biglietto di terza classe

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Silvia Pattarini, mainstream, storico, emigrazione

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SILVIA PATTARINI

BIGLIETTO DI TERZA CLASSE

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BIGLIETTO DI TERZA CLASSE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-537-3 Copertina:Immagine proposta dall’autore

Prima edizione Maggio 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, fatti storici, siano essi real-mente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale. La protagonista è realmente esistita, ma il racconto è frutto di pura fantasia anche se con riferimenti ad alcuni fatti e cose reali.

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Alla memoria dei miei antenati Per la memoria

dei miei figli

NONNA L’occhio mio

Accarezza mesto Il giallo e l’arancio

Del giorno che Inesorabilmente

Volge al tramonto Come te, nonna.

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IL CASSETTO DELLA NONNA Era una splendida giornata di primavera sul finire degli anni ‘90, anche se non ricordo con certezza se fosse stato il 1997 o il 1998: me ne stavo seduta sulla soglia della casa di mia nonna, godendomi il tiepido sole primaverile, e, completamente assorta nei miei pensieri, udivo il sibila-re del vento in lontananza, mentre il canto del cuculo nel boschetto sottostante annunciava l’imminente arrivo della bella stagione. Osser-vavo di fronte a me il monte Armelio che da secoli, sempre uguale, immobile, si ergeva maestoso, impassibile sia alle vicende umane sia al sibilar del vento tra le fronde degli alti pini, che da oltre mezzo secolo oscillavano flessuosi, si muovevano lenti e aggraziati trascinati dal ven-to, impregnando la zona di un delicato profumo di resina. Pensavo probabilmente a quella che potrebbe essere stata la prossima meta delle mie vacanze estive, quando fui distratta dalla voce autorevole di mia nonna che mi chiamava riportandomi alla realtà. «Silvia! Vieni ad aiutarmi a cercare una carta?». Mi chiese quasi con disagio, sapendo che da sola non era più in grado di leggere, perché il distacco della retina le aveva da tempo causato dei seri problemi alla vista. Nonostante quel suo grave handicap, all’età di ottantacinque anni era ancora autosufficiente e riusciva a destreggiarsi con la memoria in ogni angolo della casa, talvolta riordinando e cuci-nando per sé e per mio nonno. Nel corso degli anni, con la sua pazienza e la sua bontà unite a una buona dose di autorevolezza, aveva saputo conquistare tutta la mia sti-ma e il mio rispetto: come avrei potuto dire di no alla mia nonna preferita? Cercare una carta significava mettere il naso nel meraviglioso tiretto della credenza, un piccolo cassetto pieno di mille oggetti e scartoffie, dove di solito si trovava di tutto, tranne la cosa che si stava cercando. Quel piccolo cassetto aveva sempre suscitato in me grande attrazione fin da bambina, quando andavo di nascosto a cercare le caramelle, per-ché sapevo che, come dalla borsa di Mary Poppins, da lì uscivano magicamente oggetti straordinari.

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Una volta estratto il cassetto dalla credenza e postolo sul tavolo della cucina, dove c’era più spazio, cominciammo l’ardua ricerca. Tra vecchie buste sgualcite, bigliettini di auguri di Natale e Pasqua da-tati anni settanta, vetuste cartoline delle fidanzate di mio padre, caramelle scadute da chissà quanti anni, vecchie fotografie in bianco e nero, un pacchetto di cicche Brooklyn di colore porpora (quel gusto ter-ribile di qualche decennio prima) ormai rinsecchite, bottoni di ogni tipo e avanzi di saponette usate nei lavori di sartoria, una pallina utilizzata per rammendare i calzini e un antico fuso di legno intagliato a mano, mi capitò tra le mani una vecchia busta spiegazzata. Provai ad aprirla per verificarne il contenuto e… incredibile sorpresa! Mi ritrovai tra le mani un vecchio biglietto, datato 20 agosto 1919. La prima cosa che balzò ai miei occhi e mi portò subito a sorridere, fu la prima frase che lessi su quel biglietto ingiallito, piegato in quattro e sgualcito dal tempo: “BIGLIETTO da essere conservato dal passeggie-re”. Sicuramente mia nonna aveva rigorosamente seguito alla lettera quell’indicazione e lo aveva conservato integro per tutti questi anni! Successivamente una dicitura scritta a caratteri cubitali: “LA VELOCE navigazione italiana a vapore”. Accanto a questa voce, sulla sinistra, uno stemma ovale con un’ancora intrecciata a una bandiera con una croce col contorno che ripeteva la stessa dicitura. Posta sotto e centrata nella pagina la frase seguente: “BIGLIETTO D’IMBARCO PER N. …3/4….. POSTI DI 3° CLASSE .” Seguivano spazi in bianco compilati a mano, scritti con pennino e in-chiostro, riportanti il nome e il cognome di mia nonna e sua sorella. E via dicendo. «OOHH...!!! Ma guarda...! È il biglietto di quando son venuta a casa dall’America!» esclamò mia nonna, non troppo sorpresa di averlo ritro-vato, consapevole di averlo riposto in un luogo sicuro chissà quanti anni prima. «Nonna! Ma è bellissimooo! Posso tenerlo per ricordo?» le domandai sperando in una risposta affermativa. «Si ma devi conservarlo anche tu come ho fatto io! È un ricordo dell’America, di quando ero una bambina!». «E ora cosa ti ricordi dell’America?». «Il ponte di Brooklyn, la Statua della Libertà e l’aiscrim!» (ice-cream). «E poi? Non ricordi altro?».

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«Mi ricordo che andavo all’asilo e le maestre mi facevano fare dei di-segni con i pennelli e poi ci facevano ritagliare e incollare». «Sei andata all’asilo a New York?» chiesi stupita dal fatto che all’asilo non c’ero andata nemmeno io, nonostante fossi nata alla fine degli anni sessanta. «Sì! Di giorno i miei genitori lavoravano e io andavo all’asilo... non potevo mica stare in casa da sola!». «Che lavoro facevano i tuoi genitori, ricordi?». «Ricordo che il mio povero papà vendeva i gelati con un carrettino. E quando ne avanzava uno me lo lasciava mangiare. Poi qualche volta mi davano la ciunga». «Cos’era la ciunga?». «La cicca! Ma non erano mica come quelle di adesso, erano delle palli-ne rotonde, o delle volte dei quadratini colorati. Ma poi ci veniva il mal di denti…». «E tua mamma cosa faceva?». «Mia mamma di giorno lavorava in fabbrica, poi di sera faceva i sigai (sigari) oppure confezionava dei fiori di carta. Ricordo che abitavamo in alto e, per fare la spesa, mandavamo una corbella (panierino) attac-cata a una fune giù dalla finestra con dentro la lista e il negoziante ci mandava su la spesa: il pane, il latte, le uova e via dicendo». «Cos’altro ricordi?». «La sera ci chiudevamo in casa e mia mamma mi mandava a letto, ma delle volte avevo paura!». «Perché?». «Perché c’erano degli uomini cattivi, che giravano di notte con dei cap-pucci bianchi sulla faccia, solo con due buchi per gli occhi… e… mamma mia! Se ci prendevano ci facevano la festa!!». «E chi erano?». «Non lo so, ma ricordo che avevamo tutti paura. Di solito cercavano i neri, e se li prendevano… ma quando non li trovavano prendevano an-che i bianchi! Prendevano anche qualche italiano, e se ci prendevano ci ammazzavano…». «E perché volevano ammazzarvi?». «Mah…perché non eravamo… mericani!». «Ti ricordi altro?». «La mia povera mamma mi raccontava che una volta, quando noi bam-bini non eravamo ancora nati, lavorava in una fabbrica che si era incendiata, era morta tanta gente! Lei si era salvata, era stata fortunata, mi raccontava sempre che erano morte tante donne giovani come lei.

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Poi l’avevano chiamata al processo a testimoniare. Mi diceva sempre che al processo aveva avuto molta paura». «Perché siete tornati a casa?». «Chi lo sa? Io avevo solo sei anni. Mi ricordo che quando sono arrivata a Perino la gente mi fermava per strada e mi facevano parlare in meri-cano! Se rispondevo, mi regalavano una caramella o dei biscotti o qualcosa d’altro. Invece i bambini mi prendevano in giro e io volevo prenderli a schiaffi!» mi rispose con quel suo modo di parlare che era un misto di dialetto tradotto in un italiano sgrammaticato che sapeva tanto di comico. «Ma non ti ricordi qualche altra parola?». «No! Col tempo mi sono dimenticata quasi tutto! Mi ricordo solo che per salutare si dice baybay! Mi ricordo anche le parole di una canzonci-na che ci insegnavano le maestre all’asilo che faceva così: collj nai ne dande ben! Yolla fai e rai-duei…» attaccò quella improvvisata melodia che avevo già sentito tante volte, che col tempo si era affievolita con lei, cancellando quasi del tutto ogni traccia di americano. Alla fine la famosa carta che stavamo cercando non la trovammo mai. In compenso io mio guadagnai quel biglietto che conservai come una reliquia, in un posto sicuro. Dopo una decina d’anni quel vecchio bi-glietto, che in me suscitò già da subito grande interesse, decise di prendere vita turbando i miei sonni, così nel buio di una notte insonne tornai a cercarlo. Lo studiai a lungo, per molto tempo, e ogni volta che lo guardavo, pa-reva volesse suggerirmi qualcosa. Studiandolo meticolosamente scoprii che celava miriadi di informazioni e una voce dentro di me mi suggeri-va di cercare, cercare. Sì, ma cercare cosa? Io continuai a cercare per alcuni anni, senza sapere esattamente cosa stessi cercando, finché un giorno su internet, trovai qualcosa di interessante e successivamente recuperai altre preziosi informazioni. Nell’estate del 2010 capitai poi sul sito del Museo di Emigrazione di Ellis Island che mi aprì un mondo nuovo, fatto di lunghi elenchi di nomi e cognomi, di liste passeggeri, di indirizzi, di navi… finalmente ero capitata nel posto giusto e, con un pizzico di fortuna, avevo trovato tutto, ma proprio tutto quello che stavo cercando. Probabilmente è stato lo spirito dei miei antenati a guidarmi in questa affannosa, instancabile ricerca, invitandomi a cercare, tra quelle miriadi di nomi, scritti a mano e sgualciti dal tempo, spesso scritti in lingua inglese e incomprensibili, con storpiature di nomi e cognomi. Nono-stante queste difficoltà giunsi al traguardo che mi ero prefissata: cercare

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e comprendere le motivazioni che avevano spinto la mia bisnonna a emigrare, capire quelle che erano le difficoltà e i problemi di quegli anni che spingevano milioni di giovani italiani ad andarsene dal nostro paese. Trovai la data esatta di partenza e il nome della nave con la quale la mia antenata salpò da Genova, nonché la data del suo arrivo a Ellis Island, che casualmente coincide con il mio giorno di nascita. Così, ascoltando vecchi racconti che si tramandano di padre in figlio, o meglio da nonna a nipote, e utilizzando i dati raccolti, uniti a una buona dose di immaginazione sono salpata a bordo di una straordinaria mac-china del tempo, percorrendo un viaggio a ritroso di oltre un secolo, riuscendo a compiere il miracolo, finora mai nemmeno lontanamente sognato, di scrivere una storia. Ispirandomi al lungo viaggio intrapreso dalla mia antenata oltre un secolo fa, e unito alle informazioni frutto di scrupolose ricerche, nonché i racconti della nonna, sono riuscita a com-porre un racconto con fondamenti storici, e una trama frutto di fantasia.

