cassandra - marzo 2012

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Il giornale indipendente del Liceo Sarpi.

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SARPI

marzo 2012 2Editoriale

Alla fine anche il barone Cosimo Piovasco di Rondò è sceso dagli alberi e ha mangiato quelle maledet-te lumache. D’altronde chi glielo faceva fare di rimanere lassù? La battaglia era persa sin dall’inizio e i

tempi del colonnello Aureliano Buendìa passati. Morire per delle idee? L’idea è affascinante ma preferiamo il quieto vivere. Non neghiamolo, accettiamo

qualsiasi compromesso pur di campare in pace. Ora, sembro un po’ retorico, ma non pensate che la cosa non vi riguardi. Guardiamo anche solo alla vita scolastica: Caro professore, non ti sopporto

ma pur di avere un bel voto rido alle tue infelici battute. Ancora meglio: Non condivi-do quello che dici ma comunque annuisco, figuriamoci se oso addirittura contraddir-

ti! Dunque, dicevo, l’importante è campare in pace. Ed è qui che entra in scena il compromesso. Il compro-messo che ci permette di non sentirci in colpa, di autoconvincerci. Non pago le tasse ma giuro che vado a messa tutte le domeniche e mi confesso: Dio capirà. Non ho rimorsi, grazie compromesso e grazie Dio.

Sono finalmente diventato maggiorenne e posso votare: avevo proprio voglia di esercitare quello che, a parere mio, è un dovere civile, andando a rimpinguare le tasche dei vari colLusi. Caspita, quanto mi fa

male il mondo. Suvvia Davide, perché tutto questo pessimismo? Vivi in un paese libero e democratico, non puoi anche dire che si stava meglio quando si stava peggio. Va bene, sulla carta la nostra sarà anche democrazia però non venitemi a dire che in Val di Susa è stato ascoltato il popolo, gli abitanti della valle. Ah ma certo, è progresso. E il popolo sono i banchieri. Chissà come ho fatto a non pensarci.

Non so se prima o poi cambierà qualcosa. Di sicuro non cambierà nulla finchè il fuoco risparmierà le nostre Millecento. Soluzioni? L’ho già scritto in passato e lo ribadisco con convinzione: la bellezza ci

salverà. La cultura è bellezza. La cultura ci salverà.Vi starete sicuramente chiedendo perché abbiamo deciso di non pubblicare ipse dixit su questo nume-ro. Immagino le vostre reazioni: mancamenti, crisi esistenziali e dubbi amletici sull’utilità dei plantari

ortopedici. Tranquilli, niente di complicato: vogliamo solo mandare un segnale affinchè si capisca che il giornale è anche altro, anzi, è soprattutto altro. Non ci va che vengano lette solo le ultime due pagine. In-

serire gli ipse dixit non costa nulla, è un semplice copia e incolla (sempre e comunque onore alla Cape) ma il vero lavoro sta negli articoli, a cui dedichiamo dedizione e ore del nostro tempo. Ecco concedete

un po’ di attenzione anche a loro. Niente di complicato.Buona lettura!

Davide Rocchetti, 3°A

P.S.: Anche questa volta mi concedo di consigliare un paio di libri, in riferimento ai personaggi citati nella parte iniziale dell’editoriale. Il primo è “Il barone rampante” di Calvino, da leggere assolutamente

se non lo si ha mai letto, da rileggere se lo si ha letto alle medie. Il secondo è ambientato a Macondo ed è “Cent’anni di solitudine” di Marquez, immenso capolavoro e, a mio parere, una tappa fondamentale

per il nostro percorso di crescita.

La vita senza Ipse Dixit

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SommarioSARPI- Intervista a Carla e Dianella- Addio Settimana Rossa, benvenuta settimana di sospensione didattica (con Intervista a Cubelli)- Assemblea d’IstitutoA

ttualit

a'

- Le domande senza risposta dei figli adottivi di Steve Jobs e John Lasseter- Best Wishes- Se lo Stato somigliasse a Betsy- Le Foibe dimenticate

Cultura- La prima impressione non è mai quella che conta

- All cops are bastards ?

- Qui non si parla di

- il Fischio

- LetteraNarrativa

- Joseph The Bunny

- Decalogo dei verbi derivati dai nomi delgi uccelli

Terza Pagina

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marzo 2012 4Sarpi

Sottocommissione Sarpi: Re-centemente siete state al centro di una polemica a causa degli avvisi che recitano “è vietato di salire” e pochi giorni dopo siete apparse sulla copertina di questo giornale in vesti leghiste. Qual è la vostra risposta pubblica? Macchina del fango o accuse fondate?Carla: Prima di tutto l’hanno scritto i professori (è anche fir-mato!)... S: E per la copertina leghista?C: Ah per quella ci siamo già chiariti! Mi ha chiesto scusa (Togni)... Non ci ho dormito una notte! Ho ancora i postumi del trauma!Dianella: Ovviamente è stato scritto dai prof, punto uno. Pun-to due, io non sono leghista. Ho un marito calabrese, per cui la cosa non mi ha neanche sfiorato, in realtà... E’ stata tutto sommato simpatica!

S: Nella stanza della fotocopiatri-ce celate qualche segreto che pote-te rivelarci in esclusi va? Qualche informazione sui professori o sugli studenti?C: No, purtroppo no... Solo cara-melle, dolcetti, tisane,...D: Tutte le vostre verifiche!S: E sugli studenti, a parte le verifiche?D: I segreti sono segreti, no?

S: Avete lavorato in qualche altra scuola prima di venire al Sarpi? Se sì, l’ambiente era diverso? In meglio o in peggio?

C: No, io no. Ho fatto solo sup-plenze... All’inizio ero inesperta, perciò non posso giudicare... Seguivo i vecchi e basta!D: Sì, ma erano scuole medie, per cui la differenza non l’ho vista molto... Ho lavorato poco alle medie, per cui...

S: Mandereste una figlia o un figlio al Sarpi?C: Ci ho mandato una figlia. Dicevano che aveva bisogno dello psicologo, quando era qua... Le scrivevano sul ban-co “terrona” ecc… Veniva col magone a scuola. E il risultato è che lei adesso è una dottoressa in psico-logia a Padova... È un incoraggiamento per voi, no?D: Non sono da Sarpi i miei!

S: Dite fuori dai denti cosa pensa-te degli studenti del Sarpi.C: Sono bravi! Infatti sono vent›anni che lavoro qua e, dav-vero, l›unico motivo per cui non ho mai chiesto il trasferimento è che mi trovavo bene con i ragaz-zi... Puoi chiederlo a chiunque e ho sempre detto così.D: A parte qualche elemento fuori di testa, direi che sono tutti carini ed educati.

S: Chi è il professore più amabile o gentile con voi?

C: Tutti, tutti. Almeno, con me tutti.D: Tutti, compresi quelli che ora non scendono più in succursale.

S: Quanto costa anticipare il suono della Campanella? E fingere una chiamata dalla Preside?C: Per tutte e due le risposte... la

pensione a vita! Così sono sicura di perce-pirla…D: Ci devo pensare… un fondo vitalizio?S: E la finta chiamata della Preside?D: No, non ci sarà mai la finta telefona-ta della preside!

S: Perché non si può uscire in terrazza dal primo portone anti-

panico e può farlo solo il Falcone?C: Non lo può fare nessuno dei due perché la porta è chiusa a chiave perché la serratura si era rotta. Basta.B: I misteri del Sarpi...C: Appunto! Provare a chiedere, che ve lo diciamo subito?!D: Come sopra, serratura rotta!

S: Vi porto il grazie collettivo di tutti i sarpini per l’opera umani-taria che compiete ogni giorno, quando interrompete le lezioni con la consegna delle circolari. Cosa rispondete a questa diffusa gratitudine?

Quanto costa

anticipare il

suono della

Campanella?

E fingere una

chiamata dalla

Preside?

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5 marzo 2012 Sarpi

C: Eh a noi viene naturalmente! Grazie a voi che gradite!D: Procurerò più disturbo!

S: Personaggio storico preferito?C: Garibaldi!D: Beh, visto che siamo al Sar-pi... Dai, Dante Alighieri!

S: Personaggio contemporaneo preferito?C: Sono indecisa... Monti o Di Pietro. Monti ci ha messo la fac-cia, poteva benissimo dire: “No, arrangiatevi. L’avete voluto, ve lo tenete”D: Benigni!

