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CAPITOLO 5 – BOX 1- PAGINA 159 IL FONOSIMBOLISMO Il fatto che un suono possa essere dotato di significato autonomo grazie a proprietà “evocative” ad esso attribuite ha affascinato linguisti e studiosi della comunicazione. In questa prospettiva la sostanza sonora è concepita come qualcosa di più della semplice "materia acustica" impiegata nella costruzione di unità sintagmatiche superiori dotate di senso, quali i termini delle diverse lingue [de Saussure 1916]. In una interessante ricerca sperimentale sui rapporti tra percezione e linguaggio, Alberini [1960] ha messo in luce che anche le forme di congiunzione, come le particelle E e CON, possono rivestire un preciso valore iconico. Esse evocano infatti una specifica rappresentazione della situazione percettiva che mediante esse viene descritta; viceversa, certe strutture percettive favoriscono l’uso dell’una piuttosto che dell’altra congiunzione. Secondo Alberini, E viene impiegata per descrivere un’esperienza percettiva caratterizzata dall’esistenza nel campo fenomenico di almeno due figure diverse tra loro, che vengono unificate in un unico atto di esplorazione; CON, invece, viene utilizzata quando si costituisce una struttura percettiva unitaria, caratterizzata da una forma molto pregnante che domina il campo (e che viene descritta per prima), alla quale si aggiungono una o più altre componenti, meno essenziali al costituirsi del percetto. L’espressione “Un uomo E un cane” tenderà ad evocare la situazione percettiva rappresentata in figura 1a, mentre l’espressione “Un uomo con un cane” quella rappresentata in figura 1b. Fig. 1. Condizioni percettive evocate da E e da CON Fonte: Dogana 1990 Tuttavia, l’interesse degli “addetti ai lavori” si è concentrato perlopiù attorno a questioni linguistiche di contenuto (che cosa, ad esempio, nel rimando associativo istituito da un'onomatopea, un suono può rappresentare) piuttosto che su di un piano 1

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CAPITOLO 5 – BOX 1- PAGINA 159

IL FONOSIMBOLISMO

Il fatto che un suono possa essere dotato di significato autonomo grazie a proprietà “evocative” ad esso attribuite ha affascinato linguisti e studiosi della comunicazione. In questa prospettiva la sostanza sonora è concepita come qualcosa di più della semplice "materia acustica" impiegata nella costruzione di unità sintagmatiche superiori dotate di senso, quali i termini delle diverse lingue [de Saussure 1916]. In una interessante ricerca sperimentale sui rapporti tra percezione e linguaggio, Alberini [1960] ha messo in luce che anche le forme di congiunzione, come le particelle E e CON, possono rivestire un preciso valore iconico. Esse evocano infatti una specifica rappresentazione della situazione percettiva che mediante esse viene descritta; viceversa, certe strutture percettive favoriscono l’uso dell’una piuttosto che dell’altra congiunzione. Secondo Alberini, E viene impiegata per descrivere un’esperienza percettiva caratterizzata dall’esistenza nel campo fenomenico di almeno due figure diverse tra loro, che vengono unificate in un unico atto di esplorazione; CON, invece, viene utilizzata quando si costituisce una struttura percettiva unitaria, caratterizzata da una forma molto pregnante che domina il campo (e che viene descritta per prima), alla quale si aggiungono una o più altre componenti, meno essenziali al costituirsi del percetto. L’espressione “Un uomo E un cane” tenderà ad evocare la situazione percettiva rappresentata in figura 1a, mentre l’espressione “Un uomo con un cane” quella rappresentata in figura 1b.

Fig. 1. Condizioni percettive evocate da E e da CON Fonte: Dogana 1990 Tuttavia, l’interesse degli “addetti ai lavori” si è concentrato perlopiù attorno a questioni linguistiche di contenuto (che cosa, ad esempio, nel rimando associativo istituito da un'onomatopea, un suono può rappresentare) piuttosto che su di un piano

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“esplicativo”, sottovalutando parallelamente la funzione svolta dal simbolismo fonico nello sviluppo di capacità rappresentazionali e le sue potenzialità in quanto “sistema comunicativo” [Suler 1980, Werner e Kaplan 1984 Dogana 1994, Anolli e Ciceri 1995, 1997].

Funzioni comunicative del fonosimbolismo sinestesico e fisiognomico. Sul piano comunicativo, due aspetti risultano centrali nel dibattito suscitato da linguisti e psicologi della comunicazione a proposito del fonosimbolismo: da un lato la questione dell’unità ultima della significazione, intesa come il contesto a partire dal quale la lingua acquista significato autonomo, primato che, a seconda delle prospettive, viene attribuito ora al fonema ora al morfema. Nella prima ipotesi è possibile attribuire proprietà simboliche alla sostanza fonica, considerando diversi piani di associazione tra suono e significato. Innanzitutto mediante un legame di tipo ecoico il suono “fa eco” direttamente al referente che rappresenta: le onomatopee linguistiche costituiscono un esempio esplicito di questa proprietà fonosimbolica. Al contrario, uno stimolo sonoro è in grado di evocare correlati percettivi diversi da quello acustico (ad es., visivo, tattile, ecc.), come accade nel fenomeno fonosimbolico sinestesico propriamente detto. A questo tipo di fonosimbolismo è associabile una seconda tipologia di fonosimbolismo, che sfrutta le proprietà emotive fisiognomiche del suono (fonosimbolismo fisiognomico) [Dogana 1988], per cui ad esso possono essere attribuite proprietà come l’essere triste o allegro, aggressivo o dolce, ecc. D’altro lato, l’analisi dell’esperienza fonosimbolica ha l’obiettivo di fornire elementi esplicativi rispetto al processo di semiotizzazione che si realizza ogni volta che un segno diviene rappresentativo di un significato. Il rapporto sincretico che si istituisce tra materia fonica e significato sinestesico/fisiognomico rappresenta infatti un percorso di simbolizzazione alternativo a quello convenzionalmente definito sul piano morfemico o sintagmatico, basato su un insieme di regole condivise e arbitrarie che consentono di formulare un’equazione segno-significato [Malmberg 1974, Cigada 1989]. Il fonosimbolismo si realizza infatti mediante un processo evocativo in cui la distanza tra simbolizzante e simbolizzato viene ridotta al minimo ed è fondata sulla somiglianza tra le due componenti della significazione, per cui il suono rimanda immediatamente e quasi “naturalmente” al significato che rappresenta. Le componenti comunicative vocali non-verbali nella fisiognomizzazione delle emozioni. La simbolicità della sostanza fonica può assumere una valenza differente da quella percettiva e cognitiva per rappresentare proprietà di tipo “emotivo” o “fisiognomico” [Dogana 1988, 1994]. Specificamente, in questo caso l’istituzione di un rapporto simbolico può seguire due percorsi distinti: nel primo caso per via indiretta o metaforica viene definito un legame iconico tra proprietà acustiche e proprietà emotive, con un primo passaggio dal percetto alla simbolizzazione sinestesica e dalla simbolizzazione sinestesica all’attribuzione di proprietà fisiognomiche [Lindauer 1990]. Ad esempio, il suono /i/ è associato alla gioia in