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1903 Un’altra lettera era arrivata e come al solito a lei toccava il compito, a volte piacevole, a volte ingrato, di leggerla. Lina era l’unica ragazza della zona a saper leggere e scrivere, per questo motivo, poiché era una persona discreta e non andava a raccontare in giro i fatti altrui, ogni qualvolta arrivavano delle lettere dalla lontana America, tutti correvano da lei, impazienti di avere notizie. Per ringraziarla le portavano dei pic-coli doni: chi delle uova quando era la stagione, chi della frutta o della verdura, chi un pane che in certi giorni di carestia non era cosa da poco, o chi, non avendo nulla per contraccambiare il favore, si limitava a dir-le: «Per ora ti ringrazio». Naturalmente c’era anche qualcuno che le chiedeva di rispondere alle lettere, quindi spesso doveva perdere tempo a scrivere. Era piuttosto affascinata dal Nuovo Continente poiché ormai ne aveva lette e sentite di tutti i colori. Qualcuno dotato di fervida fantasia si divertiva a scrive-re che a Nuova York ci sono case che arrivano a toccare il cielo, non si salgono le scale a piedi ma si entra in una ‘porta magica’ che trasporta direttamente fino alla cima del palazzo, larghe strade lastricate d’oro, ponti sospesi nell’aria con cavi di acciaio, acqua che esce dai rubinetti direttamente dentro le case, luce in casa, zitelle che trovano marito, i bambini vanno tutti a scuola, cibo e lavoro per tutti... insomma una vera pacchia! Alcuni agenti delle compagnie di navigazione, sparsi in ogni regione d’Italia, cercavano di diffondere un vero e proprio mito della “Merica”, esponendo alle ingenue folle tutto ciò che di allettante e posi-tivo avrebbero incontrato gli emigranti nella nuova patria. Il loro era un compito piuttosto facile, considerato che in quegli anni la maggior parte della popolazione viveva tra stenti e fatiche e quindi non avevano nulla da perdere, bensì forse qualcosa da guadagnare una volta giunti nel nuovo mondo. Con la loro opera di convinzione, in pochi decenni mi-gliaia di europei attraversarono l’oceano, incrementando notevolmente i profitti delle compagnie di navigazione, che naturalmente avevano tutto l’interesse a reclutare passeggeri. Talvolta la loro opera non si limitava a convincere aspiranti emigranti, ma in certi casi persone prive di scru-poli si spingevano fino a prestiti in denaro per l’acquisto dei biglietti,

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gravati però da interessi usurai. Così che alcuni malcapitati si ritrovaro-no a dover vendere o ipotecare tutti i loro averi, anche bestiame o masserizie, per estinguere i loro debiti. Un giorno Lina sentì parlare di una cosa che la incuriosiva molto: il tele fon. Con la sua fantasia di umile contadina, non riusciva proprio a immaginare che forma curiosa potesse avere il tele fon; qualcuno lo descriveva come una specie di bicchiere dentro il quale si parlava e dall’altra parte c’era un’altra per-sona che comunicava con te. «Come è possibile parlare dentro un bicchiere?» si domandava spesso senza riuscire a trovare una risposta. Sicuramente qualcuno si divertiva a raccontare burle, finché un giorno anche sua sorella le confermò l’esistenza di quell’oggetto, scrivendole nel suo solito italiano sgrammaticato: “… se tu ciavesti il tele-fon non serviresse piu scriverci delle lunghe lettere, ma si potrebe parlarci dirretamente! Capisci? Tu sentiressi la mia voce come se io fosi li vicino a te ed io sentiressi la tua come se tu fosti qui vicino a me!” “Che diavoleria sarà mai?” pensava Lina senza riuscire a trovare con la sua mente una forma logica che assumesse le sembianze di questo tele-fon. Purtroppo aveva anche letto di cose terribili che erano successe durante il lungo viaggio per mare: di persone colpite da epidemie di varicella o morbillo, meningite, polmonite, che morivano sulle navi e i loro corpi venivano gettati in mare nella notte; di madri che vedevano morire i loro piccoli figli sul bastimento e che straziate dal dolore si gettavano in mare con loro; di naufragi dovuti al mare in tempesta, ad-dirittura di un traghetto che proprio nella baia di New York fu distrutto da un terribile incendio, causando oltre cento morti e altrettanti feriti. Stavolta la lettera era di sua sorella Emilia, partita qualche anno prima col marito Giulio insieme a migliaia di italiani che, come loro, senza un soldo ma carichi di speranze andavano alla ‘Merica’ in cerca di fortuna: “New York febbraio14, 1903 (…) ho trovatto un buon lavoro preso una familia benestante, (… ) anno il tele-fon e devo sempre rispondere io, se ce ne fose uno anche li potremo sentirsi molto speso e in tempi rapidi, ( … ) la paga è discreta e la mia padrona è molto generosa tuti i giorni mi lassia portare a casa li avanzi e mi regala senpre dei panni che non usa piu e anche dele scarpe mollto bele (…) e ora mi anno dat-to anche una casa in afitto…una bela casa con acua che esce dal rubineto e di sera non serve neanche la lucerna perché cè la luce , con un letto comoddo di piume doca e quando piove non piove neanche dentro (….) poi la domenica andiamo tuti a Messa in una grande Cat-tedrrale, grande tre volte il duomo di Bobbio e fano tute le proccesioni

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come li da voi (…) Lina devi proprio venire anche tè alla Merica , il lavoro te lo catto io che conosco dei signori che ci serve una serva che sa cucire bene e io ciò deto che la mia sorella è una bravisima sartora, vieni che ti aspettano (…) e magari ti trovi anche un marito(…) Tua sorella Emilia Lina aveva quasi vent’anni ed era una bella ragazza, non altissima, al posto degli occhi sembrava avere due pietre azzurre incastonate tra le palpebre, i capelli castani che raccoglieva in un ciuffo morbido al cen-tro della testa, il volto ovale con la fronte bassa e un bel colorito roseo, magra come la maggior parte delle persone a quel tempo, mani lunghe e affusolate un po’ screpolate dal frequente contatto con acqua e cenere. Purtroppo da bambina la sfortuna si era accanita contro di lei, e un giorno, mentre si adoperava ad aiutare il padre ad accatastare i covoni di grano, era caduta accidentalmente su una pietra appuntita provocan-dosi una terribile frattura al ginocchio sinistro. Il medico aveva detto loro che l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di amputarle la gamba, provocandole così anche un grave trauma psicologico. Come avrebbe fatto ad aiutare i genitori nelle faccende e a giocare an-cora con i suoi amici? Sarebbe diventata una storpia e l’avrebbero derisa per tutta la vita! Era una condizione inaccettabile, sia per lei sia per suo padre che non digeriva l’idea di vederla soffrire così. In cerca di una soluzione alternativa all’amputazione, suo padre Rinaldo aveva saputo che nel convento di Bassano, vicino a Rivergaro, c’erano delle brave suore che curavano i bisognosi, così una mattina caricò la figlia sul carretto trainato da un mulo e la portò al convento affidandola alle cure delle donne.

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DIECI ANNI PRIMA Rinaldo bussò alla porta del convento. Si affacciò all’uscio una giovane suora che indossava un abito nero e lungo con un grande cappello bianco sul capo che disegnava ai due lati due ampi triangoli, un viso candido, bianco come la neve. La suora scrutò attentamente in volto quello sconosciuto, che portava un cappellaccio rovinato e unto, ornato da una lunga piuma di pavone dai colori sgargianti, e la barba incolta di qualche giorno. Avendo nota-to un’ombra cupa nei suoi occhi azzurri, temendo che fosse un poco di buono, senza lasciargli nemmeno il tempo di parlare lo invitò ad andar-sene. «Se vuole qualcosa da mangiare deve passare tra un paio d’ore, ora mi dispiace ma non abbiamo nulla da offrirvi signore» A quelle parole inaspettate, l’uomo intese di essere stato scambiato per un mendicante. «Mi perdoni sorella, non sono qui per chiedere l’elemosina, mi serve aiuto per mia figlia. La mia bambina qualche giorno fa è caduta su una pietra appuntita e ha una gamba dolorante e malconcia. Mi hanno sug-gerito di chiedere il vostro aiuto perché il dottore dice che l’unico modo per aiutarla è quello di tagliare la gamba! Non posso credere che non esista un altro modo. Vi prego sorella, per favore, aiutateci! Siamo di-sperati». La giovane suora si voltò e lanciò un rapido sguardo verso quella bam-bina dalla gamba fasciata e dolorante, con la benda bianca intrisa di sangue, coricata su quel vecchio carretto di legno, priva di forze, dal volto pallido e triste. Intuì quale fosse il reale motivo della preoccupazione di quel poverac-cio e le uscì una vocina sottile, quasi impercettibile, con evidente imbarazzo. «Attendete un attimo, chiamo la Madre Superiora». In pochi minuti arrivò Suor Lucia. Non appena vide la bambina sdraiata su quel carretto, così pallida in viso e la gamba con una fasciatura improvvisata, provò una morsa al cuore. Le tornò alla mente un giovane soldato, ferito in guerra alcuni

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anni prima, che purtroppo non era riuscita a salvare. Il suo istinto le suggeriva che doveva intervenire subito, prima che fosse troppo tardi. Si avvicinò a quel vecchio carretto malandato e, con la mani giunte co-me fosse in preghiera, scrutò negli occhi il padre che riusciva a trattenere a stento le lacrime. Poi, cercando di sdrammatizzare la situa-zione, prese fiato e coraggio. «Vediamo un poco cosa ha combinato questa bella bambina» disse con voce simpatica e rassicurante rivolgendosi a Lina e toccandole delica-tamente la gamba dolorante. «Hai! Mi fa male» si lamentò la piccola con gli occhi sofferenti e gonfi di lacrime. «Poverina! Hai proprio una brutta ferita, ma vedrai che con l’aiuto di nostro Signore riusciremo a guarirti» aggiunse suor Lucia, dopo averle lentamente sbendato quella rudimentale fasciatura insanguinata. «La ferita si sta infettando» affermò mentre le posava la mano sulla fronte. La fronte della piccola scottava, probabilmente aveva la febbre. «Sua figlia ha la febbre bisogna intervenire immediatamente con le cure adeguate! Suor Angelica… presto! Prepari subito l’infuso di sambuco e radice di salice» urlò rivolgendosi alla consorella più giovane. In segui-to le sorelle, aiutate da Rinaldo, scaricarono la bambina dal carretto e la adagiarono su una lettiga per trasportarla all’interno del convento. Successivamente si rivolse al padre della piccola. «Credo di potervi aiutare buon uomo, però dovrete lasciare la bambina qui al convento per qualche mese. Se volete potete rimanere qui con lei per qualche tempo. La brutta ferita necessita di medicazioni frequenti. Prima di tutto dovremo curare l’infezione, prima che degeneri e causi complicazioni più gravi, poi una volta guarita occorrerà del tempo per la ginnastica di riabilitazione, che sarà la cosa più complicata per una bambina. Le prometto che faremo del nostro meglio per aiutare questa piccola creatura!» Le parole della suora sollevarono un poco il morale ormai a terra del padre della piccola, che si immaginava già di vedere la figlia con le grucce. «Credete che ci siano delle possibilità che la mia bambina guarisca sen-za dover tagliare la gamba?» «Faremo tutto il possibile! Ora pensiamo a curare l’infezione, poi spe-riamo bene. Nel frattempo voi pregate, pregate perché Nostro Signore aiuti la vostra figliola. Siamo nelle Sue mani divine» «D’accordo! Pregheremo! Io e mia moglie e tutti i miei figli preghere-mo, pregheremo anche notte e giorno se sarà necessario! Per vedere di