S: Fatevi una domanda e datevi una risposta.C: Boh... Fammi una domanda e una risposta! Non ne ho... Perché non ci ho pensato prima a venire in succursale? Tonta!D: Mi piace il mio lavoro? Sì! Sto bene con la Carla? Sì!

a cura diBenedetta Montanini, II A

E’ ormai il secondo anno in cui, come vi sarete accorti, la consue-ta settimana rossa con recuperi e approfondimenti è stata abban-donata in favore della settimana di sospensione didattica che pre-vede attività di recupero e appro-fondimento mantenendo però la scansione delle ore curricolari. Un gruppo di solerti redattrici ha così deciso di far girare un questionario fra le classi per son-dare l’andamento della settimana (si ringraziano calorosamen-te, fra l’altro, le classi che non l’hanno riconsegnato compila-to!). I risultati ottenuti paiono decisamente positivi: solo sette classi hanno svolto in una o più materie (per lo più storia, filo-sofia e scienze) lezione regolare; solo in due di queste classi sono state assegnate valutazioni, e in quasi tutti i casi si è trattato di un accordo fra studenti e docen-ti. Più spiacevole è stato il caso di quelle classi, due in tutto, in cui il docente di lettere ha appro-fittato della settimana rossa per svolgere un approfondimento sul quale ha poi interrogato. In latino e greco tutte le classi han-no svolto attività di recupero e potenziamento (spesso dividen-do la classe in due o più gruppi,

a seconda delle esigenze) e le terze ne hanno approfittato per prepararsi in vista della seconda prova. In matematica e fisica in-vece il potenziamento non è sta-to molto gettonato, forse a causa delle rinomate abilità matemati-che dei sarpini, ma si è svolto il recupero in quasi tutte le classi. Dal sondaggio emerge anche che le aule video sono state decisa-mente affollate, soprattutto per storia, filosofia, arte, inglese e letteratura. Molti ragazzi di terza hanno poi partecipato a stage della durata di quattro o cinque giorni, che offrivano opportunità in ambito giuridico, medico-sanitario e della comunicazione. Un altro aspetto positivo è che anche alcune classi del ginnasio, nonostante usufruiscano dell’ora PER durante tutto l’anno, hanno svolto attività di approfondimen-to, recupero e potenziamento.Ora, stando ai risultati, pare che tutto sia andato come doveva andare, dal punto di vista tecni-co: non ci sono stati intoppi (o quasi) e, a differenza dell’anno scorso, tutte le classi del liceo e, soprattutto, tutti i docenti sono stati avvisati, più o meno in tempo, del fatto che in quel-la settimana ci sarebbe stata la

*Il titolo non c’entra nulla con l’articolo, ma è dalla quarta ginnasio che voglio scrivere un articolo con questo titolo.

ADDIO SETTIMANA ROSSA, BENVENUTA SETTIMANA DI SOSPENSIONE DIDATTICA

SETTIMANA ROSSA: LA SETTIMANA DEI COMUNISTI*

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marzo 2012 6Sarpi

settimana rossa e di conseguenza si sarebbero dovute sospendere spiegazioni e valutazioni. Giran-do tra i corridoi e intervistando studenti di varie classi, la ri-sposta è stata all’incirca sempre la stessa: è stata una settimana utile per tirare il fiato dopo le verifiche di fine quadrimestre, ci siamo riposati (nonostante che il carico di lavoro a casa non sia affatto diminuito), gli approfon-dimenti sono stati interessan-ti, ma chi doveva recuperare, tranne in alcuni casi, non ha recuperato. Lo scopo che da sempre ha la settimana rossa, o di sospensione didattica che dir si voglia, è principalmente quello di mettere al centro due aspet-ti che durante l’anno vengono spesso trascurati: il recupero e la cosiddetta “cura delle eccellen-ze”. L’idea è quella di sgravare i recuperandi del carico di lavoro nelle altre materie e creare grup-pi poco numerosi che svolgano con il proprio docente un’attività intensiva di recupero mirato. Il metodo adottato da quest’anno però, che prevede al liceo quattro ore di recupero di latino e tre di greco (le ore curricolari), ha avuto come risultato un recupe-ro svolto più per dovere che per convinzione della sua utilità e, soprattutto, svolto in forma di le-zione frontale, come conseguen-za del fatto che in classe non c’erano dieci alunni ma venticin-que. Mantenendo la scansione delle ore curricolari, i docenti delle materie in cui gli studenti hanno generalmente bisogno di recuperare (lettere, latino, greco, matematica, inglese) si sono ritrovati con poche ore e troppi studenti, mentre in altre materie, come storia, filosofia, scienze, in cui generalmente il recupe-

ro non serve, si sono trovati, non potendo proseguire con il programma, a dover inventare un’attività, cosa che si è per lo più risolta in approfondimenti a volte improvvisati e visione di film. Un altro aspetto intrinseco della settimana rossa vecchio stampo, e in alcuni casi anche di quella attuale, era creare un’op-portunità di dialogo tra docenti e studenti e cercare una o più attività legate al programma che potessero essere interessanti e dare più spazio agli studenti, so-prattutto nelle attività di poten-ziamento.Siamo consapevoli del fatto che gestire recuperi e approfondi-menti creasse notevoli problemi organizzativi, ma poteva garan-tire risultati decisamente mi-gliori: per esempio, il recupero aveva una reale utilità e non era ridotto a semplice pro forma. Il problema si potrebbe però, in parte, ovviare coinvolgendo gli studenti nell’organizzazione dei corsi di approfondimento, ad esempio attraverso la cre-azione di una commissione o comunque di un organo, magari formato da docenti e studenti, che si occupi di definire i corsi di approfondimento e di “smistare” gli studenti (o in alternativa si può chiamare il cappello parlan-te di Hogwarts). Un’altra possi-bile soluzione sarebbe quella di unire due classi, possibilmente dello stesso anno e con profes-sori in comune, e creare due gruppi, uno di recupero e l’altro di approfondimento; oppure eso-nerare gli studenti che devono recuperare dalle altre materie e far loro seguire ore supplemen-tari di recupero nelle materie in cui sono carenti. Ovviamen-te queste sono solo proposte a caldo, speriamo però che ci

siano i tempi e gli spazi per discuterne meglio. Ciò che però è più importante è dare spazio a situazioni, anche al di fuori della settimana rossa, che favoriscano il dialogo e il confronto -troppo spesso trascurati- fra studenti e docenti sia per quanto riguarda le aree di interesse per un even-tuale approfondimento, sia per organizzare un recupero efficace.

Abbiamo poi pensato di in-tervistare il Prof. Cubelli in merito alla set-timana di sospensione didattica.

D: Innanzitutto vorremmo chie-derle perché si è scelto di fare la settimana rossa in questi termini quest›anno, ovvero perché soltan-to recuperi interni alla classe e perché soltanto per il liceo e non per il ginnasio.R: Soltanto per il liceo, la ri-sposta è semplicissima: perché il ginnasio fa già l›ora PER, per cui dispone di un pacchetto di recupero che per il greco e per il latino supera le 30 ore annuali, e invece per le altre discipline il recupero è in itinere oppure con i pacchetti in orario ampliato, quindi il ginnasio è del tutto co-perto. Si poneva il problema del liceo: si è pensato di risolverlo così, appunto, con la settimana di sospensione didattica, che non crea peso nell›organizzazione e soprattutto è un modello che è

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7 marzo 2012 Sarpi

attuato da tutte le scuole ber-gamasche; anzi, io pensavo che si potrebbero fare anche due settimane, però è da valutare la risposta che gli studenti daranno a questa soluzione.

D: Per cui fondamentalmente la modalità non è stata cambiata tanto per i problemi organizzativi della settimana rossa “di vecchio modello”?R: È stata cambiata per i proble-mi organizzativi della settimana rossa, perché effettivamente una settimana portava via tre setti-mane di lavoro organizzativo, e non era assolutamente conve-niente. D›altro canto, anche in questa settimana rossa di nuovo stampo i ragazzi sono potuti andare agli stage, hanno potuto svolgere attività all›esterno... Le cose funzionano, come accade per il modello politico america-no, se si vuole che funzionino, per cui se i docenti hanno voluto far funzionare la settimana rossa essa avrà funzionato.

D: E per gli anni prossimi? Imma-gino non si pensi a questo punto di tornare al modello degli anni precedenti; siete aperti a proposte degli studenti in proposito?R: Io, ma parlo per me come docente, sarei aperto anche alle critiche e ai suggerimenti degli studenti.

D: Dal punto di vista della diri-genza, vi sembra che la settimana abbia avuto successo, avete avuto riscontri positivi, siete soddisfatti?R: Devo dire la verità, a tutt’oggi, io personalmente (che però, sic-come faccio molte ore in classe,

non sempre ho la possibilità di valutare bene) al momento non ho molti riscontri, anche perché non abbiamo fatto né collegi docenti né altre riunioni; attendo sia il collegio docenti sia, lo dico apertamente, il vostro resoconto.

D: Il parere del collegio docenti rispetto alla settimana rossa, al momento di deliberarla, è stato combattuto o c›è stata una netta maggioranza favorevole?R: Il collegio docenti votò la settimana rossa, mi sembra, ad ampia maggioranza, però non ricordo bene, dovrei rivedere i verbali; sono sicuro però che l’opposizione, che sicuramen-te c’è stata, non era tanto alla settimana rossa in sé quanto all’impalcatura complessiva del POF, per cui bisognerebbe fare un calcolo politico complica-to e distinguere quale è stata l›opposizione al POF in sé e qual è stata l›opposizione invece alla settimana rossa.