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quanto sinestesicamente la /i/ richiama vissuti di luminosità, chiarezza, ecc. e tali proprietà percettive richiamano direttamente la rappresentazione di uno stato emotivo positivo. Un secondo percorso fa derivare le proprietà fisiognomiche del fono da un processo di trasposizione mediante il ricorso a correlati mimico-gestuali o a risposte motorie e neurovegetative. In questo caso il significato emotivo del suono viene considerato come traslazione simbolica di determinate configurazioni visive o motorie che accompagnano generalmente uno specifico contenuto emotivo. Si pensi, per esempio, all’articolazione dei suoni “duri”, dominante nelle espressioni di odio o aggressività, ed il concomitante irrigidimento dell’intero organismo tipico di chi si predispone all’attacco; o, ancora, all’elaborazione del correlato motorio del tremore mediante il suono /r/ nelle espressioni di paura; alle voci di disprezzo e svalutazione, che contengono spesso suoni legati alla gestualità orale tipica delle espressioni facciali dello schifo e del disgusto. In questo caso, la concordanza tra suono e proprietà extra-acustiche ha antecedenti o in una congruenza tra i due piani associativi (secondo la teoria dell’isomorfismo gestaltico), o nella concomitanza tra valenze sinestesiche e la loro ripercussione sugli organi fonatori (secondo la teoria della generalizzazione mediata). Analizzando alcuni correlati articolatori tipici dell'espressione di specifiche emozioni è possibile individuare una relazione sistematica con le valenze fisiognomiche di alcuni fonemi [Fónagy 1972, Laver 1980, Van Bezooyen 1984, Scherer 1986]. In particolare:

a) In relazione alla pressione espiratoria e alla tensione della muscolatura, quando questi ultimi raggiungono i valori massimi, le vocali vengono accorciate e le consonanti allungate, il profilo di intonazione è caratterizzato da un andamento rotto: ciò si presta all’espressione della durezza e dell’aggressività rivolta all’esterno. Al contrario, quando possiedono valori più bassi, appaiono congruenti con emozioni trofotrope di benessere, piacevolezza, ecc. L’articolazione dura delle occlusive e la tensione muscolare che ne accompagna il gesto fonico, ad esempio, fa sì che essi (e, in particolare i nessi /st/, /sk/, /sp/) ben si prestino ad esprimere il disprezzo e l’odio e che costituiscano il nucleo di molti epiteti d’insulto (come, ad esempio, in italiano: spudorato, schifoso, sporco, stolto, ecc.). Un’altra componente dei sentimenti ostili legata all’idea di durezza e tensione muscolare è il fremito e il tremore, che accompagnano gli atteggiamenti aggressivi, veicolati soprattutto dalla vibrante /r/, ampiamente presente nel lessico dell’ira e della collera (il termine stesso ira, collera, rabbia, ecc.);

b) Rispetto all’emissione di fiato, nel caso in cui sia elevata, essa segnala una forte eccitazione psichica nel soggetto e il suo essere incapace di gestire adeguatamente l’emozione. Un gesto mimico nel quale trovano espressione i vissuti negativi di rifiuto, insofferenza, disprezzo è l’espulsione del fiato, che può esprimere simbolicamente sia un atto aggressivo, sia il desiderio di proiettare all’esterno un contenuto interno doloroso e ingestibile. I suoni fricativi /f/ e /v/ si prestano, pertanto, a veicolare i sentimenti di disprezzo e disgusto, come nelle onomatopee uffa, veh;

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c) L’apertura faucale è un’ulteriore caratteristica distintiva della configurazione articolatoria presente nell'espressione delle emozioni. Infatti, quando è ampia, sembra corrispondere alla disponibilità dell’organismo a esperienze piacevoli; quando è stretta indica chiusura verso il mondo esterno. L’origine di tale componente può essere ricondotta alle reazioni gustative all’amaro e al dolce, con due Gestalt gestuali-articolatorie contrapposte. Un esempio esplicativo è rappresentato dai due fonemi contrapposti sul piano articolatorio come /a/, esemplificativa di valenze fisiognomiche positive, con massima apertura faucale ed /u/, con apertura faucale ridotta, rappresentativa di sentimenti negativi;

d) Inoltre, un ruolo primario è riconosciuto alla nasalità. Tale segnale è tipico delle espressioni che si riferiscono a stimoli sensoriali (ad esempio il piacere fisico) rispetto a quelli di livello più elevato, o anche i sensi di contatto (gusto e tatto) rispetto a quelli caratterizzati da distanza (vista e udito). Una componente fonica connessa ad atteggiamenti di aggressività latente è il suono di timbro nasale-gutturale, emesso facendo fuoriuscire il soffio dal naso a bocca chiusa e mostrando i denti come nella postura del “ringhiare”. Tale comportamento espressivo trova riscontro fonetico nei suoni /ñ/ o /gn/, come nei termini: arcigno, ghigno, cagnesco, indignato, ingrugnito, ecc. D’altra parte numerosi studi sul comportamento verbale del bambino hanno identificato nella nasalizzazione un gesto fonico associato all’espressione di contenuti emotivi dolorosi, di insoddisfazione e a comportamenti di pianto e gemito;

e) Infine, alcune considerazioni interessanti riguardano il registro. Il registro di petto sarebbe legato all’autoaffermazione, all’imposizione, al dominio sull’altro; il registro di testa, al contrario, ad atteggiamenti positivi o a una disposizione a farsi accettare o a sottomettersi. La tabella 1 riassume sinteticamente alcuni degli aspetti fondamentali nella fisiognomizzazione delle emozioni. In linea con questa prospettiva, alcune recenti ricerche hanno consentito di confermare il ruolo prioritario dei tratti soprasegmentali e delle qualità vocali come elementi costitutivi di un codice vocale non-verbale dell’esperienza emotiva, con particolare attenzione ad alcuni parametri quali intensità, tono (frequenza fondamentale) e variazioni temporali (pause, ritmo, ecc.). Rispetto a queste componenti, sono stati rilevati patterns di articolazione ed espressione delle emozioni autonome e differenziate, contraddistinte da una costanza sia in termini di codifica che di decodifica [Anolli e Ciceri 1997].