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nuovo mia figlia camminare farò qualsiasi cosa» esclamò l’uomo come se fosse stato folgorato da una luce divina, che lo invitava a essere ot-timista. «Grazie suora, vi sono estremamente riconoscente, spero un giorno di potermi sdebitare con voi! Per ora accettate questa forma di formaggio e delle uova belle fresche, in segno di riconoscenza. Non vi offendete mica vero?» esclamò l’uomo, piuttosto impacciato, consegnando un fagotto tra le mani sudate della suora, il cui lieve sorriso lasciò trapelare che quel piccolo dono era ben accetto. In seguito Rinaldo si rivolse alla figliola. «Dovrai restare qui, con queste brave suore per un po’ di tempo, così ti cureranno e guarirai presto, vedrai! Appena potremo io e la mamma verremo a trovarti per vedere come stai! Ora però devo tornare a casa, ciao bambina mia, comportati bene, mi raccomando» sospirò l’uomo mentre si allontanava dalla figlia velocemente, col cuore in gola, per nascondere le lacrime, ma lei lo richiamò. «Papà! Papà! Aspettate un attimo, voglio abbracciarvi». Gemette mentre una grande lacrima le scendeva sul bel visino tondo dalle gote pallide e incandescenti. Suo padre le si avvicinò e lei lo strin-se forte forte tra le sue esili braccine mormorandogli con un filo di voce: «Mi mancherete tanto voi e la mamma! Portate un bacio alla mamma da parte mia! Vi voglio tanto bene a tutti e due» disse la piccola disto-gliendo lo sguardo mentre suo padre saliva sul carretto e si allontanava da lei, salutandola con la sua mano grande, segnata dal tempo e dalle fatiche. Dopo poche decine di metri il carretto si arrestò di colpo e l’uomo tornò indietro. Non poteva abbandonare la figlia proprio ora che stava male! La sua coscienza non glielo permetteva. «Non posso lasciarti qui da sola mi fermerò anch’io fino a quando ti sarà passata la febbre». Suor Lucia in cuor suo confidava in un gesto simile. «Ha fatto la scelta più giusta per sua figlia, il Signore gliene renderà merito!». Lina ebbe la febbre alta per diversi giorni. Suo padre e le suore la cura-vano costantemente, con infusi e unguenti a base di erbe officinali e tante preghiere. Finalmente una mattina si svegliò sfebbrata e anche la gamba pareva stare molto meglio. Suo padre, che in quei giorni non l’aveva mai lasciata sola nemmeno per un attimo, decise che per lui era giunto il momento di tornare a ca-sa. Lina invece si fermò ancora al convento per la ginnastica di

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riabilitazione che fu molto lunga e difficile. Occorsero circa due anni, alle pazienti suore, per rimetterla in piedi. Le suore riuscirono gradualmente a guarirla e a farle accettare quella nuova condizione di ‘zoppa’, perché così sarebbe rimasta per tutta la vita. Vedendola spesso triste suor Lucia pensò che le sarebbe stato di grande conforto impegnarsi in qualche attività che la distogliesse dai soliti pen-sieri e le insegnò in un primo tempo a cucire e ricamare. «Se non puoi usare le gambe, userai le braccia» le ricordava spesso Suor Lucia. «Sei diventata brava a cucire e anche a ricamare. Ti piace questo lavoro?» Le domandava ogni tanto vedendola sempre mental-mente assente, persa nei suoi pensieri. «Sì!» rispondeva lei con fare di compiacenza, come a non voler delude-re la suora che si era tanto adoperata per insegnarle quel mestiere. In realtà cucire, in quel momento particolare della sua vita non la entu-siasmava più di tanto. Pensava sempre alla sua povera gamba zoppicante, ai suoi amici che giocavano e correvano sereni, alle corse nei campi, ai salti in mezzo ai boschi. Pensava che non sarebbe più riu-scita ad arrampicarsi sul fico, facendo a gara con le sue sorelle a chi arrivava prima, e nemmeno sul ciliegio. Quei pensieri si insidiavano pericolosamente nella sua fragile mente di bambina, rischiando di rovinarle l’esistenza; si rintanava nella sua stan-zina dove piangeva di nascosto. Non vedendo un significativo miglioramento dell’umore, suor Lucia pensò di provare a insegnarle a leggere e scrivere. «Da oggi proveremo a usare anche la mente» le strillò un giorno Suor Lucia, che ormai non sapeva più a che santo votarsi per vederla sorride-re. I risultati furono sorprendenti, non solo perché apprendeva molto fa-cilmente ma soprattutto perché scomparve la tristezza dai suoi occhi e tornò a vivere serenamente come ogni bambina della sua età. Ora aveva un motivo valido per tornare a sorridere. Inoltre pensava alla bella figu-ra che avrebbe fatto con i suoi amici e i suoi famigliari che, anziché deriderla o vergognarsi di avere una figlia zoppa, sarebbero stati orgo-gliosi di lei. «Finalmente ti vedo sorridere» le disse un giorno la suora. «Abbiamo trovato qualcosa che ti interessa davvero! Brava, anche questo è tutto giusto». La bambina aveva appena finito di leggere correttamente tutte le lettere dell’alfabeto che aveva scritto con cura su un quadernetto.

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Nel giro di qualche mese imparò a leggere e scrivere correttamente. Lina si rendeva conto della fortuna che aveva avuto: era tutta entusiasta sapendo che i suoi genitori non avrebbero mai potuto mandarla a scuo-la, perché per studiare ci volevano molti soldi e loro davvero non ne avevano, erano solo dei contadini, grandi di cuore e di spirito ma pove-ri, tanto tanto poveri! Si impegnò per imparare al meglio che poteva, sapendo che così avreb-be fatto una bella sorpresa ai suoi genitori, naturalmente analfabeti, come la maggior parte della gente di campagna di quell’epoca. Quando giunse il tempo di tornare a casa, suor Lucia le regalò della carta da lettera con un pennino, un calamaio pieno zeppo di inchiostro nero, una piccola Bibbia da leggere per continuare a tenersi in esercizio e una corona del rosario per recitare le preghiere tutti i giorni. Non ave-va mai visto una corona del rosario così bella che si illuminava al buio. Il giorno della partenza, Lina attese con ansia l’arrivo di suo padre con il carretto per portarla a casa. Lei avrebbe voluto percorre la strada a piedi per non far pesare al padre la fatica del suo trasporto, ma la sua gamba non gli avrebbe permesso di fare più di un paio di chilometri senza fermarsi e con andatura lenta, poi avrebbero dovuto riposare per ameno un’ora, ci sarebbero voluti due giorni per giungere a casa. «Grazie suor Lucia, questa corona è bellissima, la porterò sempre con me e tutte le volte che la stringerò tra le mani mi ricorderò di lei e di tutto quello che ha fatto per me!». Suor Lucia la strinse a sé in un abbraccio affettuoso, quasi materno. Si era affezionata alla bambina e ora le dispiaceva che se ne andasse. Lina si infilò al collo la corona del rosario come fosse una collana e mentre salutava tutte le consorelle salì sul carretto. «Sono molto contenta di tornare a casa! Ora sto bene e ho una bella sorpresa per voi e la mamma! Così non dovrete vergognarvi di avere una figlia zoppa» esclamò la ragazzina. Suo padre la abbracciò tenera-mente. Qualche ora più tardi giunsero al paese. Varcò il portone di casa e, dopo aver salutato sua madre che la attendeva con un misto di gioia e ansia, si sedette su una vecchia seggiola impagliata, facendosi un poco di spa-zio su quel pesante tavolino di legno di noce, imbrattato da un fiasco di vino, briciole di pane e qualche verdura appena raccolta. «Mamma! Padre! Ho una sorpresa per voi!». Prese in mano il libro regalatole da suor Lucia e iniziò orgogliosamente a leggere. I genitori ammutolirono: rimasero incantati dalla loro figlia che aveva imparato a leggere e, dimenticandosi della sua gamba zoppi-

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cante, come se si trattasse di un evento sovrannaturale, corsero ad avvi-sare tutto il vicinato. «Correte, correte! È successo un miracolo! Lina sa leggere! Lina sa leggere!». Urlava sua madre esultante di gioia richiamando l’attenzione dei vicini che accorsero a contemplare la bambina, scrutandola bene, come fosse una santa. «Ma hai imparato anche a scrivere?» Domandò la madre incuriosita dalla figlia che di fronte a un gruppo di persone stava leggendo un pas-so della Bibbia. «Sì» rispose la bambina. Poi andò a prendere la carta da lettera che le aveva regalato suor Lucia e iniziò a scrivere una lettera indirizzandola proprio alla suora. Una folla di gente si radunò intorno alla sua casa con tante lettere e car-toline da farle leggere. La sua fama si sparse ben presto in giro, prima per tutto il paese, poi la voce giunse anche ai paesi limitrofi, attraverso un passaparola tra vici-ni, e tramite la figura popolare della lingera o leggera che, girovagando di paese in paese era sempre portatore di novità. In breve tempo arriva-rono persone da tutta la valle: iniziava in questo modo la sua ‘carriera’ di lettrice e scrittrice.

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LA FILANDA DI RIVERGARO Passarono gli anni e la famiglia di Lina fu funestata da un tragico even-to. La sorella Paolina morì di parto. Il giorno del funerale, con lei morì anche la piccola creatura neonata. Furono così sepolte insieme, madre e figlia nella stessa bara. Fu una tragedia che scosse la piccola comunità, che si riunì a lutto accanto a quella famiglia disgraziata. Il cognato Pie-tro, rimasto vedovo e solo, fuggì in America e non fece avere più notizie. L’anno seguente a Pasqua Lina aveva deciso che sarebbe asso-lutamente partita per l’America, però le occorreva il denaro per l’acquisto del biglietto e non aveva un soldo. Le rimesse che mensil-mente mandava a casa Emilia servivano per estinguere il debito che la famiglia aveva contratto per acquistare il suo biglietto d’imbarco. Lina scrisse allora una lunga lettera a suor Lucia e le chiese aiuto per trovare al più presto un lavoro. Dopo qualche giorno la suora le rispose e le consigliò di rivolgersi al parroco di Rivergaro. Una mattina sul fini-re di maggio, al canto del gallo, Lina partì a piedi, zoppicando, verso Rivergaro, nella speranza di trovare un passaggio di fortuna. Giunta nei pressi del paesello di Perino, udì alle sue spalle uno scalpitio di zoccoli e un fruscio di ruote che scricchiolavano sulla ghiaia polverosa. Si trat-tava di un mezzadro della zona, che conosceva di vista e che si recava a Rivergaro per vendere degli ortaggi al mercato. Vedendola zoppicare la riconobbe subito, in zona non c’erano molte signorine zoppicanti ed essendo in buoni rapporti con suo padre, pensando di farle un grande favore, si fermò. «Vi serve un passaggio, signorina?» «Magari! Sto andando a Rivergaro!». «Allora salite, c’è posto dietro in mezzo alle verdure!». Lei accettò volentieri il passaggio, consapevole che le avrebbe rispar-miato un bel po’ di tempo e fatica. Durante il viaggio, sballottata tra gli ortaggi, Lina spiegò all’uomo che doveva trovare al più presto il curato per chiedere il suo aiuto. Giunti nella piazza principale del paese, scese dal calesse, ringraziò il mezzadro del passaggio e si mise subito alla ricerca del curato, chie-

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dendo di lui tra le bancarelle del mercato. Il campanile della chiesa rin-toccò le 8,30. Fu facile trovarlo perché tutti lo conoscevano e lo consideravano una persona di grande umanità e infinita bontà, pronto ad aiutare tutti i bi-sognosi. Le indicarono di recarsi alla chiesa di S. Agata. Il sacerdote si trovava proprio sul sagrato, intento a litigare con la vecchia serratura del porto-ne. «Buongiorno padre, siete voi il curato?» L’uomo si voltò lanciandole una rapida occhiata e annuì. «Mi chiamo Lina e suor Lucia mi ha consigliato di rivolgermi a voi!». Lina si presentò a don Luigi con voce tremante, mentre saliva i pochi gradini di fronte alla chiesa. «Mi ha detto che forse voi potete aiutarmi». «Ti manda suor Lucia?» rispose il curato vedendola molto agitata. «Vieni figliola, entriamo in canonica e così mi racconterai tutto con calma». Il parroco, dopo aver ascoltato la sua triste vicenda, decise di aiutarla e la rassicurò. «Non preoccuparti, conosco qualcuno che sicuramente ti darà un lavo-ro, nel frattempo mentre io vado a cercarlo perché non prepari qualcosa da mangiare? Guarda, lì c’è la dispensa, dovresti trovare qualcosa da cucinare». Lina si mise subito all’opera, andando a rovistare nella piccola dispen-sa, posta vicino al muro sotto un grande Crocefisso di gesso. La aprì ma le parve vuota. Appoggiata sul tavolo stava sola soletta una scodella con all’interno una manciata di fagioli bianchi in ammollo. Volgendo il suo sguardo all’insù verso il Crocefisso lo pregò di farle trovare ancora qualcosa da cucinare, perché da quella dispensa vuota proveniva solo un odore di cera e di candele spente, e i soli fagioli non sarebbero stati sufficienti per placare la fame di due persone. Frugando meglio trovò, nascosto tra due canovacci, del pane raffermo, poi in un angolino scoprì due cotiche. Infine le venne in mano una scatola di con-serva di pomodoro. Qualcosa si poteva combinare. Ringraziò il Signore di averla ascoltata. Dopo qualche ora il reverendo rientrò e aprì la porta della canonica chiamandola, ma il suo olfatto fu immediatamente rapito da un invitan-te profumino di sugo con fagioli e cotiche. «Lina! Ho buone notizie per te! Ti ho trovato un lavoro!».

