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Centro di metodologia delle scienze sociali BELGIO: LA DEMOCRAZIA CONSOCIATIVA ALLA PROVA Marco Valerio Lo Prete Working Papers n. 109, 2008 © 2008, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 - 00197 Roma - Tel. 06/85225.702-762 - Fax 06/85225.503 - E-mail: [email protected]

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BELGIO: LA DEMOCRAZIA CONSOCIATIVA ALLA PROVA

Marco Valerio Lo Prete

Working Papers n. 109, 2008

© 2008, Pubblicazioni a cura del Centro di metodologia delle scienze sociali, LUISS Guido Carli, Roma – Viale Romania, 32 - 00197 Roma - Tel. 06/85225.702-762 - Fax 06/85225.503 - E-mail: [email protected]

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Belgio: la democrazia consociativa alla prova

di Marco Valerio Lo Prete

ABSTRACT. La classificazione dicotomica delle democrazie contemporanee, divise secondo Arend Lijphart tra consensuali e maggioritarie, per quanto affermata tra gli scienziati della politica, merita di essere sottoposta continuamente al vaglio di una rigorosa analisi teorica ed empirica. Lo studio del caso del Belgio, annoverato come “prototipo” di democrazia consensuale, ci offre l’occasione di avanzare delle critiche alla teoria di Lijphart da un duplice punto di vista. L’analisi del politologo olandese non si limita infatti a descrivere e spiegare, ma assume consapevolmente un forte connotato prescrittivo. Innanzitutto tenteremo di individuare un limite all’analisi descrittiva proposta, criticando in particolare l’idea che il modello consociativo esalti il potere ed il ruolo del Parlamento, che invece in Belgio è de facto esautorato di ampia parte dei suoi poteri. Ci addentreremo poi in una breve descrizione del ruolo che le istituzioni consociative hanno giocato e giocano nei conflitti etnico-politici che caratterizzano il paese, argomentando che – lungi dall’aver risolto questi conflitti – le istituzioni consociative tendono a cristallizzare il confronto, rendendo più difficile – nel lungo periodo – superare il cleavage etnico-culturale.

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Introduzione

Pur ricoprendo solo 30.000 chilometri quadrati del suolo europeo, abitato da nemmeno 11 milioni di abitanti, il Belgio ha spesso attirato le attenzioni di politologi e sociologi di tutto il mondo. All’inizio del XIX secolo perché considerato un caso di monarchia costituzionale esemplare, sintesi delle esperienze britannica e francese. All’indomani della seconda guerra mondiale, e soprattutto poi a partire dagli anni ’60, perchè divenuto peculiare per il suo modo di affrontare - e forse risolvere – le fratture linguistiche e culturali che lo percorrono ancora oggi.

Da allora per alcuni, pensiamo a Maurice Duverger ed alla dottrina francese maggioritaria, il Belgio rappresenta il precipitato di tutti gli aspetti più deleteri delle classiche democrazie parlamentari: paese in cui vige la legge elettorale proporzionale, con un numero sempre crescente di partiti politici ad animare la scena parlamentare, con una profonda instabilità governativa ed uno dei meccanismi federali più complessi al mondo. Risultato? Un paese costantemente in panne.

Per una generazione di politologi americani invece, guidati dall’olandese Arend Lijphart, il Belgio rappresenta al meglio il modello di democrazia destinato a sopravvivere al mutare delle società e al dipanarsi della storia. Il modello consensuale, o consociativo, sarebbe infatti quello meglio attrezzato a governare società divise, multietniche o multiconfessionali che siano, avendo come obiettivo e risultato una evoluzione “mite e serena” dei paesi.

Pur non ritenendo necessario schierarsi sin d’ora in questo dibattito, anche perché ciò richiederebbe una analisi più approfondita e più propriamente comparata di diverse realtà, siamo pur sempre convinti – sulle orme della classica metodologia falsificazionista – che “se nessuna teoria è logicamente certa, allora l’epistemologia comanda al ricercatore di andare alla caccia degli eventuali punti vulnerabili delle teorie, perché solo così la scienza può progredire, solo se troviamo nelle teorie degli errori e cerchiamo di eliminarli ad opera di teorie che, per quanto ne possiamo all’epoca sapere, sono migliori delle precedenti”1. Il tentativo falsificazionista è reso - se possibile - ancora più utile se consideriamo che la teoria di Lijphart sulle democrazie contemporanee costituisce ormai un paradigma fondamentale nella politica comparata.

Nella sua ultima edizione di “Le democrazie contemporanee”, quella del 1999, sin dalle prime pagine Lijphart annovera Belgio e Svizzera tra i “prototipi” del modello

1 Antiseri, D., Trattato di metodologia delle scienze sociali, UTET, 1996

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consensuale. Un modello di democrazia che può essere descritto, e questa descrizione occupa la maggior parte dell’opera, “sulla base di dieci elementi che sono in netto contrasto con le caratteristiche maggioritarie del modello Westminster”. Arend Lijphart non si limita però, nell’opera citata, ad applicare la potenza descrittiva del suo modello, ma piuttosto si propone di rispondere alla domanda: “e allora?”. Il politologo olandese afferma infatti senza mezzi termini che “poiché il rendimento complessivo delle democrazie consensuali è chiaramente superiore a quello delle democrazie maggioritarie, la prima delle due opzioni rappresenta un orientamento particolarmente attraente per i paesi che disegnano il loro primo impianto costituzionale democratico, o per quelli già da tempo democratici che contemplano la prospettiva delle riforme costituzionali”2. La sua teoria non si limita più a descrivere e spiegare, ma assume consapevolmente un forte connotato prescrittivo.

Di seguito tenteremo di dimostrare come il modello consociativo, se applicato propriamente alla realtà belga, soffra di alcuni limiti teorici ed empirici sia sotto l’aspetto descrittivo, che – in maniera anche più importante - in un’ottica normativa e prescrittiva.

Dal primo punto di vista riteniamo difficile concordare con Lijphart quando afferma che il modello consensuale esalterebbe il ruolo del parlamento nelle democrazie contemporanee. Nulla può dimostrare definitivamente che “i governi belgi non sono affatto in una posizione di predominio comparabile a quella dei casi di democrazia maggioritaria, soprattutto perchè, spesso, si tratta di ampie coalizioni con una limitata compattezza interna. Essi tendono così a stabilire con il Parlamento una vera e propria relazione di dare e avere”.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, il modello consensuale, pur avendo nel breve termine permesso una regolazione pacifica di alcune situazioni difficili che hanno messo alla prova lo stato-nazione belga – come la gestione dei principali cleavages che percorrono il paese -, nel lungo periodo ha dimezzato le possibilità di dialogo tra le comunità che compongono il Belgio, ponendo interrogativi importanti per il futuro del paese, anche alla luce di una “variabile interveniente” così importante come quella dell’immigrazione.

2 Lijphart, A., Le democrazie contemporanee, pp. 321-322, Il Mulino, 2001

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1. Democrazia consensuale, declino del parlamento

Infatti il livello alto o basso di un parlamento si adegua a seconda del fatto che in esso i grandi problemi vengano non soltanto discussi, bensì autorevolmente decisi – a seconda che, quindi, ciò che accade in parlamento conti qualcosa e quanto, oppure esso sia soltanto l’apparato di approvazione mal tollerato di una burocrazia dominante.

Max Weber

1.1 Il Belgio secondo Lijphart

I due modelli idealtipici di democrazia, quello maggioritario e quello consensuale, sono oramai divenuti “familiari nei lavori specialistici di taglio comparativo”3, popolarizzati a tal punto da essere entrati perfino nel discorso giornalistico. Nonostante ciò non crediamo costituisca un esercizio inutile, a maggior ragione in Italia, il ripercorrere tutti e dieci i caratteri salienti del modello consensuale, andando direttamente a ritrovare tali attributi nella realtà belga più o meno attuale.

Se infatti nella scienza politica il termine “consociativismo” introdotto nel 1968 è equivalente a quello di “democrazia consensuale” e quindi senza alcuna connotazione di valore, in Italia, in particolare dagli anni ’90, “l’espressione è fatta valere, in senso per lo più dispregiativo, per qualificare pratiche spartitorie e di lottizzazione del potere politico, esperite attraverso un accordo che coinvolge tutti i maggiori partiti”. Sempre con lo stesso termine, seppur con un senso più ampio, nel nostro paese consociativismo è sinonimo di un accordo che coinvolge i maggiori partiti “con l’obiettivo di costituire esecutivi stabili nell’ambito di sistemi politici fortemente frammentati in una pluralità di rappresentanza parlamentare”, un tipo di accordo che può prendere forme diverse: “il “prototipo” dei governi di unità nazionale maturato nell’ambito del C.L.N., il patto tra Dc e Pci per la “Repubblica conciliare” durante la fase costituente, l’esperimento del “compromesso storico” dal 1976 al 1979 con governi di “solidarietà nazionale” che godevano dell’appoggio comunista, il concetto stesso di “arco costituzionale” che,

3 Luca Verzichelli, dalla Premesse all’introduzione italiana de Le democrazie contemporanee, Il Mulino, 2001

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ribadendo l’unità dei partiti antifascisti, ha orientato per lungo tempo la cultura politica del paese”4.