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Tab. 1. Alcuni esempi di correlazioni articolatorio-fonetiche nella fisiognomizzazione delle emozioni

Patterns articolatori Caratterizzatori fonetici Patterns emotivi

Pressione espiratoria e

tensione muscolare elevate

accorciamento vocalico

allungamento consonantico

suoni occlusivi (/st/, /sk/, /sp/)

suoni vibranti (/r/)

durezza, aggressività

ira, collera, paura

Pressione espiratoria e

tensione muscolare basse

suoni vocalici (/i/, /a/, /e/)

liquide (/l/)

benessere, piacevolezza

Emissione ed espulsione di

fiato

suoni fricativi (/f/, /v/) aggressività, disgusto,

disprezzo

Apertura faucale ampia

suoni vocalici "aperti" (/a/) gioia, apertura

Apertura faucale stretta suoni vocalici "chiusi" (/o/, /u/) cupezza, chiusura

Nasalità suoni nasali-gutturali (/ng/) pianto, gemito

Registro di petto "timbro maschile" autoaffermazione,

imposizione

Registro di testa "timbro femminile" disposizione a farsi accettare,

sottomissione

Anolli, L. e Ciceri, R. [1995], Elementi di psicologia della comunicazione, Milano, L.E.D. Anolli, L. e Ciceri, R. [1997], La voce delle emozioni. Verso una semiosi della

comunicazione vocale non verbale delle emozioni, Milano, Franco Angeli. Bezooyen, R., van [1984], Characteristics and recognizability of vocal expressions of emotions,

Dordrecht, Foris Pubblications. Cigada, S. [1989], Per un’analisi contrastiva delle strutture retoriche, in «S.I.L.T.A.», 1, pp. 99-

113. Dogana, F. [1988], Suono e senso, Milano, Franco Angeli. Dogana, F. [1990], Le parole dell’incanto. Esplorazioni dell’iconismo linguistico, Milano, Franco

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Angeli. Dogana, F. [1994], Dalle sinestesie alle qualità espressive, in «Archivio di Psicologia Neurologia e

Psichiatria», 1-2, pp. 464-480. Fónagy, I. [1972], Motivation and remotivation. Comment se dépasser, in «Poétique», 3, pp. 414-

431. Laver, J. [1980], The phonetic description of voice quality, Cambridge, Cambridge University

Press. Lindauer, M.S. [1990], The effect of the physiognomic stimuli taketa and maluma on the

meaning of neutral stimuli, in «Bulletin of the Psychonomic Society», 28[2], pp. 151-154.

Malmberg, B. [1974], Manuel de phonétique générale, Paris, Picard, trad. it. Manuale di fonetica

generale, Bologna, Il Mulino, 1977. Saussure, F., de [1916], Cours de linguistique générale, Paris, Payot, trad. it. Corso di linguistica

generale, Bari, Laterza, 1970. Scherer, K.R. [1986], Vocal affect expression: A review and a model for future research, in

«Psychological Bulletin», 99, pp. 149-165. Suler, J.R. [1980], Primary process thinking and creativity, in «Psychological Bulletin», 88, pp.

144-165. Werner, H. e Kaplan, B. [1984], Symbol formation, Hillsdale, Erlbaum, trad. it. La formazione del

simbolo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1989.

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CAPITOLO 5 – BOX 2 – PAGINA 163

INDIZI VOCALI NON VERBALI Due messaggi che includono il medesimo contenuto verbale-grammaticale possono assumere dei significati molto differenti per l’ascoltatore, in funzione delle loro caratteristiche vocali non verbali. Se questo può apparire come una conclusione comprensibile anche dal senso comune, ben più complesso è invece risultato comprendere in modo analitico quali elementi vocali non verbali cambino e in che maniera. Proprio per studiare le componenti vocali non verbali della comunicazione secondo un approccio matematico è stato necessario procedere alla definizione di quali indizi acustici (in inglese, acoustic cues) estrarre dalla traccia sonora. Dato un messaggio è possibile, infatti, attraverso un registratore digitale, ricavare una traccia sonora che può essere processata da specifici strumenti, software o hardware. Tali strumenti sono in grado di rilevare i valori che determinati elementi non verbali del parlato assumono in corrispondenza di un particolare istante.

Fig. 2. Rappresentazione classica della traccia sonora: in ascissa è rappresentato il tempo, in ordinata l’ampiezza dell’onda In maniera più dettagliata, sono stati identificati quattro domini di acoustic cues potenzialmente significativi per lo studio delle componenti vocali non verbali del parlato: pitch, intensità, aspetti temporali e qualità della voce. La presente descrizione segue quella proposta recentemente da Juslin & Laukka (2003) in un contributo circa l’espressione delle emozioni nel parlato e nella musica. Al primo dominio (PITCH) appartengono tre indici: Frequenza fondamentale (F0), che rappresenta il ritmo con cui le corde vocali si aprono e si chiudono nella glottide. Da un punto di vista acustico, la F0 è la componente dell’onda sonora caratterizzata del più basso ciclo periodico ed è estraibile attraverso algoritmi informatici (Scherer, 1982); il profilo di F0 (o forma / contorno) che è la sequenza dei valori istantanei di F0 all’interno di una sequenza; Jitter, che sono le piccole perturbazioni di F0

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connesse con le variazioni rapide e casuali del tempo di apertura e chiusura delle corde vocali tra un ciclo e l’altro.

Fig. 3. Rappresentazione delle corde vocali (Vocal cord)

Al secondo dominio (INTENSITÀ) sono riconducibili due indici: la stessa intensità, che è la misura dell’energia contenuta nel segnale acustico, generalmente ricavata dall’ampiezza dell’onda; l’unità di misura standard è il decibel, che è calcolato come una trasformazione logaritmica del valore dell’ampiezza dell’onda; l’attacco, che è il tempo o il tasso di crescita dell’ampiezza dell’onda sonora nei segmenti che contengono informazione sonora (Scherer, 1989). Un terzo gruppo di indici sonori sono connessi alla DIMENSIONE TEMPORALE della produzione vocale: velocità di eloquio, può essere misurata come durata complessiva o come numero di unità rispetto alla durata (ad es. parole al minuto o sillabe al secondo); pause, misurate come numero o come durata complessiva di silenzio all’interno della traccia considerata. L’ultimo dominio fa riferimento alla QUALITÀ DELLA VOCE, che si esprime in indizi più complessi e sofisticati rispetto a quelli inclusi nei primi tre: energia delle alte frequenze, si riferisce, rispetto alla energia acustica totale, alla proporzione tra l’energia delle frequenze sopra e quella delle frequenze sotto un certo valore soglia (Scherer, Banse, Walbott e Goldbeck, 1991). All’aumentare dell’energia delle alte frequenze la voce diventa più acuta e meno morbida. Si può calcolare attraverso lo spettro medio a lungo termine (Long Term Average Spectrum), che è la distribuzione media dell’energia su uno spettro di frequenze in un certo periodo di tempo; formanti, sono regioni di frequenza in cui l’ampiezza dell’energia sonora è alta, e riflettono le risonanze naturali del tratto vocale; le prime due formanti determinano la qualità delle vocali, mentre le altre dipendono dalle caratteristiche del parlante (Laver, 1980); precisione di articolazione, può essere misurata come la deviazione delle formanti in occasione di alcuni eventi (ad esempio in occorrenza di un arousal emotivo; Tolkmitt & Scherer, 1986) dalla formante neutra; onda sonora glottale (glottal waveform), rappresenta il tempo in cui l’aria passa attraverso le corde vocali e il tempo in cui la glottide è chiusa all’interno di ciascun ciclo di vibrazioni; la forma di questa onda fornisce informazioni utili per determinare l’intensità/volume e il timbro del suono. 8