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«Davvero? Grazie don Luigi, le sarò eternamente grata! Allora dob-biamo festeggiare!». «Cos’è questo profumino di buono?». «Ho preparato un pranzetto coi fiocchi! Nella dispensa ho trovato del pane secco, così vi ho preparato pisarei e fasò! Spero siano di vostro gradimento». «Di mio gradimento? Altroché se mi piacciono» esclamò il parroco ac-comodandosi al tavolino, e iniziando a divorare quel piatto povero, fatto con pochi avanzi di pane raffermo e ingredienti semplici, ma ricco di sapore. «Ma il sugo come lo hai preparato? È squisito» mormorò il curato lec-candosi i baffi. «Ho trovato nella dispensa anche la conserva di pomodoro e due coti-che, il resto è un segreto! In realtà è una ricetta delle suore, me l’hanno insegnata loro quando sono stata in convento» spiegò la ragazza mentre gustavano con un certo appetito quei gnocchetti squisiti. «Ti ho trovato un lavoro presso la filanda di Diara, lì lavorano tante donne come te, non è lontano da qui, ma si lavora anche dieci-dodici ore al giorno. Ti servirà un posto in cui fermarti a dormire… conosci qualcuno, parenti o amici che possano ospitarti?» domandò don Luigi. «No, purtroppo non conosco nessuno di Rivergaro, solo le sorelle del convento di Bassano, potrei chiedere la loro ospitalità» rispose la ra-gazza. «È troppo lontano, finiresti con lo sfinirti, già dieci ore di lavoro sono dure, figuriamoci se devi fare anche tutta quella strada a piedi! E con la tua gamba poi! Non se ne parla nemmeno, ti troverò un posto adeguato in cui fermarti a dormire. Ho già un’idea, vieni con me!» le comunicò don Luigi con fermezza, alla fine del pranzo. Si avviarono lungo la strada dritta, passando davanti alla stazione tran-viaria, dove alcune carrozze erano parcheggiate sotto la tettoia a spiovente. Sul retro un enorme serbatoio per l’acqua che serviva ad alimentare la caldaia a vapore della locomotiva. «Dove porta questo treno?» domandò la ragazza incuriosita dal mezzo di trasporto. Non ne aveva mai visto uno così da vicino. «Questo trenino collega Rivergaro a Grazzano Visconti. La ferrovia è stata ultimata da poco» rispose il parroco mentre proseguivano sempre dritto lungo la via sterrata parallela ai binari in direzione di Diara. Giunsero di fronte a un grande capannone.

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«Ecco, questa è la filanda di cui ti ho parlato. Entriamo a parlare col padrone». Lina lo seguì all’interno del capannone. Tante donne, giovani come lei e meno giovani, stavano sedute attorno a grandi tavolini, con tante ceste piene di bozzoli di bachi da seta, tutte intente a svolgere il loro lavoro, senza parlare troppo tra di loro. Don Luigi chiese del pro-prietario. «Ora ve lo chiamo!» rispose il capoturno. Di li a poco arrivò il padrone, un uomo tutto d’un pezzo, sulla cinquantina, vestito con abiti eleganti e si avvicinò al curato. «Buon giorno don Luigi. È la ragazza di cui mi ha parlato prima, ve-ro?» si informò l’uomo scrutando Lina dall’alto al basso. «Esattamente, si chiama Lina e ha tanto bisogno di un lavoro signor Dante!». «Bene, ha già lavorato in filanda, signorina?» le domandò l’uomo. «No, so fare la sarta e la contadina» rispose Lina con un certo timore, tenendo lo sguardo rivolto al pavimento rossiccio. «Non importa» disse l’uomo, «imparerai a svolgere la mansione a cui sarai destinata, l’importante è che tu abbia voglia di lavorare, i fannul-loni sono banditi da questa filanda. Puoi cominciare domani, in prova, se poi supererai il periodo di prova, sarai assunta come le altre, con un regolare contratto di lavoro. Ricorda che qui occorre unto di gomito figliola!» annunciò l’uomo con tono burbero. «Va bene signore, il lavoro non mi spaventa. A che ora si comincia?» «Domattina alle sette fatti trovare qui. Poi ci penserà il capo turno ad assegnarti una mansione» precisò il signor Dante. «Allora se non c’è altro noi andiamo, la ragazza si presenterà qui do-mani mattina come d’accordo» intervenne il curato. Successivamente uscirono dal capannone e don Luigi la accompagnò al convento di Pieve Dugliara, poco distante dalla filanda. «Vediamo se le suore hanno un posto per accoglierti, so che ospitano già due donne di Travo che lavorano alla filanda». In dieci minuti giunsero al convento. Don Luigi bussò. Aprì una giova-ne suora che, non appena lo vide, gli disse: «Don Luigi, a cosa dobbiamo la sua visita?» «Devo parlare con Madre Veneranda, sorella per favore me la può chiamare?». La giovane sorella corse a chiamare la madre superiora che arrivò di corsa. «Che novità ci sono don Luigi?» chiese la suora, sapendo che il curato riservava sempre sorprese.

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«Vi porto una persona che ha bisogno di aiuto. Si chiama Lina, abita nei dintorni di Perino e da domani lavorerà alla filanda. Avete un posto per farla dormire?» si preoccupò il curato. «Veramente saremmo già al completo ma se le due donne di Travo so-no d’accordo, potrei metterla in stanza con loro. Saranno un po’ strette ma non ho altro posto per il momento!» La sorella apparve dispiaciuta di non poterle offrire di meglio. La ragazza si presentò. «Per me andrebbe benissimo, se le altre sono d’accordo. Mi chiamo Lina, sorella. Per sdebitarmi del vostro disturbo posso cucire o ram-mendare o cucinare, qualsiasi cosa di cui avrete bisogno chiedetemi pure. So anche leggere e scrivere» disse Lina orgogliosa di se stessa. «Buon per te figliola, la cultura non è mai troppa» rispose la Madre Su-periora senza mostrare il minimo interesse per quella affermazione, infine aggiunse: «Seguimi, ti mostro la stanza». Lina seguì la suora lungo un corridoio spoglio e buio, impregnato da un odore di chiuso misto a candele spente, sul quale si affacciavano, da ambo i lati, delle porte tutte chiuse. Probabilmente erano le cellette del-le suore. Appesa sopra a ogni porta una piccola croce gigliata si alternava a una croce trifogliata. Suor Veneranda si fermò proprio di fronte all’ultima porta in fondo al corridoio, l’unica che aveva appesa una croce di Malta, girò la chiave che era nella serratura ed entrarono. Era una stanzina rettangolare, spoglia e triste con un piccolo crocefisso appeso sopra un antico scrittoio, e nella parte sotto una finestrella, da cui filtrava un timido raggio di sole, e due brandine, in cui dormivano presumibilmente le due donne. La sera al rientro dal lavoro, si riunirono presso la modesta foresteria del convento e, prima della consueta pre-ghiera di ringraziamento, la suora le informò subito della novità. «Maria, Angela, vi presento una nuova arrivata: lei è Lina, viene da Perino e le servirebbe un posto in cui dormire» riferì loro madre Vene-randa. «Andrebbe bene per voi farle un po’ di posto nella vostra stanza? Da domani verrà a lavorare alla filanda, dunque sarà una vostra colle-ga». Le due donne ebbero un attimo di esitazione, poi Maria esclamò «cer-tamente che le faremo un po’ di posto! Dove si sta in due, si sta anche in tre! Nella casa del signore c’è posto per tutti vero Angela?» com-mentò voltandosi verso la figlia. «Certo!» rispose la giovane. Poi rivolgendosi a Lina si presentò: «Sono Angela e lei è mia madre, Maria».

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«Mi chiamo Lina e vi ringrazio per la vostra disponibilità! Da domani inizio anch’io a lavorare alla filanda» le informò la ragazza sfiorando i loro volti con uno sguardo di gratitudine. «Bene, allora andremo insieme! Si lavora duramente ma la paga è di-screta. L’importante è non chiacchierare troppo o il capo turno si arrabbia» le disse Angela imitandone il verso e, facendo anche una smorfia, ridacchiò: «Bocche cucite e unto di gomito!». Maria la riprese: «Basta! Qualche volta se ne accorge che gli fai il ver-so! Vuoi farti buttare fuori dalla fabbrica, stai attenta a te!». Poi rivolgendosi a Lina continuò: «è giovane, ha sempre voglia di scherzare!». «Anche a me piacerebbe scherzare, ma da qualche tempo non ne ho più voglia» replicò Lina mentre il suo volto si faceva cupo e triste. «Perché?» chiese la giovane Angela con l’ingenuità della sua tenera età. «Perché la vita riserva sorprese a volte molto spiacevoli che ti fanno passare la voglia di divertirti». A quell’affermazione i suoi occhi azzur-ri divennero tristi. Maria allora mormorò sottovoce alla figlia: «Lasciala in pace, non vedi che non ha voglia di parlare?» «È come se una parte della mia vita fosse improvvisamente finita, è come se mancasse una parte di me stessa! A volte mi sento terribilmen-te sola. Non appena avrò messo da parte i soldi per il biglietto, me ne andrò da mia sorella che sta alla Merica!». A quelle parole anche Maria e Angela decisero di confidarsi con lei e raccontarono la loro vicenda. Anche loro desideravano andare in Ame-rica dove già da qualche anno viveva l’altra figlia di Maria, nonché sorella di Angela. Maria era una signora sulla quarantina, aveva perso il marito qualche anno addietro a causa della pellagra, una malattia molto diffusa a quel tempo specie nel nord Italia che mieteva vittime tra la popolazione contadina che si nutriva prevalentemente di polenta. Volto abbronzato da umile contadina, occhi scuri e tristi, portava sempre un fazzoletto scuro sul capo che legava sotto il mento per nascondere i primi capelli bianchi, ma dalla fronte spuntava comunque un ciuffetto di capelli grigi. Lavoratrice instancabile, aveva le mani ruvide e rovina-te dai calli. Sua figlia Angela era una giovinetta sui sedici anni, graziosa, dal volto ovale e le gote rosa, lunghi capelli castani con mor-bidi ricci che, copiando la madre, copriva con un fazzoletto rosso piegato a triangolo e richiudeva con un nodo dietro la nuca. Gli occhi azzurri erano di suo padre. Indossava un abitino di velluto celeste, lun-