Arianna Piazzalunga II C e Martina Astrid Rodda III C

Lo scorso 17 febbraio, data nefasta, si è svolta l'Assemblea Generale degli studenti, or-ganizzata dalla Commissione Attualità. Il senso di tutto questo sarebbe quello di far emergere dai diversi gruppi di discussio-ne, in cui tutti gli studenti della scuola sono stati divisi, eventuali problematiche relative alla vita scolastica od anche proposte, osservazioni, critiche, conside-razioni. E' notorio che il potere degli studenti e dei suoi rappre-sentanti è limitato e che la loro volontà rimane spesso ignorata ed inascoltata. Ma allora a cosa serve l'assemblea? Qual è l'utilità di un'iniziativa del genere? E' vero che spesso, troppo spesso, alle istanze avanzate dagli stu-denti non viene dato un seguito concreto o adeguato, ma la so-luzione sarebbe semplicemente continuare a fare finta di niente? Io credo che l'opportunità che abbiamo è invece proprio quella di far sentire con forza la nostra voce: abbiamo, infatti, l'occa-sione di mostrare ai docenti che non siamo a scuola solo per im-parare nozioni, formule, regole, ma che invece siamo interessati a migliorare la scuola stessa, siamo in grado di capire cosa va e cosa non va e siamo soprattutto capa-ci di dirglielo senza timore. La commissione, infatti, sta redi-gendo un documento, nel quale, dopo aver consultato tutti i vari referenti dei gruppi di discussio-ne, verranno inserite le questioni emerse che risultano essere le

ASSEMBLEA D’ISTITUTO

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marzo 2012 8Attualità

più importanti e, soprattutto, condivise. Questo documento dovrà poi essere approvato dal comitato studentesco e sarà poi mandato in tutte le classi, ai docenti e al dirigente scolastico, cosicché tutta la scuola possa vedere il risultato dell'assemblea. L'opinione degli studenti sarà quindi nota a tutte le compo-nenti scolastiche, che potranno vedere come gli alunni di “co-desto liceo classico” vogliono essere non solo partecipi della vita scolastica, ma, come è giusto che sia, protagonisti ed attivi in prima persona. Se ci sono stati molti ragazzi e ragazze partecipi e coinvolti nell'assemblea, è vero anche, però, che l'atteggiamento di molti altri è stato di comple-ta chiusura ed indifferenza a quanto si è cercato di fare il 17, mostrando la parte peggiore del nostro istituto. Questi studenti sono quelli che spesso si lamen-tano di come funziona questa scuola, dell'incompetenza (pre-sunta) dei rappresentanti degli studenti, ma che poi, quando arriva il momento di mettersi in gioco in prima persona e cerca-re di dare un seguito concreto alle proprie idee ed alle proprie lamentele, rimangono in silenzio nei loro gruppi, pensando che sia solo una perdita di tempo. Io, però, spero che i molti altri studenti che hanno espresso le proprie considerazioni aperta-mente durante l'assemblea com-prendano che questo è stato un momento importante della vita scolastica, un momento che sono convinto possa diventare sempre più un punto di riferimento per la dirigenza e i docenti, ma solo se la partecipazione di tutti sarà piena, forte e convinta.

Arrigo Tremaglia III B, Referente della commissione

Attualità.

Il gap generazionale è antico quanto l’uomo. Anche se già Aristotele si era reso conto che “i vecchi sono di natura oppo-sta a quella dei giovani”, è nella modernità che il divario diventa conflitto. Dall’Europa a oltreoce-ano per tutto il Novecento (con sospensioni dello scontro duran-te le guerre mondiali e un suo attenuarsi a partire dalla genera-zione MTV negli anni Ottanta) si accendono e si spengono a fasi alterne focolai di cambiamento che irradiano novità e si influenzano reciprocamente. Il movimento Flower Power, ad esempio, ha un suo poco noto antece-dente in un al-tro movimen-to, quello dei Wandervögel (Uccelli Mi-gratori) licea-li tedeschi che tra la fine dell’Ot-tocento e il primo Novecento manifestavano la ricerca di un rinnovato contatto con la natura e con la propria fisicità; le foto che documentano le loro gite nei boschi li mostrano nudi e accompagnati dalle chitarre con cui amavano eseguire canti po-polari (il loro attaccamento alla terra d’origine sarà tristemente sfruttato dal regime nazista per integrare i Wandervögel nella Gioventù Hitleriana). Negli anni

Le domande senza risposta dei figli

adottivi di Steve Jobs e John Lasseter

Sessanta ritroviamo gli Uccelli Migratori nella comunità hippy di San Francisco, con qualche decennio e molti cambiamenti alle spalle. Nel frattempo si sono succedute diverse generazioni: la Lost generation degli anni Venti, di Hemingway e di Fitzgerald, dei locali jazz, delle “maschiet-te” con i capelli corti, la gonna accorciata alle ginocchia e poco timore delle restrizioni sessuali

imposte dai genitori borghe-si; la Beat generation degli anni Quaranta e dei primi anni Cin-quanta, l’età di James Dean, dei viaggi “on the road” di Jack Kerou-ac e Allen Ginsberg, della speri-mentazione dell’assunzio-

ne di marijuana e anfetamine, di ragazze che pro-seguono la via della liberazione sessuale, dell’evoluzione be-bop del jazz; i baby boomers degli anni Cinquanta, con il mito di Elvis Presley, il rock-and-roll alla radio e la televisione nelle case. È su queste solide basi che si sono innestati i mutamenti più radica-li, quelli dei Swinging Sixties.

Ogni decennio ha la sua identità.

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9 marzo 2012 attualità

Qual è la nostra? Essere eredi di un secolo creativo come il Novecento non è affatto facile. Gli orli delle gonne sono già stati accorciati, l’LSD ha già prodotto “Comfortably numb” e le espe-rienze di vita più singolari sono già state sperimentate. Sembra che non ci sia più nulla da fare. La scelta doverosa di accogliere la sfida di inventare qualcosa di radicalmente nuovo, lasciandosi alle spalle Grease e Woodstock, non esaurisce le difficoltà parti-colari che la nostra generazione si trova a fronteggiare nel suo percorso di autodefinizione, di individuazione del proprio patri-monio genetico specifico.

A complicare questo processo sono soprattutto le due tenden-ze generali del nostro mondo, ovvero il relativismo e il multi-culturalismo. Il primo fenomeno comporta l’assunto che non è più possibile accettare come assoluti modelli di pensiero, sistemi di valori o principi etici. Tutto deve essere contestualizzato. Il che è il grande vantaggio della nostra generazione rispetto a quelle che ci hanno preceduto: i nostri ge-nitori non si scandalizzano alla proposta di stili di vita alternati-vi, i padri non inorridiscono di fronte ai capelli lunghi dei figli, come poteva fare il padre di un hippie, né le madri si stupiscono quanto le borghesi degli anni Venti nello scoprire le abitudini sessuali delle figlie. Il terreno su cui aspiriamo a far germoglia-re il cambiamento e la presa di distanza dal preesistente è più fertile.

Il secondo fenomeno consiste nella considerazione di come si siano accorciate le distanze

tra le culture e sia aumentata, di contro, la loro interazione. Si tratta di circostanze chiaramen-te favorevoli alla nascita di una cosiddetta “cultura giovanile”, alimentata come potrebbe essere dai più numerosi e disparati stimoli. Fino alla metà del secolo scorso le culture giovanili essen-zialmente appartenevano alle tradizioni europea e americana, mentre negli anni Sessanta si assistette ad una prima apertura ai Paesi non occidentali (basti pensare che il tour dei Beatles del 1966 toccò il Giappone e le Filippine). Oggi immaginare una cultura giovanile mondiale significa fare riferimento all’inte-ro Pianeta.

Relativismo e multiculturalismo sono, dunque, le nostre facilita-zioni sembrano poter facilitare la ricerca di un’identi-tà comune. Spostan-do il proprio punto di vista sulle due tendenze, tuttavia, ci si rende conto delle difficoltà che esse implicano. Se diventa possibile accettare qualunque scelta etica individuale, crolla il presupposto perché si crei una contro-cultura: come si può avversare chi, se non condivide, quantomeno riconosce la dignità del nostro punto di vista? Inoltre una nuova cultura giovanile nel-la molteplicità cessa inevitabil-mente di essere “di massa”: quale può essere l’inno comune ad uno studente di Parigi, un ragazzo kenyano e un giovane abitante dei sobborghi di Bombay?