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Questi indizi acustici, nel loro insieme, forniscono al ricercatore una serie di valori attraverso cui cercare di analizzare i suoni e le produzioni vocali di un parlante con l’obiettivo di rendere maggiormente comprensibile come determinati significati possono essere veicolati attraverso gli elementi paralinguistici. L’indagine su quali elementi siano maggiormente portatori di significato è attualmente uno dei principali versanti lungo cui si sta muovendo la ricerca, in particolare rispetto all’espressione vocale delle emozioni (Juslin & Laukka, 2003). In conclusione, è opportuno ricordare come l’elenco qui riportato non possa essere considerato come esaustivo: con il progredire degli strumenti di calcolo e l’affinamento della scienza acustica è lecito ritenere che sarà possibile identificare altri elementi potenzialmente significativi e/o affinare la precisione degli algoritmi di calcolo utilizzati. Juslin, P. N., & Laukka, P. (2003). Communication of Emotions in Vocal Expression and Music

Performance: Different Channels, Same Code? Psychological Bulletin, 129(5), 770-814. Laver, J. (1980). The phonetic description of voice quality. Cambridge, England: Cambridge

University Press. Scherer, K. R. (1982). Methods of research on vocal communication: Paradigms and parameters. In

K. R. Scherer & P. Ekman (Eds.), Handbook of methods in nonverbal behavior research (pp. 136–198). Cambridge, England: Cambridge University Press.

Scherer, K. R. (1989). Vocal correlates of emotional arousal and affective disturbance. In H.

Wagner & A. Manstead (Eds.), Handbook of social psychophysiology (pp. 165–197). New York: Wiley.

Scherer, K. R., Banse, R., Wallbott, H. G., & Goldbeck, T. (1991). Vocal cues in emotion encoding

and decoding. Motivation and Emotion, 15, 123–148. Tolkmitt, F. J., & Scherer, K. R. (1986). Effect of experimentally induced stress on vocal

parameters. Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 12, 302–313.

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CAPITOLO 5 – BOX 3 – PAGINA 165

L’ESPRESSIONE VOCALE DELLE EMOZIONI La voce possiede un forte potenziale evocativo, legato non solo a ciò che viene detto, ma soprattutto a come viene detto. Attraverso la modulazione del ritmo, dell’intonazione e dell’intensità dell’eloquio, la voce è in grado di comunicare anche la tipologia di emozione provata dall’interlocutore. Gli studi sulla possibilità di esprimere l’esperienza emotiva attraverso la voce prendono in considerazione due differenti aspetti: il processo di encoding, esaminato attraverso l’esame dei correlati acustici dell’espressione vocale delle emozioni, e il processo di decoding, ovvero la capacità da parte dell’interlocutore di riconoscere o inferire correttamente lo stato emotivo del parlante prestando attenzione unicamente alle sue caratteristiche vocali. A livello metodologico gli studi sull’encoding presentano una variabilità piuttosto elevata per il numero di locatori, il ricorso ad attori professionisti od ingenui, il numero e il tipo di emozioni esaminate, il tipo di materiale acustico impiegato, le condizioni elicitanti, ecc. Nonostante la differenza di metodologie, esiste una sostanziale convergenza di risultati. Attraverso una rassegna riguardante quaranta ricerche che si sono focalizzate sulla fase di encoding, e che hanno preso in considerazione caratteristiche della voce come il tono (frequenza fondamentale e intonazione), la durata (ritmo, velocità di eloquio e pause), l’intensità e la qualità articolatoria della fonazione, Anolli e Ciceri [1997] hanno individuato le seguenti caratteristiche collegate a sei differenti emozioni:

1. la collera è caratterizzata da un incremento della media della variabilità e della gamma della frequenza fondamentale della voce, da un aumento dell’intensità, dalla presenza di pause molto brevi o anche dalla loro assenza e da un ritmo di eloquio molto elevato; la voce della collera può dunque essere definita come tesa e piana;

2. la paura viene espressa con un forte aumento della media, della variabilità e della gamma della frequenza fondamentale, con un’elevata velocità del ritmo di articolazione e con un’intensità di voce molto forte; inoltre la voce della paura è caratterizzata dalla presenza di tremore, è può essere definita come sottile, tesa e “stretta”;

3. la tristezza viene comunicata attraverso un tono mediamente basso, un volume basso, la presenza di lunghe pause e un ritmo di articolazione rallentato; si tratta dunque di una voce stretta e rilassata;

4. la voce della gioia è caratterizzata da tonalità acuta, aumento dell’intensità e, a volte, accelerazione del ritmo di articolazione; essa si presenta come una voce ampia, piana e mediamente tesa;

5. il disprezzo viene espresso attraverso un’articolazione particolarmente lenta delle sillabe e una durata prolungata della frase, con un tono profondo e un’intensità

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bassa; si tratta di una voce abbastanza tesa, stretta e mediamente piana; 6. la tenerezza è caratterizzata da un ritmo regolare, da una tonalità grave e da un

volume tenuto costantemente basso; essa si presenta dunque ampia e distesa.

Per quanto riguarda gli studi che si sono dedicati alla fase di decoding, da una recente rassegna della letteratura è emersa un’accuratezza media di riconoscimento pari al 60%. Si tratta di un valore che spesso supera le percentuali di riconoscimento delle emozioni attraverso le espressioni facciali. L’efficacia dei tratti paralinguistici per il riconoscimento dell’espressione vocale delle emozioni sembra doversi attribuire alle variazioni di tono, all’intensità e alle sue modificazioni, nonché al ritmo di articolazione. Esiste una sostanziale congruenza tra i risultati ottenuti nelle ricerche condotte da van Bezooijen [1984], Scherer [1981] e Anolli e Ciceri [1997]. La collera è risultata essere l’emozione più facilmente riconosciuta, mentre il disgusto, la tenerezza e il disprezzo sono le emozioni meno facilmente riconoscibili attraverso la voce. In generale, sono maggiormente identificabili le emozioni negative rispetto a quelle positive.

Anolli, L. e Ciceri, R. [1997], La voce delle emozioni. Verso una semiosi della comunicazione vocale non verbale delle emozioni, Milano, Franco Angeli.

Scherer, K.R. [1981], Speech and emotional states, in J.K. Darby (a cura di), Speech evaluation in

psychiatry, New York, Grune & Stratton. Bezooijen, R., van [1981], The characteristics and recognizability of vocal expression of emotions,

Dordrecht, Foris.