Siamo ancora distanti dal senso che Lijphart dà alla parola “consociativismo”, intesa dall’autore come modello di democrazia rappresentativa. Le istituzioni “consensuali” di questo modello di democrazia differiscono, già nel fondamento teorico, da quelle maggioritarie tipiche dei sistemi anglosassoni. Se secondo queste ultime, dice Lijphart, il termine democrazia va inteso come “governo della maggioranza del popolo”, per le prime risulta ben più calzante la formula usata da sir Arthur Lewis, premio Nobel per l’economia, secondo cui in democrazia “tutti quelli che sono toccati da una decisione dovrebbero avere la possibilità di partecipare direttamente o tramite dei rappresentati eletti”. Quello del “chi vince governa” non sarebbe dunque un criterio ottimale, perché “escludere i gruppi perdenti dalla partecipazione al processo decisionale è una evidente violazione del significato originario di democrazia”. Questo è, a detta di Lijphart, tanto più vero quanto più ci si muove all’interno di società plurali, divise cioè in modo netto da fratture di carattere religioso, culturale od etnico, “che determinano sottogruppi praticamente separati, organizzati attraverso partiti, gruppi di interesse e mezzi di comunicazione” propri. “In queste situazioni il governo maggioritario si rivela non soltanto non democratico, ma anche pericoloso, poiché le minoranze alle quali si nega l’accesso al potere si sentiranno escluse e discriminate, e perderanno la loro fedeltà al regime”. Se quindi in questi casi la regola maggioritaria pura e semplice porterebbe, secondo questo tipo di ragionamento, alla dittatura della maggioranza e addirittura alla guerra civile, quel che serve è un “regime democratico che ponga l’accento sul consenso più che sull’opposizione, che includa più di escludere e che tenti di allargare al massimo le dimensioni della maggioranza di governo, anziché accontentarsi di una maggioranza risicata”. Questi obiettivi si concretizzano nelle dieci caratteristiche tipiche del regime consensuale, che ora brevemente vedremo come applicate al Belgio. Raggruppiamo queste modalità per esigenze di sintesi.

Condivisione del potere esecutivo attraverso grandi coalizioni (1), sistema multipartitico (2) e rappresentanza proporzionale (3). In contrasto con la tendenza, che è tipica del modello anglosassone, ad accentrare il potere esecutivo in governi monocolore, il principio consensuale consiste nel permettere a tutti i maggiori partiti di condividere il potere esecutivo, grazie alla formazione di ampie coalizioni. L’attuale coalizione di governo, a seguito delle elezioni federali del 2003, è composta da: VLD (Liberali e Democratici Fiamminghi), Movimento Riformatore (un cartello formato da: Partito Riformatore Liberale, Partito per la Libertà ed il Progresso, Fronte Democratico dei Francofoni, Movimento dei cittadini per il Cambiamento), Partito Socialista francofono e Partito Socialista fiammingo. In tutto il dopoguerra ci sono stati solo 4

4 De Mucci, R., Voci della politica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004

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anni di governo monopartitico, e dal 1980 tutti gli esecutivi sono stati sostenuti da coalizioni formate da minimo quattro partiti. Questo dipende anche dal fatto che nessuna delle formazioni politiche presenti in Parlamento riesce ad arrivare ad una posizione di maggioranza; il sistema multipartitico è infatti “estremo”, a maggior ragione dopo che tutti i partiti si sono suddivisi in raggruppamenti linguistici. L’emergere di un sistema multipartitico così frammentato può essere spiegato da due fattori: il primo, già illustrato, è la presenza di una società plurale; ciascuna delle “società nella società” cerca di trovare una sua propria rappresentanza e rappresentazione partitica. Il secondo fattore che spiega l’affermazione di questo sistema multipartitico si lega al sistema elettorale proporzionale presente nel paese.

Bilanciamento tra esecutivo e legislativo (4). Pur avendo il Belgio una forma di governo parlamentare assimilabile a quella inglese, con un esecutivo che dipende dalla fiducia del parlamento, “tuttavia i governi belgi non sono affatto in una posizione di predominio comparabile a quella dei casi di democrazia maggioritaria, soprattutto perchè, spesso, si tratta di ampie coalizioni con una limitata compattezza interna. Essi tendono così a stabilire con il Parlamento una vera e propria relazione di dare e avere”.

Corporativismo dei gruppi di interesse (5). Nel paese, secondo Lijphart, sono presenti “i tre elementi fondamentali del corporativismo: la concertazione tripartita, gruppi di interesse relativamente limitati nel numero e ampi, e il predominio delle associazioni di vertice”.

Governo federale e decentrato (6). Il processo di "devolution", cioè di decentramento del potere, inizia in Belgio nel 1970; dopo 25 anni, nel 1995, il paese diviene uno stato federale, come risultato di accordi raggiunti nel 1993. I differenti livelli di autorità nella struttura federale sono quattro: lo stato federale, con competenza per politica estera, difesa, giustizia e le altre residuali, cioè tutte quelle che non sono degli altri livelli; le tre comunità definite in base a un criterio linguistico culturale (francese, fiammingo, tedesco) con competenze in materie culturali e di educazione, ma anche di sanità e politiche della famiglia; le tre regioni (quella fiamminga, quella vallona e quella di Bruxelles-Capitale), ciascuna con il proprio parlamento e governo, si occupano di politica economica, occupazione, trasporti; infine le province.

Forte bicameralismo (7). Tra gli obiettivi del modello consensuale, è bene ripeterlo, quello di assicurare una particolare rappresentanza perfino alle minoranze, affinché nessun settore significativo della società sia escluso dal processo di decision-making. E’ proprio questo, nell’ottica di Lijphart, il motivo che giustifica l’istituzione di un parlamento bicamerale. Il politologo ammette però nel caso del Belgio che il nuovo Senato, eletto nel 1995, certo “rappresenta in modo specifico i due gruppi linguistici-culturali, ma è ancora largamente costituito su base proporzionale e non offre alcuna sovrarappresentazione alle minoranze francofona o fiamminga…Dunque il nuovo

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parlamento federale belga costituisce un esempio debole, e non uno forte, di bicameralismo”.

Rigidità costituzionale (8), controllo giurisdizionale di costituzionalità (9). Il Belgio ha, come tutti i paesi appartenenti alla categoria delle democrazie consensuali, una costituzione scritta e rigida, un documento cioè che può essere modificato soltanto da decisioni a maggioranza qualificata. Le “super-maggioranze” richieste e necessarie per emendare la legge fondamentale sono una garanzia, per i gruppi minoritari, che i loro diritti vengano in ogni caso garantiti. La minoranza vallone ha, in Belgio, un vero e proprio potere di veto, soprattutto per quanto riguarda le leggi relative all’organizzazione dei poteri tra le comunità. Conseguente a questa rigidità costituzionale è in genere la presenza di un ulteriore garanzia di rigidità delle norme fondamentali, cioè un controllo giurisdizionale di costituzionalità; un controllo che è rimasto assente in Belgio fino al 1984, quando fu inaugurata la nuova Corte di Arbitraggio. Nonostante la sua principale responsabilità fosse in principio quella di interpretare i dettami costituzionali in materia di separazione di poteri tra governo centrale, governi regionali e comunità locali, la sua autorità si è progressivamente ampliata ed oggi la Corte di Arbitrato può essere considerata una vera e propria corte Costituzionale.

Indipendenza della Banca centrale (10). L’autonomia della banca nazionale del Belgio è stata “notevolmente rafforzata nei primi anni novanta, all’incirca all’epoca della transizione verso un sistema federale, ma soprattutto in virtù del trattato di Maastricht, siglato nel 1992 e ratificato nel 1993, che obbligava gli stati membri dell’Unione Europea a rafforzare l’indipendenza delle rispettive banche centrali”.

Pur ribadendo che la teoria di Lijphart non si limita più a descrivere e spiegare, ma assume consapevolmente un forte connotato prescrittivi, inizialmente ci concentreremo su un limite dell’analisi descrittiva del modello di Lijphart.

