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Aprile 2009 50 GEOPOLITICA perture logistiche al terrorismo». Meno noto è, invece, che il leader di Lashkar e Tayyabe, tale Zaki-Ur-Reh- man Lakhvi, arrestato perché ritenuto essere il regista degli attentati di Mum- bai, addestrasse guerriglieri islamici durante e dopo la guerra di Bosnia negli anni Novanta. Combatterono in Bosnia anche cinque dei kamikaze re- sponsabili degli attacchi dell’11 set- tembre. Così come l’imam Khalil Jar- raya, arrestato lo scorso agosto a Fa- enza dalla Digos di Bologna con l’ac- cusa di “associazione a delinquere fi- nalizzata al terrorismo internazionale”. Jarraya, tunisino, era il capo di una cellula jihadista attiva tra Bologna e Como. Si era guadagnato l’appellativo di “colonnello” proprio durante i com- battimenti con le milizie islamiche in Bosnia. Nei Balcani la capillare infiltrazione dei movimenti islamici più radicali − finanziata con disinvoltura dalle Ngo (Non governmental organization) dei paesi del Golfo Arabico − risale agli anni Novanta. La guerra tra Bosnia e Serbia, tra il 1992 e il 1995, e successi- vamente il conflitto in Kosovo, nel ’99, hanno costituito di fatto l’occasione per coagulare e mobilitare cellule di mujaheddin provenienti da Afghani- stan, Iraq, Cecenia, Libano, pronti a combattere per i “fratelli musulmani”. Personaggi come Osama Bin Laden hanno ricevuto dall’allora presidente della Bosnia, Alija Izetbegovic, passa- porto bosniaco come ringraziamento per la collaborazione fornita nel crea- re una repubblica fondamentalista nei Balcani. La presenza di Bin Laden fu Intervista ad Antonio Evangelista di Stefania Bizzarri I l 26 novembre scorso, il mondo ha assistito all’attacco terroristico nella città indiana di Mumbai, som- mersa repentinamente da un’ondata di violenza fanatica senza preceden- ti. Per ore si sono susseguite spara- torie e deflagrazioni: un commando con esplosivi e armi ha attaccato obiettivi turistici e alberghi di lusso. Oltre cento morti, quasi duecento feriti nella città simbolo della mo- dernità cosmopolita asiatica. La stampa ha seguito faticosamente la cronaca degli attacchi. Solo in un secondo momento è riuscita a divul- gare con precisione l’identità dell’or- ganizzazione terroristica responsa- bile dell’accaduto. Oggi sappiamo che alcuni soggetti del commando erano membri di “Lashkar e Tayya- be” (Esercito del Puro), braccio ar- mato di Al Qaeda in India, compo- nente della galassia del terrore isla- mico che trova in Pakistan sicuri appoggi anche grazie alla complicità dei servizi segreti di quel paese. Balcani, avamposto europeo della guerra santa? È anche noto, almeno tra gli addetti ai lavori, come i puristi del fondamentalismo islamico si affidi- no alla mafia indiana per operare: «I boss della mafia islamica di Mumbai – scrive Federico Rampini, inviato di «Repubblica» – gestiscono il narco- traffico via satellite dai loro super- yacht al largo di Dubai, allacciano alle- anze con i Taliban afgani, offrono co- registrata ancora, nel ‘95, in Albania; evento che indusse gli Stati Uniti a denunciare i collegamenti tra l’Uck (esercito di liberazione del Kosovo) e le cellule di mujaheddin, entrambi co- piosamente foraggiati dal traffico in- ternazionale di armi e droga. Terminata la guerra nella ex Iugosla- via, decine di mujaheddin hanno otte- nuto la cittadinanza delle nuove realtà nazionali sorte in quel contesto geo- grafico, procurandosi falsi passaporti, assumendo nuove identità. Alcuni combattenti, deposto il kalashnikov, hanno indossato le vesti di “imam”, professando all’interno delle madras- se fondamentalismo agli orfani della guerra, addestrandoli a divenire “ordi- gni umani” per la causa jihadista. Un fenomeno pressoché taciuto dai prin- cipali circuiti dell’informazione italia- na, probabilmente più concentrati a seguire il processo politico che lo scorso 18 febbraio ha sancito il ricono- scimento dell’indipendenza del Koso- vo. Una realtà, quella delle madrasse- “orfanotrofi”, mai rimossa, bensì ripro- posta e analizzata con perizia dall’at- tuale vice questore aggiunto e capo della squadra mobile di Asti, Antonio Evangelista, già comandante del con- tingente italiano Unmik in Kosovo ne- gli anni 2000-2004. Evangelista ha ap- pena pubblicato per Editori Riuniti University Press Madrasse. Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Eu- ropa, opera che ha il pregio di denun- ciare con oggettività una realtà che prolifera al di là dell’Adriatico, a un’ora di volo da Roma. Di cui, purtroppo, giungono alla ribalta mediatica solo le conseguenze più tragiche. Sono pagi- ne di attualità, la cui rilevanza non sta solo nella chiarezza con cui l’autore tratta e ricostruisce il complesso con- testo storico balcanico, ma anche nel- la capacità di mettere in evidenza la “contiguità” tra terrorismo e crimine organizzato. Due territori − Bosnia e Kosovo − che nell’ottica di una “rivoluzione islami- La fabbrica dei kamikaze In Bosnia ex miliziani musulmani preparano cellule di terrori- sti pronte a lottare per la jihad. Antonio Evangelista, funziona- rio della Polizia italiana, ha raccolto in un libro storie, intrecci e retroscena di un fenomeno pressoché ignorato dall’informa- zione italiana Balcani, i campi di addestramento di Al Qaeda K. Brooks/G.Neri