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CAPITOLO 5 – BOX 4 – PAGINA 168

IL FACIAL ACTION CODING SYSTEM Le tecniche atte alla misurazione del comportamento facciale sono nate sostanzialmente per rispondere a svariati quesiti riguardanti i legami esistenti tra le espressioni del viso e le caratteristiche di personalità, l’esperienza emotiva, i processi comunicativi, e così via. Gli studi che si occupano di questi temi si suddividono in studi di misurazione, che utilizzano metodi atti a fornire una descrizione o una misurazione delle reali modificazioni del volto, e studi di giudizio, che si basano sulle risposte di osservatori al comportamento facciale, e che si concentrano quindi sulla quantità e la qualità delle informazioni veicolate dal viso. L’elettromiografia (EMG) rientra nel primo tipo di metodi, e rappresenta una delle modalità più oggettive di misurazione fra quelli a nostra disposizione. La registrazione EMG facciale comporta l’applicazione di piccoli elettrodi di superficie sui muscoli del volto. Gli elettrodi rivelano i potenziali d’azione muscolari aggregati dalle fibre muscolari sottostanti, e il segnale, opportunamente filtrato, amplificato e ripulito dalle irregolarità, viene considerato approssimativamente proporzionale alla forza di contrazione dei muscoli sottostanti. Sempre all’interno degli studi di misurazione, accanto a metodi come l’EEG troviamo sistemi, detti di codifica, che si basano sull’identificazione e la misurazione di unità visibili di comportamento facciale. Essi si distinguono dai metodi di giudizio in quanto l’attività di codifica, essendo puramente descrittiva, non ha carattere interpretativo. Questi metodi sono basati sulla riflessione teorica, in quanto mirano all’identificazione dei pattern di movimento facciale che risultano associati a particolari emozioni, quelle considerate “universali”. Il Facial Action Coding System di Ekman e Freisen [1978] rientra in questa categoria di metodi. Secondo questi due autori, il volto è in grado di veicolare informazioni attraverso quattro classi di segnali:

1. segnali “statici” e relativamente permanenti, determinati dalla struttura ossea e dalle masse di tessuto che compongono il viso;

2. segnali “lenti”, determinati da cambiamenti che avvengono con il tempo e apportano delle mutazioni nell’apparenza della faccia di un individuo, come ad esempio la comparsa di rughe;

3. segnali “artificiali”, causati da trattamenti esterni, come l’applicazione di cosmetici o il fatto di indossare degli occhiali;

4. segnali “rapidi”, che comportano modificazioni dell’attività neuromuscolare e provocano dei cambiamenti visibili dell’apparenza del viso.

È proprio quest’ultimo tipo di segnali (modificazioni muscolari rapide e visibili) che può essere individuato e categorizzato attraverso il F.A.C.S., in cui ogni movimento facciale singolarmente riproducibile e individuabile visivamente è stato indicato come AU (action unit). Esistono in tutto 46 AU relative ai movimenti del volto, e 12

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AU che rendono conto dei cambiamenti nella direzione dello sguardo e nell’orientamento della testa. Tali unità d’azione costituiscono la base del sistema di codifica e misurazione. Nella tabella 2 sono riportati alcuni esempi di AU.

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Tab. 2. Esempi di AU, con l’indicazione dei muscoli coinvolti in ogni movimento descritto Il processo di acquisizione della metodologia di analisi sottesa al F.A.C.S. è molto laborioso. Un apprendista spende quasi 100 ore per apprendere come funziona tale

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sistema di codifica, attraverso materiale autodidattico che insegna l’anatomia dell’attività facciale, ovvero come i muscoli singolarmente o in combinazione cambiano l'apparenza di un volto. Un analista FACS disseziona ogni espressione individuando le specifiche AU che hanno prodotto il movimento, utilizzando soprattutto nastri videoregistrati. Il nastro viene analizzato sia al rallentatore che fermando le immagini, per determinare quali unità di azione, o combinazioni di unità di azione, sono coinvolte nei cambiamenti del viso. Per ogni azione viene anche determinata la precisa durata, l’intensità e i casi di asimmetria bilaterale. Nell'uso più esperto della metodologia FACS, l'analista riesce a determinare da indizi molto lievi l'unità di azione coinvolta in un movimento rapido, ed è inoltre in grado di individuare il momento preciso in cui l'azione raggiunge l'apice, quando inizia a declinare e quando scompare definitivamente dalla faccia. Le AU possono essere convertite da un computer utilizzando un dizionario di interpretazione e predizione delle emozioni (appositamente creato). In questo modo è possibile tradurre le combinazioni di AU in configurazioni facciali che, a loro volta, corrispondono a determinate esperienze emotive. Attualmente un supporto alla teoria sottostante il F.A.C.S. proviene da una sperimentazione empirica che ha dimostrato che:

1. le codifiche fatte con il F.A.C.S. producono predizioni e post-dizioni altamente accurate delle emozioni segnalate agli osservatori in più di quindici culture, sia dell’Est che dell’Ovest, letterate e pre-letterate [Ekman 1989];

2. i punteggi specifici riguardanti le AU e la loro intensità mostrano una correlazione da moderata ad alta con i report soggettivi sulla qualità e l’intensità dell’emozione sentita dai soggetti che esprimono l’emozione stessa [Davidson et al. 1990];

3. modelli differenti e specifici di attività fisiologica cooccorrono con specifiche espressioni facciali [Davidson et al. 1990].

Uno dei limiti del F.A.C.S. risiede nel fatto che è stato sviluppato per identificare solo i cambiamenti del viso chiaramente visibili e individuabili, ignorando tutti quei cambiamenti che non sono rilevabili tramite la semplice osservazione, come le modificazioni del tono muscolare. Inoltre non prende in considerazioni fattori come il sudore, il fenomeno dell’arrossire, o le caratteristiche permanenti della morfologia del viso. Ekman, P. e Friesen, W.V. [1978], Facial action coding system: A method for the measurement of

facial movement, Palo Alto, California, Consulting Psychologists Press. Ekman, P. [1989], The argument and evidence about universals in facial expressions of emotion, in

H. Wagner e A. Manstead (a cura di), Handbook of social psychophysiology, Chichester, Wiley. Davidson, R.J., Ekman, P., Saron, C., Senulis, J. e Friesen, W.V. [1990], Emotional expression and

brain physiology I: Approach/withdrawal and cerebral asymmetry, in «Journal of Personality and Social Psychology», 58, pp. 330-341.