1.2 Democrazia consensuale, declino del Parlamento

In questa sede non si vuole negare in toto la capacità descrittiva del modello consensuale, a maggior ragione se applicato alla realtà belga. Infatti quasi tutti i caratteri principali del modello consociativo li ritroviamo piuttosto fedelmente nella recente storia belga, quantomeno a partire dagli anni ’70, con l’inizio dell’implementazione del federalismo. Entrambi i “grappoli” di variabili già esplicitati in precedenza, tanto quello che concerne la diffusione del potere tra istituzioni e partiti politici (dimensione esecutivo-partiti) quanto quello riguardante la ripartizione territoriale del potere e le garanzie offerte alle minoranze (dimensione federale-unitaria), ci consentono di

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distinguere con precisione questo modello da quello anglosassone. Ma con due limiti, entrambi riguardanti l’analisi dei poteri parlamentari. Il primo, di cui sembra rendersi conto lo stesso Lijphart, riguarda il bicameralismo belga. A differenza dell’idealtipo consensuale, il Senato belga non costituisce un contrappeso federale della camera bassa. Il secondo limite, quello su cui concentreremo l’analisi che segue, soprattutto seguendo il lavoro del politologo belga Paul Magnette, è che nulla può dimostrare definitivamente che “i governi belgi non sono affatto in una posizione di predominio comparabile a quella dei casi di democrazia maggioritaria, soprattutto perchè, spesso, si tratta di ampie coalizioni con una limitata compattezza interna. Essi tendono così a stabilire con il Parlamento una vera e propria relazione di dare e avere”.

Il regime parlamentare belga si è effettivamente stabilizzato, superando conflitti che altrove avrebbero rimesso in causa la sopravvivenza stessa dell’entità statuale, ma “occorre anche ricordare che questo è avvenuto mettendo la sordina ad alcuni dei meccanismi formali del parlamentarismo, e che le camere risultano le principali vittime degli accordi politici della democrazia consensuale”5. Evidenzieremo quattro tra gli elementi che storicamente possono spiegare la transizione del Belgio ad un modello di democrazia “mite e serena”. Tre di questi sono apertamente presi in considerazione da Lijphart e dai teorici della democrazia consensuale: la predisposizione delle élites politiche nazionali alla negoziazione ed al compromesso, l’attuazione di meccanismi di concertazione sociale “neo-corporativisti” che permettono di spostare quasi del tutto i conflitti socio-economici al di fuori delle aule parlamentari ed infine il processo di federalizzazione progressivamente avviatosi negli anni Settanta e giunto ad una prima stabilizzazione complessiva nel 1993. C’è un ultimo - ma non per questo meno importante – fattore che ha contribuito alla stabilizzazione del parlamentarismo belga, “passato sotto silenzio dalla teoria consociativa. Lijphart ed i suoi discepoli, pur sottolineando l’importanza dei meccanismi informali nelle democrazie cosiddette complesse, hanno dedicato poca attenzione alle strutture para-istituzionali che si sono progressivamente costituite per sistemare alcune questioni a margine del sistema parlamentare”6.

Non basta dire che i meccanismi “neo-corporativisti” consolidano il regime; è necessario anche ricordare come l’inclinazione al compromesso, generando forme parallele di gestione della politica, tenda a concentrare il potere nelle mani dell’esecutivo, accentuando la marginalizzazione del parlamento piuttosto che generando una “relazione di dare e avere” tra i due poteri in questione. Questo fenomeno non è appannaggio della sola realtà belga ed anche per questo crediamo vada

5 AA. VV., Vers un renouveau du parlementarisme en Europe?, p. 92, Editions de l'Université de Bruxelles, 2004 6 AA.VV, ibidem, p. 97

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maggiormente sottolineato. L’esperienza belga, così caratteristicamente consensuale, ci permette di evidenziare le possibili distorsioni tutt’altro che democratiche che il modello prediletto da Lijphart può generare. Per chiarire questi meccanismi che portano alla marginalizzazione del potere legislativo, faremo riferimento ad un evento saliente della recente storia politica belga, come la crisi degli anni Cinquanta, ribattezzata “Guerra Scolastica”, infine sfociata nel cosiddetto “Patto scolastico”. Analizzeremo ora le cause, gli attori e le dinamiche di questa fase storica, per poi trarre alcune conclusioni su quella che è la prima chiara manifestazione di un certo modo di prendere le decisioni politiche nel paese.

1.3 1952 – 1958: la Seconda “Guerra scolastica” in Belgio

L’istruzione in Belgio, come in tutti i paesi percorsi da una frattura filosofico-religiosa che contrappone cittadini di fede diversa o – più spesso in Europa – correnti laiche e correnti clericali, è stata spesso e volentieri materia di scontro ideologico, ancor prima che politico. Pensiamo alla storia italiana, ed al compromesso raggiunto nell’articolo 33 della nostra Costituzione dove da una parte si enuncia che “la Repubblica”, intesa nel senso restrittivo di Stato, come chiarì il relatore onorevole Marchesi, “detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”, ma dove al terzo comma si specifica pure che “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Una disposizione, quest’ultima, apparentemente chiara, ma che non ha mancato di suscitare divergenze interpretative, e poi scontri politici, soprattutto per quanto riguarda l’esclusione di oneri per lo Stato.

Tornando al Belgio, riteniamo necessaria un’ulteriore contestualizzazione della “guerra scolastica” avvenuta, una contestualizzazione che ripercorriamo sulle tracce della ricostruzione storica realizzata da Nathalie Schiffino7. Alla vigilia degli anni Cinquanta la questione scolastica, pur sempre presente nell’agenda politica, non è prioritaria nella scena politica belga: il paese ha appena affrontato una profonda divisione sulla possibilità o meno di confermare un regime di monarchia costituzionale. Nel paese inoltre già esiste una legislazione in materia, quantomeno riguardante l’istruzione primaria: nel 1914 la legge Poullet sembra ancora il miglior compromesso possibile; oltre a stabilire un insegnamento gratuito ed obbligatorio per i bambini dai 6 ai 12 anni, ripartisce i sussidi dello stato tra scuole ufficiali e scuole libere. L’applicazione della legge è ritardata dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale; appena questa si conclude, nel 1919, i cattolici, con una svolta di 180 gradi rispetto alla

7 Schiffino, N., Crises politique et democratie en Belgique, L’Harmattan, 2003.

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loro posizione precedente, accettano il suffragio universale maschile. In cambio, nel clima di unità nazionale che regna nel paese all’indomani della Grande Guerra, i “non cattolici” avrebbero dovuto appoggiare definitivamente i sussidi alle scuole primarie “libere”, ovvero – a quel tempo – di confessione cattolica. E’ in questo clima che viene approvata la legge Buyl, secondo la quale il trattamento economico degli insegnanti, in ogni sorta di istituto scolastico, sarà da quel momento garantito dallo stato. Da una parte il già citato spirito di unità nazionale, dall’altra la pressione dei sindacati degli insegnanti (con l’eccezione di quello socialista) ed infine la minaccia di una crisi di governo da parte del ministro ad interim per le Scienze e le Arti Charles de Broqueville, spingono socialisti e liberali a votare la legge. “Disposizioni provvisorie”, si consolarono allora i laici, smentiti poi dal trascorrere degli anni. Il clima di unità nazionale inizierà a scemare con il tempo, ed è allora che gli attori in campo torneranno a inasprire le loro posizioni. Apre le danze il Partito Operaio Belga (P.O.B.) che nel corso del suo congresso nel novembre del 1931 si schiera per il divieto, nei confronti dei diplomati delle scuole libere, di divenire insegnanti nelle scuole comunali, oltre che per la soppressione di qualsiasi sovvenzione all’insegnamento libero. Nel giugno del 1932, nel corso del suo congresso, anche il Partito Liberale chiede la soppressione graduale dei finanziamenti alle scuole libere. La miccia è formalmente accesa, ma finirà di bruciare solo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. A fronte della massificazione e delle democratizzazione dell’insegnamento, anche a livello di scuola media, le scuole secondarie libere sono costrette ad aumentare le rette per le famiglie, contraddicendo di fatto la finalità della democratizzazione scolastica. Saranno proprio le rivendicazioni della rete delle scuole libere a costituire la goccia che fa traboccare il vaso. Approfittando della maggioranza assoluta nelle due Camere tra 1950 e 1954, ottenuta a seguito del dibattito sulla questione reale, il Partito Cristiano-Sociale (P.S.C.-C.V.P.) decide di riorganizzare per via legislativa l’insegnamento statale, con due obiettivi primari: quello di migliorare il regime di sovvenzioni indirizzate all’insegnamento libero e quello di instaurare una struttura di cooperazione tra rete scolastica ufficiale e rete libera (attraverso l’istituzione delle cosiddette “commissioni miste”). Le leggi Harmel furono naturalmente percepite dall’opposizione anticlericale (nella quale comprendiamo i due partiti maggiori, socialisti e liberali) come un’imposizione unilaterale da parte dei clericali, da cancellare al primo cambiamento di maggioranza. Quest’ultimo arriva nel 1954; segue immediatamente la legge Collard del 1955. Una legge quadro, che quindi fissa delle direttrici generali ma che poi dovrà essere implementata da decisioni della corona, il cui è obiettivo è ancora una volta duplice: eliminare gli ostacoli legislativi allo sviluppo dell’insegnamento statale (così erano interpretate le commissioni miste appena istituite) e limitare le sovvenzioni alla rete libera. Il carattere revanscista della legislazione è attaccato duramente dai partiti cattolici: siamo nel mezzo della “guerra scolastica”. Una guerra che si combatte a suon

