica demografica estremamente vivace. Paesi dove i primi segni di una esplosione sociale dovuta alla disoccupazione sono diventati, all’inizio del 2011, più che espliciti.

Si vedano, a questo proposito le “piramidi delle età” del paese da cui proviene la più antica e più abbondante comunità islamica immigrata in Italia: il Marocco, che nel 2010 ha 31.627.000 abitanti ed un tasso di fertilità di 2,2 bambini per donna.

38

Come si vede dalla forma tronca che la “piramide delle età” ha assunto negli ultimi vent'anni, come conseguenza della caduta del tasso si fertilità delle donne marocchine, la transizione demografica è ben avviata. Ciò non toglie però che nel 2025 il Marocco avrà 5 milioni di abitanti, un gran parte giovani, in più raggiungendo quota 36.484.000. Si veda infatti la seguente figura.

39

Nel 2025, il grafico conferma la tendenza ad una “europeizzazione” dei comportamenti riproduttivi, ma mostra anche un enorme abbondanza di adulti in età lavorativa, un numero di braccia cui è difficile che sia possibile trovare occupazione in patria.

40

Il fenomeno dunque si conferma e si aggrava nel venticinquennio successivo, fino al 2050. In quell'anno, infatti il Marocco avrà 42.026.000 abitanti, un numero i cui sostentamento difficilmente potrà essere realizzato con le risorse economiche ed ambientali reperibili sul territorio marocchino.

Un significativo flusso migratorio è pertanto da considerare inevitabile, tanto più che la popolazione del Marocco, di cui circa il 10% vive già all'estero (secondo calcoli dello stesso Governo di Rabat, circa tre milioni su trentuno) dispone di importanti “teste di ponte”. E del resto, le previsioni ne tengono già conto, come si può vedere dalle irregolarità che la “piramide” presenta sul lato della popolazione maschile tra quindici e quarantacinque anni, Esso sarà regolare, se lo permetteranno le condizioni e le leggi dei paesi di destinazione; altrimenti sarà irregolare.

L'Italia, dove già esiste una comunità marocchina numerosa ed economicamente ben inserita, sarà certamente tra le destinazioni preferite, assieme alla Francia e al Belgio. Nel prevedibile declino della Spagna, il cui “modello” di sviluppo – fondato sull'uso massiccio di forza lavoro immigrata ed irregolare, e quindi sfruttata a sangue – è clamorosamente fallito, è invece probabile che si verifichi il fenomeno inverso, cioè un riflusso verso il paese d'origine, o verso altri paesi di immigrazione.

Da tutto ciò risulta chiaro che, anche se la transizione demografica è ben avviata, e il tasso di fertilità è di poco superiore a livello di auto-riproduzione della popolazione, la demografia del Marocco non si stabilizzerà in maniera analoga a quella europea se non tra parecchie decine d’anni. E da qui ad allora una fortissima pressione sarà esercitata da una masse ingente di giovani in cerca di un’occupazione che il loro paese non sembra poter offrire. In questo quadro, destinato a restare per tutto il futuro prevedibile contrassegnato da un forte squilibrio demografico, non può sorprendere che flussi migratori tra il Marocco e la Spagna siano andati gradualmente crescendo, con un ritmo

41

tanto più allarmante in quanto soprattutto gli ultimi cinque anni sono stati anni di crisi economica in Marocco (e nei paesi confinanti). Lo stretto di Gibilterra è perciò diventato – insieme alla frontiera tra il territorio marocchino e l’enclave spagnola di Ceuta – un “punto caldo„ dell'immigrazione clandestina trans-mediterranea. Gli stessi anni hanno segnato un cambiamento anche nella composizione dell’immigrazione, regolare e irregolare, proveniente dal Marocco. Se il Marocco continua ad essere il paese di origine di gran numero di migranti regolari, il quadro appare diverso se si considerano gli irregolari che dal Marocco si dirigono verso l’Europa 14

.

16. Barconi e scafisti attraverso il Mediterraneo Nel 2000, la maggior parte degli immigranti irregolari era di nazionalità marocchina; dieci anni dopo, la situazione appare molto cambiata, ed il Marocco non è più soltanto un paese d'origine ma anche, e sempre più, un paese di transito per flussi di migranti provenienti dall'Africa subsahariana. Quasi l’80% degli immigrati provenienti dal Marocco 15 è ormai costituito da Africani subsahariani che tentano di entrare in Europa attraversando lo stretto di Gibilterra16. Si ritiene che, almeno prima della crisi immobiliare e bancaria che ha posto fine al preteso “miracolo” spagnolo, decine di migliaia di questi Africani subsahariani emigrassero ogni anno in Spagna attraverso il Marocco, dove arrivano in provenienza dall'Algeria dopo avere attraversato il Sahara. Vengono da molti paesi africani: Nigeria, Senegal, Gambia, Liberia, Mali, Ghana, Burkina Faso, Niger, Sudan, Repubblica centrafricana e Camerun. Nel 2009 sono stati addirittura rilevati dei flussi di migranti provenienti da lontanissimi paesi asiatici come l'India, il Pakistan ed il Bangladesh, e che passavano per il Marocco. Una volta in questo paese, gli immigranti provano spesso ad entrare nelle zone franche spagnole di Ceuta e di Melilla nonostante la vera è propria muraglia e il filo spinato che separano queste misere sopravvivenze dell’Impero spagnolo dal territorio marocchino. 17

.

Anche le isole Canarie (che pur appartenendo alla Spagna, sono a breve distanza dalle coste del Marocco) sono diventate la destinazione più ambita degli Africani subsahariani che tentano di raggiungere l'Europa. Cercando di evitare questo flusso di immigranti illegali, le autorità spagnole hanno negli ultimi anni preso misure che rendono assai stretta la sorveglianza delle acque territoriali anche migliorando la loro cooperazione con il Marocco. Questi sforzi sembrano dare dei risultati: il numero di immigranti irregolari giunti nelle Canarie è infatti passato da 32.000 a 12.478 tra il 2006 ed il 2007, ed è ancora sceso a 9.181 nel 2008 18

Gli altri paesi del Maghreb, a parte la Libia – che grazie alle sue ricchezze petrolifere e per essere stata in precedenza un enorme deserto quasi privo di zone che consentissero un popolamento sedentario, è oggi un paese di immigrazione – presentano 14 « Libya Migrant Search Called Off », BBC Online, 2 avril 2009.

http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/7818478.stm 15 « African storm Spanish enclave in Morocco », Deutsche Welle, 22 June 2008. 16 « Libya gets EU funds to combat illegal Immigration », International Herald Tribune, 10 February 2009. 17 Agence Europe Press, 9 janvier 2008. 18 « Spanish Ministry of the Interior, Satellite Helps fight Illegal Immigration », BBC, 25 January 2009.

42

caratteristiche simili a quelle del Marocco, più “europee” nel caso della Tunisia, un po' meno in quello dell'Algeria. I disordini – veri e propri “tumulti per il pane” – verificatisi in Tunisia nell’inverno 2010-11, e che sono stati molto seri, nonostante la brutale “mano di ferro”, lasciano presagire nuove ondate migratorie. E ciò è tanto più allarmante in quanto essi hanno trovato immediato contrappunto nella confinante Algeria.

Essi sono un segnale dell’aggravarsi della miseria e della tensione sociale in tutto il Nordafrica, persino in un paese come l’Algeria, che pure dispone di una ricca rendita petrolifera. L’esperienza insegna infatti che – contrariamente a quanto credono i demografi o i cultori di “geopolitica” che discettano in libertà sulle questioni dei movimenti migratori – i movimenti di popolazione attraverso le frontiere non sono regolate solo dalla semplice logica dei “vasi comunicanti”, ma sono anche – e in misura assai rilevante – determinati dalle diseguaglianze economiche e dalle tensioni sociali.

La dimostrazione più chiara dell’importanza di questo fattore era stata finora fornita

dal caso dell’Ecuador, paese piccolo e poco popolato ma improvvisamente apparso – anche in Italia – come l’origine di un non secondario flusso migratorio durante gli anni del “Washington consensus”, quando la politica ultraliberista applicata su pressione del FMI ha enormemente allargato il divario tra ricchi e poveri da spingere all’emigrazione il 20 per cento della popolazione in età e condizione lavorativa. La insopportabilità della condizione psicologica che spinge a scelte sofferte e radicali – e da qualche anno anche pericolose – come l’emigrazione è infatti legata non solo al livello assoluto di povertà ma anche, e forse soprattutto, al disagio psicologico generato dal confronto quotidiano tra la povertà di cui si soffre e la ricchezza ostentata dai privilegiati. E la tendenza nouveau riche all’ostentazione è diventata progressivamente sempre più forte da quando è venuta meno la paura del comunismo. Dove però il quadro degli equilibri tra le due sponde del Mediterraneo si aggrava paurosamente è quando si prende in considerazione il caso dell'Egitto, da cui proviene una quota non molto grande, ma molto ben inserita, della popolazione immigrata in Italia. L'idea che un fenomeno di “vasi comunicanti” tra le due sponde sia prima o poi inevitabile appare, in questo caso, molto realistica, sia per la pressione demografica che grava sull'esile fascia dell'Egitto “utile” – in pratica il solo delta del Nilo, e due esili bande lungo le sue rive – sia perché i segni di un mutamento della dinamica demografica sono estremamente incerti. A metà del 2010, infatti gli Egiziani hanno raggiunto quota 80.472.000, con una piramide della età che mostra pochissimi segni di transizione verso comportamenti demografici di tipo europeo. Si nota, anzi, negli ultimi dieci anni, una tendenza della “piramide” a riassumere la sua forma geometricamente “perfetta”, ma socialmente catastrofica, dopo un periodo in cui erano sembrati affermarsi tassi di fertilità più moderati.

43

Non può quindi sorprendere che le previsioni per il 2025 calcolino una popolazione totale do oltre cento milioni di uomini e donne (103.742.000, per l'esattezza, ed una “piramide” estremamente dinamica, caratterizzata infine da un tradivo inizio di transizione, come si può vedere nella figura seguente.

44

Solo nel 2050 sarà possibile che il grafico assuma l'andamento convesso che prelude ad un freno nella crescita. Ma a quella data gli Egiziani saranno – e con una forte preponderanza delle classi in età di lavorare – 137.873.000, cioé più del “blocco lotaringico” in grado di essere “paesi di destianzione” e di offrire posti di lavoro, e formato da Italia, Svizzera, Austria e Germania”

Come tra quarant'anni saranno, sotto un profilo culturale e politico, gli Egiziani che dovremo probabilmente ricevere in Italia, è ovviamente difficile dire. La prevedibilità, in questo campo, è assai minore che non in campo demografico. Ma è comunque certo, anche se l'eredità del presente regime personale e militare non venisse raccolta dal potente movimento dei Fratelli Musulmani, che essi porteranno con se il sentimento di umiliazione che oggi tutte le circostanze sembrano concorrere ad imporre ai fedeli di questa religione universale, e soprattutto alla più numerosa – quella araba - delle cinque nazioni in cui si divide l'Islam: Turchi, Persiani, Arabi, Malesi, e Indo-Pakistani. 17. Il fattore islamico

La visibilità dell’immigrazione islamica in Europa è andata crescendo rapidamente negli ultimi decenni, e gli Europei hanno dovuto prendere atto di trovarsi a convivere con una vera e propria comunità dalla presenza sempre meno marginale. Anche le reazioni ostili che tale fenomeno ha suscitato sono andate cambiando natura, soprattutto dopo l’Undici settembre. La spirale crescente degli attacchi terroristici e della guerra “preventiva”– in cui qualcuno cerca di vedere i prodromi di uno “scontro di civiltà” – non poteva infatti essere senza conseguenze sui rapporti tra la società europea e le comunità islamiche presenti nel suo seno. Anzi, essa sembra aver strappato tale questione alla demagogia populista che l’aveva sino a ora monopolizzata, per catapultarla sul proscenio dell’attualità politica, con un profilo tanto più serio in quanto queste comunità non cessano di rafforzarsi sia quantitativamente, sia sotto il profilo della consapevolezza della propria identità.

45

Oggi, la presenza islamica nel Vecchio Continente costituisce una realtà con cui è indispensabile fare i conti anche sul piano politico, e anche da parte di quelle forze progressiste che hanno vissuto con serenità e senza cedere a tentazioni protezionistiche o xenofobe la presenza di quelli che un political scientist ultraconservatore ha chiamato “gli estranei”.

La presa di coscienza del fatto che l’immigrato islamico pone un problema in più, che è meglio affrontare al momento di ammetterlo nel paese, anziché quando si manifestano le sue più serie conseguenze negative, è stata una presa di coscienza assai tardiva, anche perché il “rigetto degli estranei” è in Italia molto più moderato e civile che non in paesi dal razzismo sempre latente, come l’Olanda, i paesi scandinavi, o la Gran Bretagna.

E ciò è particolarmente vero in Italia, dove tanto il fenomeno dell’immigrazione nel suo insieme, quanto l’attuale questione dei rapporti intercomunitari sono stati troppo a lungo vissuti con faciloneria, senza studiarli, senza tentare di capirli, e senza che la società italiana si sia data una vera politica. Soprattutto, non si è voluta neanche prendere in considerazione l’idea – vista come discriminatoria – che gli immigrati provenienti dai paesi islamici ponessero un problema a parte, e più complesso, rispetto a quelli creati dall’immigrazione in generale, e che per essi fosse necessaria una politica specifica e diversa.

Bisogna inoltre aggiungere che in Italia non si è mai data troppa importanza al fattore “nazionale”, e dal momento che gli Italiani hanno uno scarso senso di identità nazionale hanno difficoltà ad immaginare che altri popoli possano invece averlo. Lo stesso dicasi per il fattore religioso, dato che gli Italiani sono ormai tutti convinti di vivere in una società irreversibilmente “secolarizzata”. E soprattutto, non si è mai voluta dare troppa importanza al fatto che le due fedi siano tanto diverse da imporre codici morali talora contrapposti, ma abbastanza vicine per non essere reciprocamente indifferenti, anzi per avere più di un terreno di disputa.

18. L'eccezione italiana

La società italiana – con qualche eccezione nel Nord, in alcuni Valli Alpine ai confine della Svizzera – ha sempre avuto un atteggiamento aperto nei confronti degli immigrati. Ciò è stato evidente nella prima fase dell’arrivo del flusso migratorio specialmente a Sud degli Appennini, dove l'atteggiamento nei confronti dei “diversi” - quali che siano le malevole interpretazioni degli eventi di Rosarno nel 2009 – non ha in genere nessun carattere di ostilità, e i tentativi demagogici di sfruttare la presenza degli immigrati a fini elettorali non hanno avuto alcuna adesione.

Indubbiamente, questo atteggiamento è dovuto alla memoria, tutt’ora fresca, dei tempi in cui gli Italiani guardavano alla Germania più o meno come oggi i Marocchini guardano all’Italia. E l’idea che, nella stessa società e in una fitta serie di interrelazioni sociali e di lavoro, le due fedi potessero convivere ha indubbiamente contribuito sia all’accettazione del “diverso”, sia a rendere meno duro per gli immigrati il pane – che inevitabilmente “sa di sale”– guadagnato attraverso l’accettazione di una situazione di obiettiva marginalità e spesso di illegalità. In altri termini, nel nostro paese, il vacillante senso religioso degli Italiani si è unito, in questa specifica questione, al loro scarso

46

orgoglio nazionale e alla loro debole capacità di “fare blocco”. E queste caratteristiche, che sono sempre state viste come fattori negativi nei rapporti con le altre nazioni, sia in pace che in guerra, si sono rivelate di fronte al fenomeno nuovo dell’immigrazione, e di quella islamica in particolare, come un elemento assai favorevole per stabilire buoni rapporti con gli immigrati, una sorta di “marcia in più” rispetto agli altri paesi europei, che sono invece società estremamente consapevoli di sé e della propria identità, e che pongono una invisibile barriera nei confronti degli “estranei”.

Ma va detto – per non attribuire alla società italiana più meriti di quanti essa non abbia – che la debolezza del “rigetto” degli immigrati da parte dell’establishment intellettuale italiano si spiega col fatto che il fenomeno migratorio nel nostro paese presenta caratteri che lo rendono meno problematico di quanto esso non sia in paesi come Francia, Germania o Inghilterra. La nostra immigrazione presenta infatti la caratteristica di essere estremamente composita per quel che riguarda le provenienze.

In Francia l’immigrazione dell’ultimo quarantennio ha creato un blocco di alcuni milioni di immigrati islamici di origine nord-africana, nei confronti dei quali si è dimostrata impossibile (basta ricordare la questione del foulard islamico) l’assimilazione, che è il tradizionale obiettivo della politica migratoria di Parigi. Analogamente, in Germania ci sono alcuni milioni di Turchi, parcheggiati da generazioni in una sorta di “terra di nessuno” giuridica, con la fictio che si tratta di Gastarbeiter, di “lavoratori ospiti”, anche quando sono nati e cresciuti nella periferia delle città tedesche. E in Gran Bretagna è presente un numero minore, ma non trascurabile, di Pakistani e di Arabi, assai ben inseriti nel sistema economico, ma non per questo meno assertivi della loro identità e della loro diversità; al punto che fu in Gran Bretagna, e non come si crede talora, nell’Iran di Khomeini, che nacque la fatwa contro lo scrittore Salman Rushdie.

La caratteristica più positiva dell’immigrazione italiana sta invece nel fatto che al suo interno sono presenti molte componenti, tutte minoritarie, di provenienza assai diversa. E che gli islamici costituiscono poco più di un terzo del totale. Il risultato lo si può facilmente constatare sui mezzi pubblici di Roma e di Milano, o nei luoghi di lavoro: in Francia gli immigrati spessissimo parlano tra loro arabo, in Germania turco, e in Gran Bretagna urdu. In Italia, al contrario, la lingua degli immigrati è una sorta di rozzo e fantasioso italiano. Indubbiamente è un italiano,deformato, semplificato, abbrutito, in cui sono scomparsi i congiuntivi, e tutti si danno del tu. Ma si tratta pur sempre di italiano, che col tempo è destinato a migliorare, anche perché gli Italiani “antichi” non perdono occasione di imbarbarirsi andando incontro ai “nuovi Italiani”, semplificando e degradando al massimo la loro lingua.

Gli Italiani, invece, non percepiscono la loro lingua come i Francesi, cioè come un monumento nazionale che deve essere curato e preservato generazione dopo generazione, ma piuttosto come gli Inglesi. L’italiano è – si potrebbe dire – come un giardino fatto di piante in crescita, dove le nuove specie possono facilmente metter radici, e gli innesti sono favoriti. Un nuovo italiano è dunque nato, insieme a nuovi Italiani.

In ogni caso, non sarà sempre così. Sul lungo periodo, la politica italiana non potrà non esser influenzata dalle paure che questa provoca nei paesi con i quali la penisola italiana è permanentemente in osmosi culturale. Come abbiamo visto, l’invecchiamento della popolazione e il rapido declino numerico cui è condannata la società italiana rende indispensabile l’introduzione di un numero sempre maggiore di adulti lavoratori stranieri. E molti di questi provengono da paesi geograficamente vicini e demograficamente ricchi,

47

come i paesi musulmani del Nord Africa.

Un certo “sospiro di sollievo” è stato tirato dai “populisti” di ogni bordo alla notizia che negli ultimi anni la percentuale di immigrati cristiani in Italia aveva superato, seppur di poco, il 50%. Questo a causa dei flussi provenienti dai Paesi dell’est Europa che sono entrati, e dall'Ucaina. Ma si tratta, come abbiamo visto, di un fenomeno temporaneo. I paesi che un tempo erano sotto il controllo sovietico non hanno infatti le risorse demografiche per coprire il bisogno di forza lavoro dell’Italia, e in generale dell’Europa Occidentale. Infatti, come abbiamo già visto, in Romania e in Ucraina, i paesi dai quali proviene il maggiore flusso di immigrati in Italia, la popolazione sta subendo un rapido declino e un grave processo di invecchiamento.

E' dunque sul fronte dei flussi migratori provenienti da paesi di religione islamica, sul fronte del Mediterraneo, che si giocherà le due partite decisive che nascono dalla questione migratoria. Da un lato, la partita tra assimilazione degli immigrati e preservazione dell'identità politica e culturale e dell'Italia. Dall'altro, la partita tra integrazione di un gran numero di immigrati nel sistema produttivo e preservazione per la sua sicurezza nei confronti di quei gruppi – assai minoritari, ma anche assai efficaci e pericolosi – che vedono il rapporto tra culture e identità diverse sotto forma di scontro armato, se non addirittura di “guerra santa”.

19. Coesistere con l’immigrazione?

Grazie alle particolari caratteristiche cui abbiamo sopra accennato, è da una trentina anni che la società italiana convive con l’immigrazione e le sue conseguenze. Gli Italiani sono alquanto attenti al tema dell’immigrazione, anche se si evita di discuterne troppo dal momento che si tratta di un tema capace di suscitare differenti sentimenti, se non di causare dispute. Da un lato esiste certamente in Italia un senso di solidarietà nei confronti dell’immigrazione, derivato in larga parte da un certo coinvolgimento morale.

Dall’altro, si inizia a provare un certo senso di ansia, persino di “angoscia”, un sentimento che finora non era certo caratteristico del popolo italiano. Infine, fatto molto più serio, gli Italiani stanno affrontando la convivenza con gli immigrati senza una guida, dal momento che gli intellettuali non hanno ancora svolto una seria analisi del problema e i leader politici non hanno adottato alcuna politica di controllo.

Nei problemi quotidiani, i vari governi, e le autorità statali in generale, hanno tenuto nei confronti degli immigrati un atteggiamento incerto, passando da leggi molto incomplete e permissive, a leggi molto restrittive sulla carta, ma che poi permettevano eccezioni di massa, per ragioni “umanitarie” , che sono in parte un pretesto e in parte corrispondono all’orientamento di una percentuale dell’opinione pubblica, specialmente giovane, che è solidale con gli immigrati. In effetti, situazioni extra-legali sono state nel tempo create e tollerate, mentre si diffondeva il costume di fare le leggi “ caso per caso, in una successione di leggi ed emendamenti che sembrano creare più problemi nel futuro di quanti non ne risolvano oggi.

Né le autorità di governo né, ad esser sinceri, l’opinione pubblica sono riusciti a trovare un vero equilibrio tra i differenti obiettivi che vanno seguiti nel relazionarsi con gli immigrati: rispondere ad esigenze di tipo umanitario; immettere nuova forza di lavoro rispettando tanto i bisogni degli immigrati quanto le carenza dell’economia del paese che li accoglie; tenere in considerazione i bisogni politici d’ordine pubblico. Nessun esempio può essere più illuminante di quello dell’arrivo in massa di decine di migliaia di Albanesi in

48

Puglia – tallone dello “stivale” italiano, che per alcuni anni è sembrato essere il “tallone d’Achille” dell’Italia sul fronte della questione migratoria – sopra due barche cariche di esseri umani al di la di ogni possibile immaginazione. La prima imbarcazione fu accettata con grande benevolenza mentre, poco dopo, la seconda fu rifiutata con eguale eccessiva durezza.

Se le leggi e le politiche riguardanti gli immigrati sono state improvvisate e pasticciate non è solo perché l’Italia non ha precedenti esperienze con gli immigrati ma anche perché non c’è mai stato un dibattito calmo e pacifico sull’argomento. Inoltre, l’opinione pubblica appare solo oggi spaventata abbastanza da questi problemi per trasformare la questione dell’immigrazione in un tema da dibattere sotto il profilo economico e politico. Le schermaglie fra i politici si sono invece protratte finora, con l’emersione di una chiara maggioranza politica e delle forze economiche a favore di un flusso sempre maggiore e ininterrotto di immigrati.

20. La Lobby pro immigrazione

Confindustria – la Confederazione degli Industriali italiani – è normalmente citata come una delle organizzazioni favorevoli alla politica della “porta aperta”. E dunque, in un normale anno, ha richiesto l’ammissione di alcune centinaia di migliaia di nuovi immigrati – circa il doppio di quanti il Governo prevedesse di ammettere – specialmente da impiegare in quei settori in cui gli Italiani non vogliono lavorare. Evidentemente, si tratta di una richiesta di lavoratori da impiegarsi a tempo pieno nelle fabbriche, non certo di famiglie.

E non dovrebbe sorprendere che esistano organizzazioni ancora più attive, come la Confagricoltura, la Confederazione degli Agricoltori. Alla fine di ogni inverno, i suoi membri richiedono con forza l’ammissione in Italia di lavoratori stagionali stranieri, senza i quali la raccolta dei primi frutti e la vendemmia non potrebbero aver luogo. La stessa richiesta di lavoratori stagionali stranieri proviene dall’industria del turismo.

La posizione di Confindustria e delle organizzazioni degli agricoltori e degli albergatori è perfettamente comprensibile. Questo organizzazioni rappresentano infatti gli interessi economici di chi ha sempre guadagnato dalla presenza degli immigrati, e costituiscono lo zoccolo duro storico della lobby pro immigrazione. Oggi però, l’impatto degli immigrati come consumatori di beni e servizi, che non era stato particolarmente significativo negli ultimi anni dello scorso secolo, è diventato più importante. Da uno stadio iniziale in cui l’unico settore significativo in cui erano coinvolti gli immigrati, era il business delle macchine usate, alcune attività illegali, e il mercato degli affitti di case fatiscenti, gli ultimi sviluppi hanno mostrato le positive conseguenze economiche portate dagli immigrati stabili.

Nondimeno, bisogna notare che la richiesta per una alloggio da parte degli ultimi arrivati dà vita a un mercato degli affitti nelle zone suburbane alquanto lucrativo, ma che porta ad un rapido deterioramento dei palazzi, e a un deprezzamento dell’intero quartiere. Il problema è reso più serio dal fatto che, insieme agli immigrati che vengono per lavorare, esiste un flusso dall’Europa orientale (soprattutto dalla Romania) di gruppi nomadi. Questi rifiutano ogni tipo di occupazione o di integrazione, non mandano i propri figli a scuola (violando la legge italiana sull’educazione obbligatoria), vivono di mendicità (con atteggiamenti indecorosi di umiliazione estrema, che sfiguranoo il volto delle nostre città) di piccoli furti ed attività illegali, e portano una rapida svalutazione delle zone circostanti al loro campo. A partire dal 1 gennaio 2007, l’entrata Romania nell’Unione Europea, con la caduta di tutte le limitazioni all’ingresso in Italia, ha enormemente complicato il problema,

49

dal momento che si calcola l’arrivo di circa 400,000 nomadi nella Penisola.

A partire dal 2005, e per tutti gli anni successivi – anche se con qualche irregolarità nel trend dovuta alla crisi post 2008) - , circa il 13% delle unità residenziali sono state vendute ad immigrati, una quota che sembra sproporzionata se si pensa che questi rappresentano meno del 5% della popolazione totale, ma che è in linea con il loro contributo al numero totale delle nascite in Italia. In breve, questo 13% è il risultato del fatto che gli immigrati rappresentano una componente giovane e fertile della società italiana che tende a creare famiglie, ad avere bambini, a stabilirsi in un paese che ha ampiamente contribuito a costruire (dal momento che quello delle costruzioni è il settore che maggiormente ricorre alla manodopera semi specializzata straniera).

Essendo di solito giovani, a volte minorenni non accompagnati, sono ovviamente una componente “in salute” della popolazione italiana. Un rude calcolo sull’impatto sul servizio sanitario nazionale ha concluso che un immigrato contribuisce ad esso per circa €1,000 l’anno, ottenendo in cambio – in servizi e medicine – circa €600 (un terzo dei quali per l’assistenza alle partorienti e ai neonati).

D’altra parte, non ci sono settori minacciati dall’immigrazione. Se si escludono gli ambulanti e i venditori di souvenir di Firenze che, alcuni anni fa, si sono scagliati contro i venditori ambulanti a costo della vita di tre sfortunati Marocchini, è evidente che gli immigrati si muovono in settori abbandonati dagli Italiani o in larga espansione, come i ristoranti, la cui espansione è assorbita senza eccessivi shocks (si vedano, come esempio, i ristoranti cinesi). Bisogna notare, comunque, che questo mercato è distorto dal meccanismo di concessione delle licenze.

21. I costi per la società

Se non c’è scontro tra immigrati ed Italiani sul mercato del lavoro, altri problemi esistono comunque. Alcuni hanno iniziato ad emergere di recente, fra gli immigrati cinesi. Si tratta di problemi dovuti essenzialmente a diversi ordini di ragioni. Intanto il fatto che i Cinesi stanno rapidamente diventando – come comunità – una componente semi-autonoma della società italiana. Sono duri lavoratori, e risparmiatori tenaci. Se il caso di Prato – la “capitale” dell’industria tessile italiana, dove la Camera di Commercio locale ha calcolato esistere 16,000 stabilimenti di proprietà cinese – resta ancora un caso assolutamente estremo, la loro presenza inizia a farsi sentire in tutto il Paese.

I Cinesi tendono ad investire i loro risparmi nell’acquisto di immobili nei distretti commerciali, a volte per affittarli a immigrati di altra origine (e in alcuni casi in condizioni igieniche esecrabili) altre per usarli per le loro attività – come la vendita all’ingrosso – che normalmente dovrebbe essere locata in aree più suburbane. Sono attività molto lucrose, ma che pongono problemi di degrado delle aree circostanti. Le "Chinatowns" di Roma, Milano and Napoli sono i primi allarmanti indizi di tale degrado. In aggiunta, quando le autorità hanno tentato di rinforzare le leggi e i regolamenti comunali, le comunità cinesi hanno reagito ricorrendo addirittura alla violenza, e richiedendo allo stesso tempo la protezione di Pechino, i cui rappresentanti in Italia hanno volentieri prestato il loro attivo aiuto.

E ancora più seri sono altri aspetti. Innanzitutto, la componente immigrata, pur essendo ben integrata dal punto di vista economico, mostra solo pochi segni di volersi

50

integrare culturalmente nella società italiana. Inoltre, al suo interno è organizzata in gruppi segreti che non esitano a esercitare violenza contro i propri membri quando emergono conflitti di interesse. Molti Cinesi, specialmente i più giovani, sembrano apprezzare i vantaggi, le opportunità e le libertà che comporta diventare effettivamente Italiani, ma la maggioranza mostra forti resistenze nei confronti dell’assimilizione, cosa che può diventare un problema paragonabile a quello dei nomadi dell’Europa dell’Est, i cosiddetti "Roms", che fino a poco tempo fa erano chiamati “zingari”.

I membri di questa categoria – una comunità persino più chiusa di quella cinese –, mentre traggono benefici dalle leggi sull’immigrazione, non possono essere considerati immigrati, perchè non sono integrati economicamente e non possono esserlo, dal momento che non svolgono – né ci provano, con qualche eccezione – nessuna attività produttiva. Intorno ai loro campi – che le autorità cercano, senza successo, di rendere permanenti dotandoli di servizi essenziali – le situazioni di tensioni e gli incidenti sono la regola. nellìItalia centrale, nella primavera del 2007, quello che rimaneva di un campo è stato dato alla fiamme da sconosciuti pochi giorni dopo che è stato abbandonato in fretta da una tribù di "Roms", alla quale apparteneva un guidatore che, ubriaco, aveva ucciso quattro bambini del quartiere vicino.

22. Le politiche sull’immigrazione

Bisogna dire che le organizzazioni dei datori di lavoro sono solo una delle componenti a favore di una politica più aperta nei confronti dell’immigrazione, e non sono neanche la più attiva o la più visibile. Al contrario, l’atteggiamento più favorevole ad una facilitazione dell’attraversamento delle frontiere proviene dalle file della sinistra e delle organizzazioni cattoliche. Nel caso di quest’ultime, un imperativo etico facilmente comprensibile muove le piccole e ben intenzionate azioni cattoliche. Maggiori difficoltà esistono nel comprendere le complessità dell’immigrazione secondo una prospettiva di lungo periodo. E si tratta di un problema di storica importanza per l’Occidente.

E questo tralasciando la pura e semplice ignoranza delle persone di cui stiamo parlando. Un esempio per tutti: i Vescovi che per incoraggiare gli Italiani a non guardare l’immigrato come un criminale (uno sforzo davvero notevole) non trovano di meglio che domandare “che cosa sarebbe successo agli Italiani immigrati in America se fossero stati considerati criminali?”. Questi opinion leader improvvisati trarrebbero ogni beneficio da una piccola lettura sull’argomento, per esempio sull’infame caso di Sacco e Vanzetti. Dovrebbero realizzare che negli Stati Uniti, persino nell’ultima decade del secolo scorso, gli Italiani sono ritenuti una razza naturalmente e incurabilmente criminale, un materiale umano immune agli effetti dell’”americanizzazione”, che trasforma gli esseri umani in disciplinati cittadini della Repubblica a Stelle e Strisce. Per capire l’ostilità Americana nei confronti degli Italiani – considerati una razza a parte, i “dagos”, non completamente bianchi, per il semplice fatto che trattavano i neri come esseri umani – sarebbe sufficiente chiedere a Don Di Liegro, il fondatore dell’organizzazione pro-immigrazione più importante, la Caritas, il cui padre, un pescatore con 10 figli a carico, cercò per quattro volte di emigrare in America, e per quattro volte fu rifiutato.

Rimane da spiegare perchè le forze politiche di sinistra – quelle che dovrebbero rappresentare gli interessi della classe media, maggiormente minacciata dall’immigrazione – abbiano crato una vera ‘lobby pro-immigrazione’. La loro posizione politica è effettivamente quella della 'porta aperta', che comporta l'assegnazione indiscriminata dei

51

diritti “ai nuovi italiani”. Soprattutto, i partiti progressisti sono all'origine dei ripetuti emendamenti legislativi a favore degli immigranti irregolari, correzioni che hanno diffuso nel Terzo Mondo l'idea che l'Italia sia il ventre molle dell’Europa, la terra promessa per tutta la gente indigente, e che l’unica cosa importante è riuscire ad entrare nel Paese dal momento che “le cose saranno sistemate” in occasione di una delle regolarizzazioni periodiche degli immigranti semi-illegali.

In un rozzo tentativo di sfruttare gli effetti negativi del fenomeno dell’immigrazione, come l'irritazione crescente e la xenofobia nascente fra gli operai nel nordest, alcuni gruppi dell’estrema destra non hanno esitato a sostenere che la sinistra, in calo nelle preferenze dell’elettorato italiano, si è voluta garantire un serbatoio di elettori, facendo entrare prima e regolarizzando poi sempre più immigrati. Si tratta di una tesi chiaramente irragionevole. È vero che negli ultimi anni del secolo scorso, Livia Turco, Ministro per gli Affari Sociali, ha proposto la concessione del diritto di voto agli immigrati. Ma questa proposta era limitata soltanto alle elezioni comunali, regionali e provinciali. E la Turco evidentemente è stato ispirata da un impegno politico a trattare gli immigranti come persone, non come numeri; un'ispirazione che indubbiamente ha corrisposto e corrisponde, ad una richiesta etica ed egalitaria che è tradizionale dei gruppi politici socialisti e che la trasformazione recente della politica mondiale non ha potuto soffocare. In breve, il punto di vista del Ministro Turco ha fatto rivivere, in un senso positivo, la famosa conclusione di Frisch circa esperienza della Svizzera con l'immigrazione.

La spiegazione dell'impegno a favore dell'immigrazione della sinistra deve essere cercata più vicino. In primo luogo nel fatto che la sinistra politica è il rappresentante elettorale naturale di quegli strati dell'opinione pubblica che soffrono maggiormente della mancanza di valori nella società italiana contemporanea e generalmente nella società occidentale. E questa parte dell’opinione pubblica, che è costituita in larga parte da giovani, vede la solidarietà con gli immigranti come un’opportunità di impegno morale. Questa parte della popolazione e dell’elettorato è più grande del cinismo che i media vogliono farci credere avere, e forma la parte migliore della lobby pro immigrazione, che la classe politica dovrebbe tenere in considerazione.

È ovvio che – per bilanciare i benefici apportati dall’immigrazione – ci sono, per l’economia e la società italiane, indubbi costi. Questi costi sono “esternalità” che ricadono al di fuori delle industrie in cui lavorano gli immigrati, bensì sul welfare. Fuori della fabbrica l’immigrato deve soddisfare i propri bisogni quotidiani, di svago, culturali etc... E qui iniziano i costi per il paese ospite.

Nel caso in cui la famiglia è venuta con l’immigrato, o lo ha raggiunto in seguito, una parte di questi bisogni saranno soddisfatti al suo interno. Ma la famiglia causa ancora più problemi, dal momento che il numero di uomini e donne da sistemare nella società è molto differente. E mentre il lavoratore impara molto sugli usi e cultura della società in cui vive sul posto di lavoro, lo stesso non può dirsi per sua moglie o i suoi figli. La loro presenza apre nuove problematiche in altri campi, in primis quello dell’educazione, ma anche nel campo delle attività illecite, come la droga o il crimine giovanile

La somma di tutti questi problemi è la “disintegrazione” fisica ed economica delle aree in cui sono concentrati gli immigrati, una degenerazione il cui prezzo è pagato dale persone che vivevano in quelle aree dove poi si sono trasferiti gli immigrati. E naturalmente non saranno le zone centrali o “bene” delle città a subire l’impatto maggiore, ma soprattutto le aree più popolari. Inoltre, alla degenerazione fisica, economica e sociale – tipicamente rappresentata dalle baby gangs giovanili – può essere aggiunta una

52

“degenerazione politica” derivante dalle reazioni dei “vecchi” abitanti, che possono rapidamente assestarsi su posizioni politiche estremiste e xenofobe. Un sondaggio – condotto da una una fondazione che opera nel Nord est dell’Italia – ha evidenziato che il 43% degli Italiani ritenevano gli immigrati “una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza personale” e che per il 60% “il Paese non sarà in grado di accogliere immigrati, anche legali, per molto tempo ancora”.

Questo conflitto di interessi percorre l’intera società italiana, ed è fattore determinante nell’approccio dei partiti. L’impeto dei datori di lavoro e soprattutto delle lobby pro-immigrazione ha portato il governo di centro sinistra a adottare una politica per l’immigrazione che ha avuto o avrebbe dovuto avere implicazioni per le tre aree dell’azione governativa: entrata programmata degli immigrati con quote prefissate annualmente (basate sugli obiettivi che si volevano raggiungere nella struttura della popolazione e nella composizione della forza lavoro), lotta all’immigrazione clandestina, e aiuti all’integrazione nella società.

È facile verificare che, con l’introduzione di una nuova legge sull’immigrazione (la Bossi-Fini) da parte del governo di centro destra che è succeduto al governo di centro sinistra, né la seconda, né tantomeno la prima delle azioni previste hanno trovato reale applicazione, mentre le iniziative a favore dell’integrazione e le spese relative sono aumentate. La breve durata di questo governo ha evidentemente contribuito, e consentito alla nuova coalizione di Centrodestra che lo ha sostituto si riprendere l'azione interrotte, lungo le stesse linee, e con notevoli successi soprattutto sul fronte dell'immigrazione illegale via mare.

Come si può vedere, l’atteggiamento della politica italiana nei confronti dell’immigrazione è molto diverso da quello degli altri paesi europei. Ciò è il risultato della mancanza di identità nazionale di cui abbiamo già parlato: una caratteristica che rende impossibile che in Italia ci siano reazioni eccessivamente violente all’immigrazione quali, specialmente dopo gli attacchi di Madrid, si sono verificate periodicamente in Spagna, un paese dove il senso di identità nazionale è invece alquanto forte.

Il paragone con la Spagna è interessante anche perchè, come in Italia, questo paese è stato investito solo di recente dall’immigrazione. La differenza con gli altri paesi del nord deriva dal fatto che le fabbriche del Nord Ovest d’Europa sono state profondamente modificate da decenni di immigrazione, al punto che l’atteggiamento politico di questi paesi nei confronti dell’immigrazione è ancora totalmente sconosciuto in Italia.