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CAPITOLO 5 – BOX 5 – PAGINA 170

L’IPOTESI DELL’UNIVERSALITA’

Secondo molti autori, il risultato più convincente e stimolante del FACS [Ekman e Friesen 1978] è stato l’aver dimostrato in modo significativo l’universalità dell’espressione facciale delle emozioni. Per provare la veridicità di tale conclusione, Russell e Fernández-Dols [1997] hanno sottolineato come sia necessario dimostrare la validità di tre proposizioni in relazione tra loro: 1. In tutti i gruppi umani si verificano gli stessi pattern di movimenti facciali. 2. Osservatori appartenenti a società diverse attribuiscono le stesse emozioni

specifiche a tali pattern facciali universali. 3. In tutte le società umane, questi stessi pattern facciali sono veramente

manifestazioni di quelle precise emozioni. Nelle ricerche passate, la maggior parte degli studiosi non ha distinto fra queste tre proposizioni. Per esempio, Ekman [1980] ha pubblicato fotografie di aborigeni della Nuova Guinea che sorridono, assumono un’espresione severa corrugando le sopracciglia, piangono e via dicendo. In seguito ha tratto delle conclusioni favorevoli alla tesi dell’universalità, senza tuttavia specificare quale aspetto dell’universalità sia stato effettivamente provato. Naturalmente, l’esistenza di pattern facciali, di per sé, riguarda solo la Proposizione 1. La Proposizione 1 è stata generalmente assunta come vera, benché il fatto di sottoporla a un esame empirico possa essere estremamente rivelatorio. Al contrario, la Proposizione 2 ha ricevuto molta attenzione, mentre la Proposizione 3 è stata curiosamente ignorata. La verifica indipendente di tale proposizione sarebbe particolarmente importante, poiché essa non sarebbe necessariamente vera anche qualora le Proposizioni 1 e 2 fossero dimostrate [Russell e Fernández-Dols 1997]. Al presente, non vi sono prove che dimostrino che in una varietà di società diverse le persone felici sorridono, quelle irate aggrottano le sopracciglia, quelle disgustate arricciano il naso e via dicendo. Per quel che riguarda la Proposizione 2, in figura 1 viene riportata una sintesi di dati pertinenti, provenienti da studi di giudizio transculturali che si sono avvalsi di un metodo standard. Le cifre riportate riguardano i “punteggi di riconoscimento” (la percentuale di soggetti che sceglie la definizione prevista). La prima serie di barre si riferisce a società occidentali alfabetizzate (i soggetti sono in gran parte studenti universitari). Le cifre sono impressionanti, ben al di sopra di quanto ci si possa aspettare per effetto del caso, rappresentato in figura 1 con linee orizzontali bianche). La seconda serie di barre proviene da società non occidentali (benché si tratti ancora in gran parte di studenti universitari). I punteggi di questa seconda serie sono significativamente inferiori a quelli della prima, ma pur sempre elevati. La terza serie, che riguarda campioni di osservatori isolati non occidentali (per lo più persone

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analfabete), mostra come tali individui concordino nell’attribuire la felicità ai sorrisi ma raggiungono punteggi di riconoscimento notevolmente più contenuti per quel che riguarda tutte le altre fotografie.

Fig. 4. Punteggi di riconoscimento per sei espressioni facciali dell’emozione Fonte: Russell 1994 Ovviamente, sia gli osservatori occidentali che quelli non occidentali si conformano alla predizione in misura maggiore di quanto non sarebbe dato attendersi per effetto del caso. Al contempo, i punteggi di riconoscimento sono proporzionati all’entità dell’influenza occidentale e possono essere gonfiati a causa di una serie di fattori di natura metodologica: espressioni in pose esagerate, disegno entro il soggetto e formato di risposta a scelta forzata, influenza dello sperimentatore [Sorenson 1975, 1976]. Per quel che riguarda la terza serie di barre, è possibile immaginare che ciascuna barra si riduca anche soltanto di poco ogni volta che viene rimosso un fattore metodologico che può avere prodotto una gonfiatura dei dati. Resta da valutare quali barre restino al di sopra della casualità, ammesso che ve ne siano. Quale che sia la risposta, resta aperta anche la questione della loro interpretazione. Ammettendo che tutti i punteggi di riconoscimento rimangano significativi anche una volta superati i problemi tecnici, resterebbero ancora varie spiegazioni a favore dell’associazione non casuale oltre a quella ipotizzata dal Programma Espressione Facciale. La spiegazione più parsimoniosa di tutti i dati attualmente a disposizione circa il modo in cui le espressioni facciali vengono prodotte e interpretate si chiama universalità minima (tabella 1). l’uso di questa espressione paradossale deriva dalla presupposizione che ci si trovi di fronte a una scelta fra due possibilità: da una parte, la causalità (l’ipotesi nulla utilizzata nei test statistici condotti negli studi transculturali); dall’altra, l’universalità piena. Come la dicotomia natura-cultura, quest’alternativa risulta semplicistica. Infatti, l’universalità minima predice una somiglianza transculturale di una certa entità nell’interpretazione delle espressioni

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facciali, senza postulare un sistema innato di segnalazione dell’emozione. L’aver chiamato questa posizione minima sta a sottolineare che almeno questo grado di universalità sembra esistere [Russell e Fernández-Dols 1997]. Tab. 3. L’universalità minima

Assunti − Certi pattern di movimento della muscolatura facciale occorrono in tutti gli esseri umani. − I movimenti facciali sono coordinati a stati psicologici (azioni, preparazione alle azioni,

stati fisici, stati emozionali, stati cognitivi e altre condizioni psicologiche). − La maggioranza delle persone in ogni luogo può inferire qualcosa in merito allo stato

psicologico altrui dal movimento facciale, come da qualsiasi altra cosa che le altre persone fanno.

− Le persone delle culture occidentali possiedono un insieme di credenze secondo le quali tipi specifici di azioni facciali sono espressioni di tipi specifici di emozione.

Alcuni ammonimenti − Le azioni facciali non sono necessariamente segnali. − L’azione facciale non è né necessaria né sufficiente per l’emozione. − L’azione facciale non è necessariamente associata all’emozione più di quanto sia

associata ad altri stati psicologici. − Non necessariamente le inferenze compiute in una cultura, o da un individuo, coincidono

esattamente con le inferenze compiute in un’altra cultura o da un altro individuo. − Non necessariamente le persone di tutte le culture condividono le credenze occidentali

circa le associazioni specifiche di emozioni e azioni facciali. − Le credenze occidentali circa l’associazione fra espressioni facciali e emozioni non sono

necessariamente valide.

Predizioni − Le fotografie di movimenti facciali verranno associate a stati psicologici con un accordo

maggiore di quello atteso in base al caso. − A volte le persone compiono inferenze accurate sulla base dei movimenti facciali. − Ci saranno delle somiglianze attraverso le culture in ciò che viene inferito dai movimenti

facciali.

Ekman, P. e Friesen, W.V. [1978], Investigator’s guide to the Facial Action Coding System, Palo Alto, Consulting Psychologists Press.

Russell, J.A. e Fernández-Dols, J.M. (a cura di) [1997], The psychology of Facial Expression,

Cambridge, Cambridge University Press, trad. it. Psicologia delle espressioni facciali, Trento, Erickson, 1998.

Ekman, P. [1980], The face of man: Expressions of universal emotions in a New Guinea village,

New York, Garland STPM Press.

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Russell, J.A. [1994], Is there universal recognition of emotion from facial expression?, In

«Psychological Bulletin», 115, pp. 102-141. Sorenson, E.R. [1975], Culture and the expression of emotion, in T.R. Williams (a cura di),

Psychological anthropology, Chicago, Aldine, pp. 361-372. Sorenson, E.R. [1976], The edge of the forest: Land, childhood and change in a New Guinea

protoagricultural society, Washington, Smithsonian Instutution Press.