Possiamo concludere che la spe-cificità della nostra generazione

non si risolve nel contrasto con chi ci ha preceduto. Negli anni Ruggenti così si esprimeva la “maschietta” protagonista di un racconto di Fitzgerald, intitolato “Berenice si taglia i capelli”: “Oh, per favore non citare Piccole donne! È superato”; nel 1965 gli Who nel loro singolo “My gene-ration” cantavano “I hope I die before I get old” e proseguivano: “Why don’t you all fade away/ and don’t you try to dig what we all say?”; un figlio dei fiori che nel 1969 ascoltava Jimi Hendrix sfigurare il tema dell’inno ameri-cano non riteneva probabilmen-te concepibile che i suoi genitori avessero potuto scatenarsi sulle note del be-bop o i fratelli mag-giori avessero potuto appassio-narsi al ritmo del rock-and-roll.Noi non prendiamo le distanze da “Piccole donne”, non ci augu-

riamo di morire prima di invecchiare, non ci stupiamo dell’im-portanza che generi come il be-bop e il rock-and-roll hanno avuto nell’evoluzione musicale. Al con-trario, leggiamo le vicende delle sorelle March come un clas-sico delle letteratura, ci appassioniamo

alla musica degli Who, pur senza sentirci incompresi (in vir-tù del relativismo di cui sopra), e restiamo affascinati tanto dai “three days of peace, love and music” quanto dai locali jazz anni Quaranta o dai jukebox dei fast-food in stile Happy Days. Andiamo ai concerti di Bob Dylan, compriamo gli occhiali da sole a goccia e indossiamo le minigonne di Mary Quant. Non voltiamo le spalle al passato: lo osserviamo, ne siamo attratti, a

“Why don’t you all fade

away / and don’t you try

to dig what we all say?”

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marzo 2012 10Attualità

volte lo imitiamo.

Naturalmente non sono soltanto i fenomeni di costume, gli stili di vita, i generi musicali o le ope-re letterarie a caratterizzare un determinato periodo storico e a sancirne la differenza rispetto agli altri: più importante è capire fino a che punto il modo di pensare, lo “sguardo sul mon-do” si distingue dai precedenti. Non si può dire che la nostra mentalità sia molto diversa da quella dei nostri genitori né che ci sentiamo distanti da loro per motivi ideologici: la percezione più diffusa è, piuttosto, quel-la del risentimento verso una generazione che ha goduto di un benessere non pianificato con progetti economici a lungo termine e, quindi, deleterio per i suoi stessi figli. Il secolo del-le garanzie e delle ideologie è finito, dunque. Ora , tacciamo gli adulti, la classe dirigente, non più di conservatorismo o incapa-cità di capire che “the times they are a-changin’”, ma di leggerezza e imprudenza.

Definirsi solo “in negativo”, solo in base a ciò che ci manca, sarebbe riduttivo. Allargando le prospettive, ci rendiamo conto che i nati negli anni Novanta si caratterizzano “in positivo” per il fatto di essere i principali prota-gonisti della rivoluzione infor-matica. Certo, il copione l’hanno scritto altri: non abbiamo scelto di nascere nell’era di Internet; l’Iphone e Toy Story sono un lascito di chi ci ha preceduto. Ma è pur sempre una buona base per inventare qualcosa di nuovo, no?

Benedetta Montanini, II A

Questa vuole essere una lette-ra di ringraziamento per tutti coloro che hanno autorità sui comuni cittadini, dunque per tutti coloro che detengono un potere e si fregiano del titolo di politici, dalle più alte cariche dello Stato ai più ristretti poteri locali. Il primo grazie lo riservo a quei sindaci che ultimamente hanno ben pensato di mandare gli studenti a scuola con gli sci o in groppa agli orsi polari: dopo un Natale all’insegna del sole, finalmente noi ragazzi abbiamo potuto goderci la neve tanto attesa! Grazie davvero, perché è stato adrenalinico affrontare impavidi il rischio di scivolare e perché è stato entusiasmante fare pupazzi di neve … nell’atte-sa di pullman che poi non sono nemmeno arrivati. Il mio grazie più speciale va, però, a coloro che ci governano direttamente “dall’alto” e ogni giorno (…?!) si riuniscono in Parlamento per discutere dei problemi del nostro Paese. Voi politici avete proprio uno spiccato senso dell’hu-mour! Quante volte ci avete fatto sorridere (… per non piangere) e quante volte non vedevamo l’ora di sintonizzare la TV sulla vostra appassionante telenovela “Chi mi ha pagato la casa?”… e siamo solo alla prima stagione! Non possono mancare un grazie sincero perché siete fedeli … al vostro stipendio e un grazie riconoscente perché, forse senza saperlo, ci insegnate la virtù … della pazienza. I giovani, inoltre, vi sono debitori di gratificanti

complimenti: prima “bamboc-cioni”, poi “sfigati” e adesso an-che “monotoni”… troppo gentile da parte vostra! Grazie, infine, perché ci esortate a non lasciare il Paese ma non vi impegnate abbastanza per renderlo più vivibile. Dopo tutti questi rin-graziamenti mi vedo costretta a scusarmi con voi sarpini: arrivati a questo punto avrete sicura-mente il morale a terra e starete pensando che sarebbe stato più piacevole persino tradurre un’incomprensibile versione di greco “Difficoltà 3”, piuttosto che leggere un articolo che si pro-fonde in parole amare. Ma forse sono proprio il nostro studio e la nostra forza di volontà che possono risollevare le sorti di un Paese in ginocchio e ricon-segnare la sua originaria dignità alla bella Italia, tanto celebrata da poeti di tutti i tempi. Quindi rimbocchiamoci le maniche e cerchiamo di costruire non solo per noi, ma anche per i nostri posteri un futuro il più felice e realizzato possibile. D’altra parte, per cambiare bisogna guardare avanti e, come disse Buzz (tanto per fare una citazione colta), «verso l’infinito e oltre!».

Alice Montanini, II A

Best Wishes

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11 marzo 2012 attualità

Nel 1780 in Inghilterra nasce una bambina, Elizabeth Betsy, come la chiamano tutti, cresce e si sposa, poi segue il consiglio di un amico e va a visitare una prigione, dalla quale rimane inorridita: si vive in celle picco-lissime, l’igiene è quasi assente e i figli delle detenute non posso-no avere un’infanzia normale. Lei, da buona quacchera (che, compagni quartini e non, vuol dire “seguace di un movimen-to religioso protestante che si caratterizza per zelo caritativo, intransigenza puritana e sem-plicità di vita”, come recita il mio Garzanti), si fa due conti in tasca, parla con un po’ di gente giusta e porta dietro le sbarre cibo e vestiti. Fatto questo, dopo essere stata la prima donna ad esporre un problema in Parla-mento, fonda varie scuole per i bambini delle carcerate e case per poveri e senzatetto qua e là per il Regno. Questi cenni bio-grafici servono a dire una cosa: Elizabeth Betsy Fry si è data da fare per cambiare una situazione che non la riguardava da vicino, mentre oggi delle nostre carceri non si occupa nemmeno lo Sta-to. E parlo di leggi per entrarci e uscirci, manutenzione e funzioni che dovrebbero avere. La giusti-zia italiana fa spesso arrabbiare, praticamente sempre: le pene sono troppo leggere, criminali pericolosi circolano liberamente quando dovrebbero scontare un ergastolo, che significhereb-be stare in galera tanto tempo quanto dura un processo nel nostro Paese, in sostanza. Con

tutti i problemi che ci sono, con tutti i soldi che, giustamente, i nostri politici preferiscono usare per auto blu, cene di lavoro a Cortina, mense di lusso nei vari palazzi amministrativi e par-rucchieri privati per sé e per il proprio albero genealogico, dove possono trovare, tapini, i fondi per provvedere al mantenimento delle carceri? E così, finisce che la gente è arrestata e liberata quasi per caso, che gli istituiti penitenziari sono sovraffollati e che molti detenuti si suicidano. Ma a cosa servono le prigioni? Facile: a tenere lontano dalla comunità un individuo peri-coloso e a punirlo per un reato che ha commesso. Giusto, ma manca un pezzo: servirebbero, in teoria, anche a “rieducarlo” affinché, una volta scontata la sua pena e tornato in libertà, egli possa reinserirsi nella società, se non ha commesso un reato tanto grave da dover restare rinchiuso a vita; dovrebbero essere una specie di castigo, un monito, invece sono una macchia eterna. Dai, siamo sinceri: una persona che è stata in carcere è ritenuta un avanzo di galera, un indivi-duo pericoloso (anche se, poi, la fiction di RAI UNO “Il Restau-ratore”, avente come protagonista un ex poliziotto che ha passato vent’anni in galera per l’omici-dio degli assassini della moglie e ora è libero, va alla grande). E allora come fa a trovare lavoro, a rifarsi una vita? E’ difficile, per-ché il resto della comunità a cui vorrebbe appartenere lo guarda con diffidenza, teme che il lupo abbia perso il pelo, ma non il

vizio e non è disposta a dargli un’opportunità. Nessuno dà più fiducia senza delle certezze, tutti preferiscono tenere al sicuro quello che hanno, fregandosene altamente degli altri. Nessuno tiene conto del fatto che si pos-sano commettere degli errori, a nessuno interessa il desiderio di ricominciare di chi i suoi sbagli li ha pagati e capiti, soprattutto. Non so se avete presente il film “Il segreto dei suoi occhi”, di Juan José Campanella…beh, se avete intenzione di vederlo salta-te qualche riga, perché vi svelerò il finale: il marito della donna violentata e uccisa sequestra l’as-sassino e lo tiene imprigionato in una gabbia in casa sua per tutta la vita, nutrendolo, ma senza mai rivolgergli la parola; tutto questo accade perché la magi-stratura è inefficiente e l’uomo vuole che colui che l’ha privato dell’amore soffra la solitudine eterna e comprenda la disuma-nità dell’atto che ha compiuto. Questo esempio fa capire quanto sia importante che una persona che commette un reato si renda conto di ciò che ha fatto, per-ché, se la sua azione ha portato alla morte o alla distruzione di un’altra vita, è giusto che ella sia tormentata per sempre dal senso di colpa e venga privata della libertà. Allo stesso modo, è bene che la comunità “pulita” non guardi più al carcere come ad un ricettacolo di personaggi loschi: dobbiamo imparare a distinguere i criminali pericolosi e meritevoli di una pena aspra da coloro che hanno commesso degli errori e hanno il diritto