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go fino alle caviglie con un grembiulino rosso sul davanti che si acco-stava bene al fazzoletto che portava sul capo. Il giorno seguente si recarono tutte e tre alla filanda. Il capo turno de-stinò Lina proprio al tavolo insieme a Maria e Angela. Iniziava per lei una nuova esperienza. Le ore passavano lente, sedute a quel grande tavolino ad aprire uno a uno i bozzoli dei bachi da seta, posti all’interno di enormi ceste di vi-mini. Alla sera, quando rientravano al convento, erano stanche e affamate, e con le mani che si screpolavano per il continuo contatto col bozzolo. In breve tempo tra le tre donne nacque una profonda e sincera amicizia, al punto tale che si convinsero a vicenda che il giorno in cui avessero avuto disponibilità di denaro sufficiente sarebbero partite insieme per l’America. Sapevano di non potere confidare alle suore la loro idea di recarsi in America perché la Chiesa era assolutamente contraria all’emigrazione, nonostante l’arcivescovo di Piacenza Monsignor Scalabrini, dal 1892 si fosse attivato a favore degli emigranti, creando degli ordini missionari deputati all’assistenza degli immigrati italiani a New York. Di questa iniziativa umanitaria le tre donne non erano al corrente, anzi, al contra-rio credevano che il vescovo, come gli altri prelati, fosse ostile all’emigrazione. In chiesa molti preti predicavano di non partire perché si disgregavano le famiglie e molti non facevano più ritorno! «Partono per le lontane Americhe, lasciano a casa mogli e figli, per i primi tempi scrivono qualche lettera, poi dopo qualche tempo non fan-no più avere notizie… e a casa pensano che siano morti… invece… si dimenticano dei loro cari che sono rimasti in Italia e si ricostruiscono delle nuove famiglie nelle lontane Americhe, con altre mogli e altri fi-gli! È una cosa scandalosa e vergognosa!». Questo era il monito di alcuni sacerdoti durante le omelie della domeni-ca. Ma che ne sapevano loro della miseria in cui versava la popolazione? A loro il pane non mancava mai. Che ne sapevano loro del suo dramma interiore? Che ne sapevano loro di cosa significa restare zoppa a dieci anni e delle umiliazioni che aveva subito dalla gente per quel suo modo strambo di camminare? Quando passi per strada la gente che non ti co-nosce ti guarda curiosa e chi ti conosce finge di non vederti per non salutarti!

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Era già qualche mese che lavorava alla filanda, era diventata brava ed era stata destinata a una mansione superiore a quella iniziale, che le consentiva un buon margine di guadagno, così aveva messo da parte un po’ di soldi, ma temeva non fossero sufficienti per il biglietto e per il viaggio. Ora, dopo circa sei mesi di lavoro in filanda, era giunto il mo-mento di tornare a casa. Anche Maria e Angela prepararono i loro poveri fagotti per tornare al paese. Lina aveva messo da parte circa cen-to lire, che aveva nascosto nel calzino che indossava. «Addio suor Veneranda! Addio sorelle! E grazie ancora per la vostra generosità e ospitalità». «Addio a voi e che Dio vi benedica figliole!» risposero le suore in coro salutandole. Passarono a Rivergaro presso chiesa di S. Agata a cercare il curato. Lo trovarono che stava dando qualcosa da mangiare a un giovane poverac-cio, senza famiglia e fissa dimora, conosciuto da tutti in paese col soprannome di Tandai. Il giovane, vedendole arrivare, alzò le spalle e sbuffando se ne andò canticchiando. «Don Luigi siamo passate a farvi un saluto! Abbiamo finito la nostra campagna e torniamo a casa!». «Sono contento per voi, soprattutto ho visto che siete diventate amiche. Tenete bene in mente che l’amicizia è una cosa grande, che vale più di ogni altro bene materiale. Solo per questo motivo consideratevi fortuna-te: l’amicizia vera vale più di ogni tesoro! Se avrete occasione di ripassare da queste parti venite a trovarmi!» disse loro il curato. «Lo terremo ben a mente! Per ora ci diciamo addio! Addio don Luigi e grazie di tutto quello che ha fatto per noi» si pronunciò Lina improvvi-sandosi portavoce del gruppo. Le tre donne si misero in cammino, seguendo la via principale per Bob-bio. Attraversando le vie del paese si sentiva un invitante profumo di caldarroste e di polenta. Un vento gelido soffiava in direzione nord e sembrava tagliasse loro la faccia, che era diventata color granata, per il freddo pungente. Le dita delle mani e dei piedi si rattrappirono in fretta. Un altro inverno stava arrivando e Natale era ormai alle porte. Giunsero a Travo sul calar della sera mentre iniziava a nevicare. Lina passò la notte a casa di Maria, sarebbe ripartita il giorno seguente. Nevicò tutta la notte, la mattina era impossibile riprendere il cammino perché enormi cumuli di neve imbrattavano le strade. Maria si offrì di ospitarla nella sua umile dimora fino a quando la neve non si fosse sciolta.

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«Non puoi metterti in cammino da sola con tutta questa neve e con la tua gamba! Rimani qui da noi per qualche giorno, appena la neve si scioglierà riprenderai la strada». «Ti ringrazio di cuore Maria, so che sei tanto cara, ma se accetto di ri-manere qui devo trovare un modo per sdebitarmi!» fu la risposta della giovane. Così Lina, che era una brava sarta, comprò uno scampolo di stoffa di velluto blu al negozio vicino e cucì un abito nuovo per Maria e una ca-micetta e una gonna per Angela. «Ma sei bravissima! Sono due abiti bellissimi, li indosseremo il giorno di Natale! Grazie, ci hai fatto davvero un grande regalo». Maria era commossa. «È il minimo che potevo fare per ringraziarvi della vostra ospitalità». Finalmente dopo quasi sette giorni la neve si sciolse un po’ e Lina, zoppicando in mezzo a quei cumuli bianchi, riprese il cammino verso casa. Arrivò giusto in tempo per festeggiare la vigilia di Natale con la sua famiglia. La vecchia e pesante porta di legno cigolò e si aprì portandosi dietro un alito di freddo pungente, mentre l’ombra gigantesca di una figura fami-gliare apparve proiettata sul vecchio muro di pietre, tremolando al crepitio del fuoco e si presentò di fronte ai due anziani, che stavano se-duti davanti al focolare a pelare le caldarroste. «Mamma, papà sono tornata!». I due coniugi si alzarono di scatto, lasciando cadere sul pavimento di cotto rossiccio le bucce abbrustolite delle castagne. «Lina! Lina sei tornata figlia mia! Che bella sorpresa ci hai fatto! Vie-ni! Vieni qui a scaldarti vicino al focolare e mangia due castagne insieme a noi» le dissero i genitori così felici per la bella sorpresa. Li abbracciò forte, erano mesi che non si vedevano. «Tua madre è tutto il giorno che lavora in cucina e ha preparato qualco-sa di buono da mangiare. Sarai stanca e avrai fame! Siediti che tra poco si mangia! Festeggiamo il tuo ritorno a casa» mormorò il vecchio pa-dre, fiero di averla di nuovo con loro. I suoi pazienti occhi azzurri contornati da profonde rughe brillavano di gioia e risaltavano tra i suoi capelli incanutiti e le folte sopracciglia bianche come la neve. «Ma Nando dov’è?» domandò la ragazza notando l’assenza del fratello. «Ormai dovrebbe arrivare» rispose suo padre. «Cerca di racimolare qualche soldino facendo il garzone alla bottega, in questi giorni lavora-no più del solito».

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Di li a poco la porta di assi inchiodate l’una sull’altra si spalancò di nuovo portandosi dietro una folata di vento gelido. Nando entrò entu-siasta. «Mamma! Papà! Guardate! Il padrone mi ha dato la paga!». Mostrò con orgoglio a tutti la sua prima paga: una bottiglia piena di olio di oliva e due saracche. Era così contento che non si accorse nemmeno della presenza della sorella. «Una bottiglia d’olio! Questo sì che è un lusso» fu la risposta di grati-tudine della madre Anna, che durante i mesi invernali per friggere doveva utilizzare il grasso del maiale, o burro semiliquido chiamato “al buter getà” (burro che veniva fatto fondere insieme ad aromi, in modo che si conservasse allo stato semi liquido per diversi mesi). «E bravo il mio fratellino! Ha portato a casa la sua prima paga» affermò una voce conosciuta che gli giunse da dietro. Nando si voltò di scatto e quando realizzò che era tornata la sorella le saltò con le braccia al collo. «Lina! Finalmente sei tornata!» esultò il ragazzo, fiero di sé. «Ora pos-siamo festeggiare la mia paga tutti insieme». Anna era riuscita a preparare qualcosa di speciale per la vigilia di Nata-le: tortelli di zucca, pane con uvetta secca e i “turtlitt”, tipici dolcetti natalizi ripieni di mostarda e castagne secche. Durante il mese di agosto, quando si “fa la luna buona”, aveva messo da parte due dozzine di uova, conservandole al sicuro in mezzo al fru-mento. Con alcune di quelle uova aveva così preparato la sfoglia per i tortelli, tirata abilmente a mano col matterello, poi con “la coltella” aveva ta-gliato tanti rombi e col ripieno, ottenuto amalgamando la polpa di una zucca buona con un po’ di ricotta e formaggio, aveva sapientemente preparato i tortelli uno a uno, lavorando la pasta tra pollice e indice fino a ottenere una treccia al centro e due code alle estremità. Al tempo della vendemmia aveva messo a essiccare nel forno, dopo aver cotto il pane, i grappoli migliori di uva faranesa: si sarebbe con-servata per diversi mesi anche fino a Natale. Inoltre c’era la tradizione di mettere da parte un pane preparato per la vigilia di Natale: sarebbe rimasto morbido fino all’anno successivo. Quello fu l’ultimo Natale che trascorse in famiglia e in Italia, poco tempo dopo sarebbe partita per l’America. Grazie al denaro inviato a casa mensilmente da Emilia, i genitori, che approvavano la sua inten-

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zione di raggiungere la sorella oltre oceano, erano riusciti a metterle da parte circa cento lire, che sommate alle cento lire guadagnate alla filan-da, ammontavano a duecento lire. Lina ora disponeva di denaro sufficiente per acquistare un biglietto di sola andata in terza classe. Le mancava solo il passaporto. Per ottenerne il rilascio occorreva farne esplicita richiesta, a voce o per iscritto, al sindaco del comune di resi-denza, il quale dopo aver rilasciato il nulla osta provvedeva, nel minor tempo possibile, a farne richiesta alle autorità competenti. Dal 1901 il passaporto e il nulla osta erano rilasciati in forma assolutamente gratui-ta, esenti da tasse e marche da bollo, per tutti coloro che dichiaravano di recarsi all’estero per motivi di lavoro, compresi eventuali componenti del nucleo famigliare.