In Francia, il paese che, da una prospettiva legal/amministrativa e politica, è il più simile all’Italia, è chiaro che il numero degli elettori di origine immigrata è così alto da rendere impossibile ogni approccio semplicistico al problema. Esiste un notevole blocco di elettori con sentimento di solidarietà e precise paure quando si tratta di politica dell’immigrazione, ed è questo gruppo che mostra le posizioni più severe, persino estremiste. Parte del supporto politico al Fronte Nazionale proviene da persone “puramente” francesi, che si sono attestate su posizioni razziste. Ma parte del supporto viene anche da Francesi di recente naturalizzazione, che mostrano sentimenti estremisti nello sforzo di sembrare più Francesi dei Francesi. Così facendo cercano legittimità ai propri occhi, e guadagnano legittimità agli occhi altrui.

Questa basilare differenza rende difficile per l’Italia adottare una politica sull’immigrazione in linea con gli altri partners a Brussels. La debolezza italiana (il debole

53

senso di identità nazionale) e i punti forti dell’Italia (la maggiore comprensione nei confronti di povera gente che cerca solo un pezzo di pane, e il fatto che l’immigrazione sia un fenomeno così recente) fanno sì che la politica sull’immigrazione rimarrà ancora a lungo una questione nazionale. 23. Uomini o lavoratori?

Le domande che vertono intorno all’immigrazione sono di natura fortemente politica, ma non nel senso squallido di creare una cornice di dipendenti per politici di basso rango. Sono di natura politica nel senso che per la società italiana, come per tutte le società che ricevono flussi di immigrati, l’arrivo di una massa di lavoratori, soprattutto uomini, dal Terzo Mondo porta con sè la necessità di fare scelte difficili, in particolare di fronte agli immigrati islamici. La prima – che è la più importante ma anche quella a cui la pubblica opinione non presta affatto attenzione – riguarda la strategia degli scopi reali della politica sull’immigrazione. L’altra scelta, di natura tattica, riguarda gli strumenti ed i metodi di questa politica. E, dal momento che può portare facilmente scivolare verso una demagogia elettorale, questa scelta è quella che causa più clamore.

Dal momento che si tratta di scopi politici, è necessaria una distinzione netta fra i due maggiori problemi legati all’immigrazione, che sono puntualmente ignorati dalla nostra legislazione: il problema del declino demografico e la disponibilità di forza lavoro.

Per compensare il declino demografico che è determinato, a causa della mancanza di uomini e donne, dal calo del tasso di fertilità a metà di quanto necessario per il ricambio generazionale, è innanzitutto necessario definire una politica “della popolazione” di lungo periodo, che tenga conto del fatto che la riduzione del numero totale di abitanti non deve necessariamente tradursi in una riduzione del “potere” dell’Italia, ma in un possibile miglioramento della qualità della vita. D’altra parte, in relazione al rapporto quantitativo fra popolazione attiva e non attiva, è necessario adottare una politica “della forza lavoro”, che miri al raggiungimento di risultati immediati.

È facile vedere che le due politiche, quella della popolazione e quella della forza lavoro, hanno esigenze tecniche e obiettivi totalmente diversi. E anche se la mancanza di forza lavoro è parzialmente il risultato del crollo demografico italiano (ma solo parzialmente, dal momento che gli Italiani si rifiutano di fare certi lavori), sarebbe impossibile riuscire a aumentare i lavoratori disponibili aumentando le nascite, persino con un importante programma demografico di più anni. In breve, questo significa che, per quanto riguarda le richieste del sistema produttivo, è inevitabile far ricorso a forza lavoro straniera “pronta per l’uso”, e non solo per svolgere quei lavori che gli Italiani “non vogliono fare”, ma anche per altri tipi di lavoro.

La questione è gia stata affrontata in sede scientifica19

24. Le braccia, non l’anima

, ma va comunque sottolineato che in nessun modo l’immigrazione, comunque, potrà essere sufficiente a risolvere questi problemi della società italiana. Infatti, prima gli immigrati entrano nella società, prima il loro comportamento tenderà ad assomigliare a quello della popolazione locale. Inoltre, la disponibilità degli immigrati a fare quei lavori che gli Italiani non vogliono più fare, e la loro disponibilità pura e semplice a farsi sfruttare in termini di condizioni di lavoro e documenti, diminuirà rapidamente.

19 Vedasi Giuseppe Sacco, L’invasione scalza, Milano, Franco Angeli Editore, 2009

54

L’economia italiana ha bisogno di forza lavoro, e l’immigrazione la rifornisce. Ma il lavoro non viene mai da solo. Con esso – con “le braccia” – arrivano inevitabilmente donne e uomini. È a questo punto che i problemi finora descritti emergono tutti insieme.

Per le braccia, l’integrazione è facilissima. La fabbrica, e in genere l’ambiente di lavoro, crea immediatamente un’omogeneizzazione di gesti, di movimenti, di necessità e di comportamenti. E per di più, l’immigrato, che è venuto qui per lavorare, tende a dedicare al lavoro quante più ore possibile della giornata. È fuori dal lavoro che cominciano i problemi. Fuori dal lavoro le esigenze e i comportamenti dell’uomo prendono il sopravvento sull’uso e la funzionalità delle braccia.

In fabbrica, l’immigrato islamico può smartellare, tagliare, cucire, montare pezzi, o dirigere una colata di acciaio esattamente come un non islamico. Ma fuori dal lavoro, egli deve mangiare cibi preparati secondo le regole islamiche, deve resistere alla tentazione di bere alla maniera degli occidentali, ed evitare bevande di cui non è abituato a reggere gli effetti. Nelle ore di riposo finisce per “distrarsi” in maniera cui non è abituato, e ha rapporti sociali, specie con persone dell’altro sesso, secondo regole diverse e molto più libere di quelle prevalenti nella società di origine. L’impatto con i rapporti sociali di tipo occidentale, e soprattutto con la libertà che li contraddistingue, è per l’immigrato islamico estremamente duro, e al tempo stesso estremamente tentatore. Solo se le braccia si sono sul lavoro stancate fino all’esaurimento, l’essere umano islamico riesce a evitare problemi e complicazioni, dormendo come un morto fino al prossimo turno.

E ciò nel caso dell’immigrato singolo. Perché se dietro ad ogni paio di braccia ci sono anche una donna e una famiglia, allora i problemi si complicano in maniera esponenziale e si arricchiscono di complicate questioni morali che finiscono per interferire anche con il suo lavoro. Come può il lavoratore islamico concentrarsi tutto sull’opera delle sue braccia, mentre sa che fuori dalla fabbrica le donne della sua famiglia sono esposte a tutte le tentazioni corruttrici di una società che a lui appare profondamente immorale sotto il profilo familiare e sessuale, e che i suoi figli assorbono i valori di un mondo in cui non c’è più il rispetto per i genitori e per gli anziani?

Paradossalmente, anche se pochi Italiani se ne rendono conto, l’immigrato islamico vive nel nostro paese in una condizione di paura e di allarme per il contagio. Ed è la paura che lo spinge a chiedere “il riconoscimento della propria identità culturale”. È per paura che l’islamico emigrato in partibus infidelium tende a organizzarsi e a chiudersi all’interno di un ghetto che vagamente ricordi la propria comunità culturale. Le sue ragioni umane sono le stesse per le quali alcuni giornalisti e accademici italiani gli chiedono di integrarsi, di rinnegare se stesso, di abiurare, oppure – come i moriscos sotto Torquemada – di nascondere la propria fede, e insomma di smettere di farci paura. Purtroppo nessuno – se non i torturatori di professione – si è accorto del fatto che si tratta di uomini timidi e pudichi, che la presenza femminile mette in grave imbarazzo. Nelle nostre città, l’immigrato islamico si sente a disagio, è smarrito, e – qualche volta, fortunatamente quasi sempre a torto – ha paura.

Questa simmetria negativa non facilita i rapporti. Al contrario, può anche creare una situazione pericolosa. L’incontro tra le culture e l’integrazione può avvenire – e avviene – principalmente sul lavoro, ma è difficilissimo nella società. È una realtà spiacevole, ma di cui occorre prendere atto. Anche se in teoria, e in un altro contesto sociopolitico, la società multiculturale fosse realizzabile, essa lo è sempre di meno nell’Italia di oggi. Paradossale quanto si vuole, la realtà è che oggi quegli stessi piccoli imprenditori del Nord-Est che debbono la loro ricchezza al lavoro di maestranze in gran

55

parte straniere, quegli imprenditori le cui organizzazioni non cessano di premere per quote di ammissione più alte,non appena “staccano”dal loro ruolo di industriali e ciacolano con gli amici attorno a una bottiglia di grappa – cioè non appena assumono il ruolo di componenti della società – si convertono in disgustosi seguaci dei movimenti xenofobi, e propalatori di slogan e comportamenti a forte tono razzista.

Troppo spesso dimentichiamo questo aspetto dell’immigrazione, dovuto al fatto che assieme alle braccia sono venuti esseri umani, che hanno una loro moralità, un loro senso dell’onore personale, e una loro dignità che si esprime in maniera assai diversa dai nostri analoghi bisogni, e che cercano in qualche modo di proteggerli. E non ci accorgiamo che gli islamici, anche quando vengono da paesi che si proclamano “rivoluzionari”, sono in realtà portatori di una mentalità per certi aspetti primitiva (specie in materia di rapporti tra i sessi), ma soprattutto estremamente conservatrice. I cosiddetti integralisti islamici non sono infatti altro che conservatori. Il movimento salafita, il cui nome fa tanta paura, non è altro che un movimento “tradizionalista”, che vuole in definitiva le stesse cose che vogliono i conservatori occidentali: la separazione delle culture e la preservazione di ciascuna nel proprio ambito. Si tratta di un’incomprensione e di una dimenticanza che suscitano nei loro confronti un atteggiamento di ostilità, mentre un vero conservatore occidentale dovrebbe, se la sua visione politica andasse al di là della punta del proprio naso, considerarli come naturali alleati. Ci si può chiedere perciò se non sia possibile, nella crescente chiusura conservatrice della società italiana, inventare una politica conservatrice dell’immigrazione che soddisfi le esigenze di entrambi i campi.

La “simmetria negativa” di cui abbiamo detto offre infatti allo Stato italiano la possibilità di mettere in atto una politica che incontri già nel breve termine l’approvazione sia degli Italiani che degli immigrati islamici, e che impedisca che nel lungo termine si crei nel nostro paese una minoranza islamica non integrabile, come è ormai accaduto in Francia.

Una tale politica dovrebbe creare gli strumenti per consentire all’immigrato di godere pienamente delle possibilità di occupazione offerte dal nostro paese (dove essi prendono le posizioni rifiutate dagli Italiani), scoraggiando tutto ciò che porta a irrisolvibili problemi di integrazione sociale.

25. In partibus infidelium

È facile capire perché ogni distinzione tra integrazione sul mercato del lavoro e separazione delle società, cioè la distinzione tra “braccia” e “uomini”, susciti non poche reazioni negative, reazioni che fanno sfoggio di tutti gli argomenti retorici dell’egualitarismo e del preteso umanitarismo. Si dice – giustamente – che le due cose non possono essere separate, e che voler vedere gli immigrati solo come forza lavoro è una negazione della loro umanità, una violazione del principio etico che impone di non considerare mai l’uomo come mezzo, ma sempre come fine.

Ma è facile rispondere sottolineando come – con tutta la comprensione e la disponibilità di cui si finge di far mostra nei confronti degli immigrati – nessuno si sia mai preso la briga di andare a vedere quale sia il modo in cui essi, che sono i più diretti interessati, vedono il fenomeno migratorio, e se essi siano – o no – interessati all’integrazione nella cultura occidentale.

Tutti vedono, nella nostra società, la presenza dell’in-migrato. Ma quasi nessuno pensa che, per venire tra di noi, questi deve essere stato, per prima cosa, un e-migrato:

56

qualcuno che esigenze economiche hanno dolorosamente strappato al proprio paese e alla propria cultura. Quasi nessuno tiene conto del fatto che – quando egli arriva da noi – l’immigrato è già profondamente marcato da questo “strappo”. Non a caso gli islamici dell’Africa del Nord, che forniscono il maggior numero di immigrati islamici all’Europa meridionale, chiamano l’emigrazione el ghorba, l’“esilio”.

Se qualcuno si fosse preoccupato di capire come la pensano gli immigrati del proprio destino, dei loro sentimenti di appartenenza rispetto alla società di partenza e di diversità rispetto a quella di destinazione, sarebbe stato facile constatare che proprio essi, gli immigrati islamici, fanno una netta distinzione tra “braccia”e “uomini”, tra la loro disponibilità (e aspirazione) a diventare parte della forza lavoro del paese di destinazione e la ben più dolorosa operazione di cessare di essere ciò che sono per diventare Italiani (o Francesi, o Tedeschi). Di grandissimo interesse è – a questo proposito – la distinzione che gli immigrati marocchini in Francia fanno tra il “passaporto verde” (cioè quello del Marocco, visto come una sorta di permesso di uscita, per lavorare all’estero), il “passaporto blu” (di coloro che in passato ottenevano la cittadinanza francese, visto come una condanna a perdere la propria identità), e il più recente “passaporto marrone”: quello della Comunità Europea, visto come una vera e propria garanzia di libertà, perché consente di vivere e lavorare in un’area non definita dal punto di vista culturale-nazionale, dove ciascuno può essere se stesso; la possibilità di guadagnarsi da vivere, senza doversi rinnegare, né mascherare da ciò che non si è.

Chi si fosse dato la briga di capire cosa pensano gli immigrati, delle cui sorti finge di preoccuparsi, avrebbe potuto altresì constatare che gli immigrati sono assai meno interessati al ricongiungimento familiare di quanto non lo sia la legge italiana. La maggior parte degli immigrati affrontano l’“esilio” da soli. Essi partono pensando di restare all’estero solo per un periodo più o meno breve, e la loro aspirazione più viva è di tornare in patria per godere e ostentare il piccolo benessere creato col sacrificio dell’immigrazione, ma non certo quella di assimilarsi – e men che mai di trasferire e far assimilare le proprie famiglie – nella società occidentale. E ciò non vale solo per gli immigrati del Nord Africa, la cui moralità – specie in campo familiare e sessuale – può essere definita, almeno con i criteri occidentali, come estremamente chiusa e conservatrice. Nel caso dei Senegalesi, anch’essi islamici, ma provenienti da una società assai più tollerante, il disinteresse a radicarsi in Italia è semmai più forte. Gli immigrati senegalesi, che noi tutti incontriamo agli angoli delle strade, non sono individui partiti allo sbando, e che cercano di scavarsi una nicchia a casa nostra. Al contrario, essi fanno parte di reti assai efficienti e ben strutturate di venditori ambulanti, facenti capo a una confraternita islamica – la Muridiyya – che cura l’insediamento dei giovani nel mondo del lavoro, in Senegal – in genere nel settore commerciale – e, dopo un piccolo accumulo di risparmi, nei circuiti internazionali di venditori ambulanti. E gli anziani che curano spiritualmente la confraternita non vogliono certamente vederli integrati nelle società dell’Europa occidentale.

La grande maggioranza degli islamici considera “eccessiva” la libertà di cui si gode – in tutti i sensi – nel nostro paese. È per ragioni morali, e non solo per ragioni economiche, che gli immigrati islamici preferiscono quindi mantenere la famiglia in patria. Certo, le ragioni economiche sono importantissime, perché con quello che un immigrato, anche occupato in maniera precaria, riesce a risparmiare in pochi mesi di permanenza in Europa è possibile garantire alla famiglia (e a se stesso, quando torna per la stagione del raccolto) un modo di vita che in patria può apparire come una condizione di benessere, con tutti i benefici che gli derivano dal rispetto sociale e dall’immagine di persona che ha avuto un certo successo all’estero. I suoi scarsi risparmi sono laggiù una piccola fortuna, mentre in Italia sarebbero quattro soldi, insufficienti persino a nutrire la famiglia, per non

57

parlare di garantirle un’abitazione che non sia un tugurio in un quartiere popolato da spacciatori di droga, travestiti e prostitute. Ma queste ragioni economiche, che poi si saldano con il rispetto di se stesso, con la sensazione di essere riusciti a garantire – emigrando – tranquillità e rispetto alla propria famiglia, fanno tutt’uno con le ragioni morali di chi viene da paesi in cui il codice etico e la fede religiosa sono fortemente sentiti, e percepisce come una vera e propria degradazione il dover vivere “esiliato” in società dove appaiono trionfanti volgari forme di neo-paganesimo, in cui si fa spettacolo di forme di devianza sessuale che l’Islam considera mostruose, in paesi scristianizzati rispetto alla loro stessa presunta religione, e in piena decadenza consumistica e edonistica.

Se l’élite politico-intellettuale italiana arrivasse davvero ad afferrare il concetto – tenuto come rivoluzionario – che gli immigrati sono esseri umani, con bisogni non solo economici, ma anche morali, di dignità, di appartenenza a un ambiente socioculturale a loro consono, e che la loro massima aspirazione non è quella di avere una specie di diritto di voto, in modo da entrare a far parte per la porta di servizio del teatrino della politica italiana, forse sarebbe possibile far passare il concetto che proprio gli immigrati fanno distinzione tra “braccia”e “uomini”; che essi sono disposti per necessità a vendere la forza del proprio braccio a un padrone straniero, ma che non sono disposti a svendere la loro anima, e a cambiare tutto ciò che li caratterizza come uomini.

Una politica dell’immigrazione che distinguesse l’integrazione sul lavoro da quella nella società avrebbe, ovviamente, le sue inefficienze. In particolare, significherebbe rinunciare ai benefici demografici che l’immigrazione porta al nostro paese, la cui popolazione estremamente invecchiata, e in rapido declino quantitativo. Ma si tratta di benefici a breve termine, che preludono a gravi problemi socio-politici, e comunque benefici che non impediscono che si manifestino fenomeni di rigetto contro l’arrivo di “braccia”. In altri termini, al fine di preservare l’identità culturale dell’Italia contemporanea, gli Italiani sembrano ormai disposti a rinunciare a ogni “politica della popolazione”, che assieme all’immigrazione ponga riparo, per quanto possibile, ai disastri del collasso demografico.

Si tratta di un atteggiamento che ha un che di schizofrenico, ma sulla base del quale sembra possibile trovare una strategia che venga incontro alle esigenze non solo degli Italiani più conservatori, ma anche degli immigrati. Una strategia che, paradossalmente, troverebbe negli immigrati il suo migliore alleato.Una strategia semplice, ma che può funzionare a una sola e precisa condizione, che essa sia attuata in maniera continuativa da parte di autorità e di una classe politica credibile.

La politica tedesca dei Gastarbeiter è in questo senso istruttiva, anche e soprattutto per il suo fallimento. Partendo dal presupposto che diventare Tedeschi è pressoché impossibile, e che il lavoratore straniero doveva mantenere un legame col paese d’origine per poi, alla fine, rientrarvi, questa politica ha posto le premesse del proprio fallimento quando, assieme ai lavoratori, ha consentito che fossero “ospiti”in Germania anche le loro famiglie e che vi nascessero e crescessero i loro figli. Bonn ha voluto trattare come un Wandervögel, un uccello di passaggio, non solo il lavoratore, ma anche l’uomo e tutta la sua famiglia. La provvisorietà, il pendolarismo, che sono la caratteristica principale dell’“ospite”, vengono così affermate in linea teorica, ma in pratica sono negate, e diventano una finzione che ha creato un problema difficilissimo da risolvere. Dopo una o più generazioni di finta provvisorietà, i lavoratori stranieri e le loro famiglie sono, tranne poche eccezioni dovute al recente allentamento delle leggi sulla cittadinanza, solo una specie di sudditi di seconda classe rispetto ai “cittadini” tedeschi.

58

26. Il cigolìo del cancello che si chiude

Se tutto questo è vero – si potrebbe obiettare – come si spiegano alcuni comportamenti degli islamici che vivono tra di noi? Se veramente gli immigrati provenienti dai paesi del Maghreb, che sono i più vicini geograficamente e i più lontani culturalmente tra quelli da cui giunge il flusso migratorio,preferissero venire qui a vendere la forza del loro braccio per periodi abbastanza brevi da consentire loro di sopravvivere facendo economie all’osso, per tornare periodicamente in patria con un piccolo gruzzolo, perché poi molti di essi accettano i ricongiungimenti familiari che la legge italiana favorisce?

La risposta è ovvia e immediata: perché gli immigrati – in Italia – vivono ancor più degli Italiani in una situazione di scarsa certezza del diritto. La loro condizione è di permanente incertezza sul proprio futuro, derivata dalla faciloneria e dalla demagogia con cui il problema è stato finora affrontato. Essi sono infatti in gran parte entrati illegalmente e lavorano in Italia non sulla base di diritti certi, ma del principio che in Italia l’importante è entrare e aspettare che una sanatoria regolarizzi ciò che è irregolare. Il bassissimo grado di fiducia che essi attribuiscono all’affidabilità dei “diritti” da essi concessi da leggi che pretendono di essere a loro così favorevoli è ben dimostrato dal fatto che a ogni nuova sanatoria si affrettano a partecipare anche coloro che hanno beneficiato delle sanatorie precedenti.

La sensazione, diffusa nel Terzo Mondo, che, nel nostro paese, più che la regolarità della posizione giuridica conta l’essere fisicamente presenti, rafforza questo stato di insicurezza. L’immigrato è infatti sempre in condizione di temere che al prossimo viaggio in patria potrebbe restare bloccato, e di non riuscire più a rientrare in Italia. Si tratta di una prospettiva per lui assai grave. Intanto egli può vivere decentemente come “uomo” in Marocco o in Tunisia e mantenere lì la sua famiglia, in quanto egli sa per certo di poter vendere le proprie “braccia” in Italia, dove esse hanno sul mercato del lavoro un valore che, rispetto ai paesi del Maghreb, è assai alto. Ed è questa prospettiva, quella di restare “bloccato fuori” – la cui alternativa è di restare “chiuso dentro” e di non potersi recare più “al paese” – che lo spinge a prendere in considerazione un’idea di per sé aborrita, quella di farsi raggiungere dalla famiglia. Una decisione che, se per lui significa lo sradicamento definitivo, e l’inizio di una serie di tremende difficoltà economiche, personali e familiari, per la società italiana significa l’inizio di problemi di ogni tipo, nei quartieri dormitorio, nelle scuole, nei riformatori, nella repressione della criminalità, prima piccola e poi grande.

Questo timore di restare tagliato fuori dal paese in cui lavora è naturalmente reso più acuto ogni volta che qualche volgare politicante populista si mette a gridare: «Basta con l’immigrazione!». È proprio ciò che è accaduto negli anni Settanta in Francia, quando da una politica di trasferimento intensivo di “braccia” dal Nord Africa si passò a discutere di un ritorno dei Francesi a un lavoro manuale e di limitazione dell’immigrazione. Il risultato immediato fu una massiccia ondata di trasferimenti di famiglie nordafricane verso il territorio francese. Trasferimenti che avvenivano certo a malincuore, sia per i costi obiettivi – morali e materiali – che essa comportava, sia perché gli immigrati, nei loro periodici ritorni in patria, avevano fatto gli spacconi, avevano vantato in famiglia successi largamente gonfiati; e ora erano costretti a rivelare quanto misera fosse in realtà la loro situazione.

Ma soprattutto, essi sapevano benissimo che il trasferimento di moglie e figli avrebbe avuto tre conseguenze pesantemente negative: una caduta del livello di vita della famiglia, l’esposizione dei figli a influenze e a esempi cui i giovani del Nord Africa non sono abituati e, infine, la perdita di ogni speranza di tornare mai più in patria. Dopo poche

59

settimane in Europa, infatti, mogli e figlie scoprono che le donne possono avere privilegi mai sognati e diventano ferocemente contrarie a ogni ritorno. I figli, dal canto loro, scoprono che non esiste – tra gli infedeli – nessun particolare rispetto o dovere nei confronti degli anziani, e dei loro genitori. La voglia di tornare in patria – vivacissima presso l’emigrante adulto, maschio e solo – non può che soffrirne. E poi anche le condizioni obiettive cambiano; la presenza di varie generazioni nello stesso nucleo familiare fa sì che quando il primo immigrato è ormai giunto a quello che potrebbe essere il momento del rientro definitivo, i figli sono nel fiore dell’età e vogliono continuare a restare nel paese in cui le loro braccia hanno un’utilizzazione.

La minaccia di un blocco all’immigrazione, le stupide grida dei populisti anti-immigrazione, lo stridore dei cancelli che si stanno per chiudere provocano una corsa a passare la soglia prima che sia troppo tardi, anche se in nessun modo l’immigrato è pronto a ricevere la famiglia in condizioni decenti. Non c’è perciò da meravigliarsi se – dopo un trasferimento così precipitoso e mal preparato – la famiglia finisca davvero per vivere nelle estreme periferie degradate e abitate da ogni sorta di emarginati, e che figli e figlie, scaraventati in un ambiente di cui non riconoscono più i loro canoni morali, e in assenza di un bagaglio culturale che consenta loro di resistere al contagio, finiscano a spacciare droga e a battere il marciapiede.

27. Diritti, non paure

Al contrario, in presenza di una legislazione affidabile, in un quadro di diritti certi e irrevocabili, l’immigrato – specie quello islamico – potrebbe trovare conveniente presentarsi nella società europea solo come lavoratore. Basterebbe che egli sapesse per certo che, una volta passato attraverso il filtro che inevitabilmente deve selezionare coloro che vengono strutturalmente integrati nel contesto italiano del lavoro, egli ha un diritto acquisito a entrare e a uscire dall’Italia a suo piacimento, a condizione di rispettarne il codice penale. Si tratterebbe, come abbiamo veduto, di una soluzione che è anche nell’interesse del paese ospitante. I permessi di lavoro, entrata e uscita verrebbero concessi solo a chi ha un’effettiva capacità di svolgere un’attività lavorativa, creando un incentivo a un’alternanza tra periodi lavorativi nel nostro paese e soggiorni in patria, dando al lavoratore ospite non solo l’occasione di mostrare i frutti del proprio lavoro a coloro che lo hanno visto povero e umile, ma anche di sfogare nel proprio ambiente culturale – e non in Italia – la voglia di fare politica. E c’è da scommettere che, in patria, egli sarà meno conservatore, meno salafita, e più occidentalizzante.

Come sempre accade a chi vive diviso tra due mondi, l’emigrante finirà per farsi interprete in ciascuno di essi dei valori e dei vantaggi dell’altro. Non sarebbe una strategia intelligente quella di farne propagandisti dei nostri valori civili e religiosi, in terra d’Islam, anziché portatori nostalgici e fautori del verbo islamista in casa nostra? Su questa evidente convergenza di interessi tra migranti extracomunitari e società di accoglienza è possibile costruire una politica dell’immigrazione che sia al tempo stesso liberale e protettiva: liberale, nel senso che essa apre effettivamente le porte a un gran numero di stranieri che hanno la capacità e la volontà di lavorare; protettiva, nel senso che essa eviterebbe lo stravolgimento socioculturale – e la conseguente reazione xenofobica – che si è avuta dovunque si è risposto al fabbisogno dei datori di lavoro, lasciando entrare nella società un gran numero di immigrati dalle caratteristiche culturali profondamente diverse, con uno strascico interminabile di reciproci rigetti e problemi.

Si può infatti fare l’ipotesi che, nei limiti di una quota fissata annualmente, agli extracomunitari che siano nelle condizioni di età, fisiche e psichiche che consentano loro

60

di lavorare, e che siano riusciti a trovare un’occupazione in Italia, la repubblica italiana conceda un permesso illimitato di entrata e di uscita: un documento senza scadenza, fatto in modo da non poter essere falsificabile, e che consenta sempre l’identificazione.

Si tratterebbe di un documento riservato solo a chi è in grado di lavorare, e ha già trovato una prima occupazione in Italia. E il passaggio della frontiera dovrebbe essere un diritto acquisito che si può perdere solo dopo una condanna penale. In tale caso, si verrebbe a creare un meccanismo in cui il sistema produttivo italiano avrebbe tutta la manodopera di cui ha bisogno, mentre i flussi delle entrate e delle uscite di lavoratori tenderebbero a equilibrarsi nel medio periodo.Verrebbe meno, insomma, per il lavoratore islamico, la situazione in cui egli oggi si trova, e che assomiglia molto a quella illustrata nel classico “dilemma del prigioniero”: una situazione di incertezza che lo spinge a preferire la mediocre scelta dell’emigrazione definitiva e del trasferimento della famiglia, anziché la scelta ottimale, quella di una scissione tra società di appartenenza e luogo di lavoro.

Si tratta – è facile l’obiezione – di una politica dell’immigrazione a carattere politicamente “conservatore”, in particolare perché si fonderebbe da un lato sulla volontà degli Italiani di non vedere la loro società trasformata in modo incoerente in una litigiosa e caotica babele di fatta di popoli, lingue e visioni della vita diverse e spesso inconciliabili, e dall’altro sul desiderio di lavoratori - che non è detto siano sempre di sesso maschile – desiderosi di mantenere le loro famiglie in un ambiente caratterizzato da valori tradizionali che ci appaiono assai arretrati, ma che sono in definitiva molto simili a quelli delle classi popolari europee poco più di un secolo fa.

E’ stato semplicisticamente osservato a questo proposito che una tale politica migratoria andrebbe contro l’interesse delle donne nordafricane a liberarsi da costumi oppressivi, e che noi consideriamo inaccettabili. Ma è evidente che il sacrosanto obiettivo della liberazione delle donne islamiche non può essere realizzato facendole venire tutte in Europa. L’obiettivo della liberazione della donna nei paesi arretrati, e in quelli islamici in particolare non può essere perseguito che nei paesi stessi, altrimenti sarà sempre la conquista di una minoranza delle donne di quei paesi. E poi, se – per “italianizzare” la condizione delle donne nordafricane si accettasse di trasferire in massa la popolazione della sponda Sud del mediterraneo a quella Nord – il che non sarebbe teoricamente incoerente con le già viste previsioni demografiche dell’ONU -, è chiaro che quelle popolazioni si trasferirebbero con tutti i loro costumi, convinzioni, pregiudizi ed abitudini. A questo punto, sarebbero le donne italiane a trovarsi a vivere in un ambiente prevalentemente islamico e conservatore.

E’ stato anche detto che una tale politica ha carattere discriminatorio. In realtà, il problema che essa vuole affrontare, e la soluzione proposta – quella di un sistema di permessi permanenti di entrata ristretti al solo lavoratore – investirebbe solo i lavoratori provenienti dai paesi islamici. Un tale filtro, che prima o poi sarà inevitabile creare, non potrà non tenere conto della diversità degli immigrati a seconda dei paesi di provenienza. È facile ipotizzare che tra qualche tempo i principali paesi di immigrazione stipuleranno trattati bilaterali che fisseranno regole diverse, paese per paese, per l’immigrazione. Del resto, perfino nei confronti dei dieci nuovi paesi membri, la stessa Unione Europea ha ristretto il diritto alla circolazione dei lavoratori. E la minaccia di un flusso torrenziale di immigrati costituisce il principale ostacolo pratico – oltre a quelli di principio – all’ammissione della Turchia. D’altro canto, una discriminazione di fatto a favore dei paesi da cui l’Italia ha interesse a incoraggiare un flusso di immigrati molto maggiore di quello

61

attuale, come l’Argentina, già esiste, data l’estrema facilità con cui la legge consente agli Argentini di ottenere la cittadinanza italiana.

Perché questa ipotesi diventi possibile, per tradurre in realtà l’idea di una politica veramente liberal-libertaria dell’immigrazione, cioè una che sia al tempo stesso una politica di apertura all’immigrazione, e una politica di preservazione della società di destinazione, occorre però che la classe politica italiana esca essa stessa dalla prigione dei luoghi comuni e della demagogia. Occorre approdare a una visione razionale e “politica” del problema dell’immigrazione: un problema che è troppo spesso visto sotto la lente deformante dei nostri pregiudizi politici.

A destra, il problema è stato spesso – se non unicamente – trattato in termini di ordine pubblico e di preservazione di modi di essere tradizionali. E non sono mancate, anzi sono crescenti, le venature di ostilità xenofoba, specie di natura anti-islamica; una reazione pericolosa, che rischia di far perdere di vista la convergenza di interessi tra coloro che vogliono preservare i tradizionali modi di vita nei paesi che hanno bisogno della forza lavoro immigrata, e coloro che vogliono preservare i propri valori e i modi di vita della propria famiglia, anche se sono costretti ad andare a cercare lavoro in paesi, su cui essi danno un severo giudizio morale. Nella maggioranza dei casi non si è nemmeno prestato attenzione al fatto che l’immigrazione è solo una componente del sistema mondiale aperto, in cui i confini si fanno più labili, se non addirittura scompaiono; in cui sempre più persone stanno imparando a vivere nel multi culturalismo; in cui le forze del mercato e le opportunità di crescita giocano un ruolo sempre crescente nel destino di ogni donna e di ogni uomo; e in cui le crescenti diseguaglianze, proprio nei paesi che si sviluppano di più, i cosiddetti “paesi emergenti”, spingono strati sempre più larghi della popolazione a considerare inaccettabile la propia condizione, e a scegliere di tentare un diverso destino in un paese più ricco.

A sinistra, come generoso ma controproducente tentativo di inventare una politica dell’immigrazione ispirata alla solidarietà umana, o all’impegno politico a favore della parte più debole e oppressa della razza umana. E, più spesso, soltanto in termini di generica disponibilità verso chi è – oggi – un povero emigrante. Esattamente come molti Italiani erano ancora mezzo secolo fa. E non è stata prestata sufficiente attenzione al fatto che questa politica si scontrerà presto con i limiti posti dalla reazione della lower middle class dei paesi di destinazione, animata da sentimenti che sono stati perfettamente sintetizzati dalla già citata esclamazione di un leader socialista francese: ‘nous ne pouvons pas acceuilir toute la misère du monde’.

I ricchi e anziani Italiani di oggi, dunque, non possono dimenticare quello che Max Frisch scrisse nell’introduzione del suo libro intitolato Siamo Italiani e dedicato a quei compatrioti che – solo cinquant’anni fa – erano emigrati in Svizzera per cercare lavoro. In una sola frase Frisch è riuscito a riassumere il paradosso della tragedia dell’immigrazione: ‘Es wurden Arbeitskräfte gerufen, aber es kamen Menschen’: Abbiamo richiesto braccia, ma sono venuti uomini!

62

63

PARTE TERZA

LA NON-COMPLEMENTARITÀ TRANS-MEDITERRANEA L'illusione “Barcellona” E' un fatto storicamente stabilito che nessun altro mare nella storia della civiltà ha, più del Mediterraneo, strettamente e lungamente unito i popoli che abitano le sue sponde. E nessun altro ha segnato un confine così netto tra mondi diversi. E’ stato infatti attorno al “lago mediterraneo” che i Romani, grazie alle condizioni favorevoli alla navigazione a vela, anche senza bussola, hanno edificarono un impero destinato a durare più di mille anni. Ma è stato attraverso il Mediterraneo, lungo un fronte che andava da Gibilterra a San Giovanni d’Acri, che cristiani e musulmani si sono più tardi affrontati per quasi dieci secoli. Una duplice natura, dunque; una storica ambiguità, che è tuttora alla radice delle difficoltà che incontrano tutte le iniziative dell’Unione Europea nei confronti di questa parte del proprio “near abroad”. Verso nord e verso est l’ampliamento della UE è avvenuto senza difficoltà; perché le popolazioni che abitano quei territori, avendo fatto parte da sempre di immensi imperi a dominante germanica, o talora russa, erano prive di una forte identità storico- culturale, che li differenziasse dal “nucleo storico” dell’Europa. Verso il sud, invece, la situazione è del tutto differente. Il tentativo di creare uno spazio comune euro- mediterraneo, lanciato a Barcellona, è stato un evidente fallimento. Le ragioni non sono difficili da spiegare; e in verità, le cose non sarebbero potute andare altrimenti, poiché sulle sponde meridionali ed orientali del mediterraneo, da Tangeri ad Iskenderun, (come i Turchi chiamano Allesandretta), Bruxelles tentava di associare all’Europa paesi caratterizzati da una civiltà troppo diversa, al tempo stesso orgogliosa e sicura di sé, e profondamente umiliata da almeno due secoli. E poi, come aveva notato sin dall’inizio il politologo francese Rémy Leveau, il progetto non era altro che uno “specchietto per allodole”, finalizzato all’esclusivo interesse dell’Unione Europea, tanto che “le due richieste dei paesi della sponda meridionale del Mediterraneo – la libera circolazione delle persone e la possibilità di sfruttare il vantaggio comparato esistente in campo agricolo – sono state ignorate”. In realtà, un’integrazione dei paesi del Mediterraneo nel mercato europeo è tutt’altro che facile. Le economie delle due sponde sono troppo poco complementari tra loro, perché una semplice liberalizzazione degli scambi e del commercio possa innescare un meccanismo di unificazione. Flussi di una certa entità sono possibili dai paesi della sponda meridionale verso l’Europa solo nel settore dell’energia, cioè del petrolio e soprattutto del gas. Per il primo però esiste già un mercato unico mondiale, che ingloba i paesi europei, mentre per il secondo non si capisce come la creazione di una zona di libero scambio potrebbe incentivare i commerci, dato che esso necessita di una rete di condotte fisse e assai poco flessibili, che determinano una dipendenza reciproca a lungo termine tra venditori e acquirenti. Anche un eventuale sfruttamento delle grandi potenzialità della Libia e dell’Algeria nel campo dell’energia solare e – in minor misura – dell’eolico, che potrebbe essere deciso in futuro per rafforzare la posizione dell’Europa nel campo degli approvvigionamenti energetici, richiederebbe la creazione di un complesso sistema infrastrutturale e il varo di grandi progetti, per la cui realizzazione una semplice apertura dei mercati appare del tutto insufficiente.

64

All’offerta di prodotti energetici si aggiunge, nei paesi della sponda meridionale, l’offerta di risorse umane. Offerta interessante dal punto di vista economico per i paesi europei, dove il calo demografico, particolarmente acuto in Spagna e in Italia, potrebbe essere compensato dall’eccesso di manodopera del Maghreb e dell’Egitto. È evidente però che a questo tipo di flusso si oppongono vari ostacoli di ordine politico-culturale, già oggi molto seri, e che rischiano di aggravarsi ulteriormente nel prossimo futuro. In cambio, l’Europa potrebbe trasferire nei paesi della sponda meridionale del Mediterraneo tecnologia e, soprattutto, risorse finanziarie. O almeno, questo è ciò che siamo abituati a pensare. Ma i recenti sviluppi, come l’ascesa vertiginosa del prezzo del petrolio, non solo hanno trasformato molti paesi arabi e musulmani in esportatori di capitali – cioè in concorrenti del Vecchio Continente, con una disponibilità di capitali molto superiore – ma hanno anche arricchito la Libia e l’Algeria. Il che ha consentito al leader libico Gheddafi di respingere il progetto francese di “unione del mediterraneo” affermando sprezzantemente che i popoli della sponda sud "non sono né dei cani né dei morti fame, perché si getti loro un osso”. Non a caso Sarkozy gli ha offerto, come offre ormai sistematicamente, non già aiuti economici, bensì – suscitando un forte interesse – la tecnologia del nucleare civile, che i paesi islamici incontrano serie difficoltà di ordine politico a sviluppare in proprio, o ad ottenere da altra fonte. E che costituisce l’unico campo in cui l’Europa – o meglio uno dei suoi membri storici – ha veramente la possibilità di fare un’offerta che i “nouveax riches” dell’ex-Terzo Mondo difficilmente riescono a rifiutare. La complementarità economica delle due sponde del Mediterraneo appare insomma molto ridotta e perfino in declino, fattore questo che indebolisce fortemente l’unità della regione dal punto di vista commerciale – ossia proprio secondo il parametro che la UE considera cruciale in ogni processo di unificazione. Naturalmente, non si può negare che un’istituzionalizzazione della libertà di scambio potrebbe rendere più significativo il fenomeno della delocalizzazione industriale, in particolare nel campo dell’industria leggera, ad alta intensità di manodopera e a basso valore aggiunto. Questo tipo di partnership, che ha già dato buoni risultati in Tunisia, potrebbe essere esteso a tutti i paesi della sponda meridionale. S tratta però di una forma di integrazione economica che produce effetti percepiti negativamente nei paesi europei, e in ogni caso non darebbe risultati economici paragonabili a quelli del trasferimento di energia e di manodopera da Sud verso Nord. Tra utopia e demagogia Tutte le forme di integrazione fin qui menzionate agiscono lungo l’asse nord-sud, e mai in direzione sud-sud. Esse non possono quindi contribuire a ridurre la vera debolezza del Mediterraneo in quanto regione economica integrata, ossia l’assenza quasi totale di complementarità tra i vari paesi della coste asiatica e africana di questo mare, con l’unica eccezione di quella – forte, ma quasi del tutto inutile – tra Israele e i suoi ostili vicini. L’ambiente naturale, l’agricoltura, l’economia e perfino la demografia dei vari paesi islamici bagnati dal Mediterraneo sono infatti così simili tra loro, che la semplice eliminazione delle barriere commerciali non sarebbe sufficiente a produrre un’efficace divisione del lavoro, una forte integrazione economica e un aumento significativo degli scambi. Basta pensare che l’Algeria non è mai riuscita a realizzare una vera unità economica delle sue tre regioni, ognuna delle quali è composta da un porto per gli scambi commerciali con i paesi d’oltremare e da un hinterland montagnoso e desertico.