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geopolitica

perture logistiche al terrorismo». Meno noto è, invece, che il leader di Lashkar e Tayyabe, tale Zaki-Ur-Reh-man Lakhvi, arrestato perché ritenuto essere il regista degli attentati di Mum-bai, addestrasse guerriglieri islamici durante e dopo la guerra di Bosnia negli anni Novanta. Combatterono in Bosnia anche cinque dei kamikaze re-sponsabili degli attacchi dell’11 set-tembre. Così come l’imam Khalil Jar-raya, arrestato lo scorso agosto a Fa-enza dalla Digos di Bologna con l’ac-cusa di “associazione a delinquere fi-nalizzata al terrorismo internazionale”. Jarraya, tunisino, era il capo di una cellula jihadista attiva tra Bologna e Como. Si era guadagnato l’appellativo di “colonnello” proprio durante i com-battimenti con le milizie islamiche in Bosnia. Nei Balcani la capillare infiltrazione dei movimenti islamici più radicali − finanziata con disinvoltura dalle Ngo (Non governmental organization) dei paesi del Golfo Arabico − risale agli anni Novanta. La guerra tra Bosnia e Serbia, tra il 1992 e il 1995, e successi-vamente il conflitto in Kosovo, nel ’99, hanno costituito di fatto l’occasione per coagulare e mobilitare cellule di mujaheddin provenienti da Afghani-stan, Iraq, Cecenia, Libano, pronti a combattere per i “fratelli musulmani”. Personaggi come Osama Bin Laden hanno ricevuto dall’allora presidente della Bosnia, Alija Izetbegovic, passa-porto bosniaco come ringraziamento per la collaborazione fornita nel crea-re una repubblica fondamentalista nei Balcani. La presenza di Bin Laden fu

Intervista ad Antonio Evangelista di Stefania Bizzarri

Il 26 novembre scorso, il mondo ha assistito all’attacco terroristico

nella città indiana di Mumbai, som-mersa repentinamente da un’ondata di violenza fanatica senza preceden-ti. Per ore si sono susseguite spara-torie e deflagrazioni: un commando con esplosivi e armi ha attaccato obiettivi turistici e alberghi di lusso. Oltre cento morti, quasi duecento feriti nella città simbolo della mo-dernità cosmopolita asiatica. La stampa ha seguito faticosamente la cronaca degli attacchi. Solo in un secondo momento è riuscita a divul-gare con precisione l’identità dell’or-ganizzazione terroristica responsa-bile dell’accaduto. Oggi sappiamo che alcuni soggetti del commando erano membri di “Lashkar e Tayya-be” (Esercito del Puro), braccio ar-mato di Al Qaeda in India, compo-nente della galassia del terrore isla-mico che trova in Pakistan sicuri appoggi anche grazie alla complicità dei servizi segreti di quel paese.