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IN CAMMINO VERSO GENOVA Quel lunedì di fine gennaio 1904 era una mattina di nebbia così fitta che la si poteva fendere con il coltello e che penetrava nelle ossa de-stando dolori reumatici in tutto il corpo specie nella sua gamba zoppicante. Maria e Angela erano giunte da Travo con un vecchio carretto a due ruote grandi, trainato dal mulo; avevano caricato le valigie e i fagotti e ora si apprestavano a partire per raggiungere Genova. «Avete portato il mulo alla benedizione la settimana scorsa? Non pos-siamo partire senza prendere la benedizione il giorno di S. Antonio» si preoccupò Lina che era molto religiosa. «Stai tranquilla, ci teniamo molto anche noi alla benedizione degli ani-mali! L’altro giorno è passato il reverendo a benedirli tutti, anche le galline, i buoi, le capre, tutti gli animali che c’erano nelle stalle e nei cortili. Possiamo partire tranquille» affermò Maria sicura del fatto suo. I documenti per il viaggio erano pronti, anche il passaporto e la misera valigia di cartone. Lina si infilò in tasca la sua inseparabile corona del rosario, prezioso dono di suor Lucia e, con un nodo alla gola e le lacri-me agli occhi, si preparò per la partenza. Era il momento più difficile, quello dell’addio ad amici e parenti. «Addio madre! Addio padre mio!». Abbracciò e baciò prima sua madre Anna e poi il padre Rinaldo. «Nando, fratellino mio, vieni qui per un ultimo abbraccio! Se le cose andranno bene, presto ti farò venire alla Merica con me» gli mormorò all’orecchio mentre lo salutava. «Tieni questo libro e conservalo con cura fino al mio ritorno. Se lo portassi con me sarebbe d’ingombro». Gli aveva messo tra le mani la Bibbia che le aveva regalato suor Lucia tanti anni prima. «Grazie sorellina, lo conserverò con cura fino al tuo ritorno, vedrai che non lo sciuperò a furia di leggerlo» ironizzò il ragazzo che era analfabe-ta. Non ne aveva voluto sapere di imparare almeno a leggere nonostante gli sforzi di Lina. «Sei proprio uno zuccone, almeno guarda le figure, ci sono disegni molto belli, e quando li guarderai ricordati di me». Gli diede un delicato schiaffetto sulla guancia e lo abbracciò per l’ultima volta. Una piccola

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folla di vicini di casa si era radunata a salutare la giovane pronta alla partenza. La salutarono a turno, porgendole dei piccoli doni: chi una manciata di castagne secche, chi delle patate, chi una manciata di noci e chi pezzi di formaggio. Ci fu persino la sua vicina Marina che era riu-scita a regalarle due uova sode, cosa assai rara nonché preziosa nella stagione fredda. Alla fine aveva riempito la bisaccia. Dopo aver ringra-ziato tutti calorosamente si voltò verso i genitori per un ultimo sguardo e, per sdrammatizzare la situazione, se ne uscì dicendo loro: «Appena giungerò a Genova vi scriverò subito una bella cartolina, chiedete al postino di leggerla!». «Addio figlia mia!» gridò sua madre occultandosi il volto con le mani scarne, per nascondere il pianto. «Fate buon viaggio!» gridarono suo padre e suo fratello lasciandosi sfuggire qualche lacrima mentre la seguivano con lo sguardo salire sul carretto con le altre donne e allontanarsi. Dopo pochi metri sparirono nella fitta nebbia. Finalmente giunte nei pressi di Bobbio, la nebbia si diradò e uscì una magnifica giornata di sole. L’umidità della nebbia cedeva il posto a un venticello freddo e pungente, tipico di fine gennaio. «Il sole è segno di buon auspicio, vedrete ragazze che ce la faremo, ar-riveremo presto a Genova, prenderemo il bastimento e in quindici giorni di mare arriveremo alla Merica» annunciò con voce rassicurante Maria, la più anziana del gruppo. «Speriamo che vada proprio così» asserì Lina preoccupata. In quel momento sentiva un nodo alla gola, e avvertiva dei sentimenti contrastanti: se fino a poco tempo prima non vedeva l’ora di partire, ora era già in preda alla malinconia. La sua famiglia le mancava terribil-mente e provava la brutta sensazione di essere sola in mezzo al mondo, anche se in realtà era in buona compagnia. Nel contempo non vedeva l’ora di arrivare a Genova, di percepire i nuovi rumori, i nuovi profumi e i nuovi sapori di una grande e sconosciuta città e, soprattutto di ammi-rare il mare. Per trovare conforto strinse tra le mani la corona del rosario e iniziò a pregare mentalmente tra sé e sé. Dopo aver recitato a mente tutto il ro-sario si sentiva meglio. Maria e la figlia avevano portato con loro un po’ di legna per riscaldarsi e delle provviste: castagne secche, una collana di nocciole da sgranoc-chiare durante il viaggio, patate, una forma di formaggio, un bel pezzo di lardo che avevano ricevuto in dono da una vicina scrupolosa, polenta fredda, foraggio per l’animale e un pane a testa. Lina, oltre al cibo rice-

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vuto in dono dai vicini, aveva portato il pane preparato dalla madre la vigilia di Natale, che quest’anno era stato destinato a lei. La strada sarebbe stata lunga, il viaggio sarebbe durato diversi giorni e tra l’altro in pieno gennaio faceva molto freddo. Certo, se avessero avuto qualche soldo in più, si sarebbero potute per-mettere il treno che da Piacenza in breve tempo arrivava a Genova, invece i soldi erano contati e dovevano servire per il biglietto della na-ve. Avevano caricato sul carretto delle coperte per proteggersi dal freddo. Di notte avrebbero bivaccato lungo la strada cercando qualche riparo di fortuna, magari sotto un ponte o in una stalla. Dopo qualche giorno di faticoso cammino si resero conto che forse sarebbe stato meglio aspet-tare la primavera per partire: con la neve e il gelo il viaggio si faceva ogni giorno sempre più duro, anche il mulo era stanco, infreddolito e affamato, si fermava spesso e non voleva saperne di ripartire, se non a furia di tira e molla. Le provviste iniziavano già a scarseggiare e con tutta quella neve diven-tava difficile trovare qualche ramo secco per accendere un fuocherello. Inoltre la strada non era sicura per tre donne sole; la vita di tre donne sole a quel tempo non valeva nulla, potevano diventare facile preda di qualche malintenzionato o qualche brigante. Sua sorella nell’ultima let-tera le aveva scritto: “….quando sarai in mare viaggia solo con abiti comodi e rovinati, le scarpe porta solo quelle più vechie e rotte, portati un cambio di vestiti nel bagaglio a mano e un po’ di zucchero… non parlare con persone sconosciute…quando arivi alla merica mandami un telegramma che veniamo a prenderti… aspettaci li! E non accettare passaggi da qualcuno che son bravi a raccontar storie e fingono di vo-lerti aiutare…non ti fidare…”. A questo Lina aveva pensato e aveva portato nel suo misero bagaglio anche dei vestiti da uomo. Una mattina, dopo aver trovato rifugio al caldo in una stalla, li tirò fuori dalla valigia e indossò la giacca, le braghe e il cappotto, raccolse i ca-pelli in un ciuffo ben stretto e li nascose sotto un cappello a falde larghe che aveva preso in prestito dal fratello. «È una trovata geniale! Bella idea!» confermò Maria entusiasta della novità. Mentre abbeveravano il mulo chiesero al proprietario della stalla un po’ di latte: fecero colazione con latte e castagne secche, probabilmente sarebbe stato l’unico pasto della giornata, e, poco dopo, ripresero il cammino.

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Ora sembravano una vera famiglia composta da madre, figlio e figlia, nessuno le avrebbe toccate. Con un uomo giovane e forte al seguito, tutti avrebbero portato loro rispetto. Era il quinto giorno di viaggio, il sole squarciava le nuvole, la strada mulattiera si confondeva nel paesaggio circostante e l’immensa distesa di neve tutt’intorno si faceva quasi accecante: minuscoli cristallini di ghiaccio brillavano sulla neve dura come fossero milioni di lucine sull’albero di Natale. Candelotti di ghiaccio appesi ai tetti delle case e ai rami degli alberi cadevano come stalattiti nelle grotte, un freddo pun-gente gelava le punte delle dita e dei nasi, a ogni alito usciva dalle loro bocche un fumo come quello dei camini. Aiutarono il mulo, tirandolo per le briglie su per la salita con il carretto che scivolava lento, affon-dando con le grandi ruote nella neve, finché sul calar della sera, dopo alcune ore di cammino, giunsero finalmente in un paesino a pochi chi-lometri da Torriglia. «Speriamo di trovare un luogo adatto per dormire! Proviamo a chiedere a quelle donne laggiù». Due ragazze stavano andando in chiesa e Maria si avvicinò loro chie-dendo: «Scusate, stiamo cercando un luogo sicuro in cui passare la notte, sapete indicarmene uno? Io e i miei figli arriviamo da Bobbio e stiamo cercando di raggiungere Genova, potreste aiutarci?» La più alta disse loro: «Siete emigranti anche voi?» «Si!» rispose ancora Maria, lasciandosi scrutare dagli occhi scuri e pe-netranti di quella bella ragazza dalla carnagione olivastra e dai folti capelli lunghi e neri, legati in una coda di cavallo ornata con un nastri-no azzurro. «Allora siete fortunati, noi siamo povere ma possiamo aiutarvi, prima però andiamo in chiesa alla benedizione della gola… venite con noi?» «Certamente, ci faremo benedire anche noi, ci siamo scordati che oggi è la candelora». Uscite dalla chiesa le donne seguirono le due ragazze che le accompa-gnarono nella loro umile abitazione, una modesta casa molto simile a quelle che avevano lasciato ai loro paesi. «State andando anche voi alla Merica?» chiese curiosa l’altra ragazza, indubbiamente la più giovane. In quel periodo era facile incontrare gruppi di persone sulla via di Genova, si recavano nel capoluogo ligure per emigrare verso le Americhe. «Mi presento, io sono Argentina ma mi chiamano Tina e lei è mia so-rellina Amabile».

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«Molto piacere, io sono Maria, e questa è mia figlia Angela e lei è Lina, una nostra amica!». «Come Lina? Ma non è un ragazzo?». Era giunto per Lina il momento di riprendere la sua vera identità. «Vedete… siccome è pericoloso per tre donne viaggiare sole per tutta questa strada ho pensato di travestirmi da uomo… così, per stare più tranquille!». «Davvero? Hai avuto proprio una bella pensata! Perché non ci abbiamo mai pensato anche noi Amabile? Prego entrate pure e accomodatevi, non è un granché ma è tutto ciò che c’è rimasto» sospirò Tina con aria inquieta. Maria intuì che la ragazza era un poco agitata e intervenne: «State tranquille, siamo persone per bene, stiamo andando a New York a cercare io mia figlia e lei sua sorella, ma se vi mettiamo in soggezione ce ne andiamo via subito». Allora Tina, che era la sorella maggiore, intuendo che quelle tre aveva-no tutta l’aria di essere brave donne, diede sfogo alle sue inquietudini. «Veramente siamo molto preoccupate per nostro fratello che è andato alla Merica! Ormai sono già più di due mesi che non ci scrive più e te-miamo che gli sia successo qualcosa» iniziò a raccontare Tina. Proseguì il discorso Amabile, più bassa di statura, due lunghe trecce con le quali raccoglieva i capelli folti, ispidi e corvini, con il viso dagli stessi lineamenti della sorella. «Magari è malato e non può farci scrivere poveretto, chissà cosa gli sarà successo! Siccome lui è analfabeta ci faceva scrivere da un suo amico che ha conosciuto sulla nave quando è partito, un ragazzo napo-letano di nome Gennarino, sono diventati buoni amici». Proseguì di nuovo Tina: «Ci ha mandato anche una fotografia dove sembrano contenti… Ci ha fatto scrivere che avevano trovato entrambi un lavoro come manovali in un cantiere, diceva che stanno costruendo una ferrovia sotterranea pro-prio a New York… si chiama con un nome strano…» «Anche mia sorella in alcune delle sue lettere mi ha scritto di una ferro-via sotterranea ancora in costruzione» aggiunse Lina «mi diceva un nome… un nome americano…mi pare che ci lavorava anche suo mari-to». Si intromise nella conversazione ancora Amabile. «Ci siamo fatte preparare i documenti per andare a rintracciarlo, i pas-saporti col visto sono già pronti da oltre dieci giorni, ma Tina dice che per due ragazze sole è troppo pericoloso fare un viaggio così lungo, ma