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di elezioni, locali o nazionali che siano, a suon di legislazioni cancellate e ribaltate, una guerra che si combatte sulla stampa e nelle strade, una guerra che non permette nemmeno alla Massoneria ed alla Chiesa di rimanere a guardare. Di questo conflitto sono almeno due gli aspetti che meriterebbero attenzione: il primo, di merito, riguarda l’evoluzione, l’approfondimento e poi il superamento del cleavage filosofico-religioso che percorre il Belgio sin dalla sua indipendenza; un secondo aspetto, di metodo, si attiene invece alle modalità con cui il paese è riuscito a superare la crisi. Proprio quest’ultima analisi è quella più rilevante ai fini della nostra ricerca. Nonostante la drammatizzazione della battaglia, innanzitutto parlamentare ma non solo, la vicenda termina con la decisione di sottoscrivere quello che allora fu ribattezzato “Pacte scolaire” (“Patto scolastico”). I cattolici infatti, tornati al potere nel 1958, per un’ultima volta nella storia belga con una maggioranza autonoma, evitano questa volta la contrapposizione frontale.

Le ragioni sono almeno tre: da una parte i cattolici vogliono evitare una reazione dell’opinione pubblica uguale ed inversa a quella che ha portato loro, e non il blocco anticlericale, al potere. In secondo luogo, il Partito Cristiano-Sociale ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi al Senato, ma è minoranza (per due seggi) alla Camera, e quindi deve fare in modo di non compattare oltremodo lo schieramento avversario. Infine la questione sociale e quella linguistica prendono il sopravvento sulla frattura Chiesa/Stato; si creano delle solidarietà trasversali nelle nuove materie all’ordine del giorno, che stemperano, almeno sul piano della politica scolastica, certe opposizioni. Sta di fatto che il Primo Ministro sceglie di costituire, all’interno del suo proprio gabinetto, una commissione nazionale tripartita con i rappresentanti dei maggiori partiti politici: T. Lefèvre, Van Hemelrijck, Harmel e Houben (P.S.C.-C.V.P.), Buset, Collard, Spinoy e Bracops (Partito Socialista), Destenay, Janssens, Motz e Vanaudenhove (Partito Liberale). I membri di questa commissione lavorano a porte chiuse, in contatto continuo con la direzione dei rispettivi partiti e con i rappresentanti degli interessi organizzati. L’accordo viene siglato durante le vacanze parlamentari, poi ratificato il 16 novembre 1958 dai congressi dei partiti8, che per l’occasione si tennero in maniera perfettamente coordinata, prima di essere trasmesso al Parlamento dove i membri, ormai “istruiti” con cura, non fecero altro che votare un testo di legge scritto in conformità alle direttive del Patto, e poi messogli sotto il naso9. Il contenuto del Patto scolastico è duplice: da una parte si prospetta una democratizzazione ulteriore dell’insegnamento, dall’altra un ampliamento del suo finanziamento. Un compromesso dunque, tanto sul piano dei principi (riconoscimento delle diverse reti scolastiche ed espansione democratica

8 In quell’occasione il Patto è accettato dai cristiano-sociali all’unanimità, dai socialisti per 659 voti contro 231, dai liberali per 117 voti contro 6 e con 4 astensioni. 9 Il 2 maggio 1959 alla Camera la legge è approvata con 196 voti favorevoli e 2 voti comunisti contrari ; al Senato 134 favorevoli ed un solo contrario.

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dell’insegnamento) che sul piano finanziario (crescita considerabile del budget statale per finanziare l’istruzione, anche libera). Il Patto prevedeva tra l’altro la costituzione di una commissione permanente di uomini di partito che, d’ora in poi, avrebbero per primi vagliato qualsiasi proposta in materia scolastica. Secondo Jeffrey Tyssens, massimo esperto in materia di “conflitti scolastici” in Belgio, questo metodo propriamente consensuale, si apprestava a divenire la norma: “Tecniche come quelle della spoliticizzazione, dell’affidare una qualsiasi questione a delle commissioni, o la concertazione portata avanti con discrezione e, soprattutto, l’abbandono del principio di maggioranza a favore invece di decisioni prese per consensus, permetteva di raggiungere dei compromessi. Si trattava di accrescere il più possibile i mezzi da spartire, in maniera che tutti i partiti potessero ottenere una fetta della torta senza perdere alcunché di ciò che era acquisito. Nel loro gergo, i politologi avrebbero parlato in questo caso di un non zero sum game”10. La questione scolastica, quindi, durante il suo svolgimento mette in crisi una certa strategia politica quale quella consensuale, già allora presente nel paese. Al suo termine però, con il Patto scolastico, la crisi non fa che rafforzare questo metodo classico di decisione politica. “La negoziazione diretta tra gli apparati di partito al di fuori del quadro istituzionale stabilito; il ruolo d’impulso politico affidato ai gabinetti ministeriali, penetrati dagli interessi organizzati; la segretezza degli scambi e la marginalizzazione dei dibattiti parlamentari, costituiscono, ancora oggi, le costanti delle democrazia di compromesso à la belge”11. Un tipo di negoziazione che troviamo anche negli accordi più importanti degli ultimi anni, come quello del 2000 sulla riforma delle forze di polizia, o anche quello del giugno 2001 relativo al finanziamento delle entità federate.

Nel primo caso si parlò di patto “octo-partito”, ribattezzato poi “Octopus”; la riforma della polizia non è evidentemente questione marginale, soprattutto in un paese profondamente turbato da una serie di scandali di pedofilia, con una rabbia montante nei confronti dell’apparato giudiziario, visto dall’opinione pubblica come inerme. All’indomani della marche blanche, un movimento di protesta trasversale che coinvolge migliaia di cittadini sdegnati per la mancanza di sicurezza nel paese, i partiti si affrettano a rilasciare dichiarazioni rassicuranti: in poco tempo i cittadini belgi avrebbero avuto una riforma della giustizia e della polizia. Correva l’anno 1996: passano i mesi, ma nulla si muove. Solo nel 1999, dopo l’evasione dal carcere di Marc Dutroux, meglio noto alle cronache come “mostro di Marcinelle”, colpevole dell’abuso, della scomparsa e dell’assassinio di alcuni bambini, gli otto partiti politici principali decidono di sedersi seriamente al tavolo della trattativa. In meno di due settimane si accordano su una bozza di testo che tratteggia le caratteristiche della polizia e della

10 Jeffrey, T., Guerre et paix scolaire, 1950-1958, Paris, Bruxelles, De Boeck-Université, 1997. 11 AA.VV, ibidem, p. 98

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giustizia del futuro. La bozza è sottoposta al Parlamento, anche questa volta debitamente “istruito” dalle segreterie di partito, ed il Senato si pronuncia sull’accordo il 26 maggio dello stesso anno. “Ce n'est pas la fin, ce n'est pas le commencement de la fin, mais la fin du commencement”, con queste celebri parole di Winston Churchill il presidente del gruppo parlamentare CVP, Hugo Vandenberghe, descrive quella che subito definisce come “la riforma più fondamentale della giustizia e della polizia che si sia avuto fin dal 1830”. I portavoce dei partiti protagonisti della concertazione, (CVP, PS, VLD, SP, PRL, FDF, PSC, VU), sottolineano con una sola voce l’importanza dell’accordo. Un accordo “storico”, sicuramente, se si pensa a come il Parlamento sia stato messo fuori gioco. Il ministro degli Interni, Louis Tobback, a fronte delle critiche di partiti minoritari, come i Verdi ed il Vlaams Blok, è costretto a “promettere che il Parlamento sarà pienamente coinvolto nelle riforme previste” 12.

Anche gli accordi del 2001, relativi al finanziamento delle entità federate e alla federalizzazione di ulteriori competenze, si svolgono in maniera simile. Sono il risultato di patti informali conclusi tra l’ottobre del 2000 ed il gennaio del 2001, innanzitutto tra i componenti della maggioranza a livello federale: i partiti liberali, quelli socialisti, quelli ecologisti. L’accordo, detto di Lambermont, è all’origine di due proposte di legge speciale che, meno di sei mesi più tardi, nel luglio 2001, sono approvate da Camera e Senato.