Balcani, avamposto europeo della guerra santa? È anche noto, almeno tra gli addetti ai lavori, come i puristi del fondamentalismo islamico si affidi-no alla mafia indiana per operare: «I boss della mafia islamica di Mumbai – scrive Federico Rampini, inviato di «Repubblica» – gestiscono il narco-traffico via satellite dai loro super-yacht al largo di Dubai, allacciano alle-anze con i Taliban afgani, offrono co-

registrata ancora, nel ‘95, in Albania; evento che indusse gli Stati Uniti a denunciare i collegamenti tra l’Uck (esercito di liberazione del Kosovo) e le cellule di mujaheddin, entrambi co-piosamente foraggiati dal traffico in-ternazionale di armi e droga. Terminata la guerra nella ex Iugosla-via, decine di mujaheddin hanno otte-nuto la cittadinanza delle nuove realtà nazionali sorte in quel contesto geo-grafico, procurandosi falsi passaporti, assumendo nuove identità. Alcuni combattenti, deposto il kalashnikov, hanno indossato le vesti di “imam”, professando all’interno delle madras-se fondamentalismo agli orfani della guerra, addestrandoli a divenire “ordi-gni umani” per la causa jihadista. Un fenomeno pressoché taciuto dai prin-cipali circuiti dell’informazione italia-na, probabilmente più concentrati a seguire il processo politico che lo scorso 18 febbraio ha sancito il ricono-scimento dell’indipendenza del Koso-vo. Una realtà, quella delle madrasse-“orfanotrofi”, mai rimossa, bensì ripro-posta e analizzata con perizia dall’at-tuale vice questore aggiunto e capo della squadra mobile di Asti, Antonio Evangelista, già comandante del con-tingente italiano Unmik in Kosovo ne-gli anni 2000-2004. Evangelista ha ap-pena pubblicato per Editori Riuniti University Press Madrasse. Piccoli martiri crescono tra Balcani ed Eu-ropa, opera che ha il pregio di denun-ciare con oggettività una realtà che prolifera al di là dell’Adriatico, a un’ora di volo da Roma. Di cui, purtroppo, giungono alla ribalta mediatica solo le conseguenze più tragiche. Sono pagi-ne di attualità, la cui rilevanza non sta solo nella chiarezza con cui l’autore tratta e ricostruisce il complesso con-testo storico balcanico, ma anche nel-la capacità di mettere in evidenza la “contiguità” tra terrorismo e crimine organizzato. Due territori − Bosnia e Kosovo − che nell’ottica di una “rivoluzione islami-

La fabbrica dei kamikazeIn Bosnia ex miliziani musulmani preparano cellule di terrori-sti pronte a lottare per la jihad. Antonio Evangelista, funziona-rio della Polizia italiana, ha raccolto in un libro storie, intrecci e retroscena di un fenomeno pressoché ignorato dall’informa-zione italiana

Balcani, i campi di addestramento di Al Qaeda

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ca”, come riportato dall’autore «sono reciprocamente complementari, rap-presentando rispettivamente la “fede” e il “braccio armato”, in un quadro di traffici criminali, strumentali al reperi-mento di armi e esplosivi». Bosnia e Kosovo: è qui che inizia il percorso di addestramento per diventare “martiri di Allah”.

Dott. Evangelista, Madrasse rie-sce a fotografare in modo nitido squilibri e instabilità sedimenta-te nel tempo nei Balcani, in par-ticolare laddove il proselitismo

islamico è più radicato. Qual è il rapporto tra questo fenomeno e la criminalità organizzata? Innanzitutto è importante precisare che quando parlo di Madrasse mi ri-ferisco esclusivamente a quella di-storsione della religione che ha crea-to un fenomeno criminale, che cerca di autolegittimarsi vestendo i panni del predicatore. I fatti riportati nel li-bro offrono il riscontro a questa valu-tazione. Se con-sideriamo la fi-gura di Senad Ramovic, terro-rista ricercato a livello interna-zionale, scopria-mo che nasce come traffican-te internaziona-le di ragazze dall’Est e minori, di cui lui per primo era violentatore e sfrut-tatore. Verrà poi arrestato dieci anni dopo in un campo di addestramento “al terrore” nella zona del Sangiacca-to (regione tra Serbia e Montenegro, nda.), dopo aver trascorso lunghi periodi anche in Italia. Un altro esem-pio è Niam Behljulji, detto Hulji, combattente nell’Uck: dopo la guerra compra e vende armi, tanto da poter fornire 15 chili di semtex (esplosivo,

nda.) a due uomini che al momento delle trattative si presentano come terroristi dell’Ira. In realtà erano due giornalisti in incognito del «Sunday Mirror». Rimane il fatto che Hulji era al corrente che i 15 chili non sarebbe-ro stati utilizzati in un cantiere per la lavorazione dei marmi di Carrara. Addirittura dichiara ai sedicenti esponenti dell’Ira di poter armare un esercito di 30/40 persone, offre loro

razzi terra-aria, mitragliatrici, divise… Dispo-neva di un ar-senale che, probabilmente, era fuoriuscito dalle caserme e dai depositi militari dell’Al-

bania durante il collasso delle pirami-di finanziarie (1996). In seguito furo-no recuperati solo “rottami”: le armi vere, quelle importanti, non sono mai state ritrovate.