Se lo Stato somigliasse a Betsy

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marzo 2012 12Attualità

di essere perdonati e aiutati a perdonarsi. Credo che sia molto difficile fidarsi perché tendiamo sempre a giudicare, a sputare sentenze in modo frettoloso, superficiale e distaccato e non ci soffermiamo a pensare che l’er-rore è una costante della condi-zione umana. Forse sarebbe più facile o, perlomeno, gli italiani si sforzerebbero di non collegare la prigione alla feccia e di capire perché è importante e giusto dare un’altra occasione a chi ne è degno, se i nostri rappresentanti, i nostri governanti, si dimostras-sero interessati in prima persona alla questione dell’inasprimento delle pene per certi reati e della vita di detenuti ed ex detenuti. Forse sarebbe più facile e tutto questo sarebbe affrontato come un impegno serio e costante da parte di tutta la società, se lo Sta-to, almeno la nostra guida, fosse un po’ attento, un po’ interessato, un po’ come Betsy.

Sara Latorre, IV D

Ricordare le tragedie non è mai tempo perso perché l’esercizio della memoria storica aiuta -in teoria- a prevenire quelle future. Il massacro delle foibe, che dal 2004 si celebra il 10 febbraio come “Giornata del Ricordo” è tra le meno conosciute, ma non per questo poco importante. Anche nella Bergamasca (vedi Ranica e Seriate) si è voluto ricordare l’eccidio degli italiani istriani con iniziative per lo più sporadiche e incontri pubblici.

Ma facciamo un passo indietro per inquadrare i fatti storici. Anzitutto il termine “foiba” è il corrispondente friulano della parola “fossa” ed indica appunto una conca carsica, terminante sul fondo con un inghiottitoio attraverso cui vengono smal-tite le acque. Questi elementi sono tipici delle regioni carsiche dell’Istria e della Venezia Giulia, dove agli inizi del secolo scor-so convivevano slavi e italiani. Con la Grande Guerra quest’a-rea territoriale fu assoggettata dall’Italia, la cui amministra-zione era molto intransigente e intollerante nei confronti dell’etnia slava. Ciò comportava un forte malcontento sociale che vide la sua massima espansione tra il ’43 e il ‘45. La popolazione istriana si oppose duramente al regime fascista attuando una vera e propria resistenza guidata principalmente dai comunisti di Tito, giunti al culmine della sop-portazione dei soprusi. I ribelli perseguitarono e uccisero circa

diecimila italiani residenti, senza distinzione, sia che essi fossero comunisti, fascisti o gente comu-ne. Le vittime, poste sull’orlo del-le fosse, venivano legate con fili di ferro. Si sparava poi al primo della fila che, cadendo, trasci-nava nell’abisso con sé gli altri, i quali, peraltro, potevano esser partecipi di sofferenze indicibili, in quanto la morte sopraggiun-geva spesso lentamente. Tutta-via venivano gettati nelle fosse anche i corpi dei prigionieri dei campi di concentramento situati nella ex-Jugoslavia. Il numero preciso delle vittime è incerto: si stima dai cinquemila agli undi-cimila morti. Molti dei cadaveri sono ancora intrappolati nelle cavità delle foibe, che rendono difficoltoso il loro recupero. Particolarmente e tristemente famosa è la foiba di Basovizza (Trieste) a causa delle centinaia di vittime presenti.

La giornata del ricordo è stata istituita per commemorare non solo queste stragi, ma anche le persone che sono fuggite dalle loro terre infestate dall’Armata Popolare di liberazione della Jugoslavia. Tuttavia i massacri delle foibe sono spesso “dimen-ticati”. Basti pensare al confronto con la Giornata della Memoria che assume toni mediatici molto più elevati. Sembra ingiusto questo trattamento. Non per sminuire gli orrori di Auschwitz, ma tutte le stragi indistintamente

Le Foibe dimenticate

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13 marzo 2012CULTURA

meriterebbero di essere prese in considerazione in quanto tali. E gli eccidi delle foibe non sono da meno.

Forse l’opinione pubblica è condizionata dal fatto che la maggior parte delle vittime ap-parteneva al partito fascista. Per accezione popolare, infatti, i fa-scisti sono persecutori e oppres-sori: non possono certo costitu-ire la parte lesa. Ad ogni modo, ciò che conta è la constatazione che molteplici vite umane sono state soppresse barbaramente. Inoltre è ripugnante che l’odio tra le genti possa ancora portare a queste bassezze. Quando si potrà fare piena luce su questi avvenimenti senza incappare in interferenze politiche che ma-neggiano e occultano le notizie? Infatti gli archivi di Lubiana che conterrebbero dati importanti in merito al fenomeno non sono ancora stati aperti. Quando lo saranno, un altro spiraglio si aprirà in questa tragica pagina della nostra storia.

Sara Zanchi, IV D

Recentemente ho assistito alla rappresentazione Antigone ovve-ro una strategia del rito al teatro Carcano di Milano, effettuata dalla compagnia bresciana Le belle bandiere. Il mio primo giudizio è stato categoricamen-te negativo ma poi, costretta a scrivere una relazione e a soffer-marmi su certi particolari e si-gnificati occulti, mi sono dovuta ricredere. L’Antigone, la mia tragedia preferita (va bene che ne ho lette solo due: però resta la mia preferita), è stata davvero ben inter-pretata da questa compagnia e cer-cherò, con questo articolo, di rendere agli attori tutto il merito dovuto e, a ragione, conquistato. Comincio col dire che appena ti siedi sulla poltrona ti trovi completa-mente calato in una dimensione che trascende la realtà che ti circonda. La luce, rivolta esclu-sivamente sulla scena, contribu-isce ulteriormente ad isolarti e ad avvolgerti in una dimensione onirica e misteriosa. Già soltan-to i colori della luce riassumono i nodi principali della tragedia: il rosso, che indica il corpo morto di Polinice, rappresenta il sangue, il dolore e la morte; il giallo che illumina le scene richiama l’oro della maschera di Creonte e quindi simboleggia il potere del re che domina sulla

vita di Antigone e sulla comuni-tà di Tebe; il bianco rappresenta la luce della vita e degli dei e richiama il colore orientale del lutto; il nero, infine, richiama l’ombra e l’oblio nei quali sono gettati la memoria e il corpo di Polinice, la prigione mortale a cui Antigone è condannata e la testardaggine e l’intransigenza funeste di Creonte. Per quanto

riguarda la scenogra-fia, gli unici oggetti presenti sulla scena sono delle sedie che si prestano a più interpretazioni: dal punto di vista prettamente mate-riale e scenografico costituiscono la prigione nella qua-le Antigone viene rinchiusa; ma da una altro punto di vista simboleggia-

no la stabilità e la fermezza di Creonte.Per quanto riguarda gli attori, la loro è una bravura che non ho saputo comprendere appieno per il fatto che indossano costumi moderni e non assomigliano affatto a degli uomini greci: que-sto in effetti è stato il principale elemento che mi ha mantenuto scettica dall’inizio alla fine dello spettacolo. Ciò che a mio parere rappresenta il merito più grande degli attori, tuttavia, è l’ abilità di riproporre, con la pa-rola (anche se non con il canto, purtroppo), un clima funesto dove Antigone viene ad operare:

“Uno sventurato

raggio di sole

fu quello che gettasti

su Tebe quel giorno

lontano”