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CAPITOLO 5 – BOX 6 – PAGINA 172

IL SORRISO DI DUCHENNE L’applicazione di diversi tipi di sistemi di codifica, come il FACS [Ekman e Friesen 1978] e l’AFFEX [Izard, Dougherty e Hembree, 1983], ha permesso di distinguere differenti tipi di sorriso. Tra questi ritroviamo il sorriso di Duchenne, individuato dal neurologo francese nel XIX secolo, e nel quale gli angoli delle labbra si spostano verso l’alto, mentre la contrazione dei muscoli orbicolari degli occhi solleva le guance e, negli adulti, tipicamente increspa di rughe gli angoli degli occhi. Gli studi di Duchenne de Boulogne hanno fornito alle successive generazioni di ricercatori le basi per l’elaborazione di esperimenti riguardanti la percezione e la comunicazione delle espressioni facciali. Attraverso l’utilizzo di elettrodi di stimolazione applicati ai muscoli facciali, Duchenne è stato in grado di tracciare una vera e propria mappa dell’apparato muscolare sotteso ai movimenti del viso, e quindi legato anche ai meccanismi di espressione delle emozioni (fig. 5, 6 e 7).

Fig. 5. Duchenne fotografato mentre utilizza la macchina per somministrare impulsi elettrici (faradic battery) su di un soggetto

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Fig. 6. La macchina usata da Duchenne per somministrare impulsi elettrici

Fig. 7. Esperimento di Duchenne riguardante la percezione e la comunicazione delle espressioni facciali Grazie ai suoi esperimenti egli è stato in grado di distinguere un sorriso naturale che nasce da un’emozione gioiosa, da un sorriso prodotto artificialmente. Infatti i muscoli facciali coinvolti nel sorriso spontaneo sono il muscolo zigomatico e quello orbicolare (dell’occhio). Il primo muscolo, quando si contrae, sposta gli angoli della bocca in alto e increspa le guance, nella classica espressione del sorriso, mentre il secondo è responsabile dei movimenti delle palpebre. E’ stata dimostrata la presenza di una relazione sinergica fra l’azione dello zigomatico, che produce il sollevamento degli angoli delle labbra, e l’azione di quella parte degli orbicolari che solleva le guance. E’ stato riscontrato che in soggetti di età inferiore ai sei mesi la contrazione dei muscoli orbicolari degli occhi è dodici volte più probabile in presenza del sollevamento degli angoli delle labbra, che in assenza di tale azione. Gli effetti fisici della contrazione dello zigomatico sulla contrazione dell’orbicolare dell’occhio sono dunque alla base dell’evidente coordinazione esistente nel sorriso di Duchenne. Oltre a questi, esiste un coinvolgimento neuronale caratterizzato da un alto grado di interconnessione dai rami nervosi che innervano la 22

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faccia e regolano i movimenti dei muscoli facciali. Sarebbe un errore, tuttavia, cercare di ridurre la coordinazione del sorriso di Duchenne a un pattern neuromuscolare. La presenza di predisposizioni neurali e muscolari per un’azione congiunta non esaurisce le possibili spiegazioni della cooccorrenza della contrazione dello zigomatico e dell’orbicolare dell’occhio. Per di più, come accade per gli elementi di altre strutture coordinative, la contrazione di questi muscoli avviene anche indipendentemente. Duchenne scriveva che, mentre lo zigomatico obbedisce alla volontà, l’orbicolare “obbedisce solo alle dolci emozioni dell’anima. La falsa gioia, la risata menzognera, non può provocare la contrazione di questo muscolo (…) L’orbicularis oculi non obbedisce alla volontà, ma è messo in gioco solo dal vero sentimento” [Duchenne 1862]. Effettivamente alcune recenti ricerche mostrano che il sorriso di Duchenne compare, nell’infante, durante eventi interattivi a tonalità emotiva positiva e, nell’adulto, è associato a un’esperienza di piacere [Ekman, Davidson e Friesen 1990, Fox e Davidson 1988]. Esistono contesti sociali in cui il sorriso di Duchenne è più probabile? Da alcuni dati emerge l’esistenza, per esempio, di associazioni significative fra sguardo in direzione della madre e sorriso di Duchenne. Inoltre le madri tendono a far corrispondere a questo tipo di sorriso un sorriso analogo [Messinger 1995]. È dunque probabile che gli infanti acquisiscano consapevolezza di questo pattern e che, da un certo momento in avanti, comincino a loro volta a corrispondere ai sorrisi di Duchenne delle loro madri. Duchenne de Boulogne, G.B. [1990], The mechanism of human facial expression, Cambridge,

Cambridge University Press, (ed. orig. pubblicata nel 1862). Ekman, P. e Friesen, W.V. [1978]. Facial action coding system: A method for the measurement of

facial movement, Palo Alto, Calif, Consulting Psychologists Press. Ekman, P., Davidson, R.J. e Friesen, W.V. [1990], The Duchenne smile: Emotional expression and

brain physiology II, in «Journal of Personality and Social Psychology», 58, pp. 342-353. Fox, N.A. e Davidson, R.J. [1988], Patterns of brain electrical activity during facial signs of

emotion in 10 month old infants, in «Developmental Psychology», 24, pp. 230-236. Izard, C.E., Dougherty, L.M. e Hembree, E.A. [1983], A system for identifying affect expressions by

holistic judgements (AFFEX), Newark, DE, Instructional Resources Center, University of Delaware.

Messinger, D.S. [1995], How mothers and infants smile, manifesto presentato all’incontro biennale

della Society for Research in Child Development, Indianapolis, IN.

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CAPITOLO 5 – BOX 7 – PAGINA 185 LO STUDIO DEI PROCESSI DI SINCRONIZZAZIONE COMUNICATIVA:

RICERCHE E STRUMENTI Una caratteristica fondamentale della comunicazione umana è la sua organizzazione temporale: durante un’interazione, gli interlocutori non agiscono in maniera scoordinata o casuale, bensì secondo un preciso ritmo temporale, che contribuisce a rendere l’interazione efficace, dotata di senso e quindi comprensibile. I fenomeni di accomodazione che avvengono tra gli interagenti e che consistono nella tendenza ad adattare il proprio stile comunicativo a quello del partner (vedi box x) sono strettamente legati alla sincronizzazione del comportamento con quello dell’interlocutore. La sincronia e la coordinazione interattiva sono caratteristiche universali della comunicazione umana e si sviluppano a partire dai primissimi mesi di vita. In una ricerca relativa all’interazione madre-bambino (Ciceri, 2001) viene riportata una sequenza sincronizzata di comportamenti attraverso la quale avviene la progressiva realizzazione di una sequenza coordinata di azioni tra la madre e il bambino di pochi mesi. In particolare, la sintonizzazione dei comportamenti fra i due interagenti genera un format stabile che porta alla creazione di un ritmo condiviso attraverso il quale madre e bambino suonano un tamburo. E’ interessante sottolineare come il bambino stesso assuma un ruolo attivo nei processi di sincronizzazione. Emerge da una ricerca (Tronick, Als, Adamson & Wise, 1978) che i bambini che interagiscono con adulti poco interessati tendono a produrre più frequentemente sequenze di comportamenti coordinati con quelli dell’adulto rispetto a quanto manifestato da bambini che interagiscono con adulti maggiormente coinvolti. Al contrario, bambini affetti da dislessia o disturbi dell’apprendimento mostrano difficoltà a sincronizzare i propri comportamenti cinesico-gestuali con quelli verbali (Condon, 1982). In un altro studio (Bernieri, Reznick & Rosenthal, 1988) è stato chiesto ad un gruppo di soggetti di dare un giudizio sulla sincronizzazione percepita nel comportamento di coppie madre-bambino in filmati privati del sonoro. Metà dei filmati riproducevano l’interazione originale, mentre nell’altra metà dei filmati l’immagine era stata modificata, in modo che i comportamenti della madre e del bambino non fossero contemporanei, ma leggermente distonici l’uno rispetto all’altro. La ricerca ha rilevato come la sincronizzazione percepita da parte dei giudici fosse significativamente più elevata nei filmati non modificati, dimostrando così che alcune sequenze sincronizzate tra madre e bambino possono essere direttamente percepite. Per quanto riguarda le interazioni tra adulti, già Kendon (1970) ha individuato sequenze di comportamenti coordinati all’interno di conversazioni tra più persone. In particolare, sono emersi non solo fenomeni di sincronizzazione, ma veri e propri processi di rispecchiamento, in cui il comportamento manifestato riproduce quello del partner comunicativo, soprattutto dal punto di vista non verbale. E’ interessante

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sottolineare come, anche se la conversazione coinvolgeva più persone, tali sequenze di rispecchiamento sono state rilevate prevalentemente tra il parlante e l’interlocutore diretto, dimostrando così la valenza comunicativa di tali processi. Dal punto di vista sperimentale, lo studio della sincronizzazione comunicativa prevede in primo luogo la definizione di una griglia di osservazione, in cui vengano elencati i comportamenti che devono essere rilevati, siano essi di tipo verbale o non verbale. Successivamente, mediante la griglia viene effettuata la codifica delle interazioni, che devono essere videoregistrate. Tale codifica può essere compiuta manualmente (codifica carta-matita) o mediante l’ausilio di software specifici. In entrambi i casi è necessario codificare l’unità di tempo (indicata in secondi o frames) in cui viene rilevato ogni comportamento oggetto di osservazione incluso nella griglia. Un software specifico per l’analisi dell’interazione e per la rilevazione di sequenze comportamentali coordinate e ripetute nel tempo è stato creato da un ricercatore islandese nei primi anni Novanta (Magnusson, 1993) ed è denominato THEME. Il programma consente di effettuare la codifica del comportamento, a partire dalla quale vengono rilevate sequenze comportamentali che si ripetono in modo significativo nel corso dell’interazione. Tali sequenze comportamentali vengono definite T-patterns (Time-patterns). Il software, infatti, è in grado di confrontare i tempi in cui si verifica ogni comportamento rilevato, valutando se le differenze siano dovute al caso o meno. Il modello teorico sottostante è quello del flusso continuo di comportamento (Continuous Behavioural Stream), per cui i comportamenti manifestati nel corso di un’interazione dovrebbero distribuirsi nel tempo secondo una continua ripetizione di sequenze di vario tipo, che possono o meno sovrapporsi tra loro, secondo un’organizzazione gerarchica. Un esempio di T-pattern è riportato in figura 1. Il pattern è costituito da due comportamenti di tipo non verbale, manifestati dai due interagenti. In particolare, un soggetto produce un autocontatto (“actor 2, begin, mano su corpo”) mentre l’altro distoglie lo sguardo rispetto all’interlocutore (“actor 1, begin, sguardo via”). Come si vede nella parte destra della figura, questa sequenza comportamentale si ripete sette volte nel corso dell’interazione. In pratica, per sette volte nel corso dell’interazione, mentre un soggetto compie un autocontatto, il suo partner comunicativo distoglie lo sguardo. Questo T-pattern, seppur molto semplice, esemplifica una sequenza di coordinazione e sincronizzazione nel comportamento non verbale di due soggetti coinvolti in un’interazione. Una delle peculiarità di THEME è la sua versatilità: infatti il modello sottostante permette di ricercare strutture sequenziali non solo nel comportamento umano, ma in qualunque serie di eventi correlati nel tempo; è anche grazie a questa proprietà che THEME è stato utilizzato per l’analisi della struttura sequenziale del DNA.

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Fig. 8. Un esempio di T-pattern costituito dalla ripetizione di due comportamenti Nell’ambito dello studio della comunicazione umana, alcune ricerche che si sono avvalse di tale strumento sono state condotte da Magnusson (1996), che ha rilevato in sequenze interattive pattern di sincronizzazione intra-e inter-individuali non visibili ad occhio nudo. Inoltre, Jonsson (2000) ha evidenziato come i pattern comportamentali prodotti nel corso di un’interazione possano differire in funzione di alcune caratteristiche di personalità dei partecipanti: in particolare, gli individui estroversi e con un’elevata autostima tendevano a realizzare pattern più complessi e coordinati dei soggetti introversi e con bassa autostima. Lo stesso autore (Jonsson, 1998) ha realizzato anche uno studio che ha portato all’individuazione di sequenze di coordinazione e sincronizzazione comportamentale tra i componenti di due squadre di calcio durante una partita. Bernieri, F. J., Reznick, J. S., & Rosenthal, R. (1988). Synchrony, pseudosynchrony and

dissinchrony: Measuring the entrainment process in mother-infant interactions. Journal of Personality and Social Psychology, 54, 243-253.

Ciceri, R. (2001). Comunicare il pensiero. Procedure, immagini, parole. Torino: Omega. Condon, W. S. (1982). Cultural microrhythms. In M. Davis (Ed), Interaction rhythms:

Periodicity in communicative behavior (pp. 53-76). New York: Human Sciences Press.

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Jonsson, G. K. (1998). Detecting patterns in complex behavioural processes with the Observer and

Theme. In L.P.J.J. Noldus (Ed), Measuring Behavior ’98. 2nd International Conference on Methods and Techniques in Behavioral Research. Groningen, The Netherlands.

Jonsson, G. K. (2000). Relation between self-esteem, personality dimensions of extraversion and

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Kendon, A. (1970). Movement coordination in social interaction: Some examples described.

Acta Psychologica, 32, 100-125. Magnusson, M. S. (1993). Theme, Behavior Research Software. User’s manual, with notes on

theory, model and pattern detection method. Unpubblished manuscript. University of Iceland, Reykjavik.

Magnusson, M. S. (1996). Hidden real-time patterns in intra- and inter-individual behavior:

Description and detection. European Journal of Psychological Assessment, 12, 112-123. Tronick, E. D., Als, H., Adamson, L., & Wise, S. (1978). The infant’s response to entrapment

between contradictory messages in face-to-face interaction. Journal of the American Academy of Child Psychiatry, 17, 1-13.

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