In questa maniera il Parlamento è relegato, anche più che altrove in Europa, al ruolo di camera di interinazione. La teoria consociativa di Lijphart dunque, pur con tutta la sua potenza descrittiva, deve sicuramente fare i conti con questa non piccola contraddizione interna. Per parafrasare Max Weber, che pur si riferiva ad una situazione ben diversa come quella della Repubblica di Weimar: “Infatti il livello alto o basso di un parlamento si adegua a seconda del fatto che in esso i grandi problemi vengano non soltanto discussi, bensì autorevolmente decisi – a seconda che, quindi, ciò che accade in parlamento conti qualcosa e quanto, oppure esso sia soltanto l’apparato di approvazione mal tollerato di una burocrazia dominante”13. Un sistema politico in cui si è disposti, in nome della “mitezza”, a spostare i dibattiti principali al di fuori dei luoghi istituzionalmente deputati, fondamentalmente per consentire scambi ed accordi di difficile valutazione da parte dell’opinione pubblica, deve pure mettere nel conto un indebolimento del ruolo del parlamento, quantomeno nella sua funzione più strettamente legislativa. Siamo ben lontani dunque dal “rapporto esecutivo-legislativo più equilibrato” che caratterizzerebbe - secondo l’analisi di Lijphart - il modello consensuale rispetto a quello maggioritario. 12 Le citazioni a proposito della vicenda Octopus provengono dal web-magazine del Senato belga, consultabile a questo link: http://www.senaat.be/doc/magazine/1998_4/f04-03.htm 13 Weber, M., Parlamento e governo. Per la critica politica della burocrazia e del sistema dei partiti, Laterza, 1982

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2. Democrazia consensuale e conflitto etnico-politico

Il n’y a point de Belges, il n’y en eut jamais, il n’y en aura jamais: il y a des Français, des Flamands ou Hollandais (c’est la même chose) et des Allemands.

Charles-Maurice de Talleyrand

2.1 Introduzione

Come già detto, la teoria di Lijphart sul modello consociativo di democrazia non si limita a descrivere e spiegare, ma assume consapevolmente un forte connotato prescrittivo. Dopo esserci soffermati su quello che appare innanzitutto un limite dell’analisi descrittiva del modello di Lijphart, affronteremo ora il tema specifico del conflitto etnico-politico nel Belgio contemporaneo, argomentando che le istituzioni consociative hanno avuto un ruolo importante nell’evoluzione, ed in definitiva nella cristallizzazione, del conflitto linguistico-culturale e politico nel paese.

Ci troviamo di fronte ad un classico esempio di eterogenesi dei fini che mette in crisi le stesse basi teoriche esposte da Lijphart: è infatti ironico che l’approccio consociativo, che pure sostiene il superamento del modello di politica basato sull’opposizione amico/nemico, finisca paradossalmente per ridare vita proprio al modello che ha dichiarato obsoleto.

Nella storia contemporanea del Belgio potremmo approfondire molte occasioni nelle quali il modello ha risposto agli stimoli esterni come “da manuale”, ma allo stesso tempo il ricorrente fenomeno etno-regionalista ha fatto e fa vivere al paese crisi politiche che rendono quantomeno dubbie le capacità taumaturgiche delle istituzioni consensuali.

Prima di compiere questa operazione, crediamo sia utile ripercorrere sinteticamente i principali approcci allo studio dell’insorgenza del fenomeno dell’etno-politica, applicando alla realtà belga i paradigmi più importanti della sociologia e della scienza politica attuale.

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2.2 Dall’etno-storia all’etno-politica

Quello dell’identità etnico-culturale, che si trasforma in risorsa con cui fare politica, è un lungo filo rosso che attraversa tutto il XX secolo, restando sottotraccia solo per la durata della “guerra civile mondiale” tra comunismo e suoi avversari.

Assistiamo oggi, tanto a livello nazionale che internazionale, al ritorno di forme presuntamente arcaiche di identificazione. L’emergere di aspri conflitti etnici in molti stati di recente democratizzazione ha generato il diffuso timore che “legami primordiali” possano ostacolare e vanificare il processo democratico, minando alla base “le magnifiche sorti e progressive” della liberal-democrazia che avanza sulla cresta della “terza ondata”.

A fronte di quanti preconizzavano di già la “fine della storia”, alcuni storici, sociologi e politici puntano il dito su fattori di instabilità che potrebbero turbare la pace democratica. Secondo una certa storiografia fu sin da subito evidente che l’asse interpretativo del XX secolo, quello che misurava i cento anni partendo dal 1917 fino al 1989, mettendo in evidenza “quegli avvenimenti e quei processi che fanno apparire epocale lo scontro tra il comunismo e i suoi avversari”, non fosse l’unico asse interpretativo possibile. Certo, il dualismo tra le visioni del mondo comunista e liberal-democratica “pervase tutto il secolo, assumendo forme diverse: libertà e uguaglianza; bolscevismo e antibolscevismo; capitalismo e comunismo; Est e Ovest” e, data la sua universalità tale antagonismo si è prestato a lungo quale “asse centrale per l’interpretazione del Novecento”14. Centralità non è sinonimo di unicità. La contrapposizione tra classi o valori non riesce infatti a soppiantare per tutto il XX secolo lealismi statali, distinzioni nazionali, fenomeni geografici, identità etnico-culturali (e connesse degenerazioni razziste fondate su motivazioni pseudo-scientifiche). Molti degli avvenimenti precedenti il 1917, come pure molti dei fatti che seguono il 1989, si collocano al di là della contrapposizione libertà – eguaglianza, si fondano piuttosto “sul rinascere di sensi di appartenenza che appaiono arcaici, su ethnos e nazionalità, sulla validità e l’efficacia di una lunga memoria e di un passato lontano in cui è radicata questa memoria stessa. Nell’epoca della guerra civile mondiale tra valori e diverse forme d’ideologie questi sensi d’appartenenza sembravano per un certo tempo come anestetizzati, sopraffatti dalla retorica degli universalismi contrastanti. Il loro ritorno fa sorgere il dubbio se il Novecento possa davvero essere compreso seguendo unicamente l’asse interpretativo dei valori antagonisti”14.

Cultura ed identità etniche hanno guadagnato importanza nel determinare processi di coesione, disintegrazione e conflittualità nel mondo post-1989. Pochi mesi dopo la fine della Guerra Fredda i teorici delle relazioni internazionali sono stati comunque costretti

14 Diner, D., Raccontare il Novecento. Una storia politica, pp. 9-45, Garzanti Libri, 2001

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a scartare quel modello di relazioni tra stati che dipingeva un mondo futuro unito nell’euforia e nell’armonia, la fine della storia insomma15.

Sul piano internazionale le guerre nei Balcani che scoppiano nel 1991 e che si trascinano fino alla pulizia etnica di Slobodan Milosevic del 1999, l’intensificarsi della guerra tra armeni e azeri, il perpetuarsi degli scontri tra truppe russe e guerriglieri mujaheddin in Asia centrale; sul piano interno conflitti etnico-politici che, sin dagli anni ’60, hanno luogo in Europa e negli Stati Uniti: la questione del Quebec, l’indipendentismo scozzese nel Regno Unito e quello basco in Spagna, l’emergere di partiti etno-regionalisti in Belgio.

Una lunga serie di processi che, almeno da un quindicennio, spingono le scienze sociali a dedicare una sempre maggiore attenzione allo studio dei fenomeni etno-politici nel mondo. A fronte della rinnovata attenzione verso le conflittualità etnico-politiche, le scienze sociali hanno difettato per lungo tempo di una strumentazione teorica adeguata. Buona parte degli studi di etno-politica a partire dalla fine della seconda Guerra mondiale ha continuato a fare riferimento agli studi sulla modernizzazione di impronta marxiana o durkheimiana. Alla metà degli anni ’70 questo insieme di teorie della “melting pot modernization” è stato sostituito dalle teorie della “modernizzazione conflittuale”, secondo le quali le crescenti interazioni economiche e sociali tra etnie differenti avrebbero aumentato la possibilità di conflitti etnici. Un approccio che, nelle sue espressioni classiche, metteva da parte una qualsiasi attenzione alla struttura e alla composizione dei movimenti etnico-politici. Per colmare questa lacuna, alle metà degli anni ’80, inizia ad emergere un approccio cosiddetto “psicologico”. Ancora oggi il dibattito è aperto, e soprattutto le teorie riconducibili al paradigma della “modernizzazione conflittuale” sono oggetto di critiche ed estensioni. Secondo autori come Saul Newman, l’approccio in questione dovrebbe spingersi oltre la mera identificazione delle variabili responsabili della nascita dei movimenti etnico-politici in esame; potrebbe essere utilizzato per analizzare l’aspetto ideologico ed organizzativo dei differenti movimenti etnico-politici, che ovviamente presentano caratteristiche diverse a seconda della situazione.