La prima impressione non è mai quella che

conta

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marzo 2012 14cultura

le voci sovrapposte, il crescendo e il diminuendo dei toni, le frasi incomplete lasciate correre per il palco e la ripetizione insistente del lamento “Uno sventurato raggio di sole fu quello che get-tasti su Tebe quel giorno lonta-no” ripropongono da una parte un’atmosfera onirica, dall’altra un ambiente infernale, dove

sem-bra di udire i lamenti dei morti. Antigone guarda sempre verso l’alto, forse perchè immagina l’approvazione divina, forse perchè, nel corso della tragedia, assume sempre più una logica da invasata delirante a causa delle forti emozioni (i momenti più intensi della sua rivolta la vedono danzare come una me-nade, “innamorata della morte”). Ma si può intuire anche un’ altra giustificazione di questo suo at-teggiamento: è l’uomo in gene-rale a tendere verso l’alto, per-ché è deinoteroV, ossia terribile e straordinario ed è proprio nel momento della sua massima ten-sione che crolla nelle braccia di qanatoV. Infine, un altro chiaro gesto che descrive la condizione di Antigone sono le mani e le braccia aperte, simbolo della sua disarmata innocenza. Creonte

si presenta complementare ad Antigone: tiene sempre le mani congiunte o comunque vicine al petto, come per difendere fisicamente la propria posizione autoritaria dai presunti attacchi esterni. Ciò che sinceramente mi ha più impressionata di Creonte, è stata la sua espressione dopo aver visto Emone uccidersi: spalanca gli occhi come se non

si curasse più della terra ma cercasse di abbraccia-re con lo sguardo il regno dei morti, per riappro-priarsi forse di suo figlio,

oppure per dedicare al morto Polinice quell’attenzione negata che è stata la causa delle sventure successive. A proposito del figlio Emone, credo che l’inter-pretazione proposta sia parti-colarmente azzeccata: la scelta di farlo star seduto durante le sue invettive al padre sottolinea ancora di più la pacatezza e la ragionevolezza del giovane che spicca in opposizione all’irrazio-nalità di Creonte, che si muove in modo quasi nevrotico.Insomma, grazie a questo spetta-colo adesso apprezzo l’Antigone anche da un altro punto di vista: saper analizzare una rappresen-tazione teatrale è un’occasione di arricchimento culturale in tutti i sensi e ringrazio con tutto il cuore l’insegnante che ha reso possibile questa emozione.

Giulia Testa, I B

“Celerino figlio di puttana, CE-LERINO FIGLIO DI PUTTA-NA…”  Il rombo di un motore, sempre più intenso… Chi sarà a gridare lo sfottò? Un qualche ultrà esaltato? No. Pierfrancesco Favino, in sella ad una moto. Ma non è possibile, Favino era sulla locandina, lui interpreta proprio un celerino. C’è qualcosa che non va. Favino è Cobra, pila-stro della Celere, eppure canta a squarciagola lo sfottò, lo mor-mora prima di caricare. “Celeri-no figlio di puttana” è la colonna sonora della sua vita, un’inie-zione di adrenalina portatile che oltre ad intasare le orecchie intasa anche il cervello. Pochi oscuri minuti e siamo ai titoli di testa: poliziotti prendono scudi, intascano lacrimogeni e infilano stivali appoggiandosi sulla gran-cassa di Seven Nation Army dei White Stripes. L’inizio di ACAB è come grattarsi a sangue le gi-nocchia sull’asfalto di un vicolo romano. La gente in sala comin-cia a chiedersi “ma è un film italiano questo?...” Ebbene sì, è un film italiano. Ma chi ci crede? Nessuno, specialmente dopo aver visto Cobra che lotta con la tentazione di sputare i coatti ri-uniti sotto al balcone, mentre lo stereo biascica New Dawn Fades dei Joy Division (“A loaded gun

All cops Are

bAstArds?

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15 marzo 2012CULTURA

won’t set you free”). Cobra è uno dei personaggi più importanti e meglio caratterizzati del film. Per lui essere nella Celere significa due cose: arginare casini e pro-teggere i fratelli, ossia i colleghi. Il suo cameratismo ossessivo supera forse anche quello dei migliori amici Mazinga e Negro che almeno il tentativo di metter su una famiglia normale l’hanno fatto. Cobra tiene in casa l’effigie del duce, e adesso tutti gli antifa storceranno il naso. Ha una con-cezione ideale, quasi epica del suo lavoro ma l’ha vista troppe volte infrangersi contro la realtà del degra-do sociale italiano. Un mondo sporco, violento in cui si protrae all’infinito la battaglia celeri-ni VS il resto del mondo: in mezzo ci sono solo scudi, lame e manganelli. Alle botte si alterna-no interrogati-vi repressi, ri-sentimento nei confronti dello Stato, desiderio di vendetta, conflitti interiori… ma mi spiace, niente eroismo. Gli ultras menano, i black bloc menano, le gang ro-mene menano: logicamente deve menare anche la polizia. Per Co-bra l’unico modo di sopravvivere è restare aggrappato alle vecchie regole e ad esse cerca di educare la nuova recluta Adriano. Ma si tratta di ossessione o di autopre-servazione? E la morale? Bando alle ciance: questo è prima di tutto un film d’azione. In Italia funzionano solo le commedie,

dicono. ACAB dimostra il con-trario. Da quanto tempo non si vedeva un film d’azione italiano? Così cattivo e, per gli standard nostrani, così violento e con una colonna sonora così cazzuta? Bisogna tornare indietro fino al poliziottesco anni 70 di Castel-lari e compagnia (“Milano nel grande racket odia la polizia calibro 9 che non può sparare”). “Vieni a vedere ACAB oggi?”. “Ma sei scemo? Un film sulla pola io non vado a vederlo. I poliziotti verranno esaltati di si-

curo mentre in realtà

sono degli schifosi. Giù le mani dalla Talanta!”. Un dialogo ipotetico ma più che plausi-bile. Vi dirò, anch’io pensavo che ACAB fosse una schifezza (principalmente per via del trailer fatto con i piedi); invece mi sono ricreduto. Certo, finché si continuerà a giudicare film senza averli nemmeno visti sulla base delle nostre convinzioni adolescenziali, quel poco di cinema italiano che conta resterà nell’ombra. Questo discorso vale anche per i critici cinematogra-fici asserviti in tutto e per tutto

alla testata, che si affannano a definire ACAB: film di destra o di sinistra? I film con la polizia protagonista sono di destra, ma Sollima, il regista, è di sinistra, quindi bla, bla bla, contro Ale-manno, bla bla. Basta un mini-mo di cervello e di onestà intel-lettuale per capire che nel suo esordio cinematografico Stefano Sollima, già regista della splen-dida serie “Romanzo Criminale”, ha voluto essere il più impar-ziale possibile nel ritrarre vari aspetti di questa nostra società allo sfascio, senza incensare i

celerini (anzi!). Che bisogno c’è di filtrare

tutto attraverso ideologie, per di più scadute? Chi l’ha detto che in Italia non si può fare un film che

non sia un cine-panettone senza parlare di politica? E chissenefrega poi della politica, per quello che è adesso? Dovremmo sempli-

cemente guardare ACAB per quello che è: un film d’azione

adrenalinico e spietato, recitato da Dio, che tratta con crudezza tutti gli aspetti di quell’attualità che molti studenti si lagnano di non trattare a scuola, riper-correndo gli accadimenti più turbolenti e censurati dell’ultima decade. Da vedere.

“In quei momenti c’hai l’adrenali-na, a mille…il cuore, che ti batte forte…”

Lorenzo Teli, IIC

All cops Are

bAstArds?

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marzo 2012 16narrativa

-Uniamo le rive? L’uomo sulla riva destra del fiu-me guarda quello sulla sinistra.

Che si può fare, pensa l’uomo sulla sinistra. L’uomo a sinistra

pensa a quanto sarebbe bello ve-dere anche solo per un attimo la sua riva sinistra da quella destra.

Basta andare di là. Non è certo un problema- pensa l’uomo sulla

sinistra- non è certo un proble-ma. 

No, no. Pensiero dell’uomo sulla destra. Pensa- dice quello a destra- pensa alla mia riva e alla

tua, alla nostra proprietà di ades-so e poi pensa ad averne due,

una più una, in comproprietà, in società. Non è certo un proble-

ma, non è certo un problema. Pensiero di quello a sinistra. Ma- interviene l’uomo sulla destra- se

ora questa riva è mia e quella è tua, dopo io non sarò proprie-

tario della mia riva e comunque nemmeno del tutto della tua e

nessuno sarebbe più proprietario di niente. Questo non può essere

un problema- pensa l’uomo a sinistra- non dovrebbe essere

un problema. Ora l’uomo sulla sinistra fa un grande discorso sulla contemplazione recipro-ca: che io guarderò la mia riva

dalla tua, e tu viceversa. Verrà il giorno- interrompe destra- che a forza di guardare dall’altra parte dimenticheremo la nostra prima

riva e io mi convincerò di esser sempre venuto da sinistra, e tu

viceversa. Questo potenzialmen-te è un problema- dice l’uomo a

sinistra- questo è un problema di conservazione e immobilità. 

In questo momento sinistra

attaccherebbe guerra a destra e sarebbero finalmente d’accor-

do. Che forse la guerra non è lo scontro ma la distanza. Forse è un continuo vedersi lontani da un destino comune. Queste le

motivazioni. Fervono i cantieri paralleli della costruzione del Grande Ponte del Centro che

unisce destra e sinistra e vicever-sa. C’è armonia e attesa, come di

una cosa che deve capitare e il dovere giustifica ogni possibile

evoluzione dell’attuale. Il Fare unisce i blocchi  contrapposti.