Qual è il ruolo operato dalle Ngo islamiche? Molte sono una co-pertura di Al Qaeda per infiltrar-si nei Balcani? È un ruolo determinante. Nel libro riporto la vicenda di un pentito com-

Terminata la guerra nella ex Iugoslavia, decine di

mujaheddin hanno ottenuto la cittadinanza bosniaca,

procurandosi falsi passaporti, assumendo nuove identità

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Libano 2007, combattimento in corso tra Hezbollah e l’esercito regolare

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to in un’inchiesta sul Gruppo islami-co armato (Gia), e condannato a 5 anni e mezzo per terrorismo. È con-siderato un personaggio di spicco nell’indagine denominata “Vento di Guerra” del 1997, condotta contro una organizzazione operante in Ita-lia collegata direttamente con il gruppo Gia, e come tale è anche in-serito nell’elenco del ministero dell’Economia come «presunto fi-nanziatore del terrorismo interna-zionale legato ad Osama Bin Laden e Al Qaeda», come riportato da «Il Giornale» del 11/8/2008. Il punto è

droga, ma nella cui inchiesta emerge che proventi guadagnati con il nar-cotraffico erano utilizzati per com-prare armi destinate ai combattenti kosovari. Autorevoli quotidiani nor-vegesi e della Repubblia Ceca hanno denunciano il collegamento tra Do-broshi e il pakistano Arfan Aqdeer Bhatti, ideatore, insieme con altri connazionali, di un progetto per at-taccare le ambasciate di Usa e Israe-le a Oslo.

Dal suo libro emerge in modo organico che alcuni ex combat-tenti sono transitati in Italia, alcuni per sfuggire a catture, al-tri ancora autoproclamandosi “imam”, inneggiando apertamen-te al radicalismo islamico; prati-ca che ha fatto sì che si stigma-tizzasse l’intera comunità mu-

sulmana pre-sente in Ita-lia...P e n s i a m o all’imam tunisi-no Khalil Jarra-ya. In Bosnia era diventato

mujaheddin. Catturato a Faenza, lo scorso agosto, Jarraya è una vecchia conoscenza dell’Antiterrorismo. Nel 2002 era stato arrestato – dopo una latitanza di 4 anni – perché coinvol-

battente, Ali Ahmed Alì Ahmad. Egli stesso afferma: «Ho operato e mi sono infiltrato tramite l’Ngo». Anche Zahid Sadik Sheikh Mohammed, fra-tello di Khaled Sheikh Mohammed, l’ideatore dell’11 settembre, è passa-to tramite Ngo. Il cognato di Khaled, Ramzi Youssef, responsabile del pri-mo attentato alle Torri (26 febbraio del ’93), era dentro una Ngo. Mo-hammed Al Zawahiri, fratello di Ay-man Al Zawahiri, ideatore di Al Qae-da e coordinatore delle attività fi-nanziarie e operative nei Balcani, operava in una Ngo. Dobbiamo cre-dere a una serie di coincidenze esa-gerate o, forse, qualche ruolo, lonta-no da quelli ufficialmente dichiarati, lo hanno queste organizzazioni?

Chi finanzia queste organizza-zioni fondamentaliste? Soggetti presen-ti in vari paesi: Arabia Saudita, Kuwait, Yemen. Questo è un ca-nale di finanzia-mento; è agli at-ti. Sicuramente ci sono altri finanziamenti che ven-gono dal crimine organizzato. Un caso esemplare emerge dalla vicen-da di Prince Dobroshi, un criminale condannato a 15 anni per traffico di