Di seguito passeremo in rassegna i più importanti paradigmi teorici di riferimento nello studio di tali processi etnico politici. Poi, svolgendo un’analisi del caso belga, approfondiremo in particolare il paradigma della “modernizzazione conflittuale” e concluderemo infine con alcune osservazioni sul ruolo che la democrazia, in particolare il modello consensuale di quest’ultima, può aver avuto e potrà avere sullo sviluppo della vicenda. 15 “E’ possibile che siamo giunti […] alla fine della storia in quanto tale; vale a dire al capolinea dell’evoluzione ideologica dell’umanità e all’universalizzazione della democrazia liberale occidentale quale forma ultima di governo dell’umanità”. Fukuyama, F., La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.

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2.3 Paradigmi teorici a confronto

All’indomani dell’indipendenza, la lingua ufficiale del Belgio divenne il Francese. La Costituzione del 1831 menzionava il “libero uso delle lingue”, cioè la libera scelta del cittadino di parlare nell'idioma che volesse; la legge impose invece l'utilizzo del francese alle istituzioni pubbliche e ai tribunali. Di fatto continuò a parlare fiammingo la fascia più povera del nord del paese, venendosi così a creare una situazione inammissibile in cui si possono rintracciare importanti radici della nascita di un movimento culturale-politico fiammingo. La rinascita del sentimento nazionale fiammingo, a partire dagli anni Quaranta del XIX secolo, portò all’organizzazione nel 1846 della Heilig Verbond (Unione Sacra), con scopi di promozione letteraria e linguistica: nella seconda metà dell’Ottocento, il fiammingo fu così ammesso nei principali usi e nell’insegnamento secondario; nel 1898, una legge costituzionale garantì al fiammingo le prerogative di seconda lingua ufficiale accanto al francese.

Un primo evento eclatante fu sicuramente quello di Coucke e Goethals, due operai fiamminghi condannati a morte dalla Corte di Assise di Hainaut e giustiziati senza che nemmeno capissero di cosa fossero stati incolpati, visto che l’intero si svolse in lingua francese. Ancora più gravi, quantomeno per le conseguenze quantitativamente più ragguardevoli, furono gli incidenti mortali che coinvolsero numerosi soldati fiamminghi nel corso della prima Guerra Mondiale, incidenti dovuti alle incomprensioni con i superiori che impartivano ordini in francese.

Quest’ultima era la lingua della borghesia anche nelle Fiandre, ma attorno alla metà del XIX secolo iniziò a crescere l'opposizione contro l'élite francofona. Entro la fine del secolo le leggi cambiarono in modo da riconoscere il Fiammingo come una lingua ufficiale ai fini dell'educazione, della giustizia e della pubblica amministrazione. Alla fine della Prima Guerra Mondiale il Francese divenne l'unica lingua ufficiale della regione vallona, ed il fiammingo fu reso unica lingua ufficiale delle Fiandre. La capitale del paese, Bruxelles, fu dichiarata ufficialmente bilingue.

Ma – è bene ripeterlo - è solo all’indomani della seconda Guerra mondiale, e più precisamente a partire dalla metà degli anni ’60, che le rivendicazioni da ambo i lati si intensificano. Rivendicazioni presto soddisfatte: nel 1963 si giunge alla formazione di quattro regioni linguistiche: quella di lingua francese (che include le provincie di Hainaut, Luxembourg, Namur, Brabant Wallon ed una parte di Liegi), quella di lingua fiamminga (Flandre Occidentale, Flandre Orientale, Anversa, Limbourg e Brabant flamand), quella di lingua tedesca (che si estende su 9 comuni dell'area di Liegi) ed infine la regione bilingue di Bruxelles-Capitale, formata da 19 comuni. Nelle regioni

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monolingui (Fiandre e Vallonia) la lingua dell'amministrazione pubblica e delle autorità deve essere quella della regione.

Negli anni ’60 e ’70, di fronte a questo riemergere delle conflittualità etnico-linguistiche che ha interessato il Belgio ma contemporaneamente altre democrazie consolidate in occidente, buona parte degli studi di etno-politica ha continuato a fare riferimento alle analisi sulla modernizzazione di impronta marxiana o durkheimiana. Marx e Durkheim, con le loro opere, hanno infatti esercitato anche in questo campo di studi una influenza importante che si è spinta ben oltre la loro scomparsa.

Secondo Marx il nazionalismo etnico, assieme alla religione, è parte integrante di quella sovrastruttura creata dalle classi politiche ed economiche dominanti al fine di legittimare, attraverso la creazione di una falsa coscienza, il proprio dominio sulle classi subalterne. Il processo di modernizzazione, che sarebbe culminato con la vittoria del proletariato e a seguire l’instaurazione della società senza classi, avrebbe spazzato via tutti gli orpelli della falsa coscienza, eliminando dal panorama culturale anche l’idea di nazionalismo etnico. Il carattere effimero del ruolo dell’appartenenza etnica (ethnicity) in politica è stato il lascito maggiore di Marx tanto ai suoi seguaci ideologici, quanto ad una più ampia schiera di successori.

Durkheim, da parte sua, attribuisce giustamente importanza alla crescente autonomia dell’individuo attraverso l’evoluzione sociale. Nelle “società primitive o arcaiche la personalità individuale è quasi totalmente assorbita dalla società o, secondo la terminologia di Durkheim, la “coscienza collettiva” coincide quasi completamente con la “coscienza individuale”. L’uomo primitivo pensa, sente e agisce come prescrive e comanda la collettività alla quale egli appartiene”16. Questo avviene perché la società primitiva si organizza attorno a gruppi simili, con famiglie o clan che hanno la stessa natura o svolgono le stesse funzioni. La solidarietà per rassomiglianza che unisce tali gruppi è quella che l’autore definisce “solidarietà meccanica”. Con il passare del tempo questo tipo di società è trasformato radicalmente dal progresso della divisione del lavoro; quest’ultima genera piuttosto un nuovo tipo di solidarietà basato sulla complementarità. “Solidarietà organica”, la chiama Durkheim, che lega interessi singolari ma complementari; un tipo di società retto dal cosiddetto “diritto restituivo”, che prende il posto di quello “repressivo”, il cui scopo non è di punire ma di mantenere o riportare le parti al loro posto all’interno della divisione del lavoro. Istituto tipico di questo diritto sarebbe il contratto. In tale società organicamente integrata, nella quale i singoli individui sono come rotelle di un grande ingranaggio, i “legami primordiali” perdono importanza, sono mere disfunzioni.

16 Rocher, G., Introduzione alla sociologia generale, pp.196-197, Sugarco edizioni, 2004

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Entrambe queste teorie, che in definitiva prevedevano che l’identificazione etnica sarebbe stata cancellata dalla storia e dal processo di modernizzazione – e da qui il nome di “melting pot modernization” - non hanno retto alla prova della storia del pianeta, tanto meno all’evoluzione delle conflittualità tra fiamminghi e valloni che ha interessato il Belgio. In questa realtà, anzi, si è assistito piuttosto ad un acutizzarsi, nel secolo passato, delle forme di rivendicazione politica dei gruppi etnico-linguistici. L’originaria rivendicazione culturale, soprattutto della popolazione fiamminga – con la nascita di associazioni culturali, pubblicazioni nella lingua minoritaria, ricerche erudite sulle tradizioni popolari –, è presto sfociata nelle rivendicazione politica. Il regionalismo – che punta ad una crescita delle attribuzioni ai poteri locali – si è presto convertito, a partire dagli anni ’70, in autonomismo vero e proprio. L’obiettivo è diventato dunque quello di ottenere statuti speciali che riconoscessero ai diversi gruppi linguistici delle forme di più ampio autogoverno, associandosi al progetto di riforma in senso federale che ha interessato il Belgio sino al 1993. Non mancano nel panorama politico attuale le estremizzazioni di regionalismo ed autonomismo, classificabili alla voce “separatismo”, con l’intenzione di creare un nuovo stato-nazione maggiormente omogeneo da un punto di vista etnico-linguistico.

Nessuna cancellazione, dunque, dell’identificazione etnica. Anzi. Non sono però mancate le ipotesi ad hoc, utili secondo alcuni per spiegare, pur rimanendo all’interno di questo paradigma della “melting pot modernization”, il riproporsi dei conflitti etnico-nazionali già negli anni ’60 e soprattutto con l’avvio della decolonizzazione. Si è fatto pure ricorso alla teoria dell’anomìa di Durkheim; secondo questi autori la modernizzazione avrebbe presto gettato nel dimenticatoio etnia e nazionalità, ma nel passaggio dalla società arcaica alla società moderna era ovvio ci si dovesse aspettare una fase di transizione durante la quale l’individuo, alla ricerca di un appiglio per resistere al vortice della trasformazione in corso, avrebbe fatto temporaneamente ricorso all’identificazione nazionale o etnica. Un palliativo che sarebbe servito per poco tempo ancora, un fenomeno spiegabile con le stesse motivazioni con cui Durkheim spiegava il suicidio nelle società moderne. I conflitti persistenti ancora oggi in Canada, nel Regno Unito e nel resto dell’Europa Occidentale rendono inutilizzabile una tale ipotesi ad hoc.