Un ponte può portare una

guerra che può portare il multi-culturalismo della riva sinistra o l’immobilismo della riva destra. Il destino si sveglia solo adesso.

L’uomo, un uomo, destra e sini-

stra, l’umanità alzano gli occhi al cielo denso di nubi. L’acqua si

precipita a ingrossare il fiume, sradicare i pilastri del ponte, a

allagare le sponde. I due uomini si aggrappano alla

vita ad una lastra di pietra.

Ora scompare la destra e la sinistra, quando l’uomo che fu

sulla destra e l’uomo che fu sulla sinistra iniziano a discutere sulla

rotta da prendere.

“Parla anche (è vero) di difficoltà: modo gentile per dire

che non tutto ciò che si chiede potrà avvenire” 

Trasumanar e Organizzar

Davide “Accio” Gritti, II A

Qui non si parla di

Nella scuola quel giorno tutto sembrava andare come sempre. Seduti fra i banchi gli studenti ascoltavano svogliati la voce monotona e cadenzata dell’inse-gnante, che sciorinava nozioni su nozioni. Appagato da se stesso, nemmeno si rendeva conto che il suo monologo era autoreferen-ziale, l’unico fruitore egli stesso.Francesco aspettava ciò che lo aspettava all’esterno, quando finalmente la campana liberato-ria avrebbe posto fine a quella tortura intellettuale.D’improvviso la sua attenzio-ne fu attratta da un suono. Si guardò attorno, cercandone l’origine: era flebile, profondo, quasi piacevole. Non era l’unico a sentirlo: presto i suoi compa-gni cominciarono a muovere le teste alla ricerca di quella novità che aveva infranto la cappa di noia della spiegazione. Il pro-fessore, accortosi che il flusso di coscienza dei suoi alunni aveva cambiato direzione, interruppe la spiegazione, suscitando la sorpresa della maggior parte delle anime semidormienti della prima fila. “Smettere di distrar-vi” sbottò. “Non lo sente anche lei questo suono, profe?” chiese Martina, incosciente nella sua sincerità. “Mi sta prendendo in giro, signorina Rodeschi?” Le sue orecchie si erano fatte di un rosso acceso, e la vena sul collo cominciava a pulsare. “No profe, anche io l’ho sentito” intervenne Francesco in difesa della compa-gna. “Io non sento alcun suono,

IL FISCHIO

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17 marzo 2012narrativa

ora per favore concentratevi e terminiamo il capitolo” E riprese la spiegazione a toni più elevati.Nel frattempo il suono si era fatto più intenso e si percepiva distintamente.Alla fine dell’ora la classe di riunì in assemblea: tutti e 20 l’avevano colto e continuavano a sentirlo. Nei giorni seguenti si diffuse per la scuola la notizia, e alcuni professori, soprattutto quelli di ginnastica, confermavano la presenza del molesto suon o che, con il passare del tempo, diveni-va sempre più intenso. Cominciò ad acuirsi, finché guadagnò tutti i connotati di un fischio.Ciò che più sconcertava tutti quanti era che, mente alcuni lo percepivano come fischio pro-lungato e opprimente, altri con-tinuavano a sentire solo il suono sommesso.Fatto sta che quelli che lo per-cepivano più fortemente tor-navano a casa ogni giorno con un enorme mal di testa, e molti cominciarono a non venirci più, a scuola: nevrosi frequenti si ma-nifestavano tra le file dei banchi. Martina, dopo uno sfogo con alcuni insegnanti che pretende-vano l’inesistenza di quel fischio insopportabile, confidò a Fran-cesco che anche per lei il fischio era calato d’intensità. Francesco decise di parlarne con il coordi-natore, un buon professore, che gli rivelò un tremendo segreto: quindici anni prima, il giorno stesso in cui egli aveva messo piede in quella scuola, aveva da subito percepito quel fischio, che mai se n’era andato. Francesco pensò allora che potesse trattarsi di una sorta di ultrasuono che solo alcuni riuscivano a perce-pire, ma ancora non si spiegava perché fino a pochi mesi prima

nessuno l’aveva sentito, e perché alla stessa persona giungeva con intensità diverse a seconda dei periodi.Nel frattempo parecchie persone avevano cambiato scuola, pro-strati dall’incessante martellare del suono. Francesco contò un giorno i suoi compagni: erano rimasti in 8. Ma il ragazzo non poteva non notare un’ulteriore trasformazione: i suoi compagni di classe superstiti, alcuni dei quali in passato erano stati di-scoli e ora invece non muoveva-no un muscolo, guardavano fissi verso la cattedra dalla quale il professore, soddisfatto dalla esile “elitè” rimasta dopo la fuga degli altri studenti, sciorinava nozioni su nozioni. Dopo qualche altra settimana anche Francesco deci-se di andarsene, il fischio infatti era divenuto insostenibile anche per lui. Quando entrò in classe per l’ultimo saluto, solo quattro dei suoi compagni si voltarono a salutarlo. Per loro il fischio si era trasformato in un flebile sussur-ro. Tutti gli altri, il suono, non lo sentivano più.

Stefano Martinelli, II B

Connor spostò febbrilmente tutte le carte accatastate sulla scrivania, rischiando di rove-sciare un calamaio nella troppa foga, ma anche quando i fogli giunsero a ricoprire i tre quarti del pavimento della stanza, non aveva trovato ciò che cercava. Frugò ancora per qualche tempo fra i cassetti per poi ritrovarsi a stringere con mani tremanti una lettera risalente a qualche mese prima. Soddisfatto si avviò verso la porta, sistemando con cura la lettera nella tasca interna del cappotto. Non sapeva cosa ne avrebbe fatto, non ancora, ma la speranza di poter prendere una decisione strada facendo lo tranquillizzava e lo indusse a compiere una lunga devia-zione all'interno del parco per prendersi qualche momento di riflessione. Novembre avanzava strisciando nella nebbia, che lentamente calava fra gli alberi, e la luce dei lampioni arrivava fioca attraverso quella coltre gri-gia senza riuscire ad illuminare chiaramente il sentiero che ser-peggiava fra le aiuole. Il giovane alzò il colletto del cappotto e ci affondò la testa per proteggersi dal freddo. Mentre camminava in questo modo, assorto nei suoi pensieri, per poco non si accorse della strana figura che nella fret-ta aveva appena superato. Fatto ancora qualche passo si arrestò incerto, per poi voltarsi e tornare indietro: voleva guardare meglio. Al centro del vialetto c'era un ometto piuttosto anziano dalla lunga barba che, attraverso le lenti di un paio di occhiali trop-

Lettera

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marzo 2012 18narrativa

po piccoli rispetto alla sua faccia, scorreva indaffarato le pagine di un immenso libro appoggiato ad un leggio. Senza dire nulla per non disturbarlo gli si avvici-nò cautamente e, quando stava per affacciarsi al di sopra del libro per chiedere spiegazioni di una tanto insolita occupazione, l'uomo alzò gli occhi, improvvi-samente rianimato: -Ah eccoti qui! - disse indicando un punto all'incirca a metà pagina - Dun-que giovanotto tu devi conse-gnare una lettera vero? Sembra anche piuttosto importante, sì, sì...- annuì distrattamente con-tinuando a leggere -Ebbene, sei proprio sicuro di volerlo fare? Stupefatto il ragazzo cercò di raccapezzarsi: -Sì...sono uscito apposta per consegnarla a...Ma voi come fate a saperlo?- Do-mandò bruscamente ma non senza una buona dose di curiosi-tà. L'uomo ridacchiò e si sistemò meglio gli occhiali: - Vedi ragaz-zo, io tengo il registro di ogni singola parola che viene scritta nel mondo; qui sopra - spiegò indicando il libro - ci sono secoli e secoli di testimonianze, saggi e romanzi. Ogni volta che qualcu-no scrive qualcosa automatica-mente questa compare sul mio registro.Si fermò, in attesa di vedere se Connor avesse capito o meno. Dal canto suo il giovane assimilò l'informazione quel tanto che bastava per rispondere: -Quin-di voi sapete tutto? Ogni cosa! Tutto quanto è stato scritto voi potete saperlo, e di conseguenza conoscete anche il contenu-to della mia lettera- aggiunse rivolto più a te stesso che all'altro - Ma ancora non mi avete detto per quale motivo non dovrei