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ora, dai… facciamoci coraggio e andiamo a cercarlo, magari ha bisogno del nostro aiuto» ribadì Amabile rivolgendosi alla sorella maggiore. «Vostra sorella ha ragione» intervenne Lina «se volete potete venire insieme a noi». «Oppure semplicemente il suo amico che vi scriveva sta male» suggerì Angela, «per questo motivo non vi ha più fatto scrivere, forse non si fida degli altri!». «Ma voi due sapete leggere?» chiese Lina. «Io sì !Ho fatto la prima elementare, mentre mia sorella non ha potuto frequentare la scuola perché in quegli anni è venuto a mancare nostro padre. Io ho smesso di andarci mentre lei non ha mai cominciato» sog-giunse Tina amareggiata. «Mi dispiace per vostro padre» disse Lina i cui ricordi tornarono inevi-tabilmente alla sorella, «come è morto?» «Era andato a lavorare in Maremma alla bonifica di quelle terre» iniziò a raccontare Tina. «Ma dopo qualche mese ha contratto la malaria. Sfortunatamente il dottore aveva le dosi di chinino contate e quando fu il suo turno» un nodo le serrava la gola «…era rimasta una sola dose, ma loro erano in due, nostro padre e un ragazzino. Ci raccontarono che mio padre ha preferito che al suo posto dessero la medicina al ragazzino che si è salvato… quel piccolo gesto eroico gli è costato la vita» termi-nò così di raccontare quella triste storia singhiozzando e con due lacrime che le colavano dai grandi occhi neri arrossati dal pianto, fin sotto il mento, per poi scintillare nella luce fioca e tremula della lucer-na, prima di cadere a terra sul polveroso pavimento di pietra. «Guardate i nostri piatti come sono belli» indicò la ragazza con la voce ancora singhiozzante, facendo notare un servizio di piatti impolverati impilati su una mensola. «Ecco! Questi piatti sono tutto ciò che ci rimane di nostro padre! È la liquidazione che si è guadagnato con la sua morte! Quei bastardi ci hanno ripagato con un servizio di piatti dipinti a mano». “Sono dipinti a mano da una famosa pittrice svizzera, Angelica Kauffmann, dipinse famosi quadri presso la corte di re e imperatori! Forse un giorno questi piatti vi porteranno fortuna!”«Questo raccontarono a nostra madre i due uomini incaricati di darci la terribile notizia». «Per noi contadini i piatti sono tutti uguali, servono solo per mangiare quando c’è qualcosa da metterci dentro, altrimenti anche se li ha dipinti un famoso pittore che differenza può fare? Un piatto vuoto non può aiutare nessuno! La fortuna c’è solo quando abbiamo qualcosa da met-terci dentro» aggiunse Amabile che non aveva mai capito che tipo di

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fortuna potessero portare dei semplici piatti, o come si potessero utiliz-zare se non per mangiarci dentro! «A cosa o a chi potrebbero mai servire dei piatti vuoti?» Inoltre a parte il bel disegno dipinto al centro e qualche fiore intorno, quei piatti non erano niente di speciale, degli or-dinari e comunissimi piatti di porcellana. Maria, per cercare di sdrammatizzare quella situazione di imbarazzo e tensione, cambiò discorso. «Quanto manca da qui a Genova?» «Circa tre giorni a piedi, se non ci si mette il maltempo con la neve» era la voce più serena di Amabile, la sorella minore. «Allora se volete vi aspettiamo, preparate le vostre cose, che partiamo tutte insieme, così in cinque non ci sarà più bisogno di travestirmi da uomo» disse Lina tirando un sospiro di sollievo, poi proseguì. «Però vi serviranno dei soldi per i biglietti della nave». «Nostro fratello Giuseppe ci mandava a casa sempre qualcosa e siamo riuscite a mettere da parte quasi quattrocento lire, saranno sufficienti per il biglietto?» domandò Tina, non avendo la benché minima idea di quanto potesse costare un biglietto per New York. «Speriamo di sì, è la cifra che più o meno abbiamo anche noi» inter-venne Maria. «Avanti Amabile, allora mettiamoci subito al lavoro, prepariamo i fa-gotti, la capretta e domani partiamo con loro». Nevicò tutta la notte. La mattina dopo nonostante l’abbondante nevicata, con il coraggio e la determinazione che appartiene solamente a chi non ha nulla da perdere, caricarono i loro miseri fagotti e una gallina già pulita, pronta per essere cucinata, sul vecchio carretto ormai pieno zeppo, attaccarono la capretta con una fune dietro al barroccino e partirono a piedi in direzione del passo della Scoffera: Genova era sempre più vicina. Arrivarono in un punto in cui si poteva ammirare un bellissimo pano-rama. I loro sguardi si posarono lungo le sorgenti del fiume Trebbia, nascoste da un candido manto bianco: tra gli alberi innevati un piccolo ruscello scorreva impetuoso aprendosi un varco tra la neve fresca. Tutt’intorno il silenzio del bosco, interrotto solo dallo scroscio dell’acqua tra i sassi, la ghiaia, i detriti, dal rumore dei passi attutiti delle donne e dallo scal-pitio degli zoccoli dei loro animali. Era incredibile pensare che più a valle lo stesso fiume, che ora vedevano come un piccolo rigagnolo d’acqua, divenisse sempre più grande, rallentasse la corsa e disegnasse

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ampie anse e morbidi meandri simili alla coda di un serpente che stri-scia lento fino a sparire all’orizzonte confondendosi nel cielo grigio. «Vedete laggiù dove finisce l’orizzonte? Là in fondo c’è Genova» e-sclamò con sicurezza Tina. «Allora forza, in marcia». Mentre scendevano dalla collina, intonarono la tipica canzone degli emigranti che faceva più o meno così: “Mamma mia dammi 100 lire che in America voglio andar… 100 lire te le do, ma in America no, no, no….” Mentre loro cantavano in coro allegramente, un bel sole si affacciava da una nuvola e il vento gelido cedeva il passo a una tiepida brezza marina che scioglieva la neve tutt’intorno. Dopo due giorni di cammino giunse-ro in una zona rivolta verso sud, in pieno sole; di neve non c’era più traccia e, tra gli alberi del bosco che costeggiava la strada, spuntavano i primi timidi fiori: i bucaneve che con i loro steli verdi e dritti e le loro corolle bianche contrastavano il marrone delle foglie secche e dei ra-moscelli spezzati dalla neve. Volsero i loro sguardi lungo la linea dell’orizzonte. Un’immensa distesa di acqua diventava tutt’uno con il cielo azzurro e una di loro esclamò: «Guardate quella distesa di acqua laggiù…deve essere il mare». Smisero di cantare, si fermarono a osservare e restarono a bocca aperta a contemplare il panorama per alcuni minuti: era la prima volta che ve-devano il mare! Mancavano le parole per descrivere la sensazione che stavano provando in quegli istanti: emozione, paura, meraviglia, stupo-re di fronte a quell’immensità di acqua, che sapevano avrebbero visto presto da molto vicino. Dopo qualche ora di faticoso cammino, iniziavano finalmente a intra-vedere i primi tetti rossi e grigi dei palazzi, delle chiese e degli alti campanili di Genova. Sullo sfondo il mare si avvicinava sempre di più. Avevano lasciato alle spalle le temperature rigide invernali, il clima diventava sempre più mite man mano che si avvicinavano al mare. La vegetazione collinare composta prevalentemente da faggi, castagni e querce lasciava il posto a ulivi, palme, pini marittimi e oleandri. «Sembra proprio primavera! Se ripenso al freddo che abbiamo patito nei giorni scorsi, ora qui sembra un paradiso!» sospirò Maria togliendo-si di dosso il pesante tabarro. Una brezza marina aleggiava nell’aria e il profumo di salsedine diveni-va sempre più intenso mentre giungevano alle porte della città. «Manca poco, siamo quasi arrivate, signore mie benvenute a Genova!» esordì Lina tutta eccitata.

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«Cosa facciamo per prima cosa una volta arrivate in città?» chiesero Maria e Angela rivolgendosi a Lina. «Andiamo prima a vedere il mare o facciamo un giro, cerchiamo subito il mercato e vediamo di barattare i nostri animali?» Lina in quel momento era molto insicura, si sentiva a disagio in quella grande città, alla vista di tutte quelle case e palazzi alti si sentiva un po’ intimorita, abituata com’era a vivere in piccoli paesi di campagna. «Non saprei, voi cosa suggerite di fare?» chiese Lina titubante rivol-gendosi alle amiche. «Vogliamo prima vedere il mare» intervennero all’unisono. Si fecero indicare la via del mare da un ragazzino di passaggio, che ri-spose solo dietro compenso. «Iniziamo bene» intervenne seccamente Lina, «mia sorella me l’aveva detto che i genovesi sono dei furbacchioni, iniziano da ragazzini a e-storcere denaro! Stiamo tutte vicine e mi raccomando: occhi ben aperti». Attraversarono la viuzza stretta tra un intenso odore di pesce e un pro-fumo di bucato; i panni erano stesi su corde alte tra un palazzo e l’altro ad asciugare. Mentre percorrevano quella viuzza ciottolata si sentivano gli sguardi dei genovesi puntati addosso e avvertivano i commenti in sottofondo: «Ecco ne arrivano altri! Speriamo che ci portino delle palanche! Son tutte donne vai un po’ a sentire!». Si avvicinò loro un giovane, un tipo alla vista poco raccomandabile, chiedendo: «Vi serve un posto dove dormire? Vi posso accompagnare da mia sorel-la se volete!». Lina, un po’ spaventata, strinse tra le mani la sua corona del rosario, prese coraggio e rispose: «No grazie, per ora vogliamo solo andare al porto a sentire quando par-te il bastimento per la Merica». «Mi sa che siete in ritardo! Il bastimento è partito ieri, credo che il prossimo partirà tra due o tre giorni, vi rinnovo la mia offerta, se vi ser-ve un posto per dormire tornate qui a cercarmi più tardi. Chiedete di me a quelle signore laggiù, tutti mi conoscono qui, sono Vanni!». «Per ora vi ringraziamo signor Vanni, se avremo bisogno torneremo a cercarvi. Addio!» concluse rapidamente Lina. Quando si furono allontanate a sufficienza Lina comunicò alle altre: «Quello doveva essere un anticaro, me lo aveva scritto mia sorella rac-comandandosi di diffidare di loro perché con la scusa di affittare le

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camere ci vogliono estorcere tutto il denaro possibile! Quindi facciamo molta attenzione e stiamo tutte unite, mi raccomando!». Procedevano a passo veloce trascinandosi dietro i loro animali e il loro vecchio carretto, lungo le stradine della città, in cui a ogni angolo sven-tolavo delle bandiere o erano affissi dei manifesti con le pubblicità dei vari piroscafi in partenza per le Americhe. Finalmente, dopo qualche ora, giunsero di fronte alla passeggiata a mare. Udirono uno scalpitio di zoccoli, nitriti di cavalli, ed ecco sfrecciare velocemente alcune pariglie trainanti carrozze e calessi. In seguito pas-sarono dei carri carichi di sacchi trainati da muli. Se quella era la vita di città non era poi così diversa dalle loro vite di campagna. Volsero i loro sguardi all’insù e videro dei fili metallici sospesi in aria che seguivano la strada, congiunti fra di loro da pezzi di ferro più spessi a forma di rondine. «A cosa serviranno quei fili sospesi in alto?» si domandarono. A un tratto videro avvicinarsi un mezzo mai visto prima, che correva su due binari come un treno, ma era molto più corto, aveva una sola carrozza e sopra aveva dei fili che a tratti emettevano delle scintille e si muoveva lungo la via ferrata appoggiandosi ai fili sospesi in alto. All’interno sta-vano delle persone. «Quello è troppo corto per essere un treno, cosa sarà?» Si domandarono le donne. Rispose loro un giovane vestito con abiti eleganti, che passava di lì per caso e, divertito dalle parole delle donne, dopo averle scrutate dall’alto al basso, con aria di disprezzo e di scherno, si degnò di dar loro spiega-zioni. «Quello è il tramvai! Davvero non lo avete mai visto prima? Chissà da dove venite povere pezzenti» si intromise con arroganza. «Veniamo dalla campagna, siamo solo delle povere ragazze noi ed è la prima volta che arriviamo in città» rispose con grinta Lina, indignata da quel tono arrogante e disprezzante del giovane. «Ce n’è a migliaia di gente come voi! Per fortuna la maggior parte è solo di passaggio! Siete un grave peso sociale per la nostra città. Inoltre puzzate come i vostri animali avreste bisogno di lavarvi!». «Come vi permettete di insultarci così? Nemmeno ci conoscete, cosa vi abbiamo mai fatto di male signore?» rispose a tono Angela spontanea-mente. Lina e Maria la strattonarono e intervennero subito.