Ribaltando il paradigma della “melting pot modernization”, crediamo che la storia belga, per come brevemente tratteggiata, dimostri come non ci si possa limitare ad etichettare le identità etniche come un retaggio della società primitiva ma, piuttosto, come uno dei risultati possibili del processo di modernizzazione. Walker Connor, che possiamo annoverare tra i fautori del paradigma della “modernizzazione conflittuale”, esplicita questo ragionamento: la modernizzazione economica, portando al contatto ravvicinato di gruppi etnici prima isolati, dispiega tra essi una competizione per le stesse risorse o opportunità economiche. Cambia la visione del rapporto tra

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modernizzazione ed etnicità; quest’ultima è vista come una identità che può essere continuamente creata, distrutta e ricreata anche solo per perseguire obiettivi di rafforzamento economico e politico di un gruppo. Questa considerazione ha portato tra l’altro ad alcuni eccessi nella scuola di pensiero cui stiamo facendo riferimento: se l’identificazione etnica è considerata quale argomento esclusivamente strumentale, allora lo stesso concetto di identità etnica perde in connotazione; non sarebbe dunque importante caratterizzarlo in termini culturali o religiosi, territoriali o solamente etnici. Anche per questa ragione il paradigma della modernizzazione conflittuale è stato ampliato a più riprese. Joseph Rothschild, ad esempio, ha introdotto nel modello i gruppi etnici e lo stato quali attori con risorse economiche e politiche a loro disposizione. Dall’inizio degli anni Sessanta l’attività etno-politica sarebbe stata alimentata dall’impatto diversificato della modernizzazione sui gruppi etnici e dal contemporaneo declino del rispetto per l’autorità statale. La forma che l’attività etno-politica prende in ciascuna realtà dipende dall’equilibrio tra gruppi etnici in un certo paese; per spiegare un conflitto occorre partire da una analisi dello status quo, dalla distribuzione di risorse demografiche, economiche e politiche tra gruppi. L’equilibrio più comune è quello che ricalca un modello a reticolato: “ogni gruppo etnico persegue un’ampia gamma di funzioni economiche e di occupazioni, ed ogni classe economica e settore incorpora organicamente membri provenienti da numerose categorie etniche. Ma un certo livello di sovra-rappresentazione e di sotto-rappresentazione dei gruppi etnici all’interno delle classi economiche e dei grumi di potere politico è possibile, anzi, probabile” . I gruppi sovra o sotto-rappresentati possono decidere eventualmente di politicizzare la loro situazione; il corso e l’esito del conflitto dipenderanno dall’equilibrio demografico, politico ed economico di partenza. A differenza della versione più semplificata dello stesso approccio, in questo caso la modernizzazione economica e politica non è elemento necessario e sufficiente per spiegare l’emergere di conflitti etnico-politici, ma solo un elemento necessario, cui occorre affiancare la dotazione di altre risorse (economiche, demografiche e politiche).

Come risposta alle carenze del modello appena analizzato – che spesso finisce per descrivere il nazionalismo etnico come un fenomeno manipolato strumentalmente da alcune élites ai fini di risolvere conflitti di potere – citiamo infine l’approccio psicologico. Secondo questa scuola di pensiero esisterebbe una dinamica etnica peculiare che consentirebbe il superamento di quelli che sono percepiti invece come interessi razionali, siano essi di stampo politico od economico. Una dinamica di tipo psicologico che, allontanando l’attenzione dalle condizioni strutturali che accompagnano un conflitto etnico-politico, spiegherebbe innanzitutto quei conflitti etnici che dominano l’arena politica in certi paesi asiatici ed africani, anche quando le linee del conflitto in questione non seguono la contrapposizione tra interessi sia delle élites che del loro seguito. I legami etnici sono studiati per la loro ascrittività,

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caratteristica che li renderebbe in grado di sovrastare le divisioni di classe sociale. Secondo Donald L. Horowitz, autore che Saul Newman annovera tra gli esponenti di questo approccio psicologico, il conflitto etnico può poi prendere le sembianze di un conflitto sociale se la divisione dei ruoli sociali, economici e politici tende a coincidere in una certa società con l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico. Oppure, in alternativa, se la società in questione è caratterizzata dalla coesistenza di gruppi etnici semi-autonomi stratificati socialmente al loro interno, allora il conflitto tra gruppi etnici assumerà un carattere esplicito. L’approccio di Horowitz ha sicuramente il merito di argomentare l’esistenza di una logica propria del conflitto etnico che influenza allo stesso tempo le percezioni di leader e seguaci all’interno del movimento etnico-politico; un’influenza che non dipende solo da preoccupazioni di carattere economico o politico. Proprio questa logica spiegherebbe non solo la nascita, ma anche il percorso e l’azione dei movimenti in questione, non fermandosi – come invece facevano alcuni teorici della modernizzazione – alla spiegazione eziologica del fenomeno.

2.4 L’emergenza del conflitto etno-regionale ed il ruolo delle istituzioni consensuali in Belgio

Dopo aver esaminato, seppur sommariamente, i diversi approcci a quella che in italiano potremmo definire etno-politica, concludiamo privilegiando un’analisi del ruolo che le istituzioni del Belgio hanno avuto nell’evoluzione e nell’esito del movimento etnico-regionalista in loco. In definitiva rimarremo nell’alveo delle teorie della “modernizzazione conflittuale”,

integrandole con lo studio di un aspetto che ci pare ineludibile: il ruolo delle istituzioni.

La tesi di fondo, che certo meriterebbe una analisi – anche comparativa – maggiormente approfondita, è che la società belga, anche in ragione del suo modello istituzionale consensuale, assomigli sempre più ad una società frammentata piuttosto che a una società pluralistica. Per spiegare ciò occorre ripercorrere brevemente alcune tappe dell’evoluzione dei cleavages nella storia del paese.

Il modello consociativo in Belgio si perfeziona subito dopo la Seconda Guerra mondiale, ma affonda le sue radici all’indomani dell’indipendenza del paese. Il sistema di partiti politici che emerse nello stato unitario, pur rafforzando l’unità belga, fu sin dall’inizio caratterizzato dalla presenza di tre partiti principali, alla testa ciascuno rispettivamente di tre “pilastri” politici, “zuilen” nel termine originale fiammingo. Questi pilastri sono nettamente distinti ed isolati tra di loro al livello delle masse popolari, mentre le loro élites politiche si ritrovano spesso e volentieri a negoziare i rapporti reciproci ed i destini del paese. Il continuo dibattito sul ruolo dello stato nella

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educazione religiosa portò allo sviluppo del Partito Liberale (PVV/PLP) e del Partito Sociale Cristiano (CVP/PSC), mentre il processo di sindacalizzazione e l’obiettivo dell’ottenimento del suffragio universale portò allo sviluppo del Partito Socialista (BSP/PSB). Malgrado il PSB fosse maggioritario nella industrializzata Vallonia, il CVP nelle rurali Fiandre e il PVV/PLP a Bruxelles, ciascun partito aveva una organizzazione nazionale e praticamente erano inesistenti, a fronte di divisioni e motivazioni ideologiche, le espressioni politiche che si riferivano a differenze linguistiche. Ognuno dei tre partiti controllava strettamente il proprio pilastro politico che, mentre a livello di massa rimaneva isolato e separato dagli altri, a livello di classe dirigente attuava frequenti incontri ed accordi per programmare il futuro politico.

Alla fine della seconda guerra mondiale il paese si divise sulla questione reale, con solo il 42% dei Francofoni a sostegno del ritorno del re, ben accetto invece dal 72% dei Fiamminghi. Nonostante questo strappo, subito dopo tutti i partiti si convinsero della necessità di sviluppare una economia mista ed un welfare che fosse in grado di assicurare stabilità sociale, politica ed economica. Questo si tradusse in un primo accordo tra i “pilastri” della società belga: i partiti cattolico, socialista e liberale assieme alle associazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori. Lo sbocco fu un patto sociale di solidarietà che condusse a regolari contatti di questi gruppi, sotto gli auspici del governo, con una diminuzione dell’intensità del conflitto su temi di politica economica e sociale.

Un secondo accordo fra i tre maggiori partiti fu il già citato pacte scolaire del 1958. Questo ridusse le tensioni esistenti in materia di politica sulla scuola, ovvero sul ruolo dello stato nel finanziamento delle scuole private cattoliche e di quelle pubbliche, che ormai da cento anni costituiva il centro di un aspro dibattito. Il patto costituì una soluzione di lungo termine della disputa religiosa-secolare e come conseguenze determinò una diminuzione della necessità di un coinvolgimento clericale nella politica e l’indebolimento politico del partito cattolico, che aveva nell’argomento il motivo principale della sua coesione. Subito dopo la firma del patto, il partito socialista iniziò a deenfatizzare la sua ideologia anticlericale mentre il partito cattolico avviò un processo di completa deconfessionalizzazione.