65

È il contrario di ciò che avviene sulla sponda opposta, dove le economie dei paesi europei appaiono sempre più integrate, sempre più specializzate, come è tipico dei paesi avanzati, con una divisione del lavoro sottile, che non riguarda più interi comparti dell’economia, ma beni e servizi specifici degli stessi comparti, o addirittura diverse varietà dello stesso prodotto. Nonostante la scarsa complementarità dei paesi del Mediterraneo e i continui conflitti che insorgono nei settori in cui tale complementarità esiste – quelli della manodopera e dell’energia – l’idea di associare in qualche modo il Mediterraneo al processo di integrazione europea persiste, soprattutto a Parigi, dove a volte si arriva a considerarla “la più importante di tutte”. Anche se si tratta – come ha detto il politologo Bertrand Badie – di una “pura utopia”, il mito dell’esistenza di un insieme geopolitico “mediterraneo” continua a essere coltivato con una tenacia che è difficile da spiegare, se non con l'inguaribile attaccamento francese alla più bolsa demagogia Ora, dato che il processo avviato a Barcellona alla metà degli anni Novanta non ha condotto ad alcun risultato, se non a quello di dimostrare che le condizioni per un’integrazione economica e commerciale dell’area semplicemente non esistono, ci si potrebbe chiedere quale scopo – e quale fondamento – possa avere il tentativo di rilanciare con tanto clamore l’idea di una comunità di interessi intorno al Mare nostrum. La risposta a tale domanda, più che legittima, è probabilmente d’ordine squisitamente politico, ed è collegata all’evoluzione del contesto mondiale dopo il 2001. L’Unione mediterranea auspicata dal presidente della Repubblica francese non prevede infatti la creazione di istituzioni simile a quelle che hanno accompagnato la formazione di un mercato comune europeo, ma l’organizzazione di summit periodici, sul modello del G8, il cui fine principale sarebbe quello di dare vita a un inquietante “sistema di sicurezza collettiva”. Sia come sia, il cancelliere tedesco Angela Merkel ha preso questo progetto abbastanza sul serio per opporvisi con fermezza, riuscendo a ridurre l’ispirazione “unilateralista” della Francia, coinvolgendovi non solo i paesi UE con affaccio sul Mediterraneo, ma tutti e 27. E ha fornito così un interessante esempio di quella stessa tattica che è stata usata contro l’unificazione europea: la tattica di annientare l’ispirazione originaria attraverso l’allargamento irragionevole del numero dei partecipanti. I timori della Germania, come quelli di moltri altri partners della Francia, vanno probabilmente al di là del semplice pericolo che l’apertura del Mediterraneo produca uno scollamento tra l’Europa meridionale e quella settentrionale, ma riguardano anche il rischio che la collaborazione con i paesi dell’altra sponda, unita alla crescente popolarità delle idee di “intervento umanitario” e di “sicurezza collettiva”, finisca per spingere gli europei a sostituirsi all’America in quella che Bush definì, cinque anni fa, “l’esportazione della democrazia” e che il Foreign Secretary britannico ha chiamato nel 2008 “the moral impulse... to spread democracy”. In un discorso tenuto a Tolone, in cui lanciò per la prima volta la sua proposta Nicolas Sarkozy ha elencato i campi nei quali l’Europa trarrebbe vantaggio da una più stretta collaborazione con i paesi dell’altra sponda: quello della “prosperità”, naturalmente, ma anche quelli della “identità” e della “sicurezza”. Non si parla quindi di un abbattimento generalizzato delle frontiere, tipico della globalizzazione, ma al contrario di un “progetto di civiltà”, imperniato sul Mediterraneo e contrapposto al mondo flat, prodotto dalla

66

globalizzazione, e appiattito sul modello americano di società. Rivestendo i colori di una “specificità mediterranea”, l’Europa potrebbe, secondo il presidente francese, ritrovare la capacità di “far sentire nuovamente il suo messaggio a tutti gli uomini”. I vantaggi che l’Europa trarrebbe da una simile partnership sono dunque evidenti e appartengono in gran parte alla sfera politica. Qualsiasi osservatore del sud potrebbe però facilmente obiettare che non è stato ancora nulla a proposito di quel che ci guadagnerebbero i paesi della sponda meridionale aprendosi all’Europa, o meglio aprendosi ancora più di quanto non siano già stati obbligati a fare da oltre due secoli, a partire almeno dalla spedizione in Egitto di Napoleone Buonaparte. Il problema è che l’Europa non sembra avere più molto da offrire ai paesi dell’Africa settentrionale, al di fuori del campo delle idee e, più esattamente, delle idee di “modernità”, di “nazione” e di “democrazia”. Ma Nicolas Sarkozy ha preferito sorvolare su questo punto, dato che si tratta di idee ormai logore nei rapporti tra Nord e Sud. La prima – l’idea della modernizzazione e della “missione di civiltà” – è stata infatti già giocata in tentare di convincere i popoli non europei dei benefici del dominio coloniale. La seconda venne spesa al momento della decolonizzazione, quando si è riusciti ad imporre l’idea europea di “nazione” per tenere in vita entità politico-terroriali corrispondenti ai confini amministrativi dell’epoca imperiale, e che avevano poco a che fare con le società africane e asiatiche. La terza, la democrazia, ha già fatto oggetto di un difficile tentativo di esportazione dopo l’11 settembre, con il “compimento” della missione irachena. Se il presidente francese si è astenuto dal precisare i vantaggi che i nostri vicini meridionali dovrebbero trarre da questa nuova partnership, lo ha fatto perché sapeva che nessuna di queste tre carte suscita più grandi consensi sull’altra sponda del Mediterraneo. Ha preferito così dare al suo secondo discorso – pronunciato a Tangeri – una tono più “lirico” che politico, esponendosi all’accusa di riempirsi la bocca di una retorica priva di contenuto. Il senso politico di un tentativo Tuttavia, i discorsi su una possibile Unione del Mediterraneo non sono semplici parole di circostanza, né si tratta solo di un escamotage per rendere meno amaro un eventuale rifiuto all’ingresso di Ankara nella UE, anche perché è ormai chiaro che non sarà la Francia a bloccare l’accesso della Turchia alle istituzioni di un continente cui essa non appartiene. Al contrario, nell’iniziativa mediterranea di Nicolas Sarkozy si può scorgere un disegno politico di portata molto più ampia, che riguarderebbe più lo scacchiere internazionale che la situazione europea. Affermare il concetto di unità culturale – e addirittura di “civiltà unitaria” – dei paesi rivieraschi del Mare nostrum significa infatti proporre l’idea di una regione che può esistere solo in quanto spazio di pluralismo e di tolleranza religiosa, politica e culturale; uno spazio da cui siano banditi i rifiuti reciproci, come quelli di cui sono attualmente vittime sia lo Stato di Israele che la Palestina e – sia pure molto meno gravemente – la Repubblica di Cipro. Accettare il principio dell’unità di questa regione, quali che siano i fattori di tale unità, vuol dire dunque prendere posizione, sulla scena globale, al fianco del dialogo e della cooperazione tra le civiltà. Proclamarsi mediterraneo significa infatti contraddire automaticamente un’altra idea: quella avanzata non molti anni fa da Osama bin Laden in un celebre video, dove affermava che l’origine di tutte le recenti disgrazie del mondo musulmano era stata l’abolizione del califfato. Da questa formula discendeva, anche se in

67

modo non esplicito, la proposta di una nuova entità politica che inglobasse tutti i paesi musulmani: una “regione” omogenea sul piano culturale e religioso che avrebbe anche, tra le altre, una frontiera mediterranea. Il Mediterraneo non unirebbe più i popoli che vi si affacciano, ma diventerebbe un fronte di guerra, una sorta di no man’s land tra trincee contrapposte. Come è già stato per secoli, dall’espansione araba alla battaglia di Lepanto e oltre, questo mare diventerebbe, secondo questa visione, uno dei teatri – forse, il principale – dello scontro delle civiltà. Considerare il Mediterraneo come un’entità geopolitica a sé stante, riconoscersi in essa, affermare la prevalenza dei fattori di unità su quelli di diversità, come le religioni, rientra in un’operazione politica di ampia portata, che punta non solo a contrapporsi a tutti coloro che vogliono vedere il mondo musulmano come entità geopolitica pressoché indifferenziata al proprio interno, estesa dal Marocco alle Filippine meridionali, ma anche a contraddire l’idea che il mondo islamico costituisca un’entità geopolitica completamente “altra” e fatalmente ostile all’Occidente. La visione di bin Laden, la sua rivendicazione, appena velata, della ricostituzione del califfato, non è infatti l’unica visione del futuro mondiale che viene ad esse in radicale contraddizione con l’idea di un Mediterraneo unito al di là delle differenze di religione. Alla stessa categoria appartengono infatti sia l’idea huntingtoniana di un mondo frammentato per sempre in “aree culturali” non più conciliabili, sia il concetto geostrategico di “Grande Medioriente”. Tale concetto, che, come ha scritto il quotidiano francese Le Monde, “non corrisponde ad alcun insieme geopolitico conosciuto”, viene impiegato, soprattutto dagli Americani, per indicare l’insieme dei paesi musulmani, con un approccio che finisce, in questo caso, per essere perfettamente speculare a quello di bin Laden, con l’unica differenza che la ritrovata unità della umma islamica è vista da quest’ultimo come un mezzo che permetterebbe ai popoli che la compongono – arabi, persiani, turanici, malesi – di riconquistare una posizione di pari dignità con i popoli occidentali sulla scena mondiale. Sul versante opposto, ma in modo esattamente uguale e contrario, l’idea del grande Medioriente considera questo stesso mondo musulmano un blocco di paesi che, visto da ovest, non può che presentarsi come “altro”, un insieme di nazioni arretrate e ostili che avrebbero bisogno di un’infusione dei “valori superiori” dell’Occidente per evolversi ed entrare a far parte del mondo “moderno”: bisogno che l’America si è incaricata finora di soddisfare, ma con una preferenza per i mezzi militari. Dal punto di vista dell’Occidente nel suo insieme, l’idea di un’entità euro- mediterranea corrisponde dunque a una logica geopolitica audace, che propone un’alternativa meno cupa e violenta a un importante gruppo di paesi musulmani. Si tratta di un’offerta interessante, che il presidente francese ha avanzato con grande abilità tattica, scegliendo come sede per presentarla al mondo islamico il regno del Marocco, ossia un paese musulmano che non ha mai fatto parte del califfato e la cui famiglia reale, che si vanta di discendere dal Profeta, non ha mai, pur essendo legittimata a farlo, rivendicato la “successione” (Kalifa significa infatti “successore”). Nicolas Sarkozy ha dato quindi prova di grande saggezza politica riservando la prima esposizione pubblica del suo progetto a un uditorio che aveva, e ha, buone ragioni per accogliere il suo discorso più favorevolmente degli altri popoli non europei del bacino del Mediterraneo. Tuttavia, è l’Europa il soggetto politico più interessato a questo tentativo, che consentirebbe di sottrarre una parte importante del mondo musulmano, e una parte importante dell’Europa continentale, a quella logica dei blocchi totalmente e

68

reciprocamente ostili che rischia di affermarsi a causa degli errori dei paesi anglosassoni. Se infatti i “sogni a occhi aperti” uguali e contrari di Hutington e di bin Laden dovessero trovare conferma nella realtà dei rapporti geopolitici, diventerebbe inevitabile lo scontro tra un Occidente sconcertato per il fallimento di Bush in Iraq e un mondo islamico ricompattato intorno al mito del “martire” vittorioso: due eventualità che sono già più di semplici rischi. E i paesi europei, soprattutto quelli dell’Europa meridionale, si troverebbero allora in prima linea, esposti in pieno agli effetti collaterali di un clash che, per la sua natura asimmetrica, produrrebbe giganteschi fenomeni di instabilità politica, di insicurezza generale, di spostamenti di popolazioni e di terrorismo. Ma se l’unità del Mediterraneo è allo stesso tempo così importante dal punto di vista politico e così improbabile sul piano economico e commerciale, su che cosa si può puntare per far sì che i popoli del Mediterraneo si riconoscano come vicini, residenti sulle sponde di un unico “lago”, uniti da interessi comuni, al di là delle differenze religiose e delle tensioni politiche globali? Perché si riconoscano come un’entità regionale, multiconfessionale e multiculturale, in un mondo sempre più attraversato da barriere etniche, religiose, settarie e tribali? Si tratta di un progetto possibile o i “megatrends” dell’economia globale porteranno inevitabilmente alla cancellazione dell’identità mediterranea, come sta già avvenendo con le identità nazionali? Gli elementi di unità La risposta a tale domanda si può trovare probabilmente negli elementi di unità che appaiono evidenti a chiunque si soffermi a esaminare l’evoluzione a medio termine del mondo mediterraneo. Si tratta di elementi legati all’ambiente naturale. Di essi si dovrà tener conto in misura sempre maggiore, perché sono i soli in grado di rafforzare la coscienza dell’unità della regione tra i popoli rivieraschi e di indurli a distinguere il loro comune destino rispetto alle altre “macroregioni” del mondo. Al di là delle divisioni prodotte dalla storia degli ultimi mille anni e più, la natura pone oggi i paesi del Mediterraneo di fronte agli stessi problemi, che li condurranno nel prossimo futuro a vivere una situazione sempre più simile. Dal punto di vista dell’ambiente, i cui fenomeni, come quello del riscaldamento, assumono spesso una portata globale, la zona mediterranea si presenta infatti al contrario come una “regione naturale” abbastanza differenziata rispetto al resto del mondo e alle aree circostanti, dotata di caratteristiche unitarie che diventano sempre più evidenti e che richiedono interventi specifici e comuni. Come regione naturale, il bacino del Mediterraneo è nettamente delimitato, e non comprende tutte quelle zone che, per motivi diversi, i politici vorrebbero aggiungere: non ne fanno parte né il deserto oceanico della Mauritania, né un paese prettamente atlantico come né il Portogallo, né le masse continentali dei Balcani e dell’Anatolia, né i deserti petroliferi del Mar Rosso e del Golfo Persico. Precisarne i confini non è superfluo: al contrario, è fondamentale per impedire che la sua unità venga diluita in un insieme incoerente. Come concetto politico, il Mediterraneo soffre infatti di un fenomeno simile a quello che ha portato a un ampliamento smisurato della UE, e che l’ha privata di una parte considerevole del suo significato e della sua forza politica. In Europa, tale fenomeno è stato causato dall’iniziativa delle forze internazionali che vedevano e vedono tuttora l’Europa come un “altro da sé”: non come un nuovo soggetto soprannazionale, bensì

69

come un oggetto della propria azione politico-diplomatica di impronta nazionalista. Purtroppo, un atteggiamento analogo esiste anche nei confronti del Mediterraneo, a volta da parte proprio degli stessi paesi che hanno fatto di tutto per appannare il più possibile i confini dell’Europa. A questi si sono aggiunti ultimamente (per non parlare dei movimenti islamisti transnazionali) alcuni paesi petroliferi del Golfo, che considerano gran parte del Mediterraneo come una provincia di un’entità geopolitica più ampia, di cui essi stessi rappresenterebbero il centro, e su cui vorrebbero esercitare la propria influenza: religiosa, nel caso dell’Arabia Saudita, politico- militare, in quello dell’Iran, o finanziaria, in quello degli Emirati. Mare nostrum ? Nei suoi limiti naturali, il bacino del Mediterraneo si compone evidentemente di una parte marittima e di una parte terrestre, caratterizzata da una morfologia molto montagnosa. Il Mediterraneo si potrebbe definire come un mare chiuso tra le montagne e attorniato in gran parte da zone aride e semiaride, dove avanzano il Sahel e il deserto. E questo non solo sulla costa africana e a est della Mezzaluna fertile, ma anche nella parte centrale dell’Anatolia e nella meseta spagnola. Nell’area mediterranea, così delimitata dalla natura, che i geografi chiamano a volte “antideserto”, il mare svolge una funzione climatica fondamentale, esercitando un’azione di moderazione delle temperature e di garanzia delle precipitazioni di un’ampia fascia costiera dalle caratteristiche omogenee. E qui, le caratteristiche climatiche hanno imposto l’adozione di forme di paesaggio e di habitat, di metodi di coltivazione e di stili di vita tradizionalmente molto simili. In poche parole, l’ambiente rimane, come è stato per secoli, il fattore più importante anche dell’unità culturale del Mediterraneo, il testimone stesso dell’unità della regione, e al tempo stesso è il campo in cui si manifesta con maggiore evidenza e violenza la minaccia cui si trovano esposte oggi tutte le società umane: la minaccia del mutamento climatico e del riscaldamento globale. Il degrado ambientale fa del Mediterraneo e delle zone costiere che lo circondano un campo di intervento e di ricerca che non può – di tutta evidenza – essere limitato ai singoli paesi, e tanto meno ai soli paesi della sponda settentrionale. La sopravvivenza di ciò che costituisce l’identità del Mediterraneo è minacciata infatti dalla desertificazione della costa meridionale e orientale, ma anche di gran parte della Spagna, del centro della Sardegna e dell’arcipelago greco. La qualità della vita mediterranea nel suo complesso verrà irrimediabilmente compromessa se si permetterà al deserto di inghiottire le zone più fragili o se non si porrà mano a un’azione negoziata per la protezione della massa idrica e delle sue risorse. È il mare il bene veramente comune a tutti. Ed è soprattutto nella parte propriamente marina dello spazio mediterraneo che occorre realizzare una gestione delle risorse ambientali non solo analoga, ma comune. È il caso, per esempio, degli scarichi inquinanti, oggi completamente privi di controllo, ma anche della difesa delle riserve di pesce, sfruttate finora in maniera distruttiva, a vantaggio soprattutto di un paese extramediterraneo: il Giappone, il maggiore consumatore mondiale di pesce. È anche il caso del transito delle petroliere dirette verso nazioni non mediterranee, divenuto particolarmente minaccioso da quando Washington ha deciso, in competizione con la Russia, di trasformare la Turchia nel terminal petrolifero dell’Asia centrale. Questa forma di traffico navale deve essere radicalmente ridotta e disciplinata.

70

La conservazione di questa regione e dei suoi equilibri, dove si manifestano già inquietanti segnali di tropicalizzazione del regime delle piogge, è dunque una priorità assoluta, che obbliga i paesi rivieraschi a prendere al più presto in considerazione la creazione di un’autorità regionale incaricata di gestire in modo razionale le risorse della massa idrica e di imporre forme accettabili di sviluppo alle terre emerse. In sostanza, i limiti ambientali rendono ormai indispensabili forme di coordinamento politico e una maggiore omogeneità socio-economica. Le caratteristiche dell’ambiente mediterraneo fanno sì che i modelli di produzione e di consumo che potranno essere adottate sulle due sponde del Mediterraneo siano molto simili tra lo, e molto più austeri di quelli che il resto dell’Europa può permettersi, per non parlare del modello americano, divoratore di spazio, di risorse e di energia. Una grande complementarità euro-mediterranea indubbiamente esiste, dunque. Ma bisogna non ostinarci a ricercarla nel campo dei commerci, e prenderla in considerazione assai attenta ne campo della sicurezza. Ed è ben chiaro che essa richiede soprattutto grandi progetti e politiche coordinate tra tutti i paesi che si affacciano su quello che fu in passato il Mare nostrum, nonché istituzioni comuni di pianificazione e controllo alla frontiera marittima. Ciò è indispensabile perché flussi migratori incontrollati non portino alla nascita, nelle opinioni pubbliche europee, di un distorto senso della propria identità e della necessità di riaffermarla di fronte agli “estranei”, che rischia di degenerare in una generalizzata ostilità nei confronti dell’immigrazione, e di conseguenza nella diffusione tra coloro che sono già immigrati del sentimento di essere quasi ostaggi in un paese nemico. I tentativi di “forzare” gli ingressi Ogni riflessione sul rafforzamento – indispensabile – di fronte agli ultimi sviluppi della globalizzazione – della identità europea, ma anche ma anche di quella nazionale – che sposi esigenze economiche ed esigenze di difesa, politiche di integrazione e politiche di sicurezza deve insomma prendere in attenta considerazione le spinose questioni della concessione del diritto d'asilo, e del respingimento dei migranti clandestini; tutte e due nei loro aspetti giuridici, etici e politici. In questo quadro il respingimento alle frontiere va dapprima analizzato in quanto scelta finalizzata alla politica di prevenzione del reato di immigrazione clandestina. Successivamente esso verrà visto come prassi di attuazione e legislativa e operativa dei vari governi che si sono succeduti al potere nell'ultimo decennio, e delle critiche di cui la loro azione è stata oggetto. La questione dei respingimenti è diventata – nel primo decennio del nuovo secolo – una questione centrale per i paesi verso i quali si dirigono i flussi migratori. Ciò non è dovuto soltanto al fatto che, con l'esaurimento di alcuni dei canali regolari di esodo dai paesi con eccesso di popolazione verso quelli che, nei decenni precedenti avevano forte bisogno di importare forza lavoro, i tentativi di “forzare” l'ingresso dei paesi di destinazione si sono moltiplicati, scegliendo anche modi nuovi, e spesso molto rischiosi. A questi fenomeni si aggiunge il fatto che, a partire dal Settembre 2001 si è diffuso – in parte a ragione, in parte a torto, ma sempre in maniera assai forte – il timore che alla folla di disperati che cerca in un paese diverso da quello che li ha visti nascere una possibilità di vita più evoluta e meno povera si mescolassero fanatici decisi ad emulare, anche a prezzo della vita, le gesta dei terroristi che erano giunti abbattere le Torri Gemelle di New

71

York. Questo timore, contrariamente a quello che pensa l'opinione pubblica era – e rimane – particolarmente vivo e giustificato in alcuni paesi islamici grandi produttori di petrolio ma desertici e insufficientemente popolati, che sono stati in passato i protagonisti delle cosiddette “migrazioni sud-sud”, e dove la forza lavoro immigrata costituisce una parte importantissima, e talora largamente maggioritaria, della popolazione. Politicamente ed economicamente legati all'Occidente, ed in particolare a gli Stati Uniti, questi paesi hanno – dopo l'Undici Settembre – fortemente ristretto e sottoposto a severi controlli i flussi migratori, spingendo così i migranti a cercare destinazioni diverse, in particolare nei paesi occidentali. A differenza dei paesi di destinazione delle migrazioni Sud-Sud, questi ultimi paesi hanno una struttura politica ed economica “aperta”, che mal si adatta ad una rigida politica di controllo delle entrate e delle uscite. Troppo grande sarebbe il prezzo che sarebbe pagato da “sistemi-paese” come l'Italia, la Gran Bretagna, il Canadà o la Francia se i controlli su persone e merci in entrata ed uscita fossero condotti con il rigore al limite della paranoia con cui essi sono condotti in paesi come l'Arabia Saudita, Israele o gli Stati Uniti. Indispensabile diventa perciò una strategia di “filtraggio” dei flussi umani che inevitabilmente si dirigono verso il territorio nazionale, e quindi di reperimento e di respingimento delle persone considerate pericolose, politicamente o semplicemente per un comportamento criminale (attuale o potenziale), o anche semplicemente prive dei requisiti legali necessari per entrare nel paese. E opportuno tuttavia mettere in chiaro che le due categorie – quella dei criminali e quella degli immigrati irregolari – e non coincidono, anche se l'immigrazione clandestina viene considerata essa stessa un reato. La lotta all'immigrazione clandestina non è la stessa cosa che la lotta alla criminalità degli stranieri, o almeno che la lotta alla grande criminalità. Né il problema è, come si dice comunemente, anche da parte di studiosi da cui ci si potrebbe aspettare un'analisi più raffinata, 20

, che tra i clandestini “si nascondono criminali”. Il problema è che, la condizione di illegalità in cui si viene a trovare chi riesce ad entrare clandestinamente in un paese in cui non avrebbe diritto ad essere presente, lo porta inevitabilmente a compiere tutta una serie di altre violazioni delle regole, se non altro per non essere scoperto e, più spesso, semplicemente per procurarsi i mezzi di sussistenza. Ed anche se cerca di procurarseli onestamente, con un lavoro, l'immigrato in posizione irregolare è inevitabilmente costretto ad affidarsi a datori di lavoro che ne approfittano economicamente e lo spingono a nuove violazione della legge.

Ma la delinquenza organizzata, e le reti terroristiche non hanno molto a che fare con questo tipo di immigrati. Proprio per commettere atti criminali molto più gravi, gli esponenti di queste strutture organizzate si dotano di documenti – talora falsificati – che li mettono al riparo dal rischio che un semplice controllo mandi in fumo i loro progetti. La lotta alla clandestinità può dunque favorire le politiche di “tolleranza zero” verso la piccola criminalità, ma non può sostituirsi alla difesa contro minacce più gravi, se non nel senso di combattere la creazione di un clima di illegalità diffusa in cui il terrorista o il grande criminale nuotano “come un pesce nell'acqua”. In Italia, tuttavia, i problemi legati alla minaccia terroristica si sono sinora posti in maniera molto meno grave che negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Spagna e in Francia.,

20 Antonio Cassese, Diritti umani e sicurezza, “Repubblica”, 12 maggio 2009

72

mentre sono più gravi i problemi legati alla piccola criminalità – che ha però talora portato a delitti assai gravi contro la persona – e all'illegalità diffusa, anche tra gli immigrati. In particolare, nei primi anni del decennio, assai visibile è stata la criminalità albanese, che non molti anni dopo sembra essere pressoché scomparsa, sostituita da una criminalità romena, altrettanto violenta, e che sembra anche più difficile combattere, essendo in gran parte legata a fattori culturali quali l'orgoglio di non essere inseriti nella società che si riscontra talora presso la minoranza rom. A differenza degli immigrati di origine albanese, gli immigrati provenienti dalla Romania sono ormai a tutti gli effetti cittadini comunitari, il che costringe a forme controllo che non possono essere fatto se non molto parzialmente attraverso il filtraggio alle frontiere ed il respingimento, non solo degli elementi criminali ma anche di quelli che prolungano illegalmente la loro permanenza in Italia. La questione dei cittadini comunitari Il problema posto dai Rumeni (e in misura molto minore dai Bulgari) del nostro paese, e soprattutto dalla nutrita componente Rom presente al loro interno, ha dimostrato all’opinione pubblica italiana come la Commissione Europea presieduta da Romano Prodi sia stata troppo frettolosa nell’includere a pieno titolo nella Comunità paesi troppo diversi da quelli del “nucleo storico”. E ciò soltanto per compiacere gli Americani, che volevano marcare il più fortemente possibile il distacco degli ex-paesi satelliti dalla Russia. Tuttavia, contando sulle formidabili capacità di integrazione della società italiana, nessuno o puasi si era posto il problema di quali misure potessero essere prese per correggerne almeno gli aspetti più pesantemente negativi.- dopo le polemiche suscitate dalle espulsioni dei Rom dalla Francia, un recente incontro a Parigi di alcuni ministri degli interni ha evocato, tra gli altri, anche il tema dell’espulsione di cittadini UE. Oggi, in base alla a Direttiva europea 21

i cittadini di Stati membri che vogliano trattenersi in un altro paese membro per più di tre mesi, debbono dimostrare di disporre di un’assicurazione sanitaria e di risorse economiche sufficienti per il sostentamento proprio e dei famigliari, in modo da non costituire un carico per il welfare dello Stato ospitante. Ma non è chiaro cosa possano fare le autorità italiane nei confronti di questi che vengono detti in gergo burocratico europeo overstayers e che, quando sono extra-comunitari, passano automaticamente nella categoria degli immigrati irregolari, come quelli entrati clandestinamente. Le misure di allontanamento, che limitano quindi la libertà di circolazione dei cittadini UE, sono infatti disciplinate dall’art. 27, che stabilisce che l'allontanamento può essere motivato da minacce all’ordine pubblico, alla pubblica sicurezza o alla sanità pubblica, ma tali motivi non possono essere invocati per ragioni semplicemente economiche.

L'assai dura campagna di espulsioni condotta contro i Rom dal Presidente francese Sarkozy ha perciò posto il problema dell'inesistenza di una sanzione per i cittadini di altri paesi della comunità che eccedono il periodo consentito dalla legge, cioè il problema di dare efficacia ad una norma che, npn prevedendo una penalità, è condannata a restare inefficace o, peggio, a creare l'abitudine alla non osservanza delle legge. Stabilire una penalità come l'allontamento poi, nel caso dei Rom presenti in Francia, può rappresentare 21 Direttiva UE 2004/38 art.7),

73

addirittura un miglioramento per questa particoare minoranza, dato che da sempre esiste, a Parigi, presso il Ministero dell'Interno, una Direzione Generale per la Criminalità Itinerante che, di fatto, tende a scoraggiare il soggiorno dei nomadi sul territorio della République con misure di ogni tipo, come ad esempio controlli di identità ripetuti anche dieci o più volte in un giorno, continui sgomberi forzati di campi abusivi e regolari, in pratica con una sorta di persecuzione. Una regolamentazione europea che preveda l'allontanamento verso i paesi d'origine avrebbe almeno il vantaggio di seguire procedure certe e controllabili. Il problema sollevato da Parigi è stato dunque quello di dare al paese ospitante ciò di cui esso oggi non dispone, cioè un efficace complesso di norme che regolino la sanzione e, al limite, l' allontanamento di coloro che non rispettano le condizioni poste dalla direttiva 2004/38 all’art.7 ma non rientrano nei motivi indicati dall’art. 27. Infatti, l’eventuale utilizzazione delle strutture mediche dei sistemi nazionali di welfare a carico degli stati nazionali, che è frequentissima da parte degli overstayers, che raramente dispongono di risorse proprie non è sufficiente per far scattare le misure previste dall'art. 27, che prevede che tale abuso vada valutato in congiunzione di altri elementi (durata del soggiorno, legami famigliari, integrazione, etc.) e non può di per sé costituire motivo di automatica espulsione. L’introduzione di espulsioni più semplici per i cittadini UE non è peraltro auspicata solo da chi si preoccupa della tenuta della spesa sanitaria, ma anche da chi è favorevole alla libera circolazione, e teme che alla fine questo diritto risulti inficiato da una ribellione dei contribuenti, e di coloro che ne hanno diritto e che vedono i tempi dell'assistenza enormemente dilatati dalla impossibilità per il personale di rifiutarla a coloro che, estremamente indigenti, non avrebbero peraltro titolo a a riceverla. E' possibile infatti che si abbia in un futuro non molto lontano una reazione di rigetto ed una rimessa in discussione dei Trattati, anche a causa degli abusi e dell’opportunismo di pochi. Non solo in Inghilterra, ma anche nei Paesi Bassi una tendenza di questa natura si sta già manifestando; e per contrastarla ci vorrebbero regole più chiare e severe, capaci di scoraggiare politiche restrittive dei governi nei confronti di stranieri cittadini dell’UE. Le ragioni della preoccupazione di taluni paesi membri non bastano, tuttavia, a giustificare la parzialità di modifiche normative che si limiterebbero al potenziamento degli strumenti sanzionatori a disposizione degli Stati, senza contemporaneamente ribadire e rafforzare il carattere peculiare della cittadinanza europea. Si correrebbe infatti il rischio di svuotare la portata innovativa della cittadinanza UE e la sua funzione di volano dell’integrazione – sotto profili sostanziali – tramite la circolazione, quanto più libera e semplice possibile, dei cittadini all’interno dell’Unione. Anche la Corte di giustizia ha sostenuto che, in virtù del principio dell’effetto utile, al diritto alla libera circolazione introdotto con la cittadinanza europea deve riconoscersi una portata che vada al di là di quanto sancito dalla normativa preesistente, che garantiva tale diritto ai lavoratori, imponendo requisiti ben più stringenti per gli stranieri “inattivi”. E se certo alcuni limiti possono porsi, essi non devono contrastare con i principi di proporzionalità e ragionevolezza. I diritti che si accompagnano alla cittadinanza UE sono, come noto, assai limitati,

74

anche perché essa riveste tuttora una funzione ancillare rispetto alle cittadinanze nazionali, di cui segue le regole per l’acquisizione. Sarebbe ipotizzabile, volendo essere europeisti sino in fondo, aggiungere alla cittadinanza UE una dimensione socio-economica? Sono sotto gli occhi di tutti le marcate e perduranti differenze tra i sistemi di welfare nazionali, in termini sia di spesa pubblica che di preferenze dei cittadini, e la forte gelosia per le rispettive politiche fiscali di Stati ormai privati della leva monetaria (ovviamente, all'interno dell’eurozona). Nondimeno, in un’Unione che riconosce, complice la crisi, la necessità di un vero coordinamento delle politiche economiche, anche una riflessione di tale genere può forse non suonare come un’eresia, ma come il segno che un’epoca di indiscriminato abbattimento delle frontiere è finita. Il filtraggio alle frontiere: una necessità generale In Italia, contrariamente a ciò di cui è convinta gran parte dell'opinione pubblica italiana, le frontiere più importanti sotto il profilo del filtraggio e del respingimento non sono, nel nostro paese, le frontiere marittime, bensì quelle terrestri ed aeree. E’ infatti l'aeroporto milanese di Malpensa – ha potuto dichiarare il Ministro degli Interni Roberto Maroni ai primi di Luglio 2010, presentando uno studio promosso dalla Sea, la società che gestisce Linate e Malpensa, su 'Immigrazione irregolare: pratiche e buone prassi dei controlli alle frontiere aeree'' – “la prima frontiera dell’immigrazione clandestina, avendo superato Lampedusa, che e' uscita dal circuito del traffico di esseri umani. Nell'isola infatti i flussi di clandestini dalla Libia si sono interrotti e nei primi mesi del 2010 non e' praticamente arrivato nessuno". Sono state, come è noto, queste le conseguenze dell'Accordo Italia Libia. Secondo il ministro, maggiori controlli e respingimenti negli aeroporti consentono di contrastare meglio l'immigrazione, “ma anche di avere strumenti per fermare quella che e' l'insidia maggiore che può esserci come il terrorismo internazionale". Lo studio ha messo in evidenza il ruolo positivo svolto a vantaggio degli altri paesi della UE dalla strategia di filtraggio e di respingimenti messa in atto alla Malpensa. Si tratta di un'opera assai complessa perché le reti criminali hanno identificato rotte particolari che facilitano il superamento dei controlli e le diverse politiche in materia di visti, così come l'esistenza di in grado di gestire l'organizzazione del viaggio, siano le principali variabili da cui dipendono i flussi migratori. L'Italia e' un Paese di destinazione e di transito verso l'Europa centrale e settentrionale e l'aeroporto di Malpensa, così come gli altri grandi aeroporti europei, e' uno dei nodi principali dell'immigrazione per via aerea in Europa, particolarmente favorito per la vicinanza alla Svizzera e alla Francia. Naturalmente, i viaggi irregolari per via aerea sono non poco costosi e difficili da organizzare. In media servono da 10mila ai 15mila euro, per un servizio illecito, che chi tenta di penetrare illegalmente nel nostro paese accetta di pagare, perché se il costo è elevato, il viaggio è molto più sicuro che non via mare, dove si verificano sistematicamente incidenti e tragedie che, quando non si consumano nel silenzio dei naufragi, tante immagini drammatiche forniscono alle catene televisive e tanta emozione suscitano nell'opinione pubblica. All'aeroporto di Malpensa dal 2006 al 2009 si e' tuttavia assistito ad una forte diminuzione dei respingimenti, passati dai 3.986 casi del 2006 ai 2.750 del 2007 fino al 784 casi nel 2009. Ma ciò non è stato dovuto ad un abbassamento del livello di guardia, bensì alla ristrutturazione dell'Alitalia, che ha portato ad una riduzione di voli intercontinentali che usano quell'aeroporto.

75

I rapporti trans-mediterranei e i respingimenti in mare La questione dei respingimenti nasce come conseguenza della confusa politica estera e migratoria del Governo Prodi: una politica senza grande fantasia e sostanzialmente bloccata dalle divergenze che su questo tema dividevano le forze politiche assai riunite nella sua coalizione di governo. Da un lato, infatti, il Governo era strettamente dipendente da forze progressiste molto sensibili alle difficili condizioni in cui sempre si trovano i lavoratori migranti, dall'altro condizionato dalla linea del Ministro dell'Interno, Giuliano Amato, a sua volta fortemente influenzato dalle posizioni dei neo-conservatori americani. Queste contraddizioni, già determinanti nella sua esperienza di governo alla fine degli anni novanta, che dovevano segnarne la breve vita e concorrere alla prematura fine della Legislatura, risultavano evidenti anche sulla questione legale all'immigrazione clandestina. Il programma del Governo Prodi prevedeva una profonda riforma della politica migratoria italiana, ma, all'inizio del 2008, il disfacimento della maggioranza e la crisi di governo ha bloccato la «corsia preferenziale» per la riforma delle leggi sull’immigrazione, che il ministro per la solidarietà sociale Paolo Ferrero aveva annunciato a dicembre, dopo avere inghiottito quello che per lui era un autentico “rospo”, cioè il cosiddetto “pacchetto sicurezza”, varato alla fine dell'anno precedente dal ministro dell’interno Giuliano Amato e che conteneva norme considerate da una importante componente della maggioranza come patentemente in contrasto con il dettato costituzionale e con le direttive comunitarie sulla libera circolazione dei cittadini Ue. Prodi, obbligato da impegni assunti in sede europea, e pressato da Bruxelles, si era in genere limitato ad applicare le direttive comunitarie in materia di asilo e protezione internazionale. L'azione di politica migratoria del suo Governo aveva invece visto un risvolto internazionale ad opera del Ministro dell'Interno, con un ruolo determinante del capo di gabinetto di Amato, Gianni De Gennaro, e della sottosegretaria Lucidi, più volte inviata in missione a Tripoli. Tale azione, più che in una linea del governo della Repubblica si inseriva nel ruolo che l'Italia ha sempre avuto nel quadro dell'alleanza con gli Stati Uniti, un ruolo di “scout” – e talora di “battitore libero” che poteva essere sempre sconfessato in caso di insuccesso – nei confronti dei paesi che con Washington avevano rapporti difficili o di ostilità. Questa azione di Amato aveva portato all'accordo con la Libia del 29 dicembre 2007, la cui portata può però essere valutata solo se lo si inquadra sia nel quadro generale dei rapporti tra le due sponde, sia nella complessità dei rapporti italo-libici, che rimangono centrali per la stabilizzazione della situazione dei flussi migratori via mare, e quindi per la questione dei respingimenti. I rapporti tra le due sponde Una intensa ed estesa azione di sorveglianza e di intercettazione in Mediterraneo costituisce il più efficiente strumento di lotta contro l'immigrazione irregolare, la tratta degli esseri umani, il contrabbando, la vendita clandestina di armi, e di tutti gli altri traffici assimilabili e, spesso, collegati che si svolgono attraverso le frontiere. Perciò tutte le marine europee dedicano attenzione sempre crescente alla regione mediterranea, dove vengono dispiegate crescenti quantitativi di mezzi e di forze di sicurezza semi-militari destinate alla prevenzione dell'immigrazione irregolare per via marittima.