recapitarla. In realtà anche lui si era chie-sto molte volte se fosse la cosa migliore da fare ed infine, preso dall'impulso, aveva abbandonato ogni cautela e si era deciso ad affrontare qualsiasi conseguenza fosse derivata dal suo gesto.-Penso che dovresti saperlo meglio tu di me! - esclamò quasi sdegnato l'ometto.- Se non lo facessi probabilmen-te me ne pentirei per il resto della mia vita. Lo so, se fosse un danno sarebbe irreparabile, il ri-schio è alto, ma se non lo faccio rimarrò sempre con il dubbio di sapere cosa sarebbe successo in caso contrario. - Si rendeva con-to perfettamente che dipendeva tutto solo dalla sua volontà, ma in fondo che cosa gli importava?- Ti stai comportando come se non avessi per niente a cuore milioni di vite umane, dai tuoi scritti mi era sembrato che fossi una persona degna di sostenere questo fardello! Dove sono finite la tua etica, la tua moralità, la tua intelligenza sociale?! - man mano che parlava, infervoran-dosi, si era sporto sempre più sopra il libro avvicinandosi tanto che adesso la sua faccia, sulla quale campeggiavano due occhi azzurri innaturalmente grandi e penetranti, era arrivata a sfiorare quella del ragazzo che appa-rentemente imperturbabile lo fissava a sua volta.- Sono esattamente dov'erano, ho soltanto deciso di non ascol-tarle più. Considerato tutto ho scelto di comportarmi come più mi aggrada. - sorrise sardonico - Ciò non escluderebbe azioni quali il sacrificio o la sofferenza se mi andassero a genio in quel momento, ma sfortunatamente preferisco quello che è giusto per me a quello che può conven-

zionalmente essere considerato "giusto". A quelle parole il vecchio sem-brò contrarsi su se stesso in preda ad una furia così cieca da togliergli la parola, infine i suoi occhi si accesero di un bagliore sinistro e si avventò sul giovane:- Ci hai condannati tutti! - stre-pitò in preda all'ira; tutta la sua figura ebbe un tremito, come se fosse fatta d'acqua o di fumo e a conferma di ciò, come sospinta da un vento improvviso, passò attraverso Connor senza difficol-tà lasciando dietro di sé soltanto una spiacevole sensazione di gelo che gli pervase il petto. Superato il momento di stupore il ragazzo si tastò istintivamente il torace, boccheggiò, inspirando profondamente e rendendosi conto di aver trattenuto il re-spiro da quando quella strana creatura l'aveva attraversato. Si voltò guardingo pronto a fron-teggiarlo nuovamente, ma, dopo un attento esame del prato e dei primi alberi che poteva vedere, si convinse che era semplicemente svanito nel nulla. Preoccupato, riprese a camminare, inoltrando-si a grandi passi nella nebbia. Il mattino seguente il guardiano, quando si recò ad aprire i can-celli del parco notò con stupore uno strano albero, leggermente discosto dagli altri, che gli pare-va di vedere per la prima volta. Aveva il fusto bianco, striato da qualche sottile riga nera, i rami erano del tutto simili ma solcati da linee rosse, infine le foglie, che costituivano ancora una folta chioma a dispetto della stagione, anch'esse bianche, pre-sentavano una parte più scura. L'uomo intimorito e incuriosito lo ispezionò meglio e, notate le

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foglie, ne colse una. In una grafia minuta e stretta poté leggervi una parola, che aveva scambiato inizialmente per una semplice differenza cromatica. Ancora interdetto sentì qualcosa di caldo e appiccicoso bagnargli la mano: dal picciolo della foglia sgorgava una sostanza rossa che a con-tatto con l'aria fredda cominciò lentamente a solidificarglisi sulla mano: sembrava a tutti gli effetti ceralacca. Atterrito gettò la foglia e corse via.

Marta Cagnin, I D

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Essendo una scuola di dotti filologi (non negate che istintivamente la vostra mente ha pensato “alessandrini”, e non negate neppure che il vostro pessimo sens of humor vi ha poi suggerito una battuta di questo tenore: “hahaha, di S. Alessandrini”. Uhm… Forse questo era il mio pessimo sens of humor) non poteva mancare una rubrica di dotta filologia. In particolare ritengo che la filologia avicola possa illuminarci circa molti verbi (i famosi verba uccellandi, da costruire rigorosamente con il dativo per il soggetto e l’ablativo greco uscente in –org per il complemento di materia) che comunemente utilizziamo senza porci il problema di quale essere li abbia ispirati e a quale essenza alata tacitamente si richiamino.

1) Appollaiarsi: azione tipica dei polli, delle poiane e delle sacerdotesse di Delfi. Se qualcuno vi dice “ho visto un tacchino appollaiato”,

non credetegli! È noto infatti che…

2) … i Tacchini si attaccano. Dove, direte voi? Secondo me più o meno nello stesso punto in cui i Santi tengono. Ma cosa tengono i Santi? Questa è una domanda che mi pongo da sempre, ma in fondo il cammino della conoscenza è infinito, e chissà che un giorno qualcuno sappia rispondermi.

3) Ovviamente i galli si ringalluzziscono,

4) I pavoni (specie quelli di grandezza inusitata) si pavoneggiano

5) I kiwi si sbucciano. Beh, cosa sono quelle facce, non avete mai sbucciato un kiwi? Io sì e tutte le volte (sto ancora cercando un oracolo che mi sappia spiegarmi quale segno divino si cela dietro a tale bizzarria) mi prudono i denti. Comunque, io non mi farei troppo vedere dal WWF a sbucciare un kiwi. E non fatemi storie perché

“kiwi” non ha la stessa radice indoeuropea di “sbucciare”, perché mi ci metto d’impegno e vi giuro che vi trovo un collegamento.

6) Akkollarsi: tipico verbo dei koala. I più acuti diranno: ma il koala non è un uccello! Se siete così acuti da esservi accorti che il koala non è un uccello ma non lo siete abbastanza da esservi accorti che l’articolo è già degenerato da un pezzo andate a leggere gli articoli di attualità pensati apposta per le menti razionali come voi. Quelli che invece si sono chiesti cosa ci facesse un kiwi in un decalogo di uccelli, cosa c’entrasse con i miei denti e con il WWF vadano a vedere su Wikipedia e troveranno che il kiwi è davvero un uccello e non il frutto perverso di un cervello malato. Quanto ai denti, del doman non c’è certezza.

7) Sgattaiolare: lo fanno, ovviamente, i gatti. Per analogia:

Decalogo dei verbi derivati dai nomi degli uccelli

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21 marzo 2012 terza pagina8) Il pesce gatto pescesgattaiola 9) E il cane scagnaiola (provate

a dirlo! È difficilissimo!) 10) Stando in tema di pesci

(visto che eravamo passati ai cani): le persone più colte non avranno difficoltà a capire che il pesce Fugu fugge,

11) Il pesce spada si sfodera12) E il pesce palla si

appallottola, scatenando l’invidia del

13) Riccio, che si arriccia per ripicca

14) Ed ecco le due ultime perle: il cavallo si accavalla (ed ora immaginatevi la scena: siete il un bar di classe con il vostro assiduo corteggiatore/ con la vostra assidua corteggiatrice e accavallate le gambe. Lui/ lei vuole fare colpo sul vostro stesso terreno: la cultura. Vi dice (senza rendersi conto di quanto spesso un dignitoso silenzio sia preferibile ed una scempiaggine qualunque): “sai che le nobildonne non accavallavano mai le gambe, perché si vedeva la coscia?” beh voi penserete certamente ad una nobildonna

ottocentesca con in braccio un grosso cavallo annodato su se stesso e scoppierete a ridere, sbrodolandovi con il raffinato the alla pesca appena ordinato e perdendo completamente il fascino sul/sulla vostra/a pretendente che vi pianterà all’istante lasciandovi il conto da pagare. Dai, non dite che non vi è mai successo. Non sarò mica io l’unica imbecille di queste proporzioni!)

15) I conigli: beh i conigli sono famosi per una sola azione. Non c’è nessun bisogno che la scriva. Va bene, va bene, la dico nell’orecchio ai più maliziosi: mangiano le carote.

Torno a rivolgermi ai più arguti tra voi che avranno certamente notato che i punti sono più di 10, e che in teoria decalogo vuol dire dieci parole (o qualcosa del genere, suppergiù saranno 9 o 11 al massimo, ma certamente non quindici, ché in tal caso si direbbe pentecaidecalogo). Beh, state zitti.

Dopo essermi congedata dagli ultimi scampoli di credibilità che mi erano rimasti mi congedo

anche da voi.

Dori (all’anagrafe Sara Moioli. Ma è colpa anche della Cape,

all’anagrafe Letizia Capelli, entrambe di II A)

N.d.R: la sopracitata Letizia Cape Capelli ci tiene con tutta l’anima a far sapere che in realtà il suo apporto all’articolo in questione si è limitato , oltre a canticchiare “Pavoni di grandezza inusitata si stagliano sul cielo di Bangkok”, ad elencare un elencoso elenco di animali e di verbi che avessero una qualsivoglia assonanza; vi giuro che non avevo idea di quale uso quell’essere della mia compagna di banco ne avrebbe fatto… Chiedo scusa a tutti voi per le immagini mentali che vi si formeranno alla lettura dell’articolo…

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Cassandra non è solo Ipse Dixit. Prova a leggere il giornale.

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La RedazioneDirettore Responsabile:Davide Rocchetti, III A

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Caporedattori:Arianna Piazzalunga, II C Sara Moioli, II AGlauco Barboglio, II CPietro Valsecchi, III FLuca Parimbelli, III ILetizia Capelli, II A

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24 marzo 2012

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