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Le basi logistiche italiane

«Nella prima fase sei un civile, nella seconda un guerriero. Guarda il gruppo della Bosnia: hanno fatto la jihad e ora fanno altro, ma c’è chi aspetta un nuovo momento». A pronunciare queste parole è l’egiziano Abu Saleh Es Sayed, ex imam della moschea di via Quaranta a Milano. Proseliti per incitare alla Guerra Santa, parole che suonano ancora più sinistre se consi-deriamo che sono state intercettate circa un anno prima dell’at-tacco dell’11 settembre 2001 al World Trade Center. Per gli inquirenti, l’ex imam si è inoltre reso «responsabile della falsi-ficazione di documenti per Al Qaeda», attivandosi, nel genna-io 2001, nel fornire passaporti da inviare in America ad aspi-ranti combattenti. Il 17 novembre 2003 (pochi giorni dopo i tragici eventi di Nassirya) le autorità italiane espellono Abdel Mamour, noto come “l’imam di Carmagnola”, accusandolo di propaganda jihadista e di proselitismo. Aveva fatto delle rivela-zioni inquietanti alla stampa, dicendosi sicuro che nel mirino di Al Qaeda ci fossero i militari italiani. L’“imam” nel nostro paese svolgeva un lavoro di consulente finanziario di una ban-ca legata alla famiglia di Osama Bin Laden. Qualche mese prima, la polizia arresta a Milano due seguaci dell’imam Abu

Imad al Masri, il marocchino Jousni Jamal e il tunisino Bouha-ya Maher Abdelaziz. Entrambi erano accusati di avere legami con l’organizzazione qaedista irachena “Ansar al Islam” e di avere reclutato martiri da fare esplodere in Iraq. Nell’estate del 2005 vengono espulsi anche l’imam di Como e il tesoriere della moschea, perché ritenuti pericolosi. A Torino, nel settembre seguente, è espulso Bouriqi Bouchta, imam del-la moschea di Porta Palazzo, accusato di “propaganda e pro-selitismo”. Secondo i rapporti della Digos, nel 2000 aveva promosso una riunione per reclutare volontari da inviare in Cecenia; nella sua moschea era stato ospitato più volte Ben Said Faycal, un estremista tunisino. Bouriqi Bouchta è conside-rato il reclutatore di Salah Sassi, un mujaheddin catturato in Afghanistan dagli americani, ma, soprattutto, la sua moschea era stata il punto di ritrovo dei cinque islamisti espulsi alla fine del 2003 insieme all’imam di Carmagnola, accusati − tra le altre cose − di aver organizzato una colletta per gli autori degli attentati suicidi del 2003 a Casablanca.Lo scorso gennaio 2008 anche a Mohamed Kohaila, 45 anni, marocchino, imam subentrato a Bouriqi Bouchta, è stato noti-ficato il decreto di espulsione “per motivi di ordine pubblico”. La primavera dell’anno prima era stato accusato nella trasmis-sione televisiva Annozero di diffondere sermoni fondamentali-

Il terrorismo religioso può colpire ovunque. L’Italia l’attentato lo ha subito

all’estero, il 12 novembre del 2003 a Nassirya

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Balcani, i campi di addestramento di Al Qaeda

memoria. Credo sia importante re-golamentare il fenomeno. Nel luglio del 2007, in parlamento fu presenta-ta una proposta di legge bipartisan, sollecitata dalla stessa Unione mu-sulmani italiani (Umi), fondata sull’istituzione di un registro nazio-nale degli imam, tenuto dal ministe-ro dell’Interno. Il testo si rivolge agli imam in possesso di residenza in Italia e privi di condanne penali. Ri-tengo sia questa la prospettiva verso cui si dovrebbe guardare. È proprio in questa circostanza che il miglior consigliere in grado di indicarci chi ha i titoli per proporsi come imam è la parte sana dell’Islam.

A livello investigativo, inoltre, il lavoro si complica perché molti mujaheddin all’indomani della distruzione dell’ex Iugoslavia hanno ottenuto nuove identità, quindi nuove cittadinanze...Si tratta di questione oggetto di di-battito a livello internazionale, tant’è che in Bosnia è stata nominata una commissione per rivedere tutte que-ste cittadinanze. Il problema nasce quando a un pronunciamento della Commissione favorevole a revocare la cittadinanza non segue l’esecuzio-ne del provvedimento. Ma ci sono anche segnali sicuramen-te positivi. Sul versante italiano è

che soggetti come Jarraya non do-vrebbero essere messi in condizione di operare come imam. Un esponen-te di quel calibro non dovrebbe ave-re lo spazio per “predicare”, perché il danno maggiore lo fa, prima che a noi, alla comunità musulmana sana che vive pacificamente in Italia.