76

Le forze navali della NATO nell'ultimo decennio, hanno partecipato anch'esse attivamente alle operazioni di controllo dell'immigrazione clandestina in Mediterraneo. Nel 2002, la flotta mediterranea della NATO ha spostato il baricentro delle proprie operazioni verso la parte orientale del Mediterraneo, nel contesto dell'operazione Endeavour. Si tratta di una missione il cui obiettivo ufficiale era quello di combattere il terrorismo, ossessione propagandistica del governo americano durante gli anni di Bush e di Cheney. In realtà, nella più realistica visione degli interessi dell'Occidente che è tipica dei militari, riguardava anche altri obiettivi di grande momento, come la prevenzione dell'immigrazione irregolare, il traffico di armi e la tratta degli essere umani nel bacino mediterraneo. Un risultato di grande importanza, forse il più importante ottenuto in questi anni grazie all'azione congiunta nelle acque del Mediterraneo è la cooperazione tra servizi governativi dei paesi del nord e del sud del Mediterraneo. Negli ultimi anni questa si è infatti assai consolidata, dando vita a tutta una serie di accordi e di direttive dell'Unione europea sulla gestione dell'immigrazione irregolare. E l'Unione ha preso ad esercitare forti pressioni per ottenere che i paesi dell'Europa meridionale affrontassero il problema in un modo più deciso dell'immigrazione illegale. Ma molto resta ancora da fare, perché 9 la normativa comunitaria sulla gestione “dell'immigrazione legale è ancora allo stato embrionale. Nel primo decennio del nuovo secolo, che – per quanto è dato prevedere – sarà caratterizzato da una costante pressione demografica della sponda sud del Mediterraneo su quella Nord, gli Stati membri dell'Unione europea hanno incentrato la loro azione – e concentrato la loro attenzione – sul perseguimento della sicurezza interna e sulla giustizia, il cosiddetto “pacchetto GAI” (Giustizia e Affari Interni), cercando – sul fronte sud – di associare i paesi del partenariato euro-mediterraneo, ottenendo tuttavia – su questo fronte – successi assai scarsi, nonostante il Presidente francese, Sarkozy avesse, dopo il 2007, battuto a più non posso la grancassa propagandistica francese sulla “Union pour la Méditerranée” di cui abbiamo già visto i limiti. Si trattava, come si è visto in precdenza, di un tentativo del tutto velleitario. L'azione della Unione Europea – più per compiacere l'alleato americano che per altro - dichiara di essere diretta soprattutto contro il terrorismo internazionale, anche se la cooperazione in questo settore rimane ostacolata dall'assenza di una definizione del terrorismo che sia comune ai paesi della sponda settentrionale e di quella meridionale del Mediterraneo. Ma in realtà lascia un ampio spazio al contrasto dell'immigrazione irregolare e della criminalità transfrontaliera. Alla conferenza euro-mediterranea di Valenza, nel 2002, i ministri degli esteri hanno adottato un piano d'azione per una cooperazione regionale attorno a questioni di sicurezza interna come la lotta contro il traffico degli stupefacenti, la criminalità organizzata ed il terrorismo, a che si aggiungevano i problemi collegati con l'immigrazione. Nell'estensione di questo piano d'azione, progetti cooperativi che dipendono dalla GAI di un'ampiezza relativamente grande sono stati messi in cantiere in molti paesi del Mediterraneo meridionale, nel contesto del programma MEDA (misure d'adeguamento) Da un lato, questi progetti hanno indotto i paesi interessati ad intraprendere una riforma istituzionale dei loro meccanismi di sicurezza interna per quanto riguarda il consolidamento del primato del diritto o la lotta contro la corruzione. D'altra parte, si sono concentrati sulla loro capacità di combattere l'immigrazione irregolare e la criminalità organizzata, pur favorendo la cooperazione reciproca per raggiungere più certamente

77

quest'obiettivi a lungo termine. L'agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea (FRONTEX) è stata creata nel 2005 per rafforzare la sicurezza alle frontiere e migliorare il coordinamento delle misure adottate dai singoli Stati membri per applicare la politica comunitaria relativa alla gestione delle frontiere esterne. La conferma che l'Unione continua a ad attribuire forte priorità e grande importanza alla sicurezza delle frontiere è data dall'aumento anno su anno del bilancio assegnato a Frontex. Ciò ha consentito due operazioni congiunte di grande portata, che sono state lanciate lo stesso anno dall'agenzia nella regione mediterranea: l’operazione Hera, che riguarda i flussi d'immigrazione irregolare tra i paesi africani occidentali e le isole Canarie, e Nautilus, che ha avuto come obiettivo quello di intensificare la sorveglianza delle frontiere in Mediterraneo centrale ed il contrasto all'immigrazione irregolare in provenienza dai paesi africani del Nord ed a destinazione di Malta e dell'Italia. Queste iniziative hanno suscitato la critica di una vasta coalizione di ONG, le Organizzazioni Non Governative, che si sono rivolte al Comitato permanente dell’UNHCR per esprimere la loro preoccupazione che gran parte del lavoro di intercettazione e soccorso svolta da Frontex finisca talora per diventare una campagna di deterrenza così vasta e, a volte, così tout azimut e così indifferenziata che – talora direttamente e talora attraverso paesi terzi, talora intenzionalmente talora no – si finisca per impedire a coloro che avrebbero diritto di richiedere asilo di richiedere ed ottenere la protezione cui avrebbero forse diritto nel quadro della Convenzione sui Rifugiati del 1951. Ad accusare e a criticare l’azione del frontex sono poi intervenute due altre organizzazioni: lo European Council on Refugees and Exiles (ECRE - il Consiglio Europeo sui Rifugiati e sugli Esuli) ed il British Refugee Council- l’organizzazione britannica che dovrebbe proteggere i diritti degli esuli e dei profughi politici. Questo secondo, in particolare, è un organismo assai discutibile, dato che in realtà si è sempre dimostrato molto sensibile all’opportunità di proteggere gli oligarchi russi, come Berezovsly e Guzinsky, o gli ex dittatori come Pinochet, ma non ha mosso un dito in favore di Julian Assange, che è stato arrestato – non appena commesso l’errore di toccare il suolo del Regno Unito – Gran Bretagna con l’accusa di violenza carnale. E ciò, solo pochi giorni dopo – che coincidenza ! – aver diffuso un certo numero di documenti riservati americani che non rivelavano alcun segreto, ma dimostravano ampiamente la rozzezza dei diplomatici anglosassoni. Secondo queste due organizzazioni, Frontex non dimostra di prendere sufficientemente in considerazione le norme internazionali ed europee sui diritti dell'uomo e sull'asilo, compresa la Convention relating to the Status of Refugees del 1951 , e le norme UE sull’accesso all'asilo e il “principe de non refoulement”. Inoltre, ECRE e British Refugee Council hanno espresso preoccupazione per la mancanza di chiarezza per quanto riguarda la responsabilità del Frontex a garantire il rispetto degli obblighi di legge internazionale e comunitario da parte degli Stati membri che sono coinvolti in operazioni coordinate da questa organizzazione. Ciò sarebbe aggravato dalla mancanza di trasparenza, e l'assenza di un controllo indipendente e della responsabilità democratica dell'Agenzia.

78

In più ECRE ed il Consiglio britannico del rifugiato hanno espresso una preoccupazione con la mancanza di chiarezza per quanto riguarda la responsabilità di Frontex per l'assicurazione la conformità with il international e degli obblighi legali di EC dagli stati membri in questione nei funzionamenti coordinati Frontex. Ciò è composta dalla mancanza di trasparenza, e dall'assenza di controlli da parte di un’autorità indipendente, e dal fatto che l’Agenzia non risponde a nessuna istituzione elettiva.

I rapporti con la Libia

Ancora più frequenti – anche se chiaramente influenzate da fattori demagogici – le polemiche sul rapporto tra Italia e Libia è sempre stato oggetto di un’attenzione particolare da parte dell'alleato transatlantico della Repubblica Italiana. L'Italia è sempre stata infatti il paese occidentale con cui il colonnello Gheddafi ha sempre preferito avere rapporti, rifiutando – in nome del suo presunto panafricanismo4, ma in realtà perché forte delle sue risorse petrolifere e del fatto di non aver bisogno né di aiuti né di far accogliere all'estero suoi migranti – di partecipare a pieno titolo ai diversi tentativi di partenariato euro-mediterraneo multilaterale. Questi sono tentativi sponsorizzati dai francesi di mantenere un rapporto neo-coloniale, a spese della Comunità, e in definitiva della Germania, con il suo ex-impero nordafricano. E più di recente – dopo il dissolvimento del blocco dell'Est – per far credere alla propria opinione pubblica di essere in grado di controbilanciare l'accrescimento di ruolo internazionale di Berlino.

Il tanto privilegiato quanto tormentato rapporto tra Roma e Tripoli ha sempre rappresentato, per le potenze e le multinazionali occidentali la via maestra per coinvolgere la Libia nei suddetti tentativi; la firma di tutta una serie di accordi, culminati in un Trattato di amicizia e cooperazione ha perciò favorito, dopo anni di contenziosi, un processo di stabilizzazione dei rapporti tra la Libia e l'Occidente.

Per poter comprendere a pieno la difficile evoluzione dei rapporti italo-libici negli ultimi decenni è necessario fare un’opportuna distinzione tra il periodo che va dalla sconfitta dell’Italia nella Seconda Guerra mondiale e la successiva indipendenza e la fase che inizia con la Rivoluzione dei Colonnelli, estromette la monarchia, instaurando l’attuale regime di Muammar Gheddafi all’epoca un giovane colonnello di 27 anni.

Dopo il secondo conflitto mondiale, gli Inglesi, che occupavano l'ex colonia italiana, pensando che la Libia potesse rientrare nella “sfera di influenza” di Londra, in cui avrebbero dovuto fare parte la Grecia e la stessa Italia, ne l'accesso ad una indipendenza che essi ritenevano sarebbe stata solo fittizia, tanto più che il capo tradizionale prescelto come Re, Idris il Senusso, il capo di una setta sufi della Cirenaica, che aveva collaborato con le forze ostili all'Italia durante la guerra e che non veniva riconosciuto né in Tripolitania né in Fezzan. Al suo governo, che concesse l'uso del territorio libico alle forze americane (base area di Weelus), l’Italia fu costretta versare 5 milioni di sterline e a consegnare la proprietà degli immobili demaniali e delle infrastrutture. In virtù di questi gesti, nel 1956 Italia e Libia siglarono un accordo che esplicitava la fine di ogni contenzioso sul passato coloniale tra i due paesi.

Le concessioni fatte da parte italiana si rivelarono ben presto inutili. Dopo la “guerra dei sei giorni”, del 1967, in cui le forze aere israeliane avevano totalmente spadroneggiato nei cieli egiziani, l'Urss incominciò un colossale build-up militare in Egitto, schierando sistemi missilistici e radar così avanzati da richiedere una diretta presenza di tecnici e

79

militari societici. La monarchia di re Idris, che avrebbe dovuto garantire il controllo anglo-americano sulla confinante Libia – nel frattempo rivelatasi enormemente ricca di risorse petrolifere e quindi assai appetitosa per l'Egitto – improvvisamente apparve troppo debole per il suo ruolo. Gli stessi Inglesi favorirono perciò una “modernizzazione” del regime che avrebbe dovuto migliorarne la governabilità. Essi perciò favorirono, nel 1969, una “Rivoluzione dei colonnelli” che si risolse in pochi giorni, senza alcun spargimento di sangue e destituì la monarchia.

Mal gliene incolse. Dalla rivoluzione emerse un giovane colonnello dalle straordinarie capacità politiche, Muammar Gheddafi – che un navigatissimo uomo politico italiano ebbe successivamente a definire come la persona più intelligente che egli avesse mai incontrato, dopo Giovanni Paolo II – fche instaurò un proprio regime, proclamando la nascita della «Grande Jamāhīriyya7 Araba di Libia Popolare e Socialista».

Fin dall’inizio il Colonnello-Capo si presentò come il leader dell’anticolonialismo e in tutti i suoi discorsi la retorica anti-italiana sarà una costante. Non è un caso, dunque, che nei mesi successivi alla presa del potere, Gheddafi definì una mera ipocrisia il compenso economico versato dall’Italia al re Idris. I Per rafforzare la propria immagine di baluardo dell’anti-colonialismo, Gheddafi decise, già nel 1970, il rimpatrio forzato di oltre ventimila italiani ancora presenti in territorio libico e il relativo esproprio dei loro immobili e delle loro imprese. Era soltanto l’inizio di un’altalena di minacce e di accordi nel deserto, che hanno caratterizzato il rapporto tra i due paesi fino ai giorni nostri.

Due attori diversi dagli altri

E' però interessante notare che, paradossalmente, anche nei momenti di maggiore crisi è rimasto costante, quantomeno dal punto visto economico, il rapporto tra Italia e Libia rimane un rapporto privilegiato. Dal lato libico, nonostante il grande uso di una forte retorica anti-italiana il Colonnello ha preferito mantenere il rapporto privilegiato con lo Stato italiano per ragioni economiche e politiche, soprattutto perché, tra i paesi dell’Occidente, l’Italia è quello più debole e quello in cui non esiste alcuna velleità neocolonialista. E poi perché l’Italia, per via della forza del Partito Comunista godeva, da parte americana, di un “margine di tolleranza” per fare affari con i paesi anti-americani che consentissero di migliorare il livello di vita, togliendo così forza ai Comunisti come “opposizione sociale”, ma anche che inducessero l'Urss a non destabilizzare l'Italia a guida democristiana.

La possibilità dell'Italia di collaborare con la Libia, dove a un certo punto l'Eni era l'unica società petrolifera presente rientra perciò in una serie di “concessioni” americane, quali la possibilità per la Fiat di cstruire a Togliattigrad una replica di Mirafiori e una intera citta assieme ad essa, e successivamente all'ENI di costruire i “gasodotto siberiano” - in totale apparente contraddizione con la politica ufficiale degli USA, che proibivano l'esportazione di tecnologie avanzate ai paesi comunisti, nonostante i compressori per il gas fossero costruiti a Firenze, ma su brevetto della Genral Electric americana.

L’Italia ha potuto così essere sempre il maggiore importatore di greggio , e il principale espertatore del know how necessario per il mantenimento della capacità libica di estrarre il petrolio oltre a realizzare molte opere civili e di ingegneria. Anche dopo il raffreddamento dei rapporti con gli altri paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, alla Francia, per varie motivazioni politiche -in particolare il sostegno libico al terrorismo internazionale- per tutti gli anni Ottanta e Novanta, l’Italia rimase l’unico vero

80

referente occidentale della Libia.

Non sorprende, dunque, che già nel 1974, dopo solo quattro anni dal rimpatrio forzato degli italiani presenti in territorio libico, i dirigenti dell’Ente nazionale idrocarburi e il sottosegretario libico al Petrolio Muntasser convenivano sulla concessione all’Agip di quattro nuove aree di ricerca, tra cui il ricco giacimento di Bu Attifel, mentre le altre compagnie petrolifere straniere subivano il processo di nazionalizzazione imposto dal regime di Gheddafi. Così come i due Paesi superarono anche la grave crisi del 19868. Una crisi che non aveva origini interne alle relazioni tra i due paesi ma, piuttosto, era stata indotta dall’atteggiamento degli Stati Uniti. Anche successivamente all’accaduto, pur nel rispetto delle sanzioni internazionali9 da parte italiana, il nostro paese fu il tramite per un progressivo reinserimento della Libia nella comunità internazionale.

In sostanza per molti anni, dall’ascesa al potere del Colonnello Gheddafi fino a buona parte degli anni novanta, nonostante le alterne crisi politiche, la costante retorica anti-italiana e le continue richieste di risarcimento per i danni coloniali10, è rimasto costante il rapporto privilegiato dal punto di vista economico tra Italia e Libia.

A partire dalla fine degli anni novanta il rientro della Libia nell’economia mondiale, dovuto principalmente alla definitiva normalizzazione dei rapporti della Libia con la comunità internazionale, in particolare grazie alla cessazione dell’embargo delle Nazioni Unite nel 1999 e dell’Unione Europea nel 2004, toglie ruolo alla diplomazia e alle imprese italiane. La Libia oggetto di grande attenzione da parte di altri paesi, quasi totalmente nuovi al mercato libico come la Cina, o nuovamente coinvolti dopo un lungo periodo come la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna e gli Stati Uniti.. Se a questi elementi si aggiunge il ritrovato rapporto con gli Stati Uniti11, frutto dell’abile politica di Gheddafi che all’indomani della strage delle Torri Gemelle si era premurato a condannare pubblicamente l’accaduto e successivamente di bloccare, nel 2003, il suo programma nucleare, si intuisce chiaramente quanto sia rafforzato il potere negoziale del Colonnello nei confronti dell’Italia.

Attivismo diplomatico

Inoltre, negli ultimi anni si è rivelata sempre più difficile la gestione dei flussi migratori illegali. E la maggior parte dei clandestini che approdano nelle coste del Sud Italia provengono in quantità crescente dalle coste libiche. Dunque anche in questo settore, la collaborazione del Colonnello, che può minacciare la non collaborazione nella lotta contro l’immigrazione clandestina. Questi cambiamenti sostanziali spiegano perché negli ultimi anni i diversi governi italiani, di entrambi gli schieramenti politici, si siano sistematicamente affrettati a compiere continue visite diplomatiche alla ricerca di accordi in diversi settori. In particolare, il 2 dicembre 1999, l’allora Primo Ministro Massimo D’Alema si recò a Tripoli in visita ufficiale, -la prima di un capo di governo europeo dopo l’inizio dell’embargo Onu del 1992- rendendo al Colonnello la Venere di Leptis Magna14. In cambio, al di là delle consueta ironia del Grande Capo e delle solite inaffidabili promesse di cooperazione, non ottenne nulla.

Nel frattempo, all’inizio del nuovo millennio, diventava sempre più difficile, e apparentemente irrisolvibile, il nodo dell’immigrazione clandestina: Lampedusa non viene più minacciata dagli Scud – come si rischiò nel 1986, durante il bombardamento USA di Tripoli, – ma dai barconi di clandestini” provenienti in gran quantità dalle coste libiche. Così, il 4 agosto 2004, il Primo Ministro Silvio Berlusconi, dovette recarsi nuovamente in

81

visita ufficiale a Tripoli.

In quest’occasione il leader libico in cambio della sua collaborazione, non si limitò alla consueta generica richiesta di un risarcimento danni per il passato coloniale, ma andò oltre chiedendo esplicitamente da parte italiana la costruzione di un’autostrada costiera, avente l’esorbitante costo di 400 mln di dollari. In questi stessi anni i già complicati rapporti italo-libici peggiorarono quando, come reazione al gesto tanto stupido e provocatorio quanto volgare dell’allora ministro Roberto Calderoli, che era apparso in televisione indossando una maglietta con vignette su Maometto offensive per i musulmani, 11 persone morirono in gravi incidenti davanti al Consolato italiano di Bengasi16.

Dopo mesi di continue minacce e offensive anti-italiane a metà 2007 arrivò l’ennesima schiarita con un tè nel deserto offerto da Muammar Gheddafi a Massimo D’Alema, Ministro degli Esteri del nuovo governo di centro-sinistra. Fu così che improvvisamente si riaprì la strada del dialogo italo-libico. Nell’ottobre del 2007 l’Eni ottenne un accordo per il rinnovo delle concessioni per 25 anni17 e in novembre il ministro degli Esteri D’Alema raggiunse un’intesa preliminare con il leader libico per la compensazione dei danni coloniali, comprendente l’impegno italiano a costruire un’autostrada litoranea dal confine libico con la Tunisia fino a quello con l’Egitto.

Questo ritrovato dialogo, quanto meno dal punto di vista formale, giunge a conclusione il 29 dicembre 2007 quando il ministro dell’Interno Giuliano Amato e il suo omologo libico, Adurrahman Shalgam, firmano a Tripoli un’importante intesa in materia di controllo delle migrazioni irregolari e di lotta al traffico di persone. Un accordo, in linea teorica, storico in virtù della importante novità tecnica che esso conteneva: l’assenso da parte di Tripoli al pattugliamento congiunto delle acque territoriali libiche18. Anche in questo caso, però, lo sforzo delle autorità italiane, che concessero anche sei unità navali della Guardia di Finanza per il suddetto pattugliamento, è stato vano data l’assoluta mancanza di cooperazione da parte libica, testimoniata dalle ultime statistiche. Infatti “se gli sbarchi in Sicilia erano stati 2.087 nei primi cinque mesi del 2007 nel periodo corrispondente del 2008 sono balzati a 7.077”19.

L’accordo, dunque, andava fatto e grazie all’importante impegno del precedente Ministro degli Esteri Massimo D’Alema e al pressing dell’attuale Primo Ministro Silvio Berlusconi, si è giunti a siglarlo il 30 agosto 2008, proprio nell’edificio che fu il quartier generale del governo italiano a Bengasi tra il 1911 e il 1943.

Il Trattato di cooperazione e amicizia per i suoi contenuti e per il fatto di porre fine, almeno formalmente, a 40 anni di tensioni, ha senza dubbio una portata storica. Gheddafi ottiene tutto quello che aveva sempre desiderato: le scuse formali del Premier Berlusconi a nome dell’intero popolo italiano. Ma questi, se restituisce immediatamente, dopo 95 anni, la Venere di Cirene è abbastanza abile da creare un incentivo alla stabilità dei rapporti concordando che il cosiddetto “risarcimento per i danni coloniali” verrà versati in tranche di 250 mln l’anno per i prossimi 20 anni. E che questi fondi saranno utilizzati da imprese italiane per la costruzione di un’autostrada litoranea che colleghi il confine libico con la Tunisia a quello con l’Egitto, per la costruzione di 200 alloggi sociali, per finanziare borse di studio per studenti libici e per i mutilati vittime delle mine anti-uomo italiane.

L’Italia, dal canto suo, ha ottenuto: la cooperazione bilaterale nella lotta contro l’immigrazione clandestina e l’attuazione dell’accordo firmato nel dicembre 2007 per il pattugliamento congiunto delle coste libiche, compreso il progetto20 di costruzione da

82

parte di Finmeccanica di una rete di radar per monitorare le frontiere sud della Libia, da dove proviene il flusso maggiore di clandestini. Anche i contratti di esplorazione e produzione dell'ENI sono stati rinnovati per i prossimi 25 anni; è stato avviato a soluzione il contenzioso dei crediti vantati dalle aziende italiane per 620 mln di dollari, di cui pero’ il governo libico ne ha riconosciuto soltanto 40021. Il governo italiano non è riuscito, invece, ad ottenere il risarcimento per i 20 mila italiani rimpatriati forzatamente negli anni Settanta, suscitando l’ira dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia.

Tuttavia, nonostante il trattato sia stato ratificato sia dall’Italia che dalla Libia i problemi dovuti al fenomeno migratorio non sono stati immediatamente risolti. Nel 2008, infatti, l’immigrazione clandestina proveniente dal Nordafrica è aumentata del 75% e nei primi mesi del 2009 lo sbarco di clandestini nell’isola di Lampedusa è stato così ingente da diventare sostanzialmente ingestibile. Tra l’altro, tale situazione ha causato un duro scontro diplomatico tra il governo italiano e la vicina isola di Malta che si è rifiutata di soccorrere ed ospitare centinaia di clandestini in balia del mare in tempesta.

Soltanto a partire dal 15 maggio 2009 la situazione sembra essere migliorata. In questa data, infatti, è stato finalmente attuato l’accordo, firmato nel dicembre 2007, per il pattugliamento congiunto delle coste libiche. Questo spiega perché nelle due estati successive il flusso di clandestini verso le coste italiane è nettamente diminuito. Se non ci saranno conseguenze al voto dalla Camera dei deputati il 2 Novembre 2010 – in cui un gruppo di deputati ha alzato il tono contro la Libia solo per colpire il primo Ministro in carica, si può dire che negli ultimi anni a livello politico l’Italia ha creato le condizioni per una piena collaborazione delle autorità libiche nella lotta all’immigrazione clandestina. Impatto televisivo e dettato costituzionale La drammaticità delle immagini televisive dell'azione delle forze armate in mare per bloccare i barconi dei clandestini, e la conseguente attenzione dei media hanno invece fatto apparire, agli occhi dell'opinione pubblica interna ed internazionale, l molto più numerosi e drammatici di quanto non siano i casi di intercettazione in mare e di respingimento delle imbarcazioni che cercano di introdurre sul territorio italiano gruppi di immigrati clandestini. In maniera del tutto ingiustificata, ciò ha sollevato, e continua a sollevare critiche e polemiche sulla stampa internazionale. Tali respingimenti “in blocco” – si è detto – avrebbero violato la norma secondo la quale a chi sia riuscito a porsi nell’area di tutela delle autorità di uno Stato, come l’Italia, va concessa – dopo l’identificazione – una reale possibilità di avanzare una domanda d’asilo. Tale domanda va poi esaminata e valutata e, se si constata che nel paese di origine o di provenienza immediata esistono condizioni di insicurezza e violazione dei diritti umani, può dare avvio alla procedura per la concessione dello status di rifugiato politico. Il dibattito su di essa soffre, però, di una gravissima distorsione: quella derivante dall’essere diventata oggetto di polemiche e speculazioni politiche al punto che la stessa struttura dell’UNHCR, che dovrebbe essere super partes, svolge azione di fiancheggiamento della politica estera di singoli Stati – ovviamente quelli più potenti ed aggressivi – e di provocazione politica nei confronti dei governi che si conducono in maniera indipendente rispetto alle potenze egemoni. E’ perciò indispensabile chiarire nettamente i termini delle varie questioni che qui si

83

intrecciano, in particolare di quella dei richiedenti asilo, che appartiene alla sfera delle questioni giuridiche con un accentuato risvolto etico. Sotto il profilo ideologico e morale, ogni politica della Repubblica italiana in materia di immigrazione, asilo politico e concreto trattamento dello straniero è stata fatta risalire all’articolo 2 della Costituzione Repubblicana, che enuncia un principio fondamentale dello Stato di diritto. “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Non c'é dubbio che il principio ispiratore di questo testo fondamentale – che può essere considerato come la sintesi e la formulazione di uno dei tratti fondamentali dell'identità italiana – la società e lo Stato italiano debbano fare riferimento in ogni circostanza, in ogni atto di governo, in ogni circostanza di rapporto tra i cittadini, ed in ogni iniziativa di ordine pubblico o pronuncia giudiziale. Non esiste, né può darsi circostanza in cui possa esistere, interesse collettivo o individuale, né causa di forza maggiore che possa indurre a superare questo principio. Non sarebbe possibile cioé, per esempio, che in Italia si dia vita ad una situazione come quella del campo di prigionia di Guantanamo. Analogamente, l'art. 2 fa apparire chiaramente contrari alla Costituzione i casi in cui organi dello Stato italiano hanno partecipato ad attività cosiddette di “rendition”.

E' chiaro che la Costituzione riconosce tali diritti a qualsiasi uomo o donna sulla faccia della terra, ma concretamente li garantisce in primis agli uomini e alle donne posti sotto la potestà dello Stato italiano, oppure allo straniero che si presenti alle frontiere dello Stato o venga, in qualche modo, a porsi sotto la tutela delle autorità della Penisola e della Repubblica. Ma non può garantirli all'insieme della popolazione mondiale. Non sarebbe altrimenti possibile l'obbligo a “l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, che finirebbe per essere rivolto a soggetti su cui la repubblica Italiana non ha alcuna autorità. E se l'accenno alle “formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità” rinvia direttamente agli Stati esteri, dove appunto si “svolge la personalità” di coloro che non sono né cittadini italiani né apolidi, esso può al più significare che la Repubblica italiana è impegnata, nelle relazioni con gli altri Stati a privilegiare i rapporti con Stati le cui leggi incarnano principi analoghi, e a favorire l'evoluzione di quelli che ancora non vi si ispirino.

Nonostante le iniziative, le proposte e le discussioni relative alla istituzione di una giurisdizione universale, è evidente che in nessun caso l'art, 2 della Costituzione può significare che la Repubblica è obbligata ad offrire concreta protezione e garanzia dei loro diritti fondamentali a tutti i sudditi di monarchie assolute, Stati teocratici o dittature come l'Arabia Saudita, l'Iran o la Birmania.

Politica di immigrazione, asilo e respingimenti alle frontiere

Se, insomma, i diritti riconosciuti ai cittadini italiani vengono così assunti a parametro universale dei diritti politici naturalmente spettanti ad ogni uomo, o donna, ciò vale solo in linea di principio. Perché in pratica non è pensabile che il riconoscimento e la protezione da parte dell'Italia di tali diritti vengano rivendicati dai “sudditi” (perché di “cittadini” in questo caso non si può parlare, dato che tale concetto, di origine

84

rivoluzionaria, prevede proprio il godimento dei diritti politici fondamentali) di qualsiasi regime straniero che opprima gli abitanti del paese dominato. Ciò è possibile, e concretamente avviene solo nei confronti dello straniero che si presenti alle frontiere dello Stato o venga, in qualche modo, a porsi sotto la tutela delle autorità della Penisola e dello Stato repubblicano.

Quali forme tale tutela debba assumere è questione ancora diversa, su cui non sembra che gli stessi giuristi siano in grado di giungere ad una visione generalmente condivisa. Il diritto di asilo e la concessione dello status di rifugiato politico sono perciò al centro di un vivace dibattito.

In Italia, la questione del diritto d’asilo, da un punto di vista giuridico, è regolata dall’art. 10, secondo comma, della Costituzione della Repubblica: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici”. A ciò si aggiunge il comma uno dell’art. 10 della Costituzione, che recita: “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità alle norme e dei trattati internazionali”.

La recente riforma del Titolo V della Costituzione ha però complicato le cose, con una parziale modifica dell’art. 117, introducendo nel primo comma la formula: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

Successivamente alla Costituzione, entrata in vigore nel 1948, l'Italia ha firmato la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, ratificata dalla legge n. 722/1954, che prende in considerazione e definisce la figura del “rifugiato politico”. La macchina legislativa italiana ha aggiunto ulteriore complessità a un quadro che già crea non poche difficoltà di orientamento all'osservatore non specializzato, specificando che “allo straniero che chiede l’asilo – situazione che la giurisprudenza considera come un vero e proprio diritto soggettivo – viene garantito null’altro se non l’ingresso nello Stato, mentre, il rifugiato politico, ove riconosciuto tale, viene a godere, in base alla Convenzione di Ginevra, di uno status di particolare favore” (Corte di Cassazione, sez. un. civ. 17 dic. 1999, n. 907).

Tale “prevede quale fattore determinate per la individuazione del rifugiato, se non la persecuzione in concreto, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non è considerato necessario dall’art. 10, comma 3” (Corte di Cassazione, sez. un. civ. 17 dic. 1999, n. 907).

Salta però anche all'occhio di chi qualsiasi attore politico che è questa una definizione assai larga, dato che – anche solo considerando le minoranze religiose e nazionali, tra un quinto e un quarto della popolazione mondiale può avere “un fondato timore di essere perseguitato”. Secondo le interpretazioni più estreme e demagogiche, l'Italia avrebbe un obbligo universale di protezione e di intervento. Una conclusione irrealistica ed inaccettabile per chi abbia poi il compito concreto di gestire la sicurezza e la funzionalità anche economica della società italiana.

Ancor più di come accade per coloro che aspirano ad andare a vivere fuori dal proprio paese per ragioni economiche – per i quali un autorevole responsabile francese, il socialista Michel Rocard, ebbe a dire che il suo paese non poteva “accueillir toute la

85

misère du monde”, in materia di diritto di asilo non è pensabile che esso possa essere richiesto all'Italia da chiunque, dovunque egli si trovi, ed anche se no ha con la società o lo Stato italiano alcun rapporto.

Empiricamente, si può quindi dire che le autorità italiane sono tenute a garantire i diritti legati all'asilo solo a coloro su cui la Repubblica italiana si trova, in un preciso momento, ad esercitare il proprio potere legale. Cioè a coloro che si trovano sul suo territorio e che ne facciano richiesta d’asilo.

E' chiara la delicatezza delle leggi finalizzate a regolare tale materia, calando i principi generali ed ideali nella realtà del confronto con i fenomeni e i flussi migratori internazionali. E dato il carattere recente, e continuamente mutevole di questi ultimi, è stato inevitabile che le autorità italiane abbiano cercato – e continuino ancora a cercare – di adeguarsi sia con una continua – e talora contraddittoria – produzione legislativa, sia attraverso una applicazione “creativa” delle leggi esistenti. Il “principe de non-refoulement” Anche a livello internazionale, l'innovazione è costante. Da un lato, sono in continua evoluzione le modalità e i percorsi lungo i quali avvengono i flussi di popolazione attraverso le frontiere, anchesotto la spinta di fenomeni economici, politici, demografici ed ambientali sempre più complessi. Dall'altro lato, il crollo delle ideologie che ha caratterizzato la fine del ventesimo secolo, e il vuoto che ne è conseguito per quel che riguarda l'elaborazione di principi generali con cui affrontare i grandi fenomeni, ha lasciato spazio ad ogni sorta di teorizzazioni più o meno improntate ad atteggiamenti moralistici o . nel migliore dei casi – ad un pensiero religioso peraltro sempre meno sentito dalla popolazione dei paesi economicamente più avanzati, cioé quelli che contano di più nella cosiddetta “opinione pubblica mondiale”. Per quel che riguarda i fenomeni migratori, un certo successo ha di recente avuto il cosiddetto “principe de non-refoulement”. Aanche se è stato assai fortemente messo in evidenza , non si tratta di un concetto nuovo, ma sempre assai disatteso. Esso risale infatti alla già citata Convenzione di Ginevra sui rifugiati (article 33), e ne costituisce il punto essenziale. Originariamente finalizzato alla protezione tanto dei rifugiati che di coloro che chiedevano asilo politico, il “principe de non-refoulement” viene presentato come se fosse ormai diventato parti integrante del Diritto Internazionale Pubblico. In realtà, se per un verso ha effettivamente reso meno pesante la mano della burocrazia nei confronti di figure sociali assai fragili – come sono quasi sempre coloro che sono per una ragione o per l'altra costretti ad abbandonare il proprio paese –, per un altro vesro ha anche costituito l'occasione per abusi assai gravi. L’l'Italia è stata accusata – soprattutto da fonti straniere – di non osservare questo principio, e in qualche caso di violarlo apertamente.Il testo della Convenzione va comunque letto attentamente, cosa che molti dei più ardenti accusatori delle autorità italiano non sembrano aver fatto. Questo principio infatti ha proibito l'espulsione ed il rinvio di una persona in stati “dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un certo gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. Formulazioni di principio sono riprese ed enunciate in molti strumenti generali di tutela dei diritti dell'uomo come la CEDU, la convenzione ONU contro la tortura o anche il Patto ONU II. Relativamente al diritto d'asilo, in particolare, proibisce l'espulsione ed il rinvio di una persona in uno Stato “dove la sua

86

vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un certo gruppo sociale o delle sue opinioni politiche„ (articolo 33 convenzione di Ginevra relativa allo statuto di profughi). Gravi abusi, come dicevamo, hanno pero accompagnato questa diffusione – e trasformazione in luogo comune – dei principi ispiratori della Convenzione del 1951. Essi hanno infatti subito, nell'ultimo ventennio un vulnus assai grave, proprio a partire dal momento in cui il crollo dei regimi di tipo sovietico, e l'evoluzione della società cinese hanno fortemente ridotto il campo dei regimi le cui ideologie fondatrici reinterpretavano in maniera che finiva per negarli gli stessi principi che sono alla base dei diritti fondamentali dell'uomo. La “banalizzazione” della democrazia e dei principi ideologici che ne sono alla base hanno fatto sì che alcuni paesi, come la Francia, hanno trasformato il diritto di asilo in uno strumento assai velenoso di propaganda internazionale, e soprattutto di propaganda interna, finalizzata ad educare la propia opinione pubblica al disprezzo degli altri popoli, e a convincerla della superiorità della Francia<, il tutto al fine di accrescere il consenso interno, lobbedienza alle autorità e la remissività di fronte agli abusi delle classi dominanti. Governi estremamente duri nei confronti dei deboli, ed estremamente servili nei confronti dei potenti, come quello francese o quello brasiliano, cercano di darsi una veste di tolleranza, di rifarsi una verginità in materia di diritti dell'uomo spacciando per rifugiati politici criminali dotati di buone relazioni, e talora di complicità vere e proprie, in Francia o in Brasile. Il caso Cesare Battisti ne è un esempio assai significativo. Il governo francese, che attua nei confronti dei rom una politica tanto discriminatoria e dura da spindere addirittura un membro della Commissione Europea a confrontarla con la persecuzione nazista degli stessi rom, ed il governo brasiliano, che copre e in certi casa incoraggia lo sterminio degli indios che abitano sul proprio territorio, cercano così di coprirsi con un manto di difensori dei diritti del'uomo. Il respingimento in mare, quale spesso esercitato dall forze italiane dell'ordine, o dalle forze armate, non implica – ad esempio – che colui che tenta di immigrare clandestinamente nel nostro paese sia per questo costretto a rientrare nel proprio paese, o che debba per forza dirigersi verso un altro paese dove potrebbe essere esposto a persecuzioni o discriminazioni. Lo sviluppo di strumenti e di pratiche sempre più difensivi dei paesi di destinazione, e finalizzati a limitare il flusso di profughi (sistema di Dublino, nozioni di Stato terzo sicuro, di Stato terzo “super sicuro„ o di primo paese d'asilo) o di migranti indesiderabili (progetti di sistematizzare i rinvii di delinquenti stranieri) solleva importanti interrogativi quanto alla portata esatta di questo principio. Attualmente, il principio di non refoulement è all'origine di un numero considerevole di dispute assai complesse. Se la giurisprudenza recente rifiuta in modo costante i limiti dell'applicabilità di questo principio, molte questioni restano tuttavia in sospeso (criteri di valutazione del rischio incorso o anche della sua realizzazione). Un punto è comunque chiaro. Nessun principio di diritto internazionale potrà mai essere applicato se esso dovesse stabilire che qualsiasi persona si senta vittima di persecuzione o discriminazione nel proprio paese potesse venire a rivendicare asilo e protezione in un altropaese con le cui autorità egli non ha né ha avuto alcun rapporto. Allo

87

stato attuale del mondo, un tale principio sarebbe semplicemnete inapplicabile. E molti dei disperati che tentano di toccare aree sottoposte alla giurisdizione di un paese della sponda nord del Mediterraneo appartengono purtroppo a questa categoria di persone. Operato dei governi di centro sinistra

I governi Prodi e D'Alema sono all’origine della politica dei respingimenti in mare, ipocritamente mai chiamati con questo nome, ma impliciti nel concetto di “pattugliamento congiunto” tra i paesi rivieraschi. E non debbono essere considerati negativamente, sul piano dell'efficacia e su quello etico, se un leader dela sinistra ha creduto di doverne rivendicare la paternità nel momento in cui, sotto un governo retto da una maggioranza avversa, essi venivano applicati tra le polemiche. «Non è mica vero che i respingimenti li ha inventati Maroni. Gia stato fatto, ed è stato fatto bene, senza le proteste dell’Onu e della Chiesa» ebbe infatti a dichiarare Massimo D'Alema, 22intervenendo nelle polemiche su qulla che “l'Unità” chiama la “linea dura” del governo Berlusconi contro i contrabbandieri di carne umana. L’ex presidente del Consiglio ha detto di non condividere la suddivisione manichea tra «una destra che vuole la sicurezza dei cittadini e la sinistra che favorisce l'immigrazione clandestina» e ha ricordato i risultati positivi conseguiti dal suo governo e da quello presieduto da Romano Prodi, alla fine degli anni '90 sull'immigrazione dall'Albania, quando «il canale d'Otranto sembrava il canale di Sicilia». «Quando siamo stati al governo - ha sottolineato D'Alema -specificamente il governo Prodi e il mio, abbiamo risolto il problema dell'immigrazione clandestina dall'Albania. Lo abbiamo risolto - ha spiegato - nel rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale. Lo abbiamo risolto con un accordo di riammissione dell'Albania, riconoscendo le persone, distinguendo coloro che avevano diritto d'asilo e respingendo quelli che non l'avevano». La rapida dissoluzione della sua maggioranza, e la conseguente caduta del Governo hanno limitato la durata dell’applicazione della legge, ma non hanno potuto impedire che un'altra parte della sua stessa maggioranza, anzjiché rivendicare con orgoglio l'azione di contrasto all’immigrazione clandestina, ne considerasse il bilancio in maniera estremamente critica – secondo i propri parametri, ovviamente23

Con un programma di cui le questioni relative all’immigrazione erano parte centrale, Prodi aveva ottenuto nel 2006 una risicata maggioranza di consensi. Ma nel corso dei due anni successivi, rendendosi conto del fatto che l’opinione pubblica del paese era in netto contrasto con la retorica terzomondista della parte più velleitaria della sua coalizione, e forse ancor più con l’inquietante anti-islamismo pregiudiziale di Amato si era barcamenato alla meno peggio, puntualmente smentendo quello che si attendeva da lui la parte degli elettori che più da vicino segue le questioni dell’immigrazione, e finendo per scontentare tutti, in Italia e all'estero. E tra gli scontenti ci doveva essere pura il governo che controlla la sponda, quella libica, da cui più di frequente salpano i natanti carichi di disperati che cercano di entrare nel nostro paese. Negli ultimi mesi della sua permanenza a Palazzo Chigi, gli sbarchi segnalati o prevenuti sulle coste del Mezzogiorno sono stati molto

.