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«Scusateci signore, ma siamo arrivate, il mare è proprio qui davanti a noi, seguiremo il vostro consiglio e andremo subito a lavarci, così non vi daremo più fastidio col nostro odore di stalla!» Il giovane si allonta-nò sbruffando e Maria riprese bruscamente la figlia. «Lina ci ha appena ammonite di stare attente e non parlare con gli sco-nosciuti e tu cosa fai? Lo provochi? Un signore così distinto poteva chiamare i carabinieri e farci arrestare tutte! Sei impazzita a rispondere così? Sei proprio un’ingenua figlia mia! Non possiamo fidarci di nessu-no, lo sai che per delle donne sole non c’è giustizia in questo mondo, quindi occhi ben aperti e attenzione!». «Scusatemi… io non volevo...poi aveva un’aria così distinta…credevo fosse una brava persona…» singhiozzò Angela dopo l’ammonizione. «Si come no! Talmente gentile che ci ha umiliate tutte con la sua arro-ganza! Non possiamo assolutamente fidarci degli sconosciuti, a maggior ragione se hanno l’aria distinta… quelli sono peggiori degli altri» concluse Lina. Il mare era lì di fronte a loro, calmo e piatto, ma quella enorme distesa d’acqua incuteva un certo timore, in considerazione del fatto che nessu-na di loro sapeva nuotare. «Non avrei mai immaginato che fosse così grande» disse Lina alle ami-che. Le onde spumeggianti si frangevano delicatamente sulla risacca e lungo gli scafi delle barche ormeggiate vicino alla riva, facendo dei lie-vi spruzzi e formando una schiuma bianca simile all’albume dell’uovo quando viene frustato con due forchette. Un’onda arrivava e l’altra tor-nava indietro, pareva che una facesse una domanda e l’altra desse una risposta. Il riverbero del sole rendeva l’acqua di un colore brillante, e mossa dalle onde sembrava che mille pagliuzze dorate di spighe di gra-no le galleggiassero sopra. Un volo di gabbiani planò in mezzo alle onde, e alcuni di loro tornarono a librarsi verso il cielo col becco colmo di pesce. Proseguirono la strada lungo la passeggiata a mare, costeggiata di pal-me, oleandri e aloe, respirando quell’aria così intensa e fresca e quel profumo tutto nuovo di salsedine. Sullo sfondo si vedeva il faro che dominava imponente la baia circo-stante. Sulla sabbia in riva al mare alcuni pescatori con le loro barchette stava-no riparando le reti. Più avanti altre barche erano ormeggiate al molo. «Guardate quelle barche laggiù» osservò Lina, «non assomigliano ai pali delle viti, così alti e nudi?»

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«A me invece sembra un cimitero con tante croci! Mi mette tristezza» aggiunse Maria, che pensava ancora alle parole umilianti di quel giova-notto distinto. In effetti tutte quelle barche ancorate a vele ammainate, viste in lonta-nanza, sembravano proprio un cimitero di croci, un campo di battaglia in mezzo al mare. Avanzarono in direzione del porto. Un gruppo di uomini, tutti sporchi di fuliggine, era intento a scaricare il carbone dai vagoni di un treno merci; tutt’intorno un fumo nero fuoriu-sciva dal fumaiolo di quel treno a vapore che era lungo cinque o sei vagoni e quei poveracci dovevano scaricare il carico di carbone a mano, aiutandosi con grandi ceste che trasportavano sulla schiena fino alla barchetta ancorata lì vicino. Quando la barchetta era carica si dirigevano verso le grandi navi a va-pore ancorate più avanti, scaricavano di nuovo il carbone, poi tornavano al treno e ricominciavano il giro. Lina pensava che quello doveva essere un lavoro molto duro, specie d’estate sotto il sole cocente. Ma ora dovevano trovare il molo da cui partivano le navi per l’America. Lina si guardò attorno, poi chiese a uno di quei ragazzi, sudaticcio e sporco di fuliggine come uno spazzacamino, informazioni per raggiun-gere il molo da cui partivano le navi per il nuovo mondo. Il giovane rispose con uno spiccato accento genovese. «Dovete andare al Molo Federico Guglielmo, da quella parte» allungò il dito indice dall’unghia contornata di nero carbone, puntandolo verso destra «da lì partono tutte le navi per l’America, dovete andare alla bi-glietteria della Stazione Marittima a chiedere informazioni». «Grazie figliolo». Seguendo le indicazioni del ragazzo, si trovarono ben presto di fronte alla Stazione Marittima. «Tina e Maria con me, voi invece aspettateci qui e controllate gli ani-mali» affermò prontamente Lina. Si avviarono velocemente alla biglietteria e chiesero informazioni all’impiegato. «Quando parte il prossimo bastimento per New York? E quanto costa il biglietto di sola andata?» domandò Lina timorosa. «Fatemi controllare un attimo… Bene. Di navi italiane per ora non ce ne sono in partenza, vediamo tra quelle straniere, vanno bene lo stes-so?» domandò l’impiegato alle ragazze.

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«Credo di sì, se il costo è uguale per noi va bene» rispose Lina dopo un rapido consulto con le amiche. «Dovrebbero costare un po’ meno» rispose l’impiegato, «qui la concor-renza è spietata! Dunque… il prossimo bastimento per New York partirà giovedì 11 febbraio, con questa compagnia tedesca costa solo 170 lire invece di 175 lire delle compagnie italiane! Se volete partire sicure vi consiglio di iniziare ad acquistare i biglietti già da oggi, dopo si rischia di rimanere a piedi» riferì l’impiegato cercando di sollecitare l’acquisto. «Ricordatevi inoltre che è preferibile arrivare al molo almeno due ore prima, occorre del tempo per imbarcare tutti i bagagli». «Grazie ci penseremo su» risposero le signorine. Tornarono dalle amiche che le attendevano ansiose. «Allora cosa vi hanno detto?» chiesero curiose le altre ragazze. «Il prossimo piroscafo partirà giovedì, quindi dobbiamo trovare un po-sto in cui dormire per due giorni! Il costo è 170 lire a testa con una compagnia non italiana altrimenti il prezzo del biglietto sale» comunicò Lina alle amiche. «Cosa cambia? Italiana o non italiana a noi cosa importa? L’importante è spendere il meno possibile» si giustificò Maria. «Dobbiamo vendere gli animali, dovremo tirare sul prezzo per trovare un alloggio al riparo per due giorni per cinque persone». A questo non avevano pensato, cre-devano che le navi partissero per l’America ogni giorno. Quindi il problema di dormire a Genova non rientrava nel loro piano di viaggio. Ma quanto sarebbe costato dormire in una locanda decente? Forse era il caso di riprendere in considerazione la proposta avanzata dal signor Vanni al loro arrivo, ma Lina ebbe un’idea. «Ma certo! La Stazione Marittima» esultò come in preda a un’illuminazione. «Là dentro c’è tanto spazio, possiamo trascorrere le notti lì, se nessuno ci manda via!». «Sì, potrebbe essere un’idea, ma gli animali?” si preoccupò Tina. «Dobbiamo riuscire a venderli subito» disse Lina. «Vedrai che troveremo qualcuno che li vuole» rispose Maria. Mentre si avviavano verso il mercato furono fermate da un fattore ligu-re, che con l’aiuto di uno dei suoi contadini stava trascinando a mano un carretto carico di bidoni di latte, e chiese loro: «Mi servirebbe proprio quel bel mulo col carretto, volete vendere i vo-stri averi? Vi do 100 lire!». «Per 100 lire possiamo darvi la capra buon uomo, ma il mulo ne vale almeno altri 250» rispose prontamente Maria.

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«200 e compro tutto, mulo capra e carretto» offrì ancora il fattore. Il contadino, senza farsi notare dal fattore accennò di alzare ancora la po-sta, facendo un lieve movimento del braccio per farsi notare e indicando loro gli occhi al cielo. «No, ci dispiace è troppo poco» risposero le ragazze, «almeno 300 lire per tutto». «Vi propongo l’ultima offerta: 230 lire! Prendere o lasciare» ribatté l’uomo. Il contadino, ormai loro segreto complice, puntò ancora una volta il dito indice verso l’alto, ovviamente ancora di nascosto dal fattore. «250 e non ne parliamo più» tirò ancora sul prezzo Lina. «Complimenti!» esclamò «vedo che ci sapete fare con gli affari anche se siete solo donne! Mi siete simpatiche, vada per 250 lire» replicò il fattore mettendo mano al portafoglio. «Avete fatto un affare signorine belle!». Il contadino fece una smorfia di approvazione. «L’affare lo fate voi signore!» risposero le ragazze, mentre Lina strinse un simpatico occhiolino al contadino che le aveva aiutate a concludere la trattativa al meglio. «Però dobbiamo scaricare le nostre cose dal carretto, potreste seguirci fino alla Stazione Marittima?» «D’accordo! Pensaci tu Pippo, io ho degli affari urgenti da sbrigare». Il fattore si accomiatò dopo averle salutate, mentre il contadino le seguì. Giunte di fronte alla Stazione Marittima scaricarono i loro bagagli dal carretto e salutarono i loro animali dicendo al contadino: «ci raccoman-diamo Pippo, li tratti bene, soprattutto il mulo non lo carichi troppo». «D’ora in poi baderò io a loro, il mulo lo utilizzerò per trasportare il latte da vendere, alla capra ci penseranno i miei figli a portarla al pasco-lo! Tante grazie signorine e fate buon viaggio!». Finalmente si erano tolte il peso e l’ingombro degli animali, un passo avanti era compiuto. Si divisero i soldi: «Ecco qui! 50 lire a testa!» disse Lina dopo aver fatto il conto. «Non è gran che ma meglio di niente». Avevano ancora la gallina già pulita da vendere. La piazza del mercato brulicava di anime, un profumo di frutta, agrumi e spezie deliziava i loro olfatti: una lunga fila di genti con ceste colme di cose buone da vendere o scambiare, disposte ai due lati della via e intorno al perimetro della piazza, gente semplice, allegra e onesta, come loro. Un fruttivendolo aveva in bella mostra delle belle arance di Calabria, essendo la figlia sposata a un calabrese, e gridava:

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«Arance belle e succose di Calabria! Venite donne! Produzione di fa-miglia!». Furono particolarmente attirate da quei bei frutti grandi e arancioni, non ne avevano mai visti prima, nei mercati delle loro zone era difficile tro-varli e se c’erano costavano troppo. Tina si avvicinò chiedendo all’uomo: «Si possono assaggiare le arance?» «Certo!» rispose il fruttivendolo porgendogliene una. «Chi assaggia torna» concluse l’uomo sicuro di sé. Tina sbucciò la grossa arancia, la aprì a metà e ne offrì alcuni spicchi a tutte le compagne. Era la prima volta che le contadine assaggiavano un’arancia! «È squisita!» esclamarono in coro estasiate da quel sapore tutto nuovo. «È deliziosa, così dolce, succosa e un po’ aspra allo stesso tempo» rac-contò Lina assaggiando il frutto e cercando di farselo durare più che poteva. «Quanto costa questa bontà?» domandò Tina al venditore ambulante. «Possiamo metterci d’accordo, cosa avete da scambiare?» Tina tirò fuo-ri la gallina pulita dal fagotto e la porse all’uomo. «Una gallina già bella pulita! Bene ci accorderemo sicuramente! Posso darvi quattro chili di arance». «Stiamo partendo per l’America signore, sulla nave avremo bisogno di frutta o ci verrà lo scorbuto» intervenne prontamente Lina per cercare di tirare sul prezzo. «Facciamo sei chili! La gallina è già bella pulita e strinata, è pronta da mettere a cuocere!» propose Lina. Il venditore allora esclamò: «Va bene, oggi voglio venirvi incontro facciamo cinque chili, così met-tiamo la gallina in pentola». Le ragazze accettarono di buon grado, contente di poter mangiare anco-ra arance per qualche giorno. «Ora non ci resta che andare ad acquistare i biglietti» suggerì Lina, e in fila per tre col resto di due si avviarono verso la biglietteria della Sta-zione Marittima. Fine anteprima.Continua...