Come regolamentare la situazio-ne? Questi “imam”, in realtà, nulla han-no a che fare con i veri imam che devono studiare e interpretare il Corano, non limitarsi a conoscerlo a

giusto riconoscere la volontà di co-stituire squadre investigative miste insieme ai paesi dell’area balcanica per contrastare la criminalità orga-nizzata, il traffico di esseri umani e, in Bosnia, il terrorismo. Si tratta di un’attività preventiva importante.

Che cosa intende dire quando nel libro scrive che Al Qaeda rappre-senta una rivolta islamica globa-le, non solo una tradizionale or-ganizzazione terroristica? Al Qaeda non è un’organizzazione terroristica nel senso in cui siamo abituati a pensare, mi riferisco al terrorismo interno di estrema sini-stra e destra. Consideriamo il feno-meno della mafia, ne conosciamo mandamenti, capi-zona, padrini, sol-dati: c’è una struttura organizzata. In questo caso se catturo un gruppo, una cellula o un esponente, posso arrivare a ricostruire l’intero organi-gramma. Al Qaeda non ha una strut-tura nel senso tradizionale. La diffi-coltà dell’indagine sta nel fatto che i suoi membri non seguono schemi fissi perché riflettono culture e me-todi differenti tra loro. Siamo di fronte a un “franchising del terrore”. Il terrorismo religioso può colpire ovunque. L’Italia l’attentato lo ha su-bito all’estero, il 12 novembre del 2003, a Nassirya. n

sti in una moschea in via Cottolengo, vicino a Porta Palazzo. L’imam Kohaila era stato filmato da telecamere nascoste: il vi-deo trasmesso il 29 marzo dal programma condotto da Miche-le Santoro mostrava fondamentalisti impegnati in propaganda all’interno della moschea e l’incitazione dell’imam ai musul-mani a non integrarsi con cristiani ed ebrei, considerati infede-li. Inoltre, nella moschea erano state mostrate fotocopie di un giornale vicino al gruppo di Al Qaeda. Il discorso pronunciato dall’imam in quell’occasione è tra gli elementi che costituisco-no il fascicolo raccolto dalla Digos in mesi d’istruttoria. Per ultimo Venezia. La Digos della Questura di Venezia ha eseguito, lo scorso 20 aprile, 26 perquisizioni domiciliari nei confronti di stranieri, in maggior parte algerini, residenti nelle province di Vicenza, Venezia, Padova, Brescia, Firenze, Caser-ta, Como, Cuneo e Trento, indagati dalla Procura della Repub-blica di Venezia nell’ambito di un procedimento penale per l’ipotesi di reato di associazione con finalità di terrorismo in-ternazionale nonché per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e ricettazione. L’operazione giunge al termine di un’indagine avviata dalla Digos di Venezia a partire dal marzo del 2007 in direzione di ambienti integralisti islamici gravitan-ti intorno alla moschea di via dei Mille a Vicenza, guidata da un imam yemenita anch’egli indagato. Il particolare interesse

investigativo dell’inchiesta deriva, tra l’altro, dal fatto che nel luogo di culto vicentino erano approdati tre estremisti algerini, tutti provenienti da Napoli, dove erano stati già coinvolti, a diverso titolo, in attività di falsificazione documentale a soste-gno di gruppi jihadisti. Le indagini della Questura di Venezia, sviluppate capillarmente anche in ambito internazionale, han-no documentato il fanatismo ideologico-religioso di alcuni degli indagati. Uno di essi, in particolare, celebrando il “mar-tirio” come modello di lotta e indicandolo come la strada da seguire nel conflitto islam-occidente, è giunto a giudicare gli attentati dell’11 settembre 2001 una “prova” della grandezza dell’Islam. L’attività investigativa condotta ha evidenziato, inol-tre, come gli stranieri indagati auspicassero la caduta dell’at-tuale Governo algerino e fossero animati da profondo rancore nei confronti degli italiani, degli ebrei nonché da aperto di-sprezzo della cultura occidentale. Dalle indagini svolte dalla Digos della Questura di Venezia è inoltre emersa l’esistenza di una rete – gravitante attorno a un imam di una moschea del casertano – di supporto logistico in favore di clandestini prove-nienti dall’area magrebina, ai quali venivano offerti ospitalità, assistenza economica e documenti contraffatti per restare sul territorio nazionale.

s.b.

Kenya, scuola coranica