22 Massimo D'Alema, “I respingimenti non li ha inventati Maroni», in “L'Unità”,11 maggio 2009 23 Vedi, Fabrizio Vassallo Paleologo, Un bilancio in nero, in “Left”

88

numerosi – di altri, conclusisi con successo o tragivamente, non sapremo mai nulla. In particolare hanno colpito l'opinione pubblica gli ottocento disperati sbarcati in pochi giorni a Lampedusa, e – forse – lasciati deliberatamente partire dal governo libico, dopo un periodo di stasi che aveva fatto seguito all'Accordo raggiunto.

Numerose le questioni lasciate irrisolte dal governo Prodi e dal ministro dell’interno Amato, in materia di immigrazione ed asilo. E numerose le delusioni imposte alla parte più estrema della coalizione di centro-sinistra, e alle associazioni di volontariato, che avevano richiesto al governo di emanare almeno regolamenti di attuazione, decreti o direttive che risolvessero alcune delle questioni più gravi, determinate dal mantenimento della legge Bossi-Fini , dalle scelte di numerosi amministratori locali e dalle prassi, assai lente e spesso arbitrarie, adottate dalle questure italiane nei confronti degli immigrati e dei richiedenti asilo.

Le risposte fornite dal governo negli ultimi suoi giorni di vita vennero all'epoca viste come il segno di una persistente chiusura alla richiesta di un decreto flussi aggiuntivo e alla semplificazione dei percorsi necessari per il rilascio o il rinnovo dei permessi di soggiorno. Ed anche l’incremento degli straordinari da pagare agli agenti di polizia apparve subito una misura insufficiente e non idonea a smaltire 900 mila pratiche arretrate.

Nei centri di detenzione e sui nuovi centri di accoglienza per richiedenti asilo, che erano stati creati dallo stesso governo Prodi, restava una situazione sostanzialmente immutata rispetto al passato, e non erano state neppure accolte tutte le osservazioni critiche e le proposte della Commissione De Mistura, pure nominata nel 2006 dallo stesso Ministro dell'Interno, Giuliano Amato. La stessa nuova struttura di accoglienza, a Lampedusa, sempre portata ad esempio, del governo Prodi, per sottolinear i suoi pretesi interventi per una “umanizzazione” del trattamento dei migranti, veniva anch'essa criticata perché si presentava – inevitabilmente, agli occhi di un osservatore obiettivo – come un luogo di detenzione. E se esagerate e strumentali erano molte accuse relative al fatto che i disperati in attesa di smistamento rimanevano persone sostanzialmente prive delle più elementari tutele previste dalla Costituzione e dalle convenzioni internazionali, è un fatto che l'insufficiente soddisfacimento del diritto ad un interprete veniva a togliere ogni credibilità alla pretesa che essi godessero di una efficace difesa legale.

Questa è infatti una gravissima, e peraltro antica e sistematica, carenza dei tribunali italiani, cui i giudici sembrano del tutto insensibili. Non è infatti accettabile, eppure accade sistematicamente, che nei processi in cui sono coinvolti, talora in posizione assai grave, persone di recente immigrate da paesi africani, la traduzione sia soltanto in francese o in Inglese, cioè nella lingua delle ex potenze coloniali, e non nella lingua che veramente parlata dall'extracomunitario coinvolto, cui finisce così per risultare incomprensibile l'intero dibattimento da cui dipende il suo destino.

Anche l’Unar, l’organo para-ministeriale specificamente creato per il contrasto della discriminazione razziale, ha sollevato vivaci critiche da parte delle componenti più radicali dello schieramento di centro sinistra. Esso veniva infatti accusato di aver dedicato le proprie forze a convegni e consulenze, ma di non aver “neppure scalfito quella montagna di discriminazioni e di pregiudizi che opprime ogni giorno la convivenza tra immigrati ed italiani”. E i controlli di frontiera con le pattuglie Rabit e l’agenzia Frontex, senza la contemporanea apertura di nuovi effettivi canali di ingresso legale, venivano considerati “lesivi dei diritti fondamentali dei migranti come i rimpatri disposti da Berlusconi e Pisanu

89

nel 2004 e nel 2005 con i voli diretti da Lampedusa e dagli aeroporti pugliesi verso la Libia24

Altre “colpe” venivano poi imputate al governo Prodi, dalle frange estreme della sua maggioranza di governo - frange estreme che, si noti, alle elezioni immediatamente successive, venivano letteralmente polverizzate, senza riuscire a portare più eletti in Parlamento. In particolare , venivano imputati: la creazione, a discrezione dalle questure, di nuovi centri di detenzione, così come la continuazione dei rimpatri di minori e richiedenti asilo dai porti di Bari e di Ancona verso la Grecia, in applicazione della Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990, che si occupa specificamente dei problemi connessi con il diritto di asilo.

”. Al tempo stesso, Amato e Frattini (allora Commissario Europeo a Bruxelles) venivano accusati di aver formato un “Asse” che avrebbe”spalancato la strada per la direttiva comunitaria sui rimpatri”.

In particolare, tale Convenzione determina un punto assai importante, e cioé quale sia lo Stato membro competente per l'esame di una domanda di asilo presentata in uno qualsiasi degli Stati membri della Comunità. Per evitare il cosiddetto “asylum shopping” da parte di migranti che fanno domanda di asilo in più paesi, la Convenzione ha assunto come principio di base quello secondo il quale un solo Stato membro è competente ad esaminare la domanda di asilo (cosiddetta regola della possibilità unica) e che tale Stato sia tenuto ad effettuare l'esame in parola. In altrie termino, competente ad esaminare la domanda di asilo, è lo Stato membro che «possa ritenersi avere svolto il maggior ruolo in ordine all'ingresso della persona considerata nel territorio degli Stati membri contraenti».

ll fatto è che la Convenzione non stabilisce in egual modo il rispetto di alcuni diritti fondamentali, e ciò porta a disparità di trattamento. Questo sarebbe particolarmente duro da parte delle autorità di Atene, tanto che la Norvegia ha sospeso i respingimenti verso la Grecia, accusata su trattare in “modo ignobile” le persone che vengono ricondotte sul suo territorio.

Operato dei governi di centro-destra Come abbiamo già visto, nel periodo 2009-10, l’l'Italia è stata spesso accusata – sia da fonti straniere che italiane – di non osservare i diritti umani dei migranti, o addirittura di violarli in maniera grossolana e sistematica. Polemiche assai pretestuose sono state, i particolare, sollevate dal fatto che l’Italia è stata accusata di aver effettuato, nella seconda parte del 2009, in collaborazione con le autorità libiche, il respingimento di alcune imbarcazioni cariche di migranti nel Canale di Sicilia, senza tenere conto del fatto che alcuni di loro avrebbero potuto far domanda di essere ammessi come rifugiati. Una volta passato, con una regolare e democratica consultazione elettorale, e con la sconfitta del centro-sinistra, il ruolo di Presidente del Consiglio, da Prodi a Berlusconi, alcuni commentatori riprendono a sottolineare che “alla base del respingimento in alto mare di centinaia di migranti clandestini vi è un grave scontro tra interessi nazionali e valori della comunità internazionale. L'immigrazione clandestina è certo un problema molto serio, soprattutto ora che essa aumenta a ritmi vertiginosi. Spesso i clandestini non hanno documenti, e quindi è difficile identificarne la nazionalità; tra essi si nascondono

24 Ibidem

90

criminali.25

Poi, passando dai grandi principi a considerazioni più terra-terra, si aggiunge che “soprattutto, i flussi migratori, aumentando rapidamente, incidono seriamente sul nostro mercato del lavoro”. Considerazione non solo protezionista e passabilmente egoista, ma anche economicamente inesatta, in quanto è notorio che gli immigrati vanno ad occupare attività che gli Italiani si permettono il lusso di rifiutare, e che senza la disponibilità degli immigrati al lavoro notturno, a fare gli straordinari, e a farsi in molti casi sfruttare ogni oltre decenza, il sistema industriale italiano non avrebbe la flessibilità che ancora gli consente di competere con i paesi di nuova industrializzazione e a basso costo del lavoro. Secondo questo commentatore, ora che a palazzo Chigi non cìé più un governo della sua parte politica, “respingendo centinaia di clandestini verso la Libia, si viola un principio essenziale della comunità internazionale, un principio di solidarietà consacrato nell'Articolo 33 della Convenzione sui rifugiati del 1951: che impone ad ogni Stato contraente di non espellere o respingere un rifugiato verso territori in cui 'la sua vita e la sua libertà possono essere minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale o opinione politica'." Come abbiamo già accennato, e come meglio vedremo subito, è già questa una forzatura interpretativa sia della Convenzione del 1951, sia – e ancor più – della Costituzione della Repubblica. Ma ancora più in necessità di una dimostrazione è l'affermazione successiva, secondo la quale dopo il 1951 questo principio si sarebbe “esteso a tutti gli immigranti, anche a coloro che non hanno ancora lo status di rifugiato ma intendono acquisirlo o chiedere asilo politico. Anche se tra le centinaia di clandestini che il ministro Maroni ha fatto rinviare in Libia vi erano solo 30 o 40 perseguitati politici o cittadini di paesi profondamente autoritari, essi avevano diritto di ingresso in Italia, perché venisse accertato e riconosciuto il loro status. L'azione italiana, facendo prevalere interessi di sicurezza ed economico-politici nazionali sull'obbligo internazionale di rispettare i diritti umani, si è posta in conflitto con quei diritti.” Secondo tale logica, tutti coloro che, nel mondo, sono “ cittadini di paesi profondamente autoritari” (cioé tra due e tre miliardi di persone) avrebbero “ diritto di ingresso in Italia”. Una affermazione che mostra una dose di senso comune facile da valutare. Così come facile da valutare è l'obiettività con cui viene analizzata l'azione, in questo campo del Ministro Maroni e del governo in carica nel 2009-10. Il più severo critico della politica migratoria del governo di centro destra, che per ha dato prova della sua imparzialità criticando fortemente anche i governi D'Alema e Prodi, è il Prof. Vassallo Paleologo dell'Università di Palermo. Si tratta di un vero esperto della materia, ed impegnato con tutto il suo vigore morale nella difesa dei più deboli. E' perciò una di quelle persone che svolgono una estremamente utile funzione di parziale riequilibrio interessi forti e deboli, tra posizioni naggioritarie e minoritarie; cioé un ruolo prezioso in un sistema come quello italiano, dove il potere della burocrazia è molto forte, e dove nel sistema giudiziario sembrano talora prevalere finalità diverse da quelle del fare Giustizia e applicare le leggi. Non può perciò sorprendere che ogni tentativo di mettere a punto una politica migratoria che, come tutte le scelte politiche, deve contemperare e sintetizzare esigenze e

25 Antonio Cassese, art. cit.

91

interessi diversi, visioni, paure, illusioni e luoghi comuni assai diversi e contrastanti, gli appaia insoddisfacente. E' perciò di particolare interesse riportare ciò che egli suggersice quando da critico si fa autore di una proposta politica tendente a garantire la sicurezza e l’ordine pubblico, anche attraverso le espulsioni, al tempo stesso superando quello che gli appare come l'aspetto più negativo: la detenzione amministrativa presso i Centri di Identificazioe e di Espulsione. “Malgrado il prevalere delle politiche securitarie – egli scrive –, a fronte del loro evidente fallimento, a parte il vantaggio politico degli “imprenditori della paura”, non si può rinunciare a tracciare una prospettiva di una nuova politica migratoria che comprenda il superamento dei CIE. La criminalità, il traffico di esseri umani e il terrorismo si sconfiggono con azioni mirate, con la identificazione certa dei sospetti, con l’inclusione ed il coinvolgimento delle comunità degli immigrati . L’internamento in strutture come i centri di identificazione ed espulsione, oggi fino ad un periodo massimo di sei mesi, non sembrano più funzionali all’attribuzione di identità ed all’esecuzione più rapida dell’espulsione, ma servono solo alimentare esclusione sociale, clandestinità e frustrazione. L’unica garanzia di sicurezza, per una società democratica, sarebbe costituita dall’adozione di procedure che comportino comunque una identificazione certa dei cd. “clandestini”, agevolando la legalizzazione permanente (e dunque la emersione dalla clandestinità anche in seguito ad autodenuncia) di quanti si trovano già nel nostro territorio e possono vantare una situazione di integrazione sociale ( ad esempio una residenza stabile ed un rapporto di lavoro). La chiusura dei centri di detenzione amministrativa, con una diversa e più selettiva politica delle espulsioni, non impedirebbe il rispetto degli accordi di Schengen, a condizione di svuotare le sacche di clandestinità con la “regolarizzazione permanente” e con la concreta possibilità di un rientro nella legalità per coloro che sono soltanto responsabili di violazioni amministrative. L’effettività delle espulsioni può essere comunque garantita ricorrendo alla misura del domicilio obbligato per la generalità degli immigrati irregolari, prevedendo nel tempo ipotesi di rientro nella condizione di regolarità e riservando ai casi più gravi, nei limiti del dettato costituzionale, la limitazione della libertà personale. Bisogna restituire una valenza effettiva alla previsione costituzionale che stabilisce la riserva di legge nella disciplina della condizione giuridica degli immigrati. Per questo non basta modificare le leggi in materia di immigrazione e asilo che oggi concedono margini incontrollabili alla discrezionalità dell’autorità amministrativa sottraendola ad un effettivo controllo giurisdizionale. Occorre abrogare per intero la legge Bossi-Fini del 2002, senza inutili finzioni nominalistiche, modificando sostanzialmente il Testo Unico sull’immigrazione del 1998 nella parte relativa al controllo degli ingressi, ai casi di respingimento ed espulsione, ai centri di permanenza temporanea. Una politica migratoria puramente repressiva basata sulle misure di detenzione amministrativa e di allontanamento forzato non può che produrre una reazione violenta che stronca qualsiasi intervento di mediazione ed alimenta il conflitto sociale. Una disciplina efficace delle espulsioni potrà realizzarsi anche senza la detenzione amministrativa nei CIE, ovvero nei cd. centri di accoglienza (come li continua a chiamare la stampa), siano centri di identificazione (CID) o centri “polifunzionali”. Come è

92

confermato anche dalla Direttiva 2003/9/CE e dal Regolamento Dublino 343 del 2003, le norme internazionali o comunitarie non impongono la privazione generalizzata della libertà personale degli immigrati irregolari e dei richiedenti asilo, ma solo che i provvedimenti di respingimento e di espulsione siano effettivamente eseguiti, conformemente alla legge nazionale . Questo obiettivo è perseguibile più efficacemente con i rimpatri volontari, con misure di allontanamento forzato che non precludano un successivo ingresso regolare e soprattutto con una riduzione dell’area della irregolarità attraverso le procedure della regolarizzazione permanente. Le espulsioni ed i respingimenti devono esser comunque sottoposti ad un diffuso controllo giurisdizionale, senza colpire le vittime del traffico ma contrastando le grandi agenzie criminali nei luoghi dove queste prosperano indisturbate (a Malta ad esempio) con la copertura di quei governi che poi stipulano accordi di riammissione con l’Italia. Vanno riconosciuti a tutti gli immigrati, regolari ed irregolari, come già prescrive l’art. 2 del T.U. n. 286 del 1998, i diritti fondamentali della persona umana sanciti da tutte le Costituzioni moderne. La detenzione amministrativa deve essere ridotta ai casi e tempi conformi all’attuale dettato costituzionale. Se si vuole davvero garantire la sicurezza e l’ordine pubblico occorre praticare politiche migratorie autenticamente inclusive, combattere l’emarginazione sociale e la discriminazione a base razziale, riconoscere i diritti di cittadinanza sulla base della residenza e non della nazionalità.” Come già detto, è certamente un errore, ed una semplificazione scioccamente conservatrice – anche se di grande successo presso le più popolari e demagogiche gazzette della pretesa “sinistra” – , equiparare gli immigrati irregolari ai criminali o, peggio, ai terroristi. Non è questa la ragione che si può opporre alla soluzione suggerita da questo autorevole esperto: una sanatoria che tramutasse ope legis gli irregolari che fortunosamente sono arrivati a toccare il suolo italiano in immigrati regolari, come egli propone con parole meno esplicite. La ragione che sconsiglia l'ennesima sanatoria – la più gigantesca delle quali è stata fatta proprio dalle stesse forze politiche che hanno prodotto la Bossi-Fini – è che essa funzionerebbe come una straordinaria pompa aspirante, capace di attirare toute la misère du monde verso il nostro paese, diffondendo l'idea che l'importante, nel caso dell'Italia, è toccarne in qualche modo il suolo, o comunque entrare in contatto con le sue autorità, e che ciò fatto tutto finirà per essere “regolarizzato”. Va aggiunto che una impostazione meramente giuridica, morale e sociale, non sembra tenere conto del “fattore islam”, che è un fattore estremamente complesso, al tempo stesso culturale, religioso e politico, di cui è facile esagerare l'importanza – e soprattutto fare un'impropria associazione tra islam, islamismo e terrorismo, che restano comunque tre fenomeni collegati ma diversi – ma che sarebbe altrettanto sbagliato trascuirare quando si prenono in considerazione i problemi che l'immigrazione pone al nostro paese. L’applicazione si una politica dell'immigrazione e dei respingimenti Naturalmente, le critiche meno partigiane tengono conto del fatto che l' applicazione di questi, come di tutti i principi generali non è cosa semplice, e non mettono in discussione la necessità di regolarizzare l’afflusso degli stranieri extracomunitari (cioè provenienti da paesi non facenti parte dell’UE) e neanche la ovvia necessità di differenziare tra chi cerca di immigrare in maniera regolare e chi lo fa entrando clandestinamente in Italia. Esse tengono un discorso più generico sul fatto che respingere, quando essi sono ancora in mare, tutti gli stranieri che arrivano sui barconi in condizioni

93

disumane, non può essere considerata politica accettabile e nel rispetto dei diritti umani. Il carattere pretestuoso di tali accuse e delle polemiche che vi hanno fatto seguito non è difficile da dimostrare. E’ chiaro, infatti, che quando si effettuano respingimenti di persone che si trovano a bordo di battelli che tentano di raggiungere clandestinamente le coste italiane, non ci si trova in presenza di persone che si sono già poste – neanche illegalmente – nella sfera di autorità della repubblica italiana, e che non sono quindi ancora nella possibilità di presentare domanda d’asilo, quand’anche ne avessero l’intenzione e le qualifiche. Il respingimento di tali battelli realizza di fatto un’azione di tipo militare volta alla prevenzione di vari reati, tra cui l’immigrazione clandestina, e non alla loro repressione ex post. Ciò vale non solo in altro mare, fuori dalla giurisdizione italiana, ma anche nelle acque territoriali se, come accade nella stragrande maggioranza – anzi nella quasi totalità – dei casi, si tratta di battelli che non battono bandiera italiana. Gli sventurati che si trovano in tali battelli, a meno di non scendere a riva o essere stati soccorsi da navi italiane, non si sono trovati n nessun momento sotto la giurisdizione italiana. Essi non sono quindi mai stati nelle condizioni legali che avrebbero permesso loro di poter avanzare domanda d’asilo, quando anche fossero effettivamente perseguitati o minacciati il patria, e ciò anche se si fosse effettivamente trattato di persone provenienti da paesi come la Somalia e l’Eritrea dove tuttora persistono condizioni di insicurezza e violazione dei diritti umani. La questione dei respingimenti in mare dei migranti e la loro consegna alla Libia, dove, secondo le organizzazioni umanitarie, non godrebbero di un trattamento conforme agli standard internazionali sui diritti umani è stata sintetizzata in maniera assai efficace, sotto il profilo giuridico, da uno esperto del settore, il Prof. Natalino Ronzitti26

. La sua analisi prende le mosse dal fatto che, il 9 novembre 2010 “sono state votate alla Camera tre mozioni di indirizzo al governo, di contenuto tutto sommato tecnico, ma che hanno assunto un notevole significato politico essendosi intrecciate con la crisi” che contemporaneamente scuoteva la maggioranza di centro-destra. Ovviamente, “lasciando da parte le ricadute di politica interna”, tale analisi si è concentrata sui “nodi” giuridici della questione migratoria

Prendendo in considerazione, “in primo luogo l’oggetto delle mozioni di indirizzo”, egli giustamente osserva che”qualora esse siano volte alla revisione del Trattato del 2008, come è detto nell’intitolazione del documento della Camera che le raccoglie, si rischia di affossare il Trattato, faticosamente negoziato nel corso degli anni sia da questa sia dalla precedente maggioranza.” Nel Trattato, infatti, c'é una specifica “clausola relativa agli emendamenti”, e questa prevede che essi “debbono essere negoziati di comune accordo”. Se veramente, l'Italia ha espresso attraverso il Parlamento l'intenzione di cambiare il Trattato”, a parere di Ronzitti, “la via maestra da seguire è quella di attuare le disposizioni che fanno riferimento alla legalità internazionale, alle norme di diritto internazionale universalmente riconosciute (art. 1) e soprattutto al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, inclusa la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che è espressamente richiamata (art. 6). Il Trattato prevede anche un Comitato di partenariato e consultazione politica, nel

26 Natalino Ronzitti, Lo scontro sui respingimenti e il trattato Italia-Libia, IAI, 15/11/2010. Tale nota, molto molto arida e sintetica merita tuttavia di essere vista nella sua interezza

94

cui ambito appianare eventuali controversie. Una maggiore trasparenza sul funzionamento di questo organo e sulle iniziative intraprese sarebbe auspicabile. Qualora si volessero dettare nuove regole, lo strumento più opportuno sarebbe la conclusione di un Protocollo, non la revisione del Trattato, che evoca un contrasto di fondo tra le due parti, attualmente inesistente. Il capitolo cooperazione contro l’emigrazione illegale è disciplinato, è bene ricordarlo, dall’art. 19 del Trattato, che prevede la lotta all’immigrazione clandestina, in conformità ai Protocolli del 2007, cioè l’immigrazione in partenza dalle coste libiche verso l’Italia, e un sistema di controllo alle frontiere terrestri libiche, da attuare con l’aiuto del governo italiano e l’Unione europea. L’art. 19 prevede anche la collaborazione per la definizione di iniziative sia bilaterali sia in ambito regionale per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei paesi di origine dei flussi migratori. Questa clausola apre lo spiraglio per ulteriori intese e anche per la stipulazione di un Protocollo.”27

Affrontando i “nodi da sciogliere”, Ronzitti rileva poi come “i punti dolenti” siano tre: “respingimento in mare, pattugliamento congiunto, trattamento dei migranti respinti in Libia”. Sul primo punto, riprendendo col giusto distacco scientifico-accademico le critiche indirizzate all'esecutivo, egli nota in primo luogo come “il respingimento in mare attuato dalle autorità italiane sarebbe contrario sia alla nostra Costituzione sia alla Convenzione del 1951 sui rifugiati non appena i migranti sono imbarcati su una nave italiana, qualora non si provveda a verificare se tra loro vi siano persone aventi diritto a chiedere asilo. Ma sul punto le opinioni divergono. Non tutti gli esperti considerano la nave italiana in acque internazionali equiparabile a territorio italiano ai fini dell’applicazione dell’art. 10, 3° comma Cost., che concede il diritto di asilo.” E' chiaro che questa analisi svolta in punta di diritto prende in considerazione l'ipotesi che i clandestini che tentano di raggiungere l'Italia via mare vengano presi a bordo della nave che esercita il pattugliamento in alto mare. Non è però questo il caso quando un mezzo militare intercetta e costringe a cambiar rotta un natante carico di clandestini. Può accadere, invece, quando per le condizioni del natante e del mare, i suoi occupanti si trovino in pericolo di vita. In tal caso infatti, sia le leggi internazionali, sia quelle italiane – e soprattutto le tradizioni marinare caratteristiche dell'identità italiana – obbligano il comandante del battello intercettatore a prendere a bordo le persone in pericolo di vita. Affrontando l'aspetto poco chiaro del concetto di “refoulement”, su cui torniamo in un un altro punto di questo scritto, Ronzitti rileva che “non tutti gli internazionalisti considerano applicabile la Convenzione del 1951, che obbliga a non respingere il richiedente asilo ad un paese dove corra il pericolo di essere sottoposto a trattamento inumano o degradante, ai respingimenti in alto mare. È invece sicuramente applicabile la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, essendo la nave da guerra italiana organo dello stato, con la conseguenza che il respingimento del migrante verso un paese, dove possa correre il pericolo di essere sottoposto a trattamento inumano, è vietato.” Ed opportunamente egli ricorda che “taluni ricorsi sono stati presentati alla Corte di Strasburgo” e che, al momento in cui egli scrive – ottobre 2010 – “se ne attende l’esito”. Ciò riporta questo analista giuridico all questione del “pattugliamento congiunto, con

27 Ibidem

95

equipaggi misti italo-libici, previsti dai due Protocolli del 2007 e soprattutto da quello del 2009”. L'effettuazione concreta di tali pattugliamenti , espone – a suo parere – “l’Italia a violazioni del diritto internazionale, qualora non siano fissate precise regole d’ingaggio. L’incidente occorso al peschereccio italiano Ariete il 12 settembre scorso ne costituisce prova incontrovertibile.” Si tratta infatti, nel caso dell'Italia e della Libia, di due paesi che – per essere piuttosto diversi dal punto di vista istituzionale, e vincolati internazionalmente da Trattati che non sono sempre gli stessi, sono esposti a problemi di coordinamento quando si trovano ad operare congiuntamente. Questa diversità istituzionale e di collocazione giuridica internazionale fa venire al pettine il nodo più serio, “la questione del trattamento dei diritti umani in Libia. Nell’emendamento Mecacci, adottato alla Camera nella seduta del 9 novembre con il parere contrario del governo, si chiede che la Libia ratifichi la Convenzione Onu dei rifugiati e la riapertura a Tripoli dell’Ufficio dell’Alto commissario per i rifugiati dell’Onu (Unhcr) come premessa per continuare le politiche dei respingimenti dei migranti in Libia. La Libia è parte della Convenzione africana sui rifugiati del 1969, che contiene disposizioni molto avanzate. Sennonché l’Italia non ha titolo formale per chiederne il rispetto, come accadrebbe invece per la Convenzione del 1951, qualora ratificata dalla Libia. Occorre comunque ricordare che le convenzioni non debbono essere solo ratificate, ma anche concretamente attuate.” Per quel che riguarda la “rimessa in attività dell’Ufficio dell’Unhcr”, non c'é dubbio che esso “sarebbe un atto concreto immediatamente verificabile”. Ma chiaramente, l'Italia potrebbe farsi promotrice di un'iniziativa diplomatica presso la Libua solo si richiesta dell'ONU. Per completare l'analisi della questione sotto il profilo strettamente giuridico, qquesto specialista ritiene di dover aggiungere “alla situazione finora illustrata ….. altri due elementi di novità: il documento sottoscritto dalla Commissione europea il 5 ottobre 2010 e l’esame sulla situazione dei diritti umani in Libia effettuato dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite”. Per quel che riguarda il primo punto, egli osserva che “l’intesa raggiunta a Tripoli, il cui contenuto dovrà essere trasfuso nell’Accordo quadro in corso di negoziazione tra l’Ue e la Libia, prevede l’apertura di un ufficio dell’Ue entro la fine dell’anno a Tripoli nonché, in materia di protezione internazionale dei rifugiati, l’adozione di una legislazione interna di esecuzione della Convenzione africana del 1969 sui rifugiati, congiuntamente ad un aiuto a stabilire un idoneo sistema di protezione dei rifugiati. E’ inoltre previsto un aiuto per riammettere nei paesi europei coloro che abbiano titolo per godere del diritto di asilo.” Per quel che rigyarda il secondo egli scrive che ”l’intesa raggiunta con la Commissione non prevede una richiesta a Tripoli a ratificare la Convenzione sui rifugiati del 1951. Tale richiesta è stata avanzata nel corso della procedura periodica di riesame (Universal Periodical Review) che si è conclusa venerdì 12 novembre presso il Consiglio dei diritti umani a Ginevra. In tale ambito ogni stato membro del Consiglio viene periodicamente sottoposto ad esame in relazione alla sua politica in materia dei diritti umani. La Libia ha presentato un documento molto ottimistico sullo stato della sua legislazione interna, senza peraltro affrontare espressamente il problema dell’immigrazione illegale. Critiche sono venute soprattutto dai paesi occidentali, membri del Consiglio (l’Italia al momento non lo è più, ma ha presentato un documento cui dovrebbe essere data opportuna divulgazione). La Libia ha accettato la raccomandazione

96

di esaminare la possibilità di divenir parte della Convenzione del 1951, ma non quella di ratificare il Protocollo aggiuntivo del 1967, che prevede un monitoraggio delle Nazioni Unite e la inammissibilità di ogni riserva geografica verso il paese di provenienza dei rifugiati. Non ha accettato neppure la raccomandazione, avanzata dagli Stati Uniti, di formalizzare la presenza dell’Unhcr a Tripoli.” La “tirannia universale” Secondo l'ufficio romano dell'UNHCR, che con queste affermazioni va chiaramente oltre il proprio ruolo, per mettersi a far politica all'interno di uno Stato sovrano e membro dell'ONU, da cui l'UNHCR dipende, ed oltre il limite di ciò che è consentito ai funzionari delle organizzazioni internazionali. In pratica, approfittando della eccezionale tolleranza e benevolenza verso gli stranieri che regna nel nostro paese, e di quei difetti che ci vengono giustamente imputati – mancanza diffusa di orgoglio nazionale nella popolazione, e di senso dello Stato presso le autorità e la classe politica – interferisce chiaramente negli affari interni dell'Italia. E' questo un comportamento che finisce per giustificare la posizione di coloro che sono critici dell'evoluzione del sistema internazionale dopo la fine della guerra fredda., come Henry Kissinger. In particolare riferendosi alla cosiddetta “giurisdizione universale”, egli la denuncia come una violazione della sovranità di tutti gli Stati. "Widespread agreement that human rights violations and crimes against humanity must be prosecuted has hindered active consideration of the proper role of international courts. Universal jurisdiction risks creating universal tyranny — that of judges.28

" Secondo Kissinger, “as a practical matter, since any number of states could set up such universal jurisdiction tribunals, the process could quickly degenerate into politically-driven show trials to attempt to place a quasi judicial stamp on a state's enemies or opponents.”

In pratica, se una potenza riesce a raggiungere un grado di egemonia tale da influenzare non solo i paesi meno forti, ma anche le organizzazioni internazionali (in realtà fragilissime di fronte ai governi delle grandi potenze, i loro funzionari sempre assai sensibili au voleri dei governi più influenti) tutto il sistema rischia di funzionare a scapito di chi è costretto a fuggire il proprio paese- Il pericolo insito nelle tendenze, oggi fortissime, al governo universale erano già state intraviste da Voltaire che, avendo dovuto – per il suo anticonformismo e le sue idee politiche – vivere in esilio buona parte della sua vita, temeva il “governo mondiale” come la peste, per il timore agli spiriti indipendenti non restasse alcun luogo dove potersi rifugiare. Ne sembra una allarmante conferma il recente caso che ha visto il fondatore di Wikileaks accusato di stupro in Svezia, un paese il cui governo ha sempre ipocritamente coperto con una boriosa retorica moralista il servilismo verso la Germania nazista prima, poi la “neutralità” all'epoca dell'Urss, e l'oltranzismo occidentale oggi. Tenendo ben conto delle ostilità che l'Italia e il governo che essa ha avuto suscino forti ostilità presso molti paesi nel cui blocco l'Italia è stata inserita dagli Accordi di Yalta, l'UNHCR assume sempre toni estremamente critici nei confronti dell'operato delle forze italiane dell'ordine, e i generale dell'Italia. “Il respingimento indiscriminato non può essere adottato come misura per contrastare l’immigrazione irregolare via mare. Al contrario, tale pratica va a minare la fruibilità del diritto di asilo in Italia come si evince dal drastico calo delle domande d’asilo pervenute nel 2009 (circa 17mila, a fronte delle oltre 31mila nel

28 Henry Kissinger, "The Pitfalls of Universal Jurisdiction". Foreign Affairs, July/August 2001.

97

2008). Riguardo al numero dei rifugiati in Italia si stima che ve ne siano meno di 50mila, mentre in altri paesi dell’Unione Europea si passa dai 600mila della Germania ai 300mila del Regno Unito.” Un così alto numero di domande sembra però dimostrare, più che le presunte inadempienze dello Stato italiano, bensì il fatto che, di fronte ad un generale accrescimento delle difficoltà di accedere nei paesi tradizionalmente obiettivo dei flussi migratori, molti migranti tentano di entrare comunque dichiarandosi vittime di discriminazioni e persecuzione politica in patria. E’ ovvio, oserei dire banale, far notare che ogni domanda dovrebbe comportare un accertamento ad personam per distinguere tra rifugiati politici e quelli che sono stati definiti “rifugiati economici”, cioé aspiranti immigrati che fuggono solo la miseria personale e del loro paese solo, e per accertare chi potrebbe avere diritto all’asilo politico e chi no. Il respingimento tout court di tutti, senza ascoltare le ragioni di nessuno, è palesemente in violazione della Costituzione e dei Trattati internazionali. Immigranti e rifugiati I “rifugiati” non sono ovviamente dei "migranti" come gli altri, se non in un senso estremamente largo del termine. E di fatto, sia nella prassi degli Stati che nella percezione delle opinioni pubbliche essi continuano a costituire una categoria a parte. A differenza dell’immigrato, il cui scopo è quello di migliorare la propria condizione economica, che lascia a malincuore il proprio paese e il cui progetto di vita prevede, almeno in una fase della sua reazione all’esperienza migratoria, il ritorno “al paese”, e la ripresa dell’attivitò tradizionale, in genere agricola, in migliori condizioni sociali (normalmente attraverso l’acquisto di un pezzo di terra), i rifugiato e gli esuli politici, come definiti nella Convenzion del 1951 relativa allo statuto dei rifugiati, si trovano spesso deliberatamente fuori del paese di cui hanno la nazionalità e non possono o non tornarvi tornare, perché hanno motivo di temere di essere perseguitati a causa della loro razza, della loro religione, della loro nazionalità, della loro appartenenza ad un certo gruppo sociale o delle loro opinioni politiche. Nel corso degli anni, il concetto si è esteso, anche per una tendenza alla demagogia, a tutti coloro che credeno di essere esposti ad seria minaccia alla loro libertà e alla loro vita. Insomma, quel distingue i profughi dsl resto dei migranti è che essi avrebbero diritto a una protezione internazionale e sono in diritto di far domanda e, nel caso, di ricevere asilo in un altro Stato. Tuttavia, di fronte alle crescenti difficoltà incontrate da un numero sempre crescente di migranti (per ragioni economiche), molti di questi non esitano a farsi passare per perseguitati politici in modo da essere ammessi nei paesi in cui essi vogliono recarsi semplicemente per lavorare. In un gran numero di paesi, i movimenti di profughi e di migranti si riadattano in diversi modi. Le persone che lasciano il loro paese per rendersi in un altro, anche quando soddisfanno i criteri di profughi, sono sempre più numerose a raggiungere movimenti di migranti illegali o sprovvisti di documenti, che prendono le stesse strade, che usano i servizi degli stessi trafficanti e che si procurano documenti falsi di viaggio presso gli stessi fornitori. Se queste analogie non cambiano il fatto che alcuni sono veramente profughi e altri fingono solo di esserlo, esse confondono il quadro e contribuiscono a rendere la

98

distinzione poco precisa. Le preoccupazioni relative alla sicurezza nazionale dopo l'11 settembre 2001, gli sforzi degli stati per ridurre il ricorso abusivo alle procedure di domande d' asilo ed il rafforzamento della cooperazione tra gli stati per ridurre l' immigrazione illegale rende oggi più difficile per un profugo d' ottenere l'asilo e la protezione. Numerosi stati hanno adottato misure volte a prevenire e dissuadere gli stranieri dall'entrare sul loro territorio e dal chiedere l' asilo. Le cifre parlano chiaro. Secondo statistiche recenti riguardanti il diritto d' asilo pubblicata nel settembre 2006 dall'Alto Commissariato per i Profughi (UNHCR), la tendenza al ribasso è continuata nella maggior parte dei 36 paesi industrializzati presi in considerazione da questa agenzia delle Nazioni Unite. Nel 2005, il numero di richiedenti d' asilo era inferiore a quello del 1987. Nell'anno successivo, 2006, le domande si sono ancora ridotte del 14% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. All'inizio, questo declino costante poteva essere parzialmente attribuito a miglioramento delle condizioni in alcuni paesi d' origine, ma ciò solo prima che la grave crisi incominciata in America nel 2007 facesse precipitare la situazione economica in tutto il mondo. Più verosimilmente, la caduta delle domande d'asilo è probabilmente dovuta all'introduzione di politiche restrittive da parte di molti governi, in particolare in Europa. Il cosiddetto Dialogo ad alto livello sull'emigrazione internazionale e lo sviluppo, organizzato da l'Assemblea generale dell' ONU nel settembre 2006, ha messo l'emigrazione internazionale al primo piano dell'ordine del giorno mondiale. I partecipanti hanno in gran parte sostenuto la tesi secondo la quale le migrazioni possono costituire un fattore positivo per lo sviluppo, sia nei paesi d' origine che in quelli di destinazione, a condizione d' essere sostenuto da misure adeguate. Hanno anche riconosciuto qu' era essenziale trattare le cause fondamentali dell'emigrazione internazionale allo scopo d' garantire che le persone migrano della loro scelta e non per necessità; ciò s' applica anche ai movimenti di profughi. Numerosi partecipanti si sono impegnati a collaborare strettamente per porre fine all'emigrazione illegale. È anche importante fare in modo che le misure adottate per ridurre l'immigrazione illegale via mare non impediscano ai profughi veri di avere accesso alla protezione alla quale avrebbero eventualmente diritto. Occorre anche stabilire chiaramente i ruoli e le responsabilità dei diversi attori implicati - come i paesi d' origine e di transito, le organizzazioni internazionali e le compagnie di navigazione - quando le persone sono intercettate in mare. Tra immigrazione e terrorismo Gli Stati hanno, come è ovvio, il diritto del tutto legittimo de controllare e fortificare le proprie frontiere, ma non si tratta di un diritto senza limiti. L'intercettazione in mare, così come ogni altra misura finalizzata a ridurre l' flussi migratori illegali non dovrebbero essere considerati come un'automatica violazione del “principe de non-refoulement”, che viene ritenuto talora la pietra angolare del diritto dei rifugiati, una branca relativamente nuova del diritto internazionale che proibisce di obbligare una persona al ritorno nel proprio paese, o anche a respingerla verso un paese terzo, quando ciò metta in pericolo la loro vita e la loro libertà. Si tratta di un principio emerso, e giunto a godere di un largo consenso, alla fine del