Questi patti da una parte rafforzarono le élites ed il consociativismo à la belge, ma dall’altra crearono le condizioni della emergenza del fenomeno etno-regionalista. Sosteniamo dunque che, in un caso esemplare di eterogenesi dei fini, è stato proprio il perfezionamento del sistema “mite e sereno” di democrazia a creare le condizioni ottimali perché il sistema fosse messo in crisi da conflitti difficilmente componibili. Conflitti che possiamo suddividere, per comodità descrittiva, in due momenti. Una prima fase - dalla fine degli anni ’60 all’inizio degli anni ’90 - che coincide con l’istituzionalizzazione partitica e politica delle rivendicazioni etno-regionaliste e che ha

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la sua conclusione nella federalizzazione dello stato e nel riassorbimento dei movimenti regionalisti. Una seconda fase – dall’inizio degli anni ’90 ai nostri giorni - che, oltre che dal rinnovato vigore degli indipendentisti fiamminghi, è caratterizzata dalla difficoltà perfino di sostenere un dibattito sul futuro istituzionale del paese. Pur ritenendo rischiosa la commistione tra immediata attualità e tentativi subitanei di storicizzazione, crediamo che l’impossibilità odierna di formare un governo, ormai a tre mesi dalle elezioni, possa rappresentare l’acme di questa fase. Le origini dell’attività etno-politica sono spiegabili alla luce di almeno tre fattori17.

Un ruolo importante lo hanno svolto i cambiamenti socio-economici ed i rivolgimenti nella composizione della forza lavoro, con il conseguente allentamento di legami organizzativi ed ideologici all’interno dei grandi partiti e tra i loro elettori, con la possibilità dunque – per nuovi attori – di mobilitare degli elettori non più allineati. Negli anni ’50 e ’60 le Fiandre furono protagoniste di un boom economico vero e proprio, dovuto in particolare all’arrivo di capitali ed investimenti esteri, soprattutto statunitensi. L’economia fiamminga raggiunse i livelli della media nazionale e li superò: tra il 1953 ed il 1968, il Pil pro-capite regionale crebbe dall’85,6% della media nazionale al 94,5% dello stesso valore18. Nello stesso lasso di tempo l’industria pesante della Vallonia subì invece un tracollo: tra il 1955 ed il 1972 il numero di addetti valloni nel settore estrattivo-carbonifero calò da 92.000 a 12.000 individui. Tali cambiamenti “trasformarono la percezione dei gruppi etno-regionali in Belgio” (Newman): da una parte rafforzarono i fiamminghi, tra i quali si diffuse l’idea che lo stato belga – dopo aver per anni rappresentato gli interessi dei francofoni – ora usasse i soldi fiamminghi per sussidiare la regione meridionale del paese; dall’altra parte tali cambiamenti ingrossarono le fila di una classe media salariata, ideologicamente meno schierata e compatta, potenzialmente pronta a sostenere nuovi soggetti elettorali.

In secondo luogo l’accresciuta attenzione da parte dello stato centrale a questioni di politica regionale. La prima legislazione belga tesa a promuovere lo sviluppo economico a livello regionale (1959), come pure la serie di leggi approvate tra 1962 e 1963 a proposito della politica linguistica da adottare, hanno portato al centro del dibattito pubblico le questioni “etno-regionali”, favorendo nuovi attori partitici che proprio su queste tematiche fondavano la propria essenza.

A lasciare però le porte aperte ai rigurgiti etno-regionalisti contribuisce in larga parte un terzo fattore: l’assetto neo-corporativista che la politica belga ha assunto nel tempo. I compromessi raggiunti all’indomani della seconda guerra mondiale tanto in materia di

17 Per questa spiegazione causale concordiamo fondamentalmente con gli studi svolti da Saul Newman in Ethnoregional Conflict in Democracies. Mostly ballots, rarely bullets, Greenwood Press, 1996. 18 McRae, K., Conflict and Compromise in Multilingual Societies: Belgium, Wilfrid Laurier Press, 1983, p.79

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politica economica e sociale, quanto in materia di laicità, hanno diminuito drasticamente i punti di disaccordo tra i partiti maggiori, lasciando ampie praterie politiche che i nuovi soggetti etno-regionali, presentandosi come realmente alternativi, hanno potuto percorrere con successo.

Questo triplice ordine di fattori è, fatte le dovute differenze e spiegate le rispettive specificità, alla base dell’affermarsi di partiti come il Volksunie (VU), il Rassemblement Wallon (RW), il Front Démocratique des Francophones (FDF). Le origini del VU sono rintracciabili nella tradizione fiamminga del nazionalismo conservatore; l’elettorato e la leadership del RW, invece, pur essendo spesso in disaccordo per quanto riguarda l’agenda economica e sociale, erano uniti dall’impegno comune teso a dare alla Vallonia uno statuto nettamente federale; il Front Démocratique des Francophones, nato in risposta alla crescita di VU e RW, ha come obiettivo primario quello di difendere i diritti individuali, di libertà come pure quelli di poter scegliere la lingua di educazione, dei bruxellois, i cittadini francofoni della capitale.

L’affermarsi di tali partiti costituì un serio pericolo per il modello consociativo. L’attacco allo stato centralizzato si tradusse infatti, in primo luogo, in una perdita di consensi dai partiti tradizionali. Nel modello consociativo l’elemento di fluidità dell’elettorato non è solo all’origine di relativi successi o insuccessi dei partiti da sempre affermati, ma la causa scatenante di maggiori difficoltà nel portare a termine certi accordi e compromessi sui quali il sistema – lo abbiamo visto – si fonda.

Una volta che però il sostegno per questi nuovi soggetti si stabilizza, essi vengono accettati nel processo di contrattazione consociativa. Per loro si tratta di un’arma a doppio taglio. Da una parte i movimenti etno-regionalisti riescono a realizzare l’obiettivo principale che si erano prefissi: la federalizzazione dello stato belga. Dall’altra parte, una volta affievolitesi le richieste ideali più pressanti e una volta che le élite vengono cooptate nel modello istituzionale consociativo, gli elettori perderanno le motivazioni per sostenere tali partiti (v. Grafico 1 a pagina seguente).

“Inevitabilmente le leadership dei partiti etnoregionali devono scendere a compromessi…con gli attori di tutto lo spettro del sistema, anche al costo di identificarsi con le posizioni di altri soggetti e di iniziare ad apparire “come tutti gli altri partiti” proprio a quegli elettori che li avevano sostenuti per il fatto che sembravano differenti da tutti gli altri…(Essi) potrebbero pure perdere la loro immagine di portavoce per cause etno-territoriali”19.

A questo punto si potrebbe ritenere che il modello consociativo, a seguito della riforma federale e quindi della autonomizzazione dei segmenti – per utilizzare la terminologia di Lijphart –, sia giunto al suo perfezionamento. Come si potrebbe ritenere 19 Joseph R. Rudolph, Jr. e Robert J. Thompson, Ethnoterritorial movements and the Policy Process: Accomodating Nationalist Demands in the Developed World, Comparative Politics, aprile 1985, p.301

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che lo stesso modello abbia funzionato a dovere, facendo rientrare “nei ranghi” i partiti etno-regionalisti e le loro rivendicazioni centrifughe e potenzialmente destabilizzatici per il paese. In realtà è in questo momento, siamo alla metà degli anni ’80, che vengono gettati i semi per un rigurgito di indipendentismo fiammingo, questa volta spesso associato a velleità populistiche e razziste. Nel momento in cui ogni regione, a seguito della avvenuta riforma dello stato, inizia ad esercitare i poteri che gli spettano, ogni altra regione è come se di volta in volta si sentisse minacciata. Il governo federale diviene l’arena in cui regolare i conti. La disputa maggiore è quella riguardante il finanziamento dei programmi regionali, ma ve n’è anche un’altra, relativa alle licenze sulle armi da fuoco, che in realtà nasconde dissidi sulla definizione delle competenze nazionali e regionali, oltre che dissidi di natura economica. Alla fine degli anni ’80 la mancata risoluzione della questione convince il VU ad uscire

dal governo. Vengono convocate nuove elezioni.

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Con le elezioni del 1991 lo scenario politico cambia sensibilmente. Il tentativo del

CVP di ergersi come partito nazionale per eccellenza fallisce a causa del magro risultato ottenuto nelle Fiandre (26,9% contro il 31,4% delle elezioni precedenti e a fronte di percentuali attorno al 50% negli anni precedenti); il Partito Socialista fiammingo continua a perdere consensi