99

ventesimo secolo, quando di pensava che, col declino del “comunismo realizzato”, i paesi che potessero ricadere nella suddetta definizione sarebbero stati una minoranza. Nonostante non lo si voglia ufficialmente ammettere, anzi si mantenga a livello ufficiale la fictio del contrario, questa idea è stata duramente smentita nei primi anni del nuovo secolo, che hanno visto il moltiplicarsi delle situazioni in cui non solo glì oppositori del governo al potere, e non solo le minoranze religiose e nazionali, ma tutti gli strati e le componenti della popolazione sono permanentemente minacciate nelle loro libertà, nelle loro proprietà, nei loro diritti fondamentali e nella loro vita. Peraltro, come reazione alla tragedia dell'Undici Settembre, l'ossessione della sicurezza e del terrorismo è stata scelta dalle autorità americane come strumento di mobilitazione ed organizzazione del consenso acritico, e per misure di polizia che hanno reso gli stessi Stati Uniti un paese che “mette in oericolo la vita e la libertà” dei suoi stessi cittadini, e di chiunque cada sotto il controllo delle sue autorità o, all'estero, delle sue forze armate. In USA ed in Gran Bretagna, così come nelle zone dei paesi esteri in cui operano le loro forze armate, la vita e le libertà di un islamico – o anche di un indiano o di un brasiliano che possa essere scambiato per un islamico – sono altrettanto, se non più, a rischio quanto quella di un Americano in taluni, non tutti, paesi islamici. Ed è sulla base di questo assunto, e di questa fictio, che i Ministri della Giustizia e dell'Interno dell'Unione europea hanno convenuto, ancora nell'autunno del 2006, sul principio che le misure destinate a rafforzare le frontiere marittime esterne sul fianco sud dell'Unione e a controllare l'immigrazione clandestina via mare debbono essere applicate "senza pregiudizio dei dei principi enunciati negli strumenti giuridici internazionali relativi al diritto del mare e alla protezione dei rifugiati ". Oggi, ci sonoo semplicemente troppi paesi in cui la vita non solo degli oppositori politici o delle minoranze nazionali o religiose è a rischio, ma quella di tutti gli abitanti; troppi perché, bloccando un qualsiasi dispefrato che cerchi di entrare irregolarmente nell'Unione Europea, non si rischi di violare il “principe de non refoulement”. A moltiplicare le finzioni hanno contribuito anche gli stessi immigrati che, di fronte alle crescenti difficoltà ad insediarsi in un qualsiasi paese ricco, hanno preso l'abitudine di chiedere asilo politico nei paesi in cui vogliono installarsi per ragioni economiche. E le autorità dei paesi di destinazione sono state al gioco, accettando che, dopo un certo numero di anni, o quando ricorressero delle condizioni stabilite spesso arbitrariamente, i rifugiati potessero diventare "immigrati". In alcuni paesi europei un gran numero di clandestini che si avevano fatto domanda d'asilo al momento del loro impatto con le forze dell'ordine è riuscito a stabilirsi e ad inserirsi nel sistema produttivo, come era peraltro spesso nella loro intenzione originaria, anche se – per riuscire ad entrare – si erano spacciati per rifugiati politici. La questione dei respingimenti in mare, che era stata in pratica portata a soluzione alla fine del 2009, con il Trattato Italia-Libia é stata riaperta in maniera del tutto irresponsabile, con il voto – assieme all'opposizione – da parte di di un gruppo di scissionisti della maggioranza che aveva sino ad allora sostenuto la posizione del governo, a favore di un emendamento sul trattato Italia-Libia che richiederebbe un sostanziale cambiamento della posizione di Tripoli in materia. In base al testo approvato nel corso di una confusa sessione parlamentare in cui accuse e contro accuse avevano creato un clima assai poco attento alla sostanza della questione, il governo viene infatti impegnato "a sollecitare con forza le autorità di Tripoli

100

affinché ratifichino la Convenzione Onu sui rifugiati e riaprano l'ufficio dell'Unhcr a Tripoli quale premessa per continuare le politiche dei respingimenti dei migranti in Libia". L'emendamento, a firma del radicale Mecacci del gruppo Pd, richiede all'esecutivo di "impegnarsi a rivedere il trattato di amicizia con la Libia alla luce di quanto accaduto recentemente, a chiarire i termini degli accordi relativi ai pattugliamenti congiunti in corso, in particolare per quanto riguarda la catena di comando e le regole d'ingaggio, incluso l'uso delle armi durante tali operazioni; ad attivarsi, sia attraverso i contatti bilaterali con Tripoli, che a livello internazionale, per ottenere che la Libia riconosca i confini marittimi sanciti dal diritto internazionale e consenta ai pescatori siciliani di pescare legalmente in acque internazionali senza il rischio di subire attacchi armati o il sequestro dei pescherecci". L'emendamento prevede anche che si sospenda "la politica dei respingimenti dei migranti in Libia, anche alla luce di quanto accaduto negli ultimi mesi, dato che tale politica viola sia il principio fondamentale di non respingimento (non-refoulement) previsto dalla Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 (ratificata dall'Italia nel luglio 1954) e considerato un principio di diritto internazionale generale, sia il pieno accesso alle procedure di asilo nell'Unione europea". Se accettata dal Governo di Tripoli, obbligherebbe dunque la Libia ad aprire a Tripoli un ufficio per la tutela dei diritti degli esuli e dei rifugiati politici” cioé in pratica per esaminare le eventuali domande di diritto d'asilo. L'emendamento non chiarisce però se tale ufficio dovrebbe essere un ufficio del Governo Italiano ospitato sul territorio di un altro paese, o un ufficio del Governo libico per valutare i casi di coloro che desiderano rimanere come rifugiati in Libia. Naturalmente, ciò non significa che la politica italiana in materia di respingimenti possa cambiare radicalmente, anche se il prezzo sarà probabilmente – come è stato fatto immediatamente rilevare – la ripresa dei traffici di carne umana attraverso il canale di Sicilia, e un rinnovato arrivo dei barconi con i clandestini. Il voto di tale emendamento, dove si mescolavano questioni diverse, aveva infatti soltanto valore strumentale, per mettere in difficoltà il difficoltà il governo e favorire un eventuale ricambio al vertice. E a ciò si aggiungeva l'obiettivo di guastare i rapporti tra Italia e Libia, il cui buon andamento negli ultimi anni ha profondamente irritato interessi internazionali assai forti – politici ed economici – che hanno trovato un'eco nelle posizioni degli scissionisti. L'opinione pubblica italiana in materia di immigrazione irregolare rimane invece sulle posizioni che avevano portato alla stesura del Trattato quale esso è stato presentato alla Camera, ed ogni maggioranza sarà costretta a tenerne conto.

101

PARTE QUARTA

LA QUESTIONE ISLAMICA IN EUROPA

Mediterraneo e sicurezza europea

Due sfide si pongono dunque, e sempre più si porranno, ora che il Mediterraneo è diventato la frontiera permeabile che divide i paesi con eccesso e paesi con deficit di popolazione. Tra queste, le sfide dell’assimilazione socio-culturale dei “nuovi italiani” e quella speculare della preservazione dell'identità politica e culturale dell'Italia si tradurranno in problemi che dipendono dalla cultura – berbero-arabo-islamica – di provenienza di quelli che prevedibilmente saranno la maggioranza degli immigrati nei prossimi decenni. E si tratterà perciò di una sfida di lungo periodo e di una sfida difficile, anche se forse meno difficile di quanto non sarebbe quella di assimilare immigrati “europei” come i Rom, che i governi dei paesi incautamente ammessi nella UE sotterraneamente incoraggiano a migrare verso ovest. mmm

Di più breve periodo, sono invece la sfida dell’integrazione economica di un gran numero di immigrati nel sistema produttivo e quella della sicurezza dell’Italia nei confronti di quei gruppi – assai minoritari, ma anche assai efficaci e pericolosi – che vedono il rapporto tra culture e identità diverse sotto forma di scontro armato, se non addirittura di “guerra santa”. Quest’ultima questione è anzi di estrema urgenza, anche perché è proprio nel Maghreb che il terrorismo di matrice islamista ha operato di recente – pur essendo stato assai indebito militarmente dall’azione del governo algerino – una riorganizzazione e una re-definizione. Il cosiddetto Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC) nato negli anni novanta, nel corso della guerra civile algerina nel 2005 si è affiliato ufficialmente ad Al-Qaeda, rinominandosi "Al Qaida nel Maghreb islamico", e sembra aver trovato una leadership efficace e ancora più estremista

La prospettiva, e anche il presente, dei flussi migratori attraverso il Mediterraneo hanno dunque trasformato il quadro strategico e i problemi della sicurezza in quello che, durante la guerra fredda, veniva considerato “il lato Sud” della NATO e come un teatro secondario di un possibile confronto tra questa ed il blocco sovietico.

Se lo Stretto di Gibilterra ed il canale di Sicilia apparivano, in questo contesto, come posizioni strategiche, la posizione- chiave era quella del Dardanelli, e l’attore più importante – l’alleato di cui garantirsi ad ogni costo la fedeltà – era la Turchia. Oggi, invece, il Mediterraneo è maggiormente un punto di passaggio tra il Nord ed il Sud, in altre parole, la porta d’accesso dei paesi fortemente industrializzati, prosperosi e stabili da parte delle masse in fuga dai paesi la cui stabilità economica e politica è più precaria.

Dall'inizio degli anni 90, – fa infatti notare il già citato Rapporto della Nato 29

29 100 GSM 09 E rev 1 – Migration in the Mediterranean Region: Causes,Consequnces and Challenges,

NATO. Brussels, 2009

– “l'Europa si preoccupa sempre più dell'immigrazione irregolare transmediterranea; il Mediterraneo è, infatti, il primo degli itinerari con i quali gli immigranti irregolari tentano di entrare in Europa.” E quindi “lo stretto di Gibilterra o il canale di Sicilia conservano la loro

102

importanza strategica, non tanto perché sono situati sul lato Sud della NATO, ma perché costituiscono ‘punti caldi’ che occorre proteggere contro l'immigrazione irregolare, la criminalità organizzata ed il terrorismo internazionale.”

Si tratta come vedremo di una visione discutibile, e che privilegia una visione militare, di difesa delle frontiere ad una visione più “sicuritaria”, che tenga conto del fatto che il rigetto dell’Occidente non è diffuso tra coloro che decidono di immigrare – che anzi hanno “scelto” l’Occidente, ma nasce soprattutto nelle comunità già stabilite nelle società europee. Gli uomini e le donne che compongono queste comunità tendono infatti ad attribuire alle autorità dei paesi ospiti, e al “razzismo” delle popolazioni, tutte le difficoltà che essi incontrano, siano esse difficoltà economiche, o di tipo culturale e sociale. Non sempre a torto. Ma questo conta poco, perché, a torto o a ragione, ciò crea degli alienati rispetto al contesto in cui vivono, che quasi sempre danno vita a comportamenti antisociali.

La visone del Rapporto Nato è sotto questo profilo troppo ristretta. Da un lato tale Rapporto sottolinea che la grande maggioranza degli immigranti sia costituita da persone motivate non da intenti criminali ma dalla ricerca di una vita migliore, e che non violano la legge se non quando vi sono costretti dalla mancanza di alternative. Analogamente, afferma con grande chiarezza lo studio della Nato “occorre anche sottolineare con forza che la maggioranza immensa degli immigranti non mette la sicurezza in pericolo. Ma non si può ignorare che minacce contro la sicurezza dell'Europa hanno trovato la loro origine nelle Comunità immigrate, e questo problema deve essere trattato in modo totale.”

Proprio dagli esempi che vengono portati per spiegare la necessità del controllo alle frontiere, sembrano però dimostrare il contrario, cioè che la principale minaccia terroristica nasca dal rancore accumulato nelle comunità già presenti nei paesi di immigrazione. Ed infatti “gli attentati commessi contro i treni a Madrid sono stati progettati ed effettuati da immigranti nordafricani. I terroristi responsabili degli attentati di New York e di Washington, nel 2001, hanno preparato la maggior parte dell'operazione nella loro comunità immigrata di Amburgo. Il moschea di Finsbury Park, a Londra, e la Comunità immigrata che essa serve hanno svolto il ruolo di centro d’arruolamento per molti terroristi, tra cui il tristemente celebre Richard Reid, che trasportava esplosivi nelle sue scarpe”. Lo faceva notare ancore di recente il New York Times, in una critica dell’interminabile impegno militare in Afghanistan: “The staging ground for the 9/11 attacks was Germany — and some American flight schools —as much as Afghanistan”.30

Non c’è dubbio che ci sia una parte notevole di ragione nel sottolineare l’importanza del controllo delle frontiere marittime. E’ vero infatti che”l'immigrazione irregolare è spesso associata aattività illegali. Ad esempio, il trasporto di immigranti irregolari dell'Albania in Italia è nelle mani di quelle che vengono chiamate “le mafie albanesi”, legata ad organizzazioni criminali più vaste che si occupano di traffico di stupefacenti e di armi e di prostituzione. Questa associazione tra immigrazione irregolare e criminalità organizzata internazionale è, evidentemente, una fonte di preoccupazione in materia di sicurezza”

31

Terroristi si diventa

. Ma quello della “Mafia degli scafisti”, è un caso ed un fenomeno particolare, che ha operato sulla rotta tra l’Albania e l’Italia, e che è stato risolto anche, e forse soprattutto, combattendolo in alto mare.

30 Robert Wright, Worse than Vietnam, in NYT, 23 Novembre 2010 31 NATO, cit.

103

L’esperienza di questi ultimi dieci anni sembra portare ad una conclusione: terroristi non si nasce ma si diventa. In termini più chiari, il profilo psicolico-politico del terrorista lo ha tracciato il giornalista Giorgio Bocca, riprendendo un concetto espresso da un ex.brigatista rosso, sopo molti anni in cui aveva potuto meditare in prigione.

Secondo questa spiegazione, l'esplosione del del terrorismo che ha sconvolto 'Europa negli anni 70 nasceva dal fatto che una sinistra che pretendeva di parlare per la classe operaia, e di pochi operai veri e propri, che tutte le lotte condotte nel dopoguerra su ispirazione dei partiti comunisti e socialisti non avrebbero avuto mai nessuno sbocco politico. La classe operaia, nonostante avesse messo a punto tettiche quasi miliari per combattere l'élite del potere e del danaro, non era, e non sarebbe mai stata, in grado di proporre un'alternativa al capitalismo. E che quindi il “sol dell'avvenire” non ci sarebbe mai stato.

Chiedendosi perché una parte della base della sinistra fosse passata dalla militanza nel PCI e nella CGIL alla lotta armata negli anni Settanta e non prima, Bocca rispondeva che ciò era accaduto “perché la classe operaia arrivava dagli anni della ricostruzione, della grande fatica, dei bassi salari, della discriminazione e stava rendendosi conto che il suo tempo era già passato che non ci sarebbe stato nessun 'sol dell'avvenire'. Fu il suo canto del cigno, ma allora chi lo sapeva? Siamo piombati in un mutamento che non capivamo, e abbiamo scambiato la nostra rabbia per una rivoluzione".

Passando alla questione della violenza che, nei paesi sottosviluppati, si ammanta dei panni dell'islamismo, egli aggiungeva che “qualcosa del genere stia avvenendo a livello mondiale agli umili e diseredati della Terra. È stato detto dopo l'ultima guerra mondiale che cominciava un'era di pace e prosperità per tutti, che le guerre non erano più di conquista ma di liberazione, che il comunismo o il capitalismo della tecnologia e della scienza avrebbero fatto regnare l'abbondanza e l'eguaglianza. E invece arriva il catastrofismo, la penuria dei cibi e dell'energia, i nuovi conflitti per assicurarsi l'aria e l'acqua per vivere. Forse il vero movente del terrorismo è quello dell'eroe ebraico: 'Muoia Sansone con tutti i filistei'.

L'arma della morte

L'Islam, nel confronto culturale, economico, sociale e tecnologico che l'Occidente gli impone con il suo dilagare, è preso da una paura analoga, quella di scomparire. E' dunque dall’incontro/scontro con l’Occidente che nasce l'islamismo, e nessuno vive sulla propria pelle questo incontro/scontro più dell'immigrato che, per ottenere un po' di beni materiali accetta di andare a vivere “in partibus infidelium”, persine di portare la propria famiglia in un ambiente che egli considera profondamente immorale.

L'uomo è certo una creatura eminentemente adattabile alle condizioni in cui gli capita di vivere, una delle più adattabili dell’universo, ma ciò è vero soprattutto sul piano fisico. Più difficile l’adattamento sul piano psicologico. Gli immigrati, come tutti i “poveri del mondo, la stragrande maggioranza dei nostri simili, anche per il fatto che oltre alla religione, non vedono più nulla di alternativo al cosidetto capitalismo, semplicemente non credono nel futuro. Dunque meglio immolarsi per un utopico paradiso che vivere frustrati da oppressori di ogni specie e bandiera.....

Lo slogan dell'ultimo ragazzo che ha fatto una strage in Finlandia era: "Siamo nati per combattere'. C'e' chi non accetta il sistema. la vita cosi' com'e', come me. La vita e' piu'

104

una condanna' che una gioia. Allora che muoia Sansone con tutti i Filistei. Chi pensa di poter dormire tranquillo, si illude soltanto. La morte e' una liberazione; anche per voi, che sembrate vivere felici, calpestando il prossimo.”32

Una vera comprensione dei meccanismi psico-patologici che sono alla base di un comportamento così estremo come quello del terrorista, e di quello ancora più aberrante del terrorrista-suicida, risulta insomma necessaria per poter combattere il fenomeno in maniera efficace. Iil che non è semplice, né sotto l'aspetto della repressione dei comportamenti terroristici, né sotto quello della prevenzione. Bisogna infatti pensare che i meccanismi classici della prevenzione e repressione dei comportamenti criminali, fondati su una pena sia pure estremamente severa e su una certezza anche assoluta della punizione perdono ogni efficacia di fronte al terrorista suicida, che già accetta di pagare il proprio gesto con la perdita certa della vita.

Al banchetto seduto tra due sedie

C'é inoltre da tener sempre presente che i migranti non sono atomi, i cui movimenti sono dettati da leggi non mutevoli nel tempo, come quella che regola il flusso di un fluido tra due vasi comunicanti. Al contrario, le intenzioni dei migranti, le loro speranze, le loro idee, il loro progetto migratorio possono anche mutare nel tempo. Anzi, non possono non mutare di fronte all'impatto con una realtà sociale e lavorativa assai diversa non solo da quella cui sono abituati, ma anche da quella che essi avevano immaginato di trovare, fondandosi su quanto visto alla televisone o sentito raccontare da altri migranti tornati al paese.

E' noto infatti – come accadeva anche con gli emigranti italiani del passato, che – quando ritorna temporaneamente o definitivamente in patria, l'emigrato racconta meraviglie del paese ospite, in maniera esattamente eguale e contraria a ciò che fa quando è all'estero, dove magnifica il paese d'origine, la dolcezza del vivere che lo caratterizzerebbe, e lo fa – in entrambi i casi quasi credendoci, tanto da rimpiange apertamente l'uno e l'altro alternativamente.

Come più volte detto, l'immigrato – specie quello dei nostri tempi, in cui i costi di viaggio, e soprattutto delle telecomunicazioni, sono nettamente caduti rispetto a quelli dei tempi dell'esodo dall'Italia – è un uomo diviso tra due mondi, un invitato ad un banchetto dove però è costretto a stare seduto a metà su una sedia a meta su un'altra, psicologicamente “al paese” quando è emigrato, e psicologicamente emigrato quando è al paese”. Insomma è una persona al bordo della scissione dela personalità, e che oscilla tra due forze che lo attraggono con seduzioni diverse: gli affetti e le abitudini al paese d'origine: un misero premio materiale e la speranza di un piccolo “successo” nel paese di destinazione.

E' per questo motivo che le indagini socio-demografiche tendenti ad accertare i desiderata e le ragioni di insoddisfazione, gli obiettivi e i progetti di coloro che lavorano in un paese diverso da quello in cui sono nati, svolte facendo delle domande agli immigrati sono poco significative. Perciò vanno prese con mola prudenza le affermazioni secondo le quali “la schiacciante maggioranza assoluta degli immigrati in Italia non intende affatto 32 Giorgio Bocca,Il terrorismo italiano, 1970-1980, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1981

105

rimanere in Italia, ha come obiettivo futuro un ritorno in patria e per di più dice esplicitamente di non volersi affatto integrare nella cultura italiana, preferendo mantenere la propria integrità culturale.

Questa è infatti la fotografia del tutto “politicamente scorretta” delle intenzioni degli immigrati che emerge da un sondaggio – l’unico sul tema - commissionato dal Ministro degli Interni alla Makno e da questa reso pubblico nel 2008 …. Si tratta di un'inchiesta statistica apparentemente seria, “basata non su telefonate ma su ben 1000 interviste ad altrettanti immigrati e da 52 colloqui approfonditi. Tra quelli che rispondono su quale sia il proprio progetto per il futuro (il 23,3 per cento non risponde, perché non ha progetto), il 69 per cento degli immigrati afferma che il proprio obiettivo è ritornare in patria, vuoi quando sarà anziano, vuoi quando avrà guadagnato abbastanza, vuoi quando avrà imparato un lavoro, e possiamo includere in questo comparto anche chi si dice preoccupato perché non ritiene possibile tornare se in patria la situazione non migliora. Dunque, solo il 31 per cento tra gli immigrati che ha un progetto per il proprio futuro, pensa di vivere tutta la vita in Italia. Meno di un terzo...” 33

Questo risultato non significa gran che. Bisognerebbe infatti sapere se il campione è composto di immigrati appena giunti, che – come i meridionali italiani che andavano a Torino negli anni '50 – pensano di restare per un breve periodo, accumulare un po' di risparmi, e tornare al paese a comprare una casa o un pezzetto di terra. Oppure se si tratta di immigrati presenti da un certo numero di anni, o da un mix rappresentativo della anzianità media di presenza nel paese di destinazione. E forse bisognerebbe avere dati distinti per area culturale di provenienza. E poi,ancora, chi è stato interrogato: gli immigrati che vivono da single oppure gli immigrati che hanno qui la famiglia? E gli immigrati single maschi o femmine, oppure un campione che tiene conto delle proporzioni in cui sono maschi o femmine gli immigrati single? E specificamente, oggetto dell’indagine è stato l’immigrato lavoratore, o un membro del nucleo familiare? I risultati sarebbero probabilmente assai diversi in tutti questi casi. Il diritto di cambiare idea

Nessuno di questi due elementi sembra essere preso in considerazione nelle indagini sociologiche di cui disponiamo. Ma anche in assenza di informazioni dettagliate di questo tipo sembra possibile constatare che l’immigrato non è un ladro venuto per rubare il lavoro agli Europei, come credono i preoccupati estremisti di questi ultimi anni, – e come propagandato dalla gutter press britannica e dai seminatori professionali di odio, come certi giornalisti o presunti leaders di comunità immigrate – né un invasore che vuole rovesciare e vendicare il passato fenomeno della colonizzazione europea di quello che ancora pochi anni fa veniva chiamato il ”Terzo Mondo”. E non è, specie se è arrivato da poco, un terrorista venuto qui a distruggere la società che lo ha accolto. Ma è certo una persona che può diventare tutto questo, perché e una persona in difficoltà, psicologicamente fragilizzata dallo sradicamento, che può reagire anche in modo assai negativo alle discriminazioni e alle offese che subisce, e a quelle che immagina di vedere nel comportamento degli abitanti del paese ospite.

Le intenzioni dell’immigrato possono anche mutare nel tempo, anzi cambiano inevitabilmente e di continuo sotto l’impatto di esperienze così traumatiche come lo 33 Carlo Panella, Cittadinanza agli immigrati: un falso problema, in “L'ircocervo”, Dicembre 2009

106

sradicamento dal proprio ambiente, il radicale cambiamento di attività lavorativa, la nuova vita in un paese in cui si è condizione di minoranza razziale, linguistica e religiosa.

Da un sondaggio da noi condotto a Roma, attraverso un numero limitato – per scarsità di tempo e di risorse – di colloqui diretti con immigrati abbiamo constatato che su 64 persone interrogate ben 49 hanno risposto di essere state, o di essere tuttora, indecise sul carattere temporaneo o definitivo della propria permanenza in Italia. Solo quattro di loro – quattro donne cinesi – hanno affermato di aver voluto sin da prima della partenza dare carattere definitivo alla loro migrazione. Una coppia del Bangla Desh, che aveva lavorato molti anni in Germania (sei lui, quattro lei) ha affermato di aver deciso per l'installazione definitiva dopo un anno di vita in Italia. Simile la risposta di un Senegalese, precedentemente operaio a Treviso, che ha dichiarato di aver deciso per l'emigrazione definitiva “se possibile” solo dopo il passaggio da Treviso a Roma, dove “gli immigrati vengono trattai come tutti gli altri”. Una equadoregna ha dichiarato di essere partita solo per sostituire per un mese la cugina occupata come domestica, ma di “aver stabilito un rapporto con questo paese e di non volerlo più perdere”. Una statunitense, cui il padre prima della partenza per un periodo di studio in Italia aveva creduto opportuno far seguire un corso di “difesa personale” dichiara di essersi accorta che “l'America è un paese sottosviluppato”, e di voler restare definitivamente.

Un marocchino, in un primo momento deciso a seguire l'esempio di uno zio che ha fatto fortuna nel settore della pesca, ha invece rinunciato al progetto di una installazione definitiva perché “in Italia c'é troppo libertà e i figli dello zio non gli obbediscono più”. Un sudanese venuto come studente, irritato dal fatto che “a Napoli dicono 'nu cristiano' per dire 'un essere umano'”, aveva pensato di rientrare in patria fin dal primo anno di università, ma di aver poi cambiato idea “perché ho capito che si tratta solo di un modo di dire”. Un siriano, di famiglia benestante, anche lui venuto solo per studiare, ha deciso di rimanere “perché in Italia c'é la libertà.” Un portiere d'albergo, algerino, si dichiara “pentito di essere rimasto” perché i suoi studi di legge compiuti in Egitto non gli vengono riconosciuti. Un egiziano, venuto come corrispondente di un giornale, per poter restare, ha accettato di fare il pizzaiolo. Ora, lui e suoi due fratelli possiedono tre ristoranti ed hanno sposato donne fatte venire dall'Egitto.

Un'altra indagine, condotta via internet su immigrati che vivono in altre città, ha dato risultati analoghi. Su cento intervistati, 83 hanno dichiarato di aver cambiato una o più volte il loro “progetto migratorio”.

Un altro dato interessante emerso dalla nostra indagine – il cui campionrenon è però rappresentativo, è che, da un punto di vista economico, l’immigrato – in particolare quelli provenienti dai paesi della sponda sud del Mediterraneo, in cui, soprattutto grazie ai capitali petroliferi, si sta diffondendo un minimo di benessere – non appartiene oggi più alle categorie più disperate della popolazione del Terzo Mondo. Al contrario, egli o ella è qualcuno che ha già assorbito un certo numero di caratteristiche e capacità occidentali, e che è spinto a emigrare dalla propria aspirazione ad una situazione economica migliore, e dall’aspirazione della sua famiglia, che ha contribuito a racimolare le somme necessarie per la sua partenza. Inoltre, da un punto di vista politico e culturale l’immigrato è una persona che ha già rifiutato parte degli ideali della società natia.

Questo atteggiamento non va però confuso con quello delle seconde e terze generazioni, composte dai figli e dai nipoti dei primi immigrati che, se cresciuti in società

107

occidentali affrontando i problemi legati allo status sociale dei loro parenti, finiscono poi per idealizzare la loro cultura d’origine, e rischiano di diventare teppisti suburbani o membri di gruppi estremisti islamici

Terroristi come e perché

Nessuno di questi due elementi sembra essere preso in considerazione nelle indagini sociologiche di cui disponiamo. Ma anche in assenza di informazioni dettagliate di questo tipo sembra possibile constatare che l’immigrato non è un ladro venuto per rubare il lavoro agli Europei, come credono i preoccupati estremisti di questi ultimi anni, – e come propagandato dalla gutter press britannica e dai seminatori professionali di odio, come certi giornalisti o presunti leaders di comunità immigrate – né un invasore che vuole rovesciare e vendicare il passato fenomeno della colonizzazione europea di quello che ancora pochi anni fa veniva chiamato il ”Terzo Mondo”. E non è, specie se è arrivato da poco, un terrorista venuto qui a distruggere la società che lo ha accolto. Ma è certo una persona che può diventare tutto questo, perché e una persona in difficoltà, psicologicamente fragilizzata dallo sradicamento, che può reagire anche in modo assai negativo alle discriminazioni e alle offese che subisce, e a quelle che immagina di vedere nel comportamento degli abitanti del paese ospite.

Le intenzioni dell’immigrato possono anche mutare nel tempo, anzi cambiano inevitabilmente e di continuo sotto l’impatto di esperienze così traumatiche come lo sradicamento dal proprio ambiente, il radicale cambiamento di attività lavorativa, la nuova vita in un paese in cui si è condizione di minoranza razziale, linguistica e religiosa.

Infatti, da un punto di vista economico, l’immigrato – in particolare quelli provenienti dai paesi della sponda sud del Mediterraneo, in cui, soprattutto grazie ai capitali petroliferi, si sta diffondendo un minimo di benessere – non appartiene oggi più alle categorie più disperate della popolazione del Terzo Mondo. Al contrario, egli o ella è qualcuno che ha già assorbito un certo numero di caratteristiche e capacità occidentali, e che è spinto a emigrare dalla propria aspirazione ad una situazione economica migliore, e dall’aspirazione della sua famiglia, che ha contribuito a racimolare le somme necessarie per la sua partenza. Inoltre, da un punto di vista politico e culturale l’immigrato è una persona che ha già rifiutato parte degli ideali della società natia. Questo atteggiamento non va però confuso con quello delle seconde e terze generazioni, composte dai figli e dai nipoti dei primi immigrati che, se cresciuti in società occidentali affrontando i problemi legati allo status sociale dei loro parenti, finiscono poi per idealizzare la loro cultura d’origine, e rischiano di diventare teppisti suburbani o membri di gruppi estremisti Islamici.

L’immigrato stesso, l’uomo – e sempre più frequentemente la donna – che decide di abbandonare la propria arcaica società per trasferirsi in un paese diverso e molto più secolarizzato, è già una persona “semi-occidentalizzata”, già sedotta dai miti del mondo “globalizzato” secondo cui le differenze culturali si sarebbero progressivamente ridotte ed in alcuni casi addirittura scomparse del tutto, mentre le identità nazionali sarebbero state rimpiazzate dai gusti omogenei delle persone che non sono più cittadini o sudditi di diversi paesi, ma semplicemente cittadini globali.

Ciò è particolarmente vero per le popolazioni nordafricane. In questo caso, l’uomo – e sempre più frequentemente la donna – che decide di abbandonare la propria arcaica società per trasferirsi in un paese diverso e molto più secolarizzato, è già una

108

persona “semi-occidentalizzata”, già sedotta dai miti del mondo “globalizzato” ", che, alla partenza, non si percepisce come condannato a vivere in una condizione di discriminazione e di ostilità in partibus infidelium.

Relativamente alla ostilità che spesso gli immigrati provano nei confronti della società ospite, la valutazione della sua forza e periclosità dipende da un’altra piccola domanda: “Quando ?”. Probabilmente non la sentivano questa ostilità verso l'Occidente le folle di coloro che, ad Algeri, dopo la vittoria del Fronte per la Salvezza Islamica, e ancor più dopo la brutale interruzione dell'unica consultazione elettorale mai tenuta nell'Algeria indipendente, si precipitarono a chiedere il visto per la Francia. La l'avverte, questa ostilità, sicuramente dopo l’arrivo sulla sponda nord del Mediterraneo, quando si trova di fronte alla realtà dell’Occidente, e non più soltanto al suo mito positivo, così diffuso nel Terzo Mondo. Inevitabilmente egli reagisce riscoprendo – e anche colorando di rosa, come accade con tutti i ricordi – la vita nel paese di origine, e la propria identità nazionale e religiosa. Processo del tutto naturale: persino gli Italiani, quando vivono all’estero talora diventano un po’ patriottici ! Ed è per questo che facendo venire gli immigrati perché in definitiva ne abbiamo bisogno, ma mostrando loro il volto più duro della nostra società ( l’Islamico identifica come la società cristiana, punto e basta), compiamo un’operazione totalmente idiota ed autodistuttiva: sottraiamo alle società islamiche gli elementi culturalmente occidentalizzanti e quindi politicamente ” filo-occidentali”, e li trasformiamo in estremisti islamici decisi a difendere e a restaurare il proprio mondo, così come essi immaginano che fosse prima del letale contatto con l’Occidente. L'immigrato islamico si accorge poco alla volta che, per poter realizzare un sogni di ascesa economica e sociale si è avventurato in partibus infidelium. E finisce così per creare, assieme ad altri disadattati come lui, comunità che non solo sono “allogene”, perché tutti quelli che vengono dall’estero sono “allogeni, ma addirittura unmeltable, inassimilabili, rispetto alla società di destinazione. Ed é in queste comunità che si sviluppano i germi della mentalità terroristica e suicida, in maniera spesso totalmente autonoma dal cosiddetto “terrorismo internazionale, a cui i terroristi certamente si ispirano. Tanto è vero che spesso gli attentati che vengono non possono essere fatti risalire, dal punto di vista organizzativo, a nessuna centrale estera. Terrorismo scientifico

Anche la difesa alle frontiere, con i suoi metodi tradizionali, appare in difficoltà nella lotta al terrorismo, mentre mantiene tutta la sua efficacia – anzi un ruolo indispensabile – per impedire che l''Europa, e in primo luogo l'Italia, diventino davvero il ricettacolo di “toute la misère du monde”. E di conseguenza una via troppo facile a chiunque – trafficanti di droga, prostitute e loro sfruttatori, contrabbandieri e alla fine anche terroristi – volesse entrate nel Vecchio Continente

La protezione dell'Europa alle frontiere, terrestri e marittime perché, è insomma una condizione necessaria, anzi indispensabile della lotta al terrorismo, ma non una condizione sufficiente.

Il “migrante”, infatti, colui che tenta di passare le frontiere per recarsi in un altro paese, non è ancora – in genere – nella condizione psicologica che potrebbe farlo essere un terrorista. E' solo successivamente, quando sarà ormai un “immigrato” in una società

109

occidentale, dove non avrà trovato i fiumi di latte e di miele che i media occidentali – cinema e Tv in testa – gli avevano fatto immaginare, che egli progressivamente entrerà nella disposizione di spirito che può facilitarne il reclutamento da parte di un'organizzazione terroristica internazionale. E queste, a loro volta, non hanno bisogno – in genere – di far passare la manovalanza del terrore attraverso le frontiere con i barconi dei disperati. La loro capacità organizzativa, come già notato, rende poco interessante questo canale per introdurre i propri uomini nei paesi che essi vogliono colpire.

Tale capacità organizzativa è stata più volte dimostrata. Basta pensare al fatto che nel caso dell'attacco alle Torri Gemelle di New York, la macchina per far entrare i terroristi negli Stati Uniti era così lubrificata ed efficiente che ancora sei mesi dopo l'Undici Settembre all'indirizzo di alcuni degli attentatori giungevano i permessi concessi dall'US Immigration and Naturalization Service.

E basta pensare all'assassinio a carattere altamente mirato e “strategico” condotto pochi giorni prima, il 9 Settembre 2001, in Afganistan contro Ahmed Shah Massoud, il capo delle forze tribali tagike che, per tradizionale ostilità contro i Talebani di etnia Pastoons, era stato prima uno de capi della guerriglia contro i Sovietici e poi il principale alleato degli Americani. I terroristi – due tunisini – erano infatti riusciti a superare tutti i controlli con dei passaporti europei falsificati, poi risultati rubati, presentandosi come Belgi d’origine marocchina che lavoravano per la Arabic News International (ANI-TV).

La loro lettera di accredito – falsa, ma perfetta – era firmata da Yasser el-Sirri, un celebre islamista egiziano che dirige a Londra l’Islamic Observation Center (IOC), ed era diretta ad Abdurrab Rassoul Sayyaf, uno dei principali dirigenti dell’Alleanza del Nord, era stata considerata autentica, un elicottero delle forze tagike li aveva trasportati dal Pakistan, ed avevano fatto una decina di giorni di anticamera al Quartier Generale di Massoud senza destare sospetti, nonostante fosero armati e avessero con se la cintura esplosiva con cui il “giornalista” fece saltare per aria se stesso e Massoud.

Il primo due kamikaze, il falso “intervistatore” Karim Touzani (il cui vero nome era Abdessattar Dahmane), 39 ans, non era marocchino, come dichiarava di essere, ma tunisino, ed aveva maturato la sua conversione al terrorismo in Belgio, dove aveva vissuto tredici anni, prima di trascorrere l'ultimo anno della sua vita in un campo di addestramento di al-Qaeda a Jalalabad, vicino alla frontiera afghano-pakistana. Il suo « cameraman » era, anche lui, tunisino. Il suo vero nome era Rachid Bouraoui el-Ouaer (31 anni) ed era un ex-combattente in Cecenia. Come si vede, siamo ben lontani dal mondo dei disperati che si affollano sui barconi; disperati di cui al Quaeda non ha alcun bisogno, perché può largamente reclutare tra coloro che sono già nei paesi di destinazione.

Difesa alle frontiere: Una condizione necessaria

E' tenendo conto di ciò, e delle caratteristiche della personalità terroristica, che lo stesso Rapporto Nato dedicato alla minaccia che si presenta attraverso il Mediterraneo sottolinea due aspetti. Da un lato, l'irrinunciabilità della tattica imperniata sulla prevenzione, che mira inizialmente ad impedire l'immigrazione irregolare - e rimediare così i rischi che può comportare per la sicurezza - migliorando i controlli alle frontiere. (Una buona parte degli sforzi compiuti in questo settore lo è stato nel contesto di progetti congiunti realizzati da paesi del Mediterraneo meridionale). Dall'altra parte, il fatto che occorrono nouvi metodi aventi per obiettivo quello di ridurre l'ampiezza dei rischi quando la minaccia si trova già sul territorio nazionale, mettendo fortemente in evidenza come non si possa “ ignorare che minacce contro la sicurezza dell'Europa hanno trovato la loro origine

110

nelle Comunità immigrate, e che questo problema deve essere affrontato a fondo.34

E se lo si affronta a fondo, in primo luogo in sede di analisi, si scopre facilmente che, a differenza di quanto si crede, quello delle migrazioni è un fenomeno sociologico complesso dove entrano in gioco fattori culturali e fattori politici, e soggetti – gli immigrati – dalla personalità ripetutamente traumatizzata. Anche se essi vengono alla ricerca di un miglior mercato dove vendere la propria capacità di lavoro, non si tratta di semplici homini oeconomici, ma di persone con una loro visione del mondo, una loro moralità, loro idee politiche ed anche portarici di un giudizio comparativo tra io paese d'origine e quello di destianazione.

Se i paesi europei vogliono, individualmente o collettivamente, trovare una soluzione, ciò non potrà avvenire sacrificando gli indiscutibili vantaggi che essi ricavano dall'immigrazione. Il che significa – scrive il già citato rapporto Nato – che non è possibile chiudere le porte all'immigrazione transmediterranea solo “per ragioni di sicurezza”, mentre può “e deve proteggere i suoi residenti contro i rapporti d'affari di quelli la cui ideologia politica giustifica un ampio ricorso alla violenza. Proteggere i suoi residenti non può essere interpretato come una minaccia contro le Comunità immigrate; la violenza terroristica è cieca e le misure adottate per rimediare proteggono tanto le Comunità indigene che le Comunità immigrate in Europa. In realtà, tali misure possono anche essere particolarmente benefiche per i secondi, che possono essere ingiustamente esposti al sospetto ed ai pregiudizi quando gli autori di un attentato appartengono ad una minoranza trascurabile che si nasconde fra esse.”

E' tuttavia un fatto, e non si può dimenticarlo, che “un certo numero di paesi hanno trovato nel rafforzamento della sorveglianza una soluzione parziale ai problemi di sicurezza posti dall'immigrazione transmediterranea. Dal 2003, il ministero dell'interno della Spagna ha triplicato la forza di lavoro dei suoi servizi antiterroristi ed ha influito su centinaia di ricercatori alla sorveglianza specifica delle reti islamiste extrémistes; quanto alle forze del potere pubblico, hanno costituito gruppi d'intervento specifico incaricati di sorvegliare più da vicino le zone che riparano Comunità immigrate. La Francia ha adottato misure simili e, in ogni dipartimento, cellule poliziesche speciali sono state organizzate e destinate alla sorveglianza delle librerie islamiste extrémistes, dei centri di appelli telefonici verso l'estero e di altri luoghi frequentati dagli estremisti35

La sorveglianza e l'infiltrazione dei luoghi in cui si riuniscono gli immigrati, se può dare un forte contributo a prevenire il terrorismo, non può tuttavia bastare a scandagliare la profondità del risentimento degli Islamici che vivono tra noi contro i governi occidentali e in una certa misura anche contro le nostre società. Bisogna infatti rilevare che non sono gli immigrati recenti quelli che puù si trovano a disagio in Europa, ma quelli di più antica installazione.

7.

Ciò è particolarmente visibile in Francia, dove gli islamici di origine nord-africana sono molti milioni; un numero in realtà sconosciuto alle stesse autorità del paese perché la politica assimilazionista – e la ridicola pretesa che la Francia sia un paese laico e non razzista, mentre è un regime che ha fatto del laicismo un dogma imposto come pensiero obbligatorio e dell'antirazzismo un puro orpello retorico – fa sì che lo stesso censimento eviti di porre domande sulla religione e sul colore della pellle. In realtà, anche se si tratta in

34 35 Robert Leiken, « Europe’s Angry Muslims », Foreign Affairs, July/August 2005, Vol.84, No. 4. pp. 120-135.

111

grande maggioranza cittadini francesi, gli Islamici in Francia hanno tutte le caratteristiche per essere una “nazione” distinta: hanno una stessa origine etnico-geografica, una lingue comune, la stessa religione: una situazione che non esiste nello stesso grado in nessun altro paese europeo; che solo in Germania trova una pallida analogia nella comunità turca, e che rimane lontanissima da quella italiana, dove gli immigrati hanno origini e lingue diversissime, anche tra i musulmani, che restano una minoranza.

I Turchi in Germania: la fine dello “strappo”

In Germania, il fenomeno presenta caratteristiche diverse. A partire dalla fine degli anni sessanta, i Turchi sono diventati tra i principali protagonisti della nascita di un minoranza islamica in Europa.

I Turchi arrivano in Germania via terra, e i loro spostamenti non vanno veramente considerati come spostamenti attraverso il mediterraneo. Non sono, in realtà neanche popolazioni caratteriologicamente, fisicamente e storicamente mediterranee. Vivono nell'altopiano semidesertico dell'Anatolia, e vengono dalle steppe dell'asia centrale, con cui negli ultimi anni hanni sempre più chiaramente scoperto le affinità. Se vengono prese in consderazione in questa sede è perché sono islamici, come gli immigrati che attraversano il Mediterraneo, e completano il quadro della problematica politico-religiosa che questi movimenti di popolazione stanno creando.

Provenienti da uno Stato indipendente, e caratterizzato da un governo forte e nazionalista, il loro afflusso si è svolto in modo differente dai fenomeni sinora descritti. I problemi che essi hanno posto derivano se mai dalla lentezza, e dal modo irrealistico, con cui questo fenomeno è stato trattato dalle autorità tedesche.

Prima delle riforme introdotte dal governo Schroeder nei primi ammi 2000, infatti, queste autorità partendo dal presupposto che “Tedeschi si nasce e non si diventa” hanno per decenni inseguito la fictio che gli immigrati fossero in realtà dei gastarbeiter, dei “lavoratori ospiti”, destinati a rientrare in patria dopo un periodo di lavoro in Germania più o meno determinato. In realtà, i lavoratori che , senza portare con se la famiglia, hanno coerentemente seguito il progetto migratorio provvisorio (o “rotazionale”) sono stati molto minoritari rispetto alla enorme massa degli immigrati, prevalentemente Turchi, affluiti in Germania nell'ultimo trentennio dello scorso secolo. La maggior parte ha finito per vivere in una condizione di “provvisorietà permanente”, così come i loro figli e i loro nipoti, prevalentemente nati e cresciuti sul suolo tedesco. Ciò tuttavia non significa che, rispetto alla Turchia, all'Islam e alla sua cultura, vi sia stato, tra i Turchi di Germania, quello “strappo” irreversibile che era caratteristico dell'emigrazione definitiva verso l'America fino alla prima guerra mondiale, che comportava la totale americanizzazione nel giro di una generazione, e talora anche meno.36

Con i Turchi, per la prima volta – perché il fenomeno non si era verificato quando, nel dopoguerra, era stati gli Italiana a coprire il fabbisogno tedesco di mano d'opera immigrata – la cultura del paese d'origine “segue” il flusso migratorio. Le ragioni saranno soprattutto tecniche, ma anche politiche.

36 Per lungo tempo, infatti, il concetto di “mobilità sociale”, che in Europa significa la possibilità per il figlio

del più umile lavoratore della terra di accedere a ruoli sociali importanti e a cariche politiche assai elevate, è stato reinterpretato dall'altro lato dell'Atlantico in un modo che poteva essere considerato come tipicamente americano; cioé come la possibilità dello stesso umile lavoratore in questione di compiere tale ascesa, senza attendere la generazione successiva.

112

Queste seconde vanno cercate nel forte senso identitario dei Turchi, e nella loro orgogliosa convinzione di essere in un certo senso il centro del mondo. Nei primi anni sessanta, in ogni aula di ogni scuola turca, sotto il ritratto di Ataturk, non mancava mai una specie di carta geografica in cui tutti i continenti erano disposti attorno all'attuale Usbekistan, così come nella cartografia medioevale Gerusalemme appariva come il centro del mondo, e su cui erano disegnate lunghe file di uomini e di donne che andavano in tutte le direzioni, a popolare quasi tutta l'Asia e una buona parte dell'Europa. Unito a questo, primitivo ma radicato convincimento, l'orgoglio del mito imperiale ottomano ed islamico, spiegava bene perché ad Istanbul, alla stazione del vecchio Orient Express, da cui partivano i treni degli emigranti, ci fossero sempre folle di dimostranti che agitando cartelli e gridando slogans, ricordavano a chi partiva di “non dimenticare di essere turchi”.

Ciò non era, ovviamente, molto facile. Ma è stato reso ancora più difficile dal fatto che gli uomini turchi cresciuti, e talora nati, in Germania preferiscono, al momento di prender moglie, far venire una sposa – spesso in un matrimonio combinato – dal fondo delle campagne dell'Anatolia, evitando le loro coetanee turche cresciute nel paese che li ha accolti tutti, e che essi considerano profondamente immorale, specie nel camp della morale familiare e sessuale.

In Germania, anche se – come vedremo – in condizioni meno gravi che in Francia si è creato un nucleo di popolazione islamica consistente e in cui non manca una minoranza estremamente insoddisfatta, che può alimentare i ranghi del terrorismo. Come già ricordato, è stato proprio in Germania che è stato in gran parte preparato l'attentato dell'Undici settembre.

La componente turco-islamica costituisce la quota più importante della popolazione straniera presente in Germania, che raggiunge un livello assai alto, pari al 18.4 per cento della popolazione totale. Molto più arretrata, nel suo insieme della popolazione considerata “tedesca autonoma”, presenta u tasso di disoccupazione (14,1 per cento) doppio rispetto a quello della popolazione non-immigrata (7,5 per cento). Ancora più grave l'arretratezza culturale generale, nonostante che i Turchi siano presenti in Germania da moltissimi anni, il 9,6 5 non ha terminato la scuola secondaria, contro 1,5 % dei Tedeschi non immigrati. E presenta al suo interno un forte divario tra integrati e non integrati, dato che l'élite degli immigrati ha addirittura superato i non immigrati come titoli che danno accesso all'Università. Infatti, contro un 15,0 % dei Tedeschi in possesso di tale titolo, gli immigrati raggiungono quota 15,2 %; un chiaro risultato della politica di brain drain, di “saccheggio dei cervelli” svolto dalla Germania a scapito dei paesi poveri, con le politiche di “immigrazione qualificata”.

L'identità tedesca tra Cristianesimo e Islam

Tra gli immigrati nella Repubblica Federale Tedesca, i Turchi formano la più grande comunità etnica, con 2,5 milioni di persone. Di Musulmani, il paese ne conta ben quattro milioni di musulmani, su 82 milioni d' abitanti. Se i più giovani sono integrati, il numero di immigrati turchi non hanno mai appreso il tedesco, e vivono ripiegati sulla loro è assai notevole, e ciò provoca in Germania un dibattito che non conosce sosta, ed è diventato ancora più rabbioso dopo la pubblicazione, nell'estate del 2010 del già menzionato libro di un alto funzionario della banca centrale, Thilo Sarrazin, in cui si sostiene senza mezzi termini la teoria secondo la quale il paese "si abbrutisce" sotto il peso degli immigrati musulmani.

113

La stessa classe politica appare disorientata. Per contrastare i consensi con cui la tesi di Sarrazin è stata accolta, il presidente della Repubblica Christian Wulff ha indirizzato ai Turchi un messaggio di conciliazione sulla questione di l' integrazione degli immigrati musulmani, turchi per la maggioranza. “Dobbiamo renderci conto del fatto che siamo strettamente legati" , ha dichiarato Wulff, primo capo d' Stato tedesco ad effettuare una visita in Turchia da dieci anni a questa parte. Su un registro completamente discordante appare invece la Cancelliera Angela Merkel. In un pronunciato nell’autunno del 2010, la Merkel – che in certe occasioni appare quasi più bella che intelligente – ha subito suscitato – e comprensibilmente – reazioni e controversie, ed ha messo in luce la confusione e la mancanza di idee che regna su questa delicata materia in quello che vorrebbe essere il paese leader dell’Europa. La prima donna ad accedere al Cancellierato, nonché primo leader della Germania riunificata proveniente dall’Est, si è del resto più di una volta fatta notare per dichiarazioni avventate e vere e proprie gaffes di livello internazionale, come quella sulla crisi dei “debiti sovrani”. Giustamente ha scritto Marcello De Cecco su “Repubblica” che “facendo discutere in sede di summit europeo la sua proposta di far pagare anche agli investitori in titoli di stato di paesi che hanno bisogno dell’aiuto del fondo europeo di salvataggio,… la signora Merkel ne ha fatta un’altra delle sue”. 37

Parlando al Congresso congiunto dei giovani del suo partito politico (la CDU) e del suo alleato bavarese (la CSU), la Merkel ha infatti preteso di seppellire definitivamente il modello di una Germania multiculturale, sulla base del quale Tedeschi e Turchi hanno finora convissuto, certo piuttosto male, ma senza che si sviluppassero quei veleni terroristici che hanno portato a tragedie sul tipo di quelle di Madrid o di Londra. " L' approccio Multikulti" - "viviamo fianco a fianco e ne siamo lieti" - è fallito, completamente fallito " , ha invece affermato la prima donna Cancelliere. La Merkel si è spinta a sostenere apertis verbis la necessità per gli immigranti di adottare la cultura ed i valori tedeschi, e questo proprio mentre ridefiniva questi “valori” al di là del loro significato tradizionale, tipo diesnt ist dienst (il dovere è dovere), e per farlo toccava il delicato tasto della religione, affermando che (noi Tedeschi) “ci sentiamo legati ai valori cristiani. Chi non accetta questo non ha posto (in Germania)". Cosa significhino esattamente queste parole è difficile dire, in una fase storica in cui il Cristianesimo, come religione vissuta, appare in forte declino in Germania. Quel che è chiaro è che la Merkel, e quella parte dell’elettorato che ella vuol sedurre con affermazioni di questo genere, non si rendono evidentemente conto di quanto sia irresponsabile introdurre il fattore religioso nei criteri si identità e di assimilazione, e di come rischi di spindìgere persone che sono ormai turche solo di nome, sulla via del risentimento, che è il brodo di cultura del terrorismo. Il gabinetto della signora Merkel ha annunciato poco dopo questo malaccorto discorso la propria intenzione di adottare immediatamente misure " concrete" per l' integrazione degli stranieri, che evocano corsi obbligatori per gli immigrati e la lotta contro i “matrimoni forzati” di cui sono talora vittime le ragazze turche cresciute in Germania, che hanno difficoltà a trovare marito tra i loro coetanei turco-tedeschi perché “troppo libere” per le quali viene combinato un matrimonio .

Molto diversa sembra essere la posizione del Presidente Christian Wulff, che pure

37

114

proviene dallo stesso parte politica detla Merkel: Wulff, infatti, poco dopo essere stato eletto alla massima carica della Repubblica Federale, ha ammesso che ormai “l'Islam è parte della Germania”. E nel corso di un viaggio di stato ad Ankara, nel programma del Presidente Wulff non c’era solo il primo ministro Recep Tayyip Erdogan, ma anche un insolito incontro col responsabile degli affari religiosi Ali Bardakoglu.

Le antenne paradiaboliche

A mantenere viva l'identità culturale degli immigrati turchi nella Repubblica Federale ha concorso non soltanto il numero, ma anche il fatto che il consolidamento economico-sociale della loro presenza in Germania ha coinciso con innovazioni tecniche ed economiche nel campo della televisione che hanno fatto sì che già dai primi anni del flusso migratorio ben due canali televisivi culturalmente e linguisticamente turchi fossero disponibili in Germania, e in gran parte dell'Europa.

“In Germania, ogni notte, durante il prime time, cioé all'ora in cui le famiglie riunite a tavola, ascoltano le notizie dal mondo intero, quasi un milione di apparecchi televisivi sono sintonizzate sulla televisione satellitare turca dal durante il tempo principale. E se gli spettatori fanno la scelta in modo così prevalente è tanto per non dimenticare la lingua quanto perché amano la musica turca o perchè trovano i programma più espressivi. Dalla politica alla commedia, i Turchi di Europa restano in contatto con le loro radici via satellite, l'unica radiodiffusione in cui potete realmente comunicare con loro. Questi spettatori hanno un'opinione assai alta dei programmi della televisione turca e sono disposti e a comprare le antenne paraboliche. Infatti, i risultati di indagine indicano che la lealtà dei Turchi europei a radiodiffusione turca è indistruttibile… Se volete aumentare le vostre vendite alle comunità turche in tutta l'Europa, dovete far passare il vostro messaggio in modo che raggiunga i Turchi d'Europa … Se non siete sulla televisione turca, non vederanno probabilmente mai i vostri prodotti”

Questa citazione viene da un opuscolo pubblicitario del Canale turca di EuroD. Esso viene distribuito alle agenzie di pubblicità in Europa allo scopo di persuaderle che i Turchi europei sono più facilmente e meglio convinti se sono raggiunti tramite la televisione turca, e con EuroD in particolare. E conferma il fatto assai facile da constatare che non solo i Turchi in Germania, ma tutte le comunità immigrate in europa sono completamente dipendenti, per quanto riguarda l'informazione e quindi la visione del mondo, dalle TV dei loro paesi, o anche semplicemente nella loro lingua,38

Naturalmente, le televisioni turche che si possono recepire in Europa non convogliano nessun tipo di propaganda islamista e ancor meno di messaggi che possono favorire i terroristi. Eppure un certo allarme – secondo noi solo parzialmente giustificato – si è diffuso, relativamente al ruolo delle TV del mondo islamico che le antenne paraboliche consentono di ricevere in Europa.

tra cui quelle in lingua araba, che spesso non fanno capo ad uni stato ma ad organizzazioni politiche.

Le preoccupazioni in questo campo sono, ovviamente, ancora più vivaci in Francia, dove gli Islamici sono forse – mancano dati certi – un decimo della popolazione, sono di origine arabo-nordafricana e molto sensibili alle tematiche e rivendicazioni estremiste. Il timore per l'impatto delle tv provenienti dal mondo islamico è stato molto forte, ed ha portato ad una soluzione pratica che si è rivelata assai efficace: la creazione di un sistema

38

115

di televisioni via cavo che offrono un buquet di canali anche di paesi islamici a prezzi meno cari di quanto costerebbe l'installazione di una parabole. Di fatto ciò consente di selezionare e filtrare i canali, lasciando passare solo quelli politicamente meno pericolosi.

Bisogna osservare, a questo proposito, che preoccupazioni del genere esistono

anche sull'altra sponda del mediterraneo; preoccupazioni sull'effetto eversivo e devastante delle televisioni europee sulle società nordafricane e islamiche in generale.

Non si tratta di preoccupazioni completamente sprovviste di fondamento. Una decina

di anni fa, ad esempio, una sera si verificò in Marocco un incidente assai grave e significativo. A causa della differenza di fuso orario, in Marocco, il prime time, cioè l'ora in cui le grandi famiglie islamiche si riuniscono per cenano guardando la televisione, corrisponde a quella che in Europa si chiama la seconda serata, quando si assume, più o meno in malafede, che i bambini siano già a letto.

Per un effetto atmosferico di difficile spiegazione, si è così visto in una fascia del

Paese fortemente popolata, un programma di una televisione privata spagnola dall'eloquente titolo di Labbra roventi. Non è facile immaginare cosa ciò abbia portato come shock. Certo è che, qualche giorno dopo alcune donne si sono rivolte alle autorità religiose per chiedere come dovessero comportarsi di fronte alle proposte avanzate dai loro mariti, di comportamenti che non erano mai stati loro richiesti.

La risposta di tali autorità non fu in un primo momento unanime. Una parte di

autorità esse rispose che le donne dovevano in ogni caso obbedienza ai loro mariti, mentre altri dichiararono che dovevano rifiutarsi con tutta la loro forza di cedere a quelle avances, giacché il pudore è una caratteristica essenziale della donna islamica. La questione sollevata fu di tale gravità, e la spaccatura così forte, che venne fatto ricorso all’autorità massima religiosa, la quale ribadì che le mogli avrebbero dovuto rifiutare di assecondare i propri mariti. E da episodi come questo è nato il nome che nel nord-africa ex-francese viene talora dato alle antenne paraboliche: les antennes paradiaboliques.

Non a caso, la prima rivendicazione degli islamisti algerini dopo le prime vittorie elettorali del FIS (il Fronte per la Salvezza Islamica), e prima che il processo elettorale venisse interrotto perché al governo militare non piaceva come votavano i cittadini. fu quella di togliere le antenne paraboliche dai tetti dei fabbricati popolari.

Atteggiamenti simili si riscontrano talora, nei confronti dell'influsso delle televisioni, anche nei paesi occidentali. Negli Stati Uniti, in particolare, che definire ultrasensibili alle questioni del terrorismo è molto più che un English understatement, tre canali televisivi sono di frequente39

Il caso Al-Jazeera

indicati come responsabili di “incitare al terrorismo o promuovere l’anti-Americanismo”. Si tratta di al-Manar, che è la Tv degli Hezbollah libanesi, al-Aqsa, la TV di Hamas, e la stazione irachena al-Zawra.

A questa accusa non sfugge completamente neanche il network di al Jazeera, una delle pochhissime stazioni televisive in lingua araba accessibile dagli immigrati in Europa, con i limitatissimi mezzi tecnici normalmente a loro disposizione. 39

116

Questa accusa appare abbastanza paradossale se si pensa che al Jazeera è stata immaginata, voluta e fondata dell'Emiro del Qatar, ed è presieduta da un suo cugino. E il Qatar viene infatti considerato a Washington come il principale alleato degli Stati Uniti nel Golfo Persico, ed un importante acquirente di armi americane. I due paesi conducono continue esercitazioni comuni attorno alla base aerea di Al Udeid a pochi chilometri da Doha, la capitale del Qatari. Una base in continua espansione nel periodo 2003-2009, che ha praticamente sostituito le basi USA in Arabia Saudita.

Difficilmente Al Jazeera, che rivendica di essere l'unico network indipendente del mondo arabo-islamico può quindi essere considerata come una emittente di propaganda terroristica, anche se è passata alla storia per aver diffuso i video di rivendicazione fatti circolare da Bin Laden dopo gli attentati dell'Undici settembre.

La maggior parte del nucleo originale dei suoi giornalisti proviene dalla BBC inglese, e dopo una fase iniziale in cui l'emittente ha vissuto con i fondi forniti personalmente dall'Emiro, le entrate pubblicitarie sono riuscite a renderla economicamente indipendente, anche in virtù del successo di pubblico che le consente oggi di raggiungere tra 35 e 40 milioni di spettatori. Ma ciò non significa che possa essere considerata fuori dall'area di influenza dell'Emiro, che se ne serve per giocare un ruolo internazionale molto più vasto di quello che il suo paese gli consentirebbe, ed anche evitare un vassallaggio totale agli Stati Uniti, del cui appoggio politico e militare ha – nel turbolento quadro regionale in cui è inserito – comunque assoluta necessità

Poco dopo l'inizio delle trasmissioni, Al Jazeera si fece notare per aver mostrato proprie immagini dei bombardamenti americani sull' Iraq e per aver di fatto smentito l'interpretazione corrente, diffusa dalle catene nazionali arabe 40

In occasione della seconda intifada “al-Aqsa„ nel 2000, i giornalisti locali d' Al Jazeera intervistavano regolarmente i responsabili del Hamas e di Jihad islamico, rompendo così il monopolio di al Fatah, le cui versioni dei fatti erano sino ad allora le sole ricevute dai telespettatori

che minimizzavano l'ampiezza di quei bombardamenti.

41

Il 7 ottobre 2001, diffonde una registrazione video di Osama bin Laden in occasione dell'intervento americano contro i Talibani in Afganistan. Essa si afferma sulla scena internazionale durante tutta la durata del conflitto poiché è la sola televisione internazionale da disporre di corrispondenti in Afganistan. Le sue posizioni ed i suoi servizi sono accusati d' essere pro-taliban ed anti-americani, e di incitare con i suoi servizi, l'opinione pubblica dei paesi arabi contro gli Stati Uniti. Ma nei paesi arabi è opinione corrente che sia “antiamericana e pro-sionista”

.

42, la stessa cosa di cui l'ha accusata il ministro dell'Informazione della Giordania Nabil al-Hamr, secondo il quale al Jazeera sarebbe pregiudizialmente favorevole ad Israele e « infiltrata dai sionisti 43

Le TV americane avevano allora censurato le sue immagini ed avevano anche – si

». In Giordania la sua diffusione è proibita, cos' come in Arabia Saudita, in Bahrain

40 Mohammed El Oifi. L'effet Al-Jazira. In: Politique étrangère N°3 – Parigi, 2004 41 Ibidem 42 Josh Rushing, Mission Al Jazeera: Build a Bridge, Seek the Truth, Change the World, Palgrave

Macmillan, 43 "Bahrain bans Al Jazeera TV" , BBC, 10 mai 2002

117

dice – invitato le forze armate americane a considerarla come obiettivo per un bombardamento. Certo è invece che Colin Powell, segretario di Stato americano, si rivolge a Hamad ben Khalifa al-Thani, emiro dell'Qatar e principale azionista della catena, per chiedergli di intervenire presso la direzione per modificare la sua presentazione degli eventi 44

I locali di Al jazeera sono stati bombardati dagli Stati Uniti due volte: la prima volta in Afganistan e la seconda volta in Iraq. Un giornalista, Tarik Ayyoub, è morto a Bagdad a causa del bombardamento. Nel Novembre 2005, inoltre, il quotidiano inglese Daily Mirror ha pubblicato in prima pagina la notizia secondo la quale il Presidente degli Stati Uniti George W. Bush avrebbe voluto bombardare la sede di Al Jazeera a Doha, cioé in un paese alleato degli USA, ma il primo ministro del Regno Unito Tony Blair lo avrebbe convinto a non farlo.

.

Sami al-Haj, un giornalista-cameraman sudanese, è che si trovava in Afganistan nel dicembre 2001, è stato catturato dagli Americani, ed ha passato sei anni nella prigione di Guantanamo, dal giugno 2002 al luglio 2008.

Fallito, ad iniziativa del governo americano un accordo con la CNN, la linea è rimasta “aperta a tutte le voci del mondo arabo”, anche se alcuni arabi filo-occidentali la considerano “populista”45. In realtà, con la pretesa di rappresentare le idee della cosiddetta “piazza araba”, che incute grande terrore in tutti i governi del mondo arabo. Al Jazeera svolge anche una funzione moderatrice. Ad essa sono stati dedicati studi importanti46, uno dei quali firmato da Hugh Miles, 47

Il gruppo ha dovuto varie volte cambiare routers e providers a seguito di pressioni politiche, ma è un grande successo di pubblico. Durante la guerra Iraq, i motori di ricerche hanno ricevuto tre volte più contatti relativi ad Al Jazeera del solito. Su Google, il numero di richieste con il termine “Al Jazeera„ che aveva visto un grande boom in occasione dell'ultima settimana del marzo 2003, è passato, nella prima settimana di aprile, dal terzo al primo posto. Al Jazeera lancia allora un sito web in inglese Per fare fronte alla domanda crescente di “navigatori” occidentali, che la vedono come una fonte alternativa alle informazioni fornite dai mass media occidentali ed anglosassone durante la guerra contro l'Iraq (7).

figlio dell'Ambasciatore britannico a Tripoli che si dimise per protesta dalla carriera quando il governo Blair si unì a quello americano nella guerra all'Iraq, e che da allora dirige dall'Inghilterra un sito internet di analisi e documentazione-stampa sul medio oriente.

Dal 2008, il sito di Al Jazeera è il più visitato nel mondo arabo ed è classificato al 222 su scala internazionale per volume di traffico. Ogni giorno, il sito è visitato da più di 3,3 milioni di persone. E non tutti in Occidente sembrano condividere l'idea che si tratti di un canale islamista o addirittura terrorista, tanto è vero che, nell'aprile del 2004, in piena guerra irakena, Webby Awards ha nominato il sito come uno dei cinque migliori siti web assieme ai siti di BBC News, di National Geographic, di RocketNews e di The Smoking Gunn.

44 Reporters sans frontières - Qatar - rapport annuel 2003 45 Mohammed El Oifi. L'effet Al-Jazira. 46 Ad esempio, Josh Rushing, Mission Al Jazeera: Build a Bridge, Seek the Truth, Change the World,

Palgrave Macmillan, (ISBN 978-1403979056). 47 Hugh Miles, 2005. Al-Jazeera: The Inside Story of the Arab News Channel, New York: Grove Press,

p.346,

118

Il sito internet si consente tuttavia una più grande aggressività giornalistiche rispetto all'emittente televisiva. In particolare, ha fatto scalpore una sua inchiesta tendente a misurare il sostegno della popolaione algerina agli attentati di Al Qaeda.48

Il caso Al-Manar

La più importante delle emittenti televisive ostili all'Occidente è Al-Manar (in arabo, il Faro ) una TV in lingua araba - diffusa sia come canale terrestre che per via satellitare di proprietà del “Lebanese communication Group SAL, con sede in Libano.

Al-Manar è stata fondata nel 3 giugno 1991, coem TV privata. Ma a partire dal 1997 il suo azionista maggioritario è diventato lo Hezbollah, considerato allora come un'organizzazione terroristica da parte degli Stati Uniti. Di conseguenza, anche Al-Manar e schedata, negli Stati Uniti, come un'organizzazioni terrorista.49

Che non si tratti solo di una TV locale destinata alla comunità sciita del Libano meridionale, e che invece si tratti anche di un attore politico il cui target è decisamente internazionale è evidente. Ciò è dimostrato in primo luogo dall'aver associato ula trasmissione via satellite (in un primo momento tramite i sarelliti Arabsat e NileSat 102) alla diffusione hertziana, che già riusciva ad andare ben oltre i limiti del territorio in cui Hamas svolge un ruolo politico e di governo di fatto, cioé buona parte del Libano e - con un sistema di ripetitori - anche alcun regioni della Siria. E poi, in secondo luogo, la vocazione globale è dimostrata anche dal fatto che, ad una programmazione prevalentemente in lingua araba, si aggiungono, per le parti più specificamente politiche - cioè i telegiornali e i programmi di approfondimento - presentazioni in Francese e in Inglese.

L'emittente ha avuto una storia assai agitata. In particolare, durante il conflitto israeliano-libanese del 2006, l'edificio in cui questo canale televisivo aveva la sua sede e la sua stazione emittente è stato fin dei primi giorni dei guerra preso di mira e alla fine distrutto dall'esercito israeliano. Successivamente, nonostante il fatto che tanto la località di diffusione che gli studi dell'emittente fossero stati rapidamente trasferiti altrove, il Mossad è riuscito ad inserirsi sulle frequenze di Al-Manar e ad inviare in diretta programmi che tendevano a dimostrare come il leader Hezebollah Hassan Nasrallah fosse il responsabile del conflitto.

Da questa accusa, e da quella aggiuntiva di incitare nei suoi programmi all'odio razziale e all'antisemitismo, è nato un dibattito che, in America, è giunto sino alla Camera dei Rappresentanti e che in sede internazionale, sta pesando gravemente sui rapporti tra Washington e i paesi arabi filo-occidentali. Nel Dicembre 2009, la Congressional resolution H.R.2278, approvata dalla Camera dei Rappresentanti con 395 voti contro 3, impegna l'Amministrazione Obama a fornire un rapporto dettagliato, paese per paese, su tutte le emittenti televisie arabe che “incitano alla violenza” e che preveda sanzioni specifiche per quelle che verranno considerate responsabili di tale condotta.

48 Vedi Un sondage de Al Jazeera sur le terrorisme soulève l'indignation en Algérie, Magharebia.com, 2007-

12-26

49 Vedi http://www.state.gov/s/ct/rls/other/des/123086.htm.

119

In Francia, dove esiste una importante comunità libanese, il Conseil supérieur de l'audiovisuel (CSA), cioè l'Autorità indipendente che dovrebbe garantire l' esercizio della libertà di comunicazione nel campo dei media audiovisivi, ma che al tempo stesso ha il compito - potenzialmente contraddittorio - di promuovere la cultura e i valori francesi - ha ottenuto dalla giustizia una pronuncia che impediva al sistema EUTELSAT di continuare a diffondere al Manar. La sentenza del Conseil d' État, lasciava però ad al Manar la possibilità di concludere una convenzione con il CSA. L'emittente ha fatto questa domanda nell'autunno del 2004. accettando in particolare un lungo capitolo d' obblighi deontologici.

Con tale accordo, la « Lebanese Communication Group SAL », ssi impegna a afre in modo che la totalità dei suoi programmi evitino di “violare la dignità della persona …. di incitare all'odio, alla violenza e alla discriminazione razziale, di sesso, di religione o di nazionalità, … di non presentare in una luce favorevole azioni violente dirette contro la popolazione civile, … di non incoraggiare atteggiamenti xenofobi o di rifiuto dell'altro”.

Pochi giorni dopo, tuttavia, Dipartimento di Stato americano ha annunciato di aver incluso al Manar nella lista delle organizzazioni terroriste e ne hanno proibito la diffusione. Immediatamente dopo l'operatore di servizi satellitari Globecast, filiale di France Télécom, ha ritirato Al-Manar dalla diffusione, E lo stesso giorno anche.la giustizia francese è intervenuta nella questione, imponendo alla società Eutelsat e ad Arabsat, che offrivano Al-Manar insieme ad altre otto canali , tra cui la TV nazionale del Qatar, dell'Arabia saudita, della Libia, del Sudan, del Kuwait, di Oman, di Charjah (Émirati arabi uniti) e dell'Égitto, di interrompere le trasmissioni.

La “cultura” eversiva “in rete”

A quanto detto relativamente ad alJazeera e al Manar vanno aggiunte alcune precisazioni. In primo luogo va notato che il gruppo Al Jazeera dispone di quattro siti web: due siti per i notiziari Al Jazeera (in Arabo ed in inglese) ed un sito per Al Jazeera Sport. ivIl sito Al Jazeera Children appartiene invece ad un altro gruppo, specializzato nella TV per bambini, che non ha nessun legame giuridico diretto con il gruppo Al Jazeera, ma appartiene alla Qatar Foundation, che risale in definitiva anch'esso all'Emiro.

Inevitabilmente, al Jazeera – come il suo sponsor – vivono ambiguamente in equilibrio tra due mondi che presentano, allo stato, non poche incompatibilità: espressione di un potere politico assoluto, anche se di uno Stato ricco ma assai piccolo, al Jazeera tende a presentarsi, ed in una certa misura riesca anche ad essere, una emittente televisiva “all’occidentale”. Analogamente, espressione di un mondo in cui pullulano e sono spesso predominanti, i fondamentalismi religiosi, il nazionalismo, l’estremismo di ogni genere, il razzismo, la violenza e il terrorismo, ed a sua volta indirizzata ad un pubblico che – in parte – condivide questi atteggiamenti, al Jazeera dichiara di voler fare una informazione libera e indipendente. Il tutto, perciò, non può essere che piuttosto ambiguo, con effetti possibilmente negativi sulle comunità islamiche che vivono in Europa, e in generale nel mondo occidentale

Più chiaro, meno ambiguo, ma più evidentemente pericoloso è il caso di al Manar. Questa emittente, nonostante tutte le iniziative americane, francesi, australiane e dell'Unione Europea per ridurne l’impatto e l’influenza, considerata nefasta, rimane visibile in rete, e di facilissimo accesso. E a ciò va aggiunto che, avendo entrambe queste emittenti una programmazione in Inglese, esse sono accessibili anche ai telespettatori europei non

120

arabofoni, e quindi anche a minoranze islamiche in Europa, che parlano lingue persiana, turche, malesi, ecc. Al Jazeera, del resto sta estendendo il proprio raggio di azione anche agli spettatori che parlano urdu, che è la lingua di molti Pakistanti, paese oggi in cui si svolge una aperta “guerra asimmetrica”.

Si arriva qui al nocciolo del problema. Se l'influenza dei canali televisivi nella creazione in Europa di un “brodo di cultura” favorevole al terrorismo può dunque essere considerata piuttosto limitata, lo stesso non è vero per il sistema Internet. Resta in tutta la sua gravità il fatto che un gran numero di canali sono visibili via Internet; un mezzo di comunicazione, questo, il cui impatto non è stato ancora studiato se non in parte veramente minima, e che apre un capitolo completamente nuovo ed a parte nell'analisi dei conflitti politico-culturali, nei modi della creazione dell'opinione e del consenso e nella stessa formazione dei gruppi sociali.

Nella obiettiva difficoltà di valutare il ruolo dei canali non formali, in primo luogo di Internet, e la conseguente deformazione informativa della realtà mediorientale, va comunque detto che la rete non serve solo da strumento di collegamento tra minoranze religiose, emarginati e scontenti di ogni genere all’interno stesso dei paesi occidentali.

La rete produce invece milioni di personalità solitarie e asociali – non molto diverse da quelle che catratterizzano il terrorista – , che attraverso le chat lines e i blog scoprono di non essere soli a coltivare le stesse manìe. Prima degli attentati del 2001, da alcuni soggetti politici, in particolare il Parlamento Europeo venne sollevato un grande polverone sul fatto che esistesse una struttura, popolarmente detta “Echelon” che consente di monitorare e individuare tali soggetti, Il clima successivo all’Undici Settembre ha messo fine a tali polemiche, e probabilmente convinto le autorità della opportunità di tali controlli.

La grande pericolosità della rete sta nel tipo di persone che i materiali che circolano senza praticamente alcun controllo possono raggiungere. La differenza principale tra i canali televisivi e la “rete” sta nel suo pubblico, che per le TV è composto – tanto nella popolazione autoctona delle nazioni europeo, quanto nelle minoranze immigrate che vivono nei ghetti suburbani – di persone anziane, donne di casa, famiglie con bambini piccoli. Ben altro è il pubblico della “rete”, giovani e giovanissimi con molto tempo non occupato, ed estremamente influenzabili perché in genere non seguono i programmi informativi della TV, per non parlare della lettura dei giornali.

Ma in rete circolano non solo informazioni, vere o false che siano. Circolano anche materiali di cui è più difficile accertare la pericolosità, e che è difficile filtrare, come i messaggi musicali. E le giovani persone che passano molte ore sono facile mercato per messaggi musicali e video.

Esiste infatti una cultura popolare rappresentata delle composizioni e video rap, i cui autori talora sono rappers noti, talora sono completamente anonimi, e le loro creazioni rimbalzano da un utente della rete al’altro, che è forse l’unica forma di espressione e di influenza dei giovani che si rivoltano. Essa spiega il disagio degli immigrati della seconde generazioni e ne andrebbero valutate le diverse connotazioni e caratteristiche a seconda dei paesi di residenza. I rappers francesi, in gran parte arabi e neri musulmani, da venti anni lanciano proclami così violenti che – se fossero stati decriptati – avrebbero putito far capire l’imminenza dei violenti disordini del 2005. E siccome oggi continuano in maniera non molto meno inquietante, possono far pensare che le banlieues possano di nuovo esplodere in qualsiasi momento.

121

Tra le composizioni rap che possono essere fatti risalire ad un autore iene spesso citato Monsieur Herr, cresciuto in Belgio, che in una canzone dice «La Francia è una troia e ci siamo fatti tradire50». Ma questo è un universo molto variegato: alcuni denunciano la democrazia come una truffa in quello che ad essi appare come uno Stato di polizia 51, altri trattano la Francia come una “puttana viziata e putrida”52

da dominare e sottomettere.

Alcune di queste composizioni, popolarissime, e la cui musica è usta come suoneria dei cellulari, sono veri e propri atti di accusa (“la Francia è una madre indegna, che ci ha fatto suoi figli e poi ci ha abbandonato, noi la scoperemo finché non ci amerà»53

50 Alcune composizioni denunciano la democrazia et on s'est fait trahir /Le système voilà ce qui nous

pousse à les haïr /La haine c'est ce qui rend nos propos vulgaires /On nique la France sous une tendance de musique populaire /On est d'accord et on se moque des répressions /On se fou de la république et de la liberté d'expression /Faudrait changer les lois et pouvoir voir /Bientôt à l'élysée des arabes et des noirs au pouvoir

) che rivendica

51 "déposer les armes et croire au pouvoir qu'incarne les urnes, /mais dis moi en quoi sa m'concerne, /qui console les frères au sol quand la police conspire a mort /a faire taire ceux qui respire encore"

52 Je baiserai la france jusqu’à ce qu’elle m’aime 53 La France est une garce/N’oublie pas de la baiser/Jusqu’à l’épuiser/Comme une salope/ Faut la traiter,

Mec!/Mais n’oublie pas qu’ici, c’est chez toi/Mets-toi à l’abri mets-toi!/ La France est une mère indigne/Qui a abandonné ses fils sur le trottoir/Sans même leur faire signe J’lai donné à mater/La faire tâter le terrain/La faire têter les seins/D’une pute pourrie gâtée Car ceux-ci faut pas les toucher/Faute de consistance/Malgré mes frères/Qui filent sous assistance Perfusés par le RMI/Amateurs de substances prohibées/Faut pas évoluer le PIB Mes frères musulmans sont haïs/Comme mes frères juifs à l’époque du Reich/De la main des nazis Un français c’est devenu question de couleur/Tu comprends pourquoi ma haine/Prend sa source dans la douleur/On porte les stigmates/D’une décolonisation mal digérée/Rejetés comme des excréments/Mais pas digérés/Un situation au bord de l’insupportable/Et bois et t’étonne pas De perdre ta vie pour un port d’arme… Mets-toi à l’abri, nettoie/La merde qui se trouve devant chez toi/Je suis passé du banc de l’école Au banc des accusés/Pour avoir traité un putain d’flic/De fils de pute./Mais les flics sont violents Comme les coups de matraque des CRS/Lors d’une manif des chercheurs du CNRS Et tu sais « manophète », / Islamiste tu hésites à/Qui corrompt/Manie la langue du prophète Quelquesoit le niveau d’études/On ne trouve pas d’emploi/Et si un (nez fin) ? nous dit Qu’on n’a pas la tête de l’emploi/Alors le negro est né comme çà/On trouve un terrain de jeu La rue/Là ou on manie le plus d’armes à feu/Là où le chômage se propage comme le sida Et chaînes qui nous retiennent, elles,/Ne veulent pas céder/Ils nous voient comme des vauriens Au faux paradis/Même si (les âmes) ?/N’ont pas leur place au paradis/Et l’Education Nationale Complice d’orientation douteuse/Avec une méthode houleuse En Afrique ils ont oublié/De croire à nos talismans/Et pour la France/Ils voudraient/Qu’jai des bons sentiments La France est une de ces putes de mères/Qui t’a enfanté/Et qui aujourd’hui/Regrette qu’une chose C’est de ne pas avoir avorté On siffle la Marseillaise/Du Stade de France ?/ Mais moi je pisse sur Napoléon/Et le Général de Gaulle Tu crois qu’le recul/C’est à visage humain/Mais demande à ces femmes Telles celles qui accouchent/Menottes à la main/Alors ne parle pas des droits de l’homme/ Bonhomme Tu crois que c’est pour rien/Que les mans portent des bonbonnes/De gaz/Tout çà faudrait se fournir en pasque/A gaz/Avant que çà devienne une épave/Ils voudraient que je les remercie Pour leur hospitalité/Mais mes frères battus par ces porcs/Finissent hospitalisés Je ne suis pas chez moi/J’en ai rien à foutre/D’ailleurs par là-même/C’est que l’Etat français/aille se faire foutre/… Mec/

Mais n’oublie pas/Qu’ici c’est chez nous/Il faudrait qu’ils fassent avec nous

Faudrait qu’ils construisent avec nous/Quand je parle de la France/Je parle pas du peuple français/

122

come la Francia appartenga ormai anche agli immigrati. Ma in questa violenza verbale, si rivela che l’alienazione non è totale, che non c’e nelle seconde e terze generazioni degli immigrati francesi l’odio estremo, espresso in termini violentissimi contro il paese ospite che si ritrova in Inghilterra. Basta per questo vedere il video musicale liberamente disponibile su Internet che all’origine sarebbe stato prodotto da un gruppo islamico di difesa dei diritti umani "sotto il nome di Dirty Kuffar, che nello slang arabo-inglese che significa “sporco negro infedele”.

E’ difficile immaginare quanto questa forma semiletteraria – che potrebbe sembrare estremamente antiquata, il rap, originariamente composizioni semi-recitative di protesta dei neri d’America, sia diventata uno strumento di agitazione e di mobilitazione nelle periferie europee. Si tratta in un certo senso sono espressioni molto complesse ed elaborate, chiaramente opera di fili di immigrati che hanno tratto qualche profitto dall’aver frequentato il sistema scolastico francese, e che stanno producendo una vera e propria cultura eversiva che porta in se una enorme carica di violenza per il momento repressa. Esse andrebbero probabilmente analizzate in maniera più approfondita, perché costituiscono un elemento essenziale del “brodo di cultura in cui si forma il terrorista.

L'ostilità non solo anti-autorità ma addirittura anti-società è comunque un fatto assai diffuso, soprattutto in Francia. Anche perché esiste sul territorio dello ”esagono” un nucleo antico di popolazione islamica – presente da quasi cinquant'anni – che si ritiene “tradita” dalla Francia e che ha con il terrorismo una lunga consuetudine essendone stata anche vittima: I cosiddetti “harkis”

Immigrati e terrorismo ieri

Se si guarda all'immigrazione che, attraverso il Mediterraneo, si dirige verso Europa, si è immediatamente colpiti dal fatto che, più che ogni altra fase successiva, è la prima ondata, quella che culmina e si conclude con la metà degli anni sessanta che è più nettamente caratterizzata dalla violenza, e segnatamente dal terrorismo. Il nuovo rapporto che lega le due rive di questo mare, che per circa un secolo era stato un rapporto di dominio coloniale, nasce infatti nel sangue e nell'uso del terrore come arma politica. Ed è in un vero clima di tragedia che nascono le prime comunità arabo-musulmane sulla sponda nord.

Le vicende politiche che alla fine degli anni cinquanta, e all'inizio del decennio successivo hanno portato alla liberazione dell'Africa del Nord dalla dominazione coloniale francese, appaiono così direttamente legate ai problemi dell'oggi: la reintroduzione dell'Islam in Europa dopo la caduta di Granada, e il conseguente rischio di uno scontro di civiltà, e del terrorismo.

I rapporti tra gli Stati europei e le popolazioni dell'Africa del Nord, a lungo caratterizzati da forte estraneità e da totale ostilità, cambiano di natura a partire dal 1830, con la prima conquista coloniale della Francia, che – avendo durante il periodo napoleonico – totalmente perso il proprio impero americano, cerca di darsene uni nuovo, aprendo di fatto quella che verrà chiamata “the scramble for Africa”. Ma aprendo anche un capitolo delle relazioni franco-islamiche che continua ancora oggi, e che si intreccia con i problemi derivanti dalla presenza delle comunità islamiche immigrate in Europa occidentale. Un capitolo che parte dalla trasformazione dello strumento militare della

Mais des dirigeants de l’Etat français/Ca fait longtemps qu’ils nous exploitent/De l’esclavage à la colonisation/Et aujourd’hui/Ce n’est que manipulation

123

Francia in un esercito in cui la componente islamica sarà determinante.

La conquista e la pacificazione francese dell'Algeria – un territorio immenso e difficile, se si tiene conto dei mezzi dell'epoca, e con una popolazione notevole – prendono circa diciassette anni – dal 1830 al 1847 – e sin dall'inizio vengono condotte sfruttando la frammentazione etnica per arruolare, al fianco dei conquistatori venuti dalla Francia, un significativo numero di truppe ausiliarie.

L'Algeria era allora, prima della conquista francese, l'estrema propaggine occidentale dell'Impero Ottomano, che non era riuscito ad estendere il proprio controllo politico-militare più ad Occidente, sull'attuale Marocco. Questa marca di frontiera era perciò governata da un rappresentante della Sublime Porta, il Dey di Algeri, il cui potere era garantito da un potente corpo di cavalleria turca, gli Spahis, composta cioé di elementi estranei ed estremamente invisi alla popolazione locale. Eliminato il Dey, il leggendario comandante di queste truppe – Giuseppe Vantini, un toscano convertitosi all'Islam dopo essere stato, da bambino, rapito dai pirati – si schierò con la Francia assieme a tutti i suoi uomini, e stabilirà così un primo solido legame militare franco-islamico. Vantini – un vero personaggio da leggenda – combatterà poi tutte le guerre coloniali della Francia, ed anche quella di Crimea, fino a diventare Generale e ad essere insignito della Legion d'honneur.

Ma i Francesi – nuovi occupanti stranieri del paese – non si limitano ad arruolare le truppe dei vecchi occupanti. Al contrario, accanto alla “Armée d'Afrique”, sin dalla sua creazione, nel giugno 1830, vengono creati dei corpi speciali a base tribale, il più celebre dei quali – quello degli “Zuavi”, che indossavano un'uniforme ispirata a quella dei guerrieri turchi, e che ancora oggi porta il loro nome – inquadrava originariamente la tribù degli Zouaouas. Anch'essi combatteranno in tutte le guerre della Francia, compresa la Seconda Guerra d'Indipendenza dell'Italia, la Seconda Guerra Mondiale, la Guerra d'Indocina e la stessa guerra d'Algeria. Verranno sciolti solo nel 1962, al momento dell'abbandono francese della loro ultima colonia nordafricana: l'Algeria, appunto.

La creazione degli Zuavi – che successivamente diverranno però truppe europee – fu ancora una volta di un gesto imperiale di “divide et impera”, in quanto gli Zouaouas sono una tribù cabila, appartenente cioé alla minoranza non arabofona dell'Algeria. Truppe ausiliarie etnicamente arabe verranno , infatti, successivamente inquadrate in un altro corpo, i Turcos, e in un atro corpo misto, i Tirailleurs. Nel frattempo, però, dopo l'estensione del controllo francese alla Tunisia, e successivamente al Marocco, la commistione islamico-europea diventerà una caratteristica strutturale dell'esercito francese

Considerando l'Africa del Nord una colonia di popolamento, in cui stabilire una presenza francese che Parigi pensava dovesse diventare di lunga durata, come quella dell'Alsazia germanica o nella Contea di Nizza italiana, l'obiettivo era quello non di arruolare truppe mercenarie – considerate sempre pronte a cambiar bandiera – ma di costituire tutta una vera piramide di veri e proprio corpi militari indigeni comandati da ufficiali francesi, dal grado crescente di detribalizzazione e di inserimento nel corpo dell'esercito francese.

Al livello più basso si tratta di corpi costituiti da uomini provenienti tutti dalla stessa “famiglia allargata”, in genere utilizzati per azioni su base locale, con compiti di garantire la sicurezza dei coloni francesi, di facilitare i contatti tra autorità provenienti dall'Esagono e popolazioni locali, di fare da guida sul sul loro territorio. Si tratta dei “goumier”, costituiti a

124

partire dal 1907, arruolati in genere per il periodo di un mese, che ricevono le armi ed una piccola paga, ma che non vivono in caserma – tranne i celibi – ma con le loro famiglie, al villaggio. Le esigenze militari della Francia faranno però sì che queste forze estremamente primitive saranno utilizzate anche nelle due guerre mondiale, sulla base di un accordo che era quello della guerra tribale, fondato sul diritto di stupro e di saccheggio.

Ne faranno l'esperienza, durante la Seconda Guerra Mondiale, le popolazioni italiane a Sud di Roma, quando – dopo la ritirata tedesca – i “liberatori” (con la complicità degli ufficiali francesi, deliberatamente eclissatisi per 48 ore) dovettero subirne la barbarica violenza.

La presenza islamica in Europa ha dunque radici molto lontane, profonde e tragiche. Nella Prima Guerra Mondiale, circa 90.000 musulmani combatterono sul suolo del Vecchio Continente, e i tirailleurs – in parte anche senegalesi – parteciparono alla occupazione della Germania, assieme a truppe indiane e nepalesi dell'esercito britannico. E questa novità assoluta nella storia d'Europa, l'occupazione di un paese “bianco” da parte di truppe “di colore fu in parte all'origine dell'esplosione di razzismo che divenne manifesta negli anni venti e trenta.. Tutti combatteranno nelle guerre della Francia.

Gli “Harkis”

Alla metà degli anni cinquanta, dopo aver dovuto accettare il processo di evoluzione politica che porterà nel 1956 alla fine dei protettorati sulla Tunisia e sul Marocco, Parigi si trova di fronte ad un problema assai più complesso: quello dell'insurrezione berbera in Algeria, dove appaiono immediatamente le questioni legate alla popolazione. L'Algeria non é infatti un protettorato, ma è stata da lungo tempo ufficialmente dichiarata territorio nazionale francese e divisa in alcuni grandi “Dipartimenti” formalmente eguali a quelli in cui è diviso il cosiddetto “esagono”. Anche la popolazione è fittiziamente francese- Ma la Repubblica che si proclama fieramente “laica, antifascista e nata dalla resistenza”, non si vergogna di discriminare al suo interno sella base della religione.

Nel 1947, infatti la Francia, di fronte all'impossibilità sia di distruggere tutta la popolazione a popolazione autoctona (come era stato fatto in altre colonie di popolamento (dagli Inglesi in America settentrionale e Australia, e da Spagnoli e Portoghesi nelle zone a clima temperato del SudAmerica) né di assimilarla, ed in particolare di convertirla al cristianesimo, si era posta il problema di come evitare che la minoranza “europea” fosse – a termine – sommersa dal numero oppure massacrata o forzata all'esodo.

Contro la schiacciante supremazia demografica dei Musulmani, e per rimpolpare la componente “francese” della popolazione, i francesi avevano creato quella che venne chiamata “una barriera di carta” bollata: con i “Decreti Cremieux” del 1870, avevano stabilito che andavano considerati francesi non solo i coloni di origine spagnola e maltese, ma anche l'importante comunità ebraica che era invece in gran parte autoctona;successivamente, dopo la seconda guerra mondiale avevano dato vita ad una particolare forma di “democrazia”, quella del “doppio collegio elettorale”.

La popolazione era divisa in due gruppi, che eleggevano ciascuna lo stesso numero di deputati. Il primo comprendeva gli “europei” - come sopra definiti, e quegli autoctoni che accettassero di rinunciare al loro statuto giuridico personale Il secondo comprendeva la schiacciante maggioranza. dei musulmani autoctoni che avranno tenuto a conservare il

125

loro statuto personale (all'incirca la Charia). I due collegi eleggevano un numero uguale di deputati, anche se i componenti del secondo collegio erano dieci volte di più.

Come conseguenza di questa stupida radicalizzazione da parte di Parigi, la rivoluzione algerina pose rapidamente gli “europei” - e ancor più i musulmani delle truppe indigene arruolate sotto la la bandiera bianca, rossa e blu, di fronte alla scelta “tra la valigia e la bara”; pose cioè le premesse per il primo massiccio flusso migratorio dall'Africa del Nord all'Europa.

Il terrorismo, tuttavia, non aveva aspettato questo esodo, per attraversare il Mediterraneo. Un anno dopo l'inizio dell'insurrezione in Algeria, di fronte alla estrema brutalità dell'esercito francese, inferocito dalla bruciante sconfitta subita in Indocina, gli insorti scatenano la cosiddetta “guerre en metropole”. Utilizzano cioé il fatto che l'annessione dell'Algeria alla Francia aveva fatto nascere delle piccole comunità arabe sul territorio metropolitano per scatenare un'ondata senza precedenti di atti terroristici.

Il terrorismo non era peraltro sconosciuto ai nazionalisti algerini insorti per ottenere l'indipendenza. Sapendo di essere fortemente minoritari nella popolazione locale, anche perché appartenevano quasi tutti alla minoranza kabyla, non trovarono di meglio, per ottenere la collaborazione della popolazione, che lo strumento del terrore. Chi aveva combattuto nell'esercito francese nella seconda guerra mondiale o in Indocina, era costretto a rinunciare alla pensione, spesso unica fonte di sostentamento. Chi aveva avuto medaglie era costretto a restituirle, esponendosi alla ritorsione francese, oppure ad ingoiarle in pubblico. I funzionari costretti a dimettersi sotto minaccia di morte. Insomma, ancor prima di avere il potere, avevano instaurato il “terrore di stato”.

Estendere queste pratiche ai ghetti della città francesi dove si raggruppavano gli immigrati fu semplice. E i Francesi aggravarono la situazione, usando – come avevano già fatto nella clelebre “battaglia di Algeri” - truppe algerine “fedeli” per attaccare con operazioni militari in piena regola, in cui però non si facevano prigionieri, i quartieri di Parigi dove vivevano circa 130.000 algerini.

Efficace più a livello politico-simbolico che a livello militare, la “guerre en metropole” verrà continuata, non appena si delinea a Parigi un'ipotesi di soluzione negoziata, da una ancora più efficace serie di atti terroristici condotti da organizzazioni degli “europei” d'Algeria, che saranno sospettati anche di aver condotto un gravissimo attentato in Italia, quello in cui morì Enrico Mattei, e che giunsero assai vicini ad assassinare lo stesso de Gaulle.

La prima ondata migratoria dal Nord Africa all'Europa nasce insomma in contemporanea con una serie di episodi di terrorismo, le cui estreme conseguenze non sono ancora eliminate; anzi appaiono come una minaccia per il futuro. La popolazione “europea” trasferitasi dall'Algeria alla Francia (e i suoi discendenti) assomma oggi a poco meno di un milione di individui. A ciò bisogna aggiungere circa 400.000 discendenti degli Harkis. Sono gli sparuti resti di una imponente massa di circa 2.000.000 (su una popolazione musulmana di soli otto milioni) di algerini musulmani (e delle loro famiglie) il cui destino, dopo l'indipendenza, era segnato per essere stati funzionari o militari del governo coloniale.

I massacri degli harkis, e di tutti coloro che erano in qualche modo compromessi con l’Amministrazione francese (dai maestri di scuola agli ex-combattenti delle Guerre

126

mondiali, e dei loro familiari (complessivamente due milioni di persone sugli otto milioni di abitanti musulmani che contava allora l’Algeria) esplodono nel 1962, quando l’esercito francese è ancora presente sul posto, facendo circa 150.000 morti (10). Particolarmente feroce furono le esecuzioni delle cosiddette harquettes, le donne che in assenza dei loro uomini inquadrati nell’esercito francese si erano difese da sole: furono tutte violentate e sterminate assieme ai loro figli, talora facendole sbranare da cani affamati.

Il tradimento

Di fronte a tutto questo, come acclarato dagli storici54

“Sarà necessario – precisava la nota ufficiale – evitare di dare la minima pubblicità a questa misura (…). I promotori ed i complici di rimpatri prematuri saranno oggetto di sanzioni adeguate„ Pierre Messmer, Ministre des Armées, a sua volta precisava nel maggio 1962 che gli arrivi in Francia di harkis “dovuti ad iniziative individuali (…) rappresentano vere e proprie infrazioni”. In realtà, nel 1962, non esiste alcun piano di sgombro né di protezione dei harkis e delle loro famiglie. Si ritiene (Philippe Denoix) che tra 15.000 o 20.000 famiglie di harkis, cioè circa 100.000 persone, riuscirono a fuggire in Francia. La grande maggioranza restò in Algeria, esposta all’orrenda ritorsione degli insorti.

, il vice ministro francese agli affari algerini indirizzò all'esercito una direttiva molto segreta, il 25 maggio 1962, che minacciava di sanzioni i militari francesi che di loro iniziativa, che talora contravvenivano agli ordini, ed organizzavano il ripiegamento in territorio metropolitano francese dei loro alleati musulmani. Ciò, precisava il vice ministro, era in violazione del cosiddetto “piano generale di rimpatrio” che prevedeva di rispedire in Algeria le truppe suppletive presenti in Francia.

L'abbandono dei harkis da parte dello Stato francese e le consegne date dai pubblici poteri di non effettuare nessun rimpatrio è stato giustamente considerato “una delle più grandi ignominies, una delle più grandi vergogne di tutte la Storia della Francia”55, anche se alcuni ufficiali hanno disobbedito agli ordini salvando molte migliaia di harkis da morte certa. Numerose anche le dimissioni di funzionari che non volevano “coprire tale ignominie”56

Ignominioso anche l’atteggiamento di de Gaulle, che secondo lo storico Rémi Kauffer, non considerava gli harkis come parte dell'esercito francese

57

54 Philippe Denoix, Article Harkis in Encyclopedia Universalis, 2010

, ma semplici “giocattoli della storia”. Del resto, già nel 5 marzo 1959, egli aveva esplicitamente detto al suo amico Alain Peyrefitte: “Se facessimo l'integrazione, se tutti gli Arabi e i Berberi dell'Algeria fossero considerati come francese, come a impedirgli di venire ad installarsi in metropoli, mentre il tenore di vita vi è così tanto più elevato? Il mio villaggio non si chiamerebbe più Colombey-les-Deux-Églises, ma Colombey-les-Deux-Mosquées! „ (19). Al Consiglio dei Ministri del 25 luglio 1962, poco dopo l'indipendenza dell'Algeria, quando nelle tragiche circostanze che abbiamo visto gli viene chiesta “una posizione di principio”, de Gaulle risponde: “Non si possono accettare tutti i musulmani che ci vengono a dire che

55 Maurice Allais, L'Algérie d'Evian (1962),éd. Jeune Pied-Noir, 1999

56 Pierre Mantagnon, Histoire de l'Algérie, Pymalion, 1998, p. 322-323 57 Rémi Kauffer, Chapitre les harkis, in Histoire secrète de la Ve République, dir. Faligot et

Guisnel, La découverte, 2006

127

non vanno d’accordo con il loro governo!”. E il primo ministro Pompidou aggiunse: “ E’ gente che non vuole lavorare!

Le famiglie fortunosamente arrivate in Francia vengono messe nelle baracche già utilizzate per i profughi repubblicani dalla Spagna e per gli Algerini sospettati di parteggiare per gli insorti. Circa 60.00 persone sono passate per questi campi di transito, tra il 1962 ed il 1975, quando s verifica una prima rivolta, che porterà alla loro dispersione in piccoli villaggi per fare lavori di riforestazione. Ma ciò non basta a calmare la situazione. Secondo il già citato storico Philippe Denoix, nel 1990, la popolazione derivata da questi profughi supera le 400.000 unità 58. E ancora nel 1991, in molte città francesi si verificano a violente sommosse di figli di harkis, che, anche quando hanno ottenuto la cittadinanza, rifiutano esplicitamente di considerarsi di nazionalità francese, e coltivano una identità algerina anche più fiera di quella della Repubblica, un po’ sul modello dell’orgoglio cinese di Taiwan rispetto alla Cina continentale. 59

Abbandonati all'atroce vendetta degli insorti – almeno 150.000 vennero brutalmente eliminati - quelli che sono riusciti a raggiungere la Francia hanno vissuto in campi di prigionia, e non hanno molte ragioni di nutrire sentimenti di gratitudine nei confronti del paese che li ospita. Potrebbero costituire il principale serbatoio in cui pescare per una campagna di propaganda e reclutamento islamico.

E deve averlo temuto anche il governo francese se la prima volta che un Presidente francese si è ricordato di loro è stato due settimane dopo l'Undici Settembre. E da allora è stata assunta tutta una serie di iniziative, ad evidente carattere “lenitivo, tra cui la produzione la diffusione nelle sale di un film di propaganda, “Indigènes”, che cerca di recuperare – forse troppo tardi – l'enorme contributo di sangue dato da questa “carne da cannone” durante le due guerre mondiali.

Quel che certo è che, nel cuore della Francia, esiste un enorme grumo di risentimento che alberga soprattutto nella popolazione rifugiata, i discendenti degli Harkis, ma che tocca e sembra estendersi rapidamente a tutta la popolazione di origine nordafricana, inclusi quella portata sulla sponda nord del Mediterraneo da flussi volontari, cioé dagli immigrati veri e propri. Cui si aggiungono in maniera crescente immigrati anch'essi musulmani provenienti dall'Africa subsahariana ex-francese, dove alcuni paesi – in particolare, mali e Niger – sono diventati il principale terreno di attività dell'ex Movimento Salafita per la Predicazione e il Combattimento, oggi noto come Al Qaeda del Maghreb Arabo.

Non passa giorno – in genere alla periferia, ma non più solo in quella estrema, delle città francesi – che un incidente non mostri come questo risentimento vada crescendo, e che non metta in luce come la brutalità con cui si tenta di controllarne l'esplosione non faccia che accrescerlo. Insomma, oltre, alle sue frontiere – che ovviamente vanno controllate – è al proprio interno che le autorità francesi dovrebbero indirizzare uno sforzo di ricerca per la comprensione dei fenomeni socio-politici, criminali e terroristici legati al grande flusso che sta cambiando, complice la denatalità, la faccia e il destino dell'Europa.

58 Philippe Denoix. cit.

59 Vedansi le dichiarazioni alla rivista Historia, del figlio del Buchaga Bualam, capo di una tribù di feroci guerrieri alleati con la Francia, deputato all'Assemblée Nationale, di cui è stato anche Vice-presidente.

128

129

PARTE QUINTA

CONCLUSIONI

E

NUOVE LINEE DI RICERCA

Immigrati e terrorismo oggi

I problemi e le sfide che, in materia di sicurezza, sono poste all’Europa dal fenomeno migratorio, alla fine del primo decennio del 2000 richiedono, per essere compresi in tutta la loro gravità, una ulteriore intensa attività di ricerca, oltre a quella che è stata finora svolta. E questa deve prendere in considerazione, con gli strumenti dell’analisi sociologica, politologia, economica e dei “culture studies”, i getti urbani in cui gli immigrati si riuniscono, in parte per l’inesorabile logica del mercato immobiliare, ma in parte anche spontaneamente, nel tentativo di ricreare l’ambiente e la cultura che hanno dovuto abbandonare.

E per studiare il fenomeno dei ghetti, le loro dinamiche interne, il ruolo che hanno

nel formare dei disadattati all’integrazione nel paese in cui ormai vivono, nonché l’occasione che offrono a chi, per fini politici o militari, vuole sfruttare la loro proliferazione, non si può non tenere conto del livello di omogenità assai notevole già raggiunta dai paesi europei investiti dai flussi migratori. Ciò rende assai istruttivo per tutti – e in particolare all’Italia, ultima arrivata tra i paesi di destinazione – lo studio di quanto si verifica negli specifici contesti nazionali.

A metà del primo decennio del nuovo secolo, gli attentati dell'11 Marzo 2004 a

Madrid (192 morti), del luglio 2005 in Gran Bretagna (52 morti) e la rivolta delle periferie dell’ottobre in Francia (un solo morto direttamente riconducibile alla sommossa, ma un profondo sconvolgimento dell'ordine pubblico e, in seguito, del quadro politico) hanno gettato uno squarcio di luce estremamente istruttivo sulla carica di violenza respessa che si sta accumulando nelle per ferie degli immigrati. Hanno posto drammaticamente alla ribalta i problemi di sicurezza derivanti dall’immigrazione. Ed hanno fatto emergere, seppure nella loro diversità, una crisi altrettanto profonda, nei principali paesi d'immigrazione, nonostante le due diverse strategie – una “multiculturale”, l’altra “assimilazionista” – cui erano state affrontate le conseguenze dei flussi migratori del precedente venticinquennio.

Ciò suscita una serie di interrogativi sulle vie di promozione dell’integrazione e della

coabitazione nel continente. Per capire il legame che esiste tra immigrazione e terroristi in questi primi decenni

del nuovo secolo, è necessario prendere in considerazione tanto quel che si verifica in Franciam che in Inghilterra, che in Germania.

Non c'è dubbio – ha scritto lo Spiegel 1subito dopo la pubblicazione del libro

“Deutschland schafft sich ab”2 del banchiere Theo Sarrazin, membro del direttivo della Bundesbank, la Banca centrale tedesca – che in Germania, ci siano Musulmani che

130

simpatizzano con le idee islamiche (il che però non significa necessariamente che sono pronti ad usare la violenza). Un rapporto dall'ufficio federale tedesco per protezione della costituzione, i servizi segreti che si occupano della situazione interna, include 36.270 musulmani in questo gruppo, con una tendenza all'aumento negli ultimi anni. Eppure i problemi della Germania sono minori di quelli della Francia, ma anch’essi si potranno capire meglio se i governi dell’Europa occidentale dedicheranno un ammontare appropriato di risorse ad uno studio sistematico della nascita e dell’evoluzione dei ghetti immigrati nell’altro paese dell'Europa in cui si concentra la popolazione di origine musulmana.

In Francia, una prima analisi condotta “a caldo”fa emerge una diversità di approccio

rispetto alle valutazioni da dare ai fenomeni e alle misure da porre in campo per contrastare le derive violente e devianti del mondo giovanile che proviene dall’immigrazione.

I problemi ereditati dal passato sono molti. Dopo la rivolta delle banlieurs del 2005,

che ha testimoniato di una seria perdita del controllo del territorio, in Francia i primi a finire sotto accusa sono stati i quartieri dormitorio costruiti secondo il modello ispirato alla Città Radiosa di Lecorbusier, e consacrato da parte dell’intera comunità internazionale degli Architetti nella Carta di Atene. Questi sobborghi dormitorio – ormai considerati “Insediamenti criminogeni” – e sono stati realizzati per rispondere alle necessità delle classi subalterne in regime di piena occupazione, prevalentemente nel settore industriale, che nel trentennio successivo al Secondo conflitto mondiale si è fortemente sviluppato in Europa occidentale.

La separazione tra luoghi di lavoro e quartieri dormitorio era vista, in quel contesto,

come un fatto positivo, che consentiva – anche se a prezzo di un pendolarismo su distanze piuttosto lunghe – di allontanarsi per un parte delle 24 ore dalla congestione, dai rumori e dalle nocività dell’ambiente industriale.

Architettura “criminogena”

Le critiche che si facevano a quel tempo alle città-dormitorio erano diverse – e in definitiva meno gravi – di quelle odierne. Dello stile di vita cosiddetto “boulot, métro, dodo”, si criticavano soprattutto le conseguenze del fatto che tali quartieri erano nati in fretta e si erano inizialmente popolati di una sola generazione di adulti con figli molto piccoli. Nelle cités, tipo Sarcelles, erano pertanto venute a mancare intere fasce di popolazione, quali gli anziani e i giovani adulti che avrebbero potuto mediare il rapporto dei giovani con la società, cioè inquadrarli, trasmettere una parte dell’educazione non-scolastica, sorvegliarli e controllarli nelle ore in cui entrambi i genitori erano al lavoro (cioè, in molti casi, dalle 7 alle 19). E questi, abbandonati a loro stessi hanno mostrato fin dall’inizio della vita dei nuovi quartieri, la tendenza a riunirsi in bande. 1

Un altro aspetto del problema è che i nuovi quartieri in cui si è concentrata l’edilizia

sovvenzionata dalla Stato sono divenuti non solo dei “ghetti sociali” ma anche dei “ghetti razziali”, e ciò per due motivi.

In primo luogo, perché nell’edilizia sovvenzionata si sono concentrate – come è

ovvio –famiglie a basso reddito, il che in una fase di immigrazione assai forte, ma determinata soprattutto da “push factors”2 e che ha assunto soprattutto la forma dei ricongiungimenti familiari, significa che si sono concentrate soprattutto famiglie immigrate.

131

E siccome negli anni 80 e 90 l’immigrazione dai paesi a popolate nera ha prevalso su quella proveniente dai paesi a popolazione araba, che aveva invece caratterizzato i flussi in ingresso negli anni 60 e 70, le cités sono diventate dei ghetti principalmente neri.

La componente “nera” della popolazione, giunta in Francia in una fase di de-

industrializzazione (e non, come i nordafricani, in una fase di espansione del settore secondario e dell’edilizia) soffre quindi maggiormente delle condizioni di isolamento ed alienazione prevalenti nei quartieri-dormitorio. E siccome gli immigrati assumono con un certo ritardo le abitudini riproduttive del paese di destinazione, ancora più forte è questa componente nelle classi d’età più giovane che – come accade dappertutto in Europa – hanno grande difficoltà a entrare sul mercato del lavoro. Ciò coincide con la presenza di un gran numero di minorenni di origine africana tra le persone coinvolte nei disordini di fine 2005.

In secondo luogo va tenuto presente che l’edilizia in cui sia la costruzione, sia gli

affitti sono sovvenzionati dallo Stato Sociale si è essa stessa concentrata in pochi comuni o dipartimenti attorno alle grandi città, e ciò in violazione previste dalla legge che disciplina la presenza in ogni comune del 20% di alloggi popolari, per garantire una effettiva promiscuità sociale di cui si avverte con forza l’esigenza. Tale quota è stata però assai spesso disattesa, il che ha provocato solo penalità fiscali per i Comuni che non raggiungevano la soglia suddetta, con conseguenze politico-sociali piuttosto evidenti.

Non a caso, nel corso delle tre settimane di disordini, è stato ripetutamente

sottolineato come nel Comune di Neuilly, di cui in passato é stato Sindaco l’allora Ministro dell’Interno, e attuale Presidente Nicolas Sarkozy, la percentuale degli alloggi sociali superi a stento il 2%, un decimo di quanto imposto dalla legge. Si è perciò discusso, almeno prima delle elezioni del 2007, il potenziamento di tali misure.

Nel contesto del passaggio da un secolo all’altro, in una fase in cui non solo la

crescita è estremamente rallentata, ma si assiste ad una forte de-industrializzazione, i problemi delle città-dormitorio appaiono radicalmente diversi rispetto al quarto di secolo 1948-73. I quartieri puramente residenziali si sono rivelati una trappola per chi, privo di lavoro, non ha più motivo di sottoporsi ad un lungo e faticoso pendolarismo. Intere generazioni, prive di vere prospettive occupazionali, passano le giornate nei quartieri dormitorio, in quella che è stata definita “la galere”, dove non solo non ci sono né occasioni di lavoro né la possibilità di coltivare un qualsiasi altro interesse, ma mancano anche le possibilità di un rapporto con persone che non siano nella stessa condizione di inoperosità ed inutilità.

La mancata integrazione è stata infatti spiegata, in particolare dal sociologo

François Dubet, con il fatto che sono venuti meno gli strumenti su cui – assieme alla scuola – tale integrazione poggiava, e cioè la fabbrica, il servizio militare obbligatorio e la sezione del Partito comunista.

È stata perciò avanzata e discussa, immediatamente dopo i disordini, l’ipotesi di

abbassare l’età minima per entrare nell’apprendistato. La proposta che è stata avanzata è che si possa accedervi a 14 anni invece che a 16. Contemporaneamente, stato annunciato da Chirac, dietro proposta di de Villepin, l’inserimento di un servizio civile per la realizzazione di servizi socialmente utili.

Tale scelta di proporre un servizio civile manifesta l’intenzione di sopperire

132

all’assenza di questi elementi come luogo di integrazione, creando un centro alternativo. Sul fronte delle forze di sicurezza una prima risposta è stata quella di riorganizzare

le CRS, Compagnie repubblicane di sicurezza, cioè la polizia antisommossa, che non saranno più truppe di pronto intervento sul territorio3, ma dislocate in maniera permanente sul territorio dei comuni dormitorio. In un certo senso, lo si può ritenere un piccolo (ma simbolicamente significativo) passo per superare la non integrazione tra il “popolo delle cités” e lo Stato francese.

Il più istruttivo tema di ricerca

Altrettanto istruttivo, ai fini della elaborazione di una politix antiterrorismo può essere lo studio della situazione inglese. In seguito alla breve ricognizione che si è potuta effettuare in questa fase preliminare, appare evidente che, in Inghilterra, al di là delle grandi polemiche suscitate dagli avvenimenti di luglio, non si ravvisa un altrettanto ampio dibattito sugli aspetti relativi alla nascita di “quartieri etnici”, in cui sono maturati i sentimenti di alienazione che stanno alla base di comportamenti estremi come quelli dei terroristi suicidi.

Appare chiaro che i due settori nei quali si è creduto di trovare le principali cause di

questi avvenimenti siano quelli relativi alla sicurezza ed alle scelte di politica estera del governo. La scelta sembra abbastanza ovvia, almeno in una prospettiva di breve termine. Ma forse un’analisi e una conseguente politica condotta solo secondo questi “sentieri di ricerca”, potrebbe non essere sufficiente, anche se ciònon significa che bisogna per questo avviare un ripensamento totale e una ricerca di strade alternative completamente diverse.

Un forte dibattito politico hanno suscitato le difficoltà incontrate dalla polizia e dai

servizi segreti ad individuare per tempo e sgominare la cellula terroristica operante sul territorio britannico. Si è pensato di accrescere l’efficienza di queste amministrazione con l’estensione a tre mesi del fermo di polizia, proposta sulla quale il Governo ha tuttavia subito una seria sconfitta.

E’ stata contemporaneamente creata in gran fretta una commissione di personalità

islamiche per preparare una serie di proposte per l’Home Office. Divisa in sette sottogruppi essa ha rinviato ad un altro organismo tanto l’analisi degli aspetti sociopolitici della questione, proponendo “a public inquiry into the root causes of 7/7 and 21/7 terror attacks and their consequences”, quanto uno sforzo “for a better reflection of Islam in education”.

Essa ha avanzato 64 suggerimenti, principalmente nel campo della comunicazione,

sul modo della società e dello Stato britannico di presentarsi agli occhi della minoranza islamica.

Alcune proposte tendono invece ad accelerare l’assimilazione culturale della

minoranza islamica, in particolare una campagna per cambiare radicalmente la posizione della donna islamica. Ma è’ facile osservare che queste ultime misure tendono non ad alleggerire, ma semmai ad accrescere la pressione psicologica sugli Islamici, accrescendo il rischio di un rigetto della cosiddetta “britishness”.

A proposto di queste proposte, una osservazione inquietante è stata avanzata dal

133

Guardian relativamente all’idea di creare “a Muslim-run media affairs rapid rebuttal unit and a British Islam website be set up to take on extremist sentiments, challenge Islamophobia and air legitimate grievances, including foreign policy”. The ironic and unsettling remarque is that when Muslims do unanimously air a serious grievance - on British foreign policy - the government totally refuses to listen.

Su questa linea si pone Modood, sociologo di riferimento delle banlieues, che

accusa la politica estera di Blair perché ha aderito ad uno schieramento anti-islamico. Questo avrebbe infatti provocato contraccolpi politici nella comunità islamica inglese, che conta 1.600 mila anime che non possono non sentirsi attaccate quando è attaccato l’islam nel suo complesso.

La ricerca che si propone dovrebbe tentare andare oltre l’analisi fondata sulla

semplice contrapposizione economica, religiosa e culturale, e di abbordare la questione sotto un profilo socio-geografico che sembra sinora essere stato lasciato piuttosto in ombra. Si potrebbe probabilmente iniziare da una verifica di quanto sia vero il giudizio espresso dal sociologo Max Farrar il quale, pur affrettandosi a precisare “not to really know why those men set off those bombs in London…. thinks to know where to look for the answers”

La ricerca necessaria a capire la nascita di un ambiente favorevole all’ostilità più

estrema contro il paese ospite e la possibile moltiplicazione dei terroristi ed i modi per combatterli, deve si estende al vissuto degli immigrati e alla loro percezione del contesto di incrocio culturale in cui sono proiettati.

I ghetti della rivolta

Problematiche di una particolare rilevanza in tal senso, anche se disomogenee, sembrano essere la questione femminile; il voto e la rappresentanza; il disagio giovanile.

Uno dei fattori per cui l’immigrazione da necessità temporanea diviene un

fenomeno irreversibile è la volontà degli elementi femminili del nucleo familiare di stabilirsi permanentemente in un contesto che li favorisce enormemente rispetto ai paesi di origine.

Le donne hanno più facile accesso all’istruzione, anche nei gradi superiori, godono

di parità di diritti e spesso sono facilitate nell’integrazione rispetto agli uomini. Possono infatti aspirare a quote di mercato del lavoro “protette” sia in quanto donne che in quanto minoranze (negli USA le leggi promosse dall’amministrazione Carter per favorire le minoranze hanno prodotto l’effetto di una forte occupazione delle donne immigrate per tale motivo) e hanno l’ulteriore canale dei matrimoni misti, che pur non essendo precluso agli uomini, è nella grande maggioranza un fenomeno femminile.

Essendo l’immigrazione un fenomeno dinamico, comporta lunghi periodi in cui gli

individui restano legati ai due mondi. Ciò era vero già nell’Ottocento, in condizioni di comunicazioni e di spostamenti molto più disagevoli di quelle odierne, quando nacquero in America importanti comunità nazionali nei paesi di emigrazione. Esse sono state e sono in parte tuttora importanti gruppi di pressione sia nel paese di origine che in quello di residenza.

Un fenomeno simile potrebbe verificarsi anche in Europa nella misura in cui gli

immigrati vengono naturalizzati o vengono ammessi al voto sulla base della residenza pur

134

senza diventare cittadini. Se ne è avuta un’anticipazione in Germania, paese in cui anche per motivi storici è forte la tradizione comunitaria. Qui, in elezioni cruciali come le politiche del 2005, una parte del corpo elettorale è stata influenzata nella scelta più dai rapporti che sarebbero stati intrecciati con la Turchia che da considerazioni di politica interna tedesca.

Questa è probabilmente la conseguenza delle scelte di politica migratoria dei

governi tedeschi, che hanno favorito una massiccia immigrazione da un solo paese e hanno considerato questa forza lavoro come estranea e destinata a non stabilirsi sul territorio nazionale, per poi dover prendere atto della realtà concedendo centinaia di migliaia di cittadinanze nel momento in cui è stata modificata la normativa in materia.

Il complesso problema della rappresentanza elettorale è dunque legato sia

all’evoluzione delle società occidentali verso il modello di tipo americano della politica etnica, sia all’idea dell’appartenenza nazionale che tende a inglobare gli oriundi del paese che vivono altrove.

Il problema dell’integrazione e dell’identità è particolarmente forte per le giovani

generazioni di immigrati, che possono essere – e sono state - attratte dal fascino della violenza e dalla devianza. L’interpretazione semplicistica di un islam anti-occidentale sembra non poter spiegare la complessità del fenomeno. Durante la rivolta in Francia, ad esempio, gli islamici hanno cercato di pacificare gli insorti, fino a che una moschea non è divenuta bersaglio degli atti vandalici.

La Francia ha constatato in questa situazione il limite di non aver ammesso

organismi di rappresentanza degli immigrati. Per avere ragione dell’esplosione di un malessere tanto diffuso quanto impalpabile si è dovuta rivolgere ai grand freres, i cosiddetti fratelli maggiori, giovani di origine africana di una generazione precedente e coinvolti nella criminalità.

Ed è per fugare queste incertezze sul futuro, che un grande sforzo di ricerca è necessario sulle realtà urbane in cui, mentre i governi cercano di fermare alle frontiere i terroristi che si nasconderebbero in mezzo agli immigrati, nascono e si sviluppano cellule terroristiche autonome, in collegamento quasi soltanto politico con le grandi centrali del terrore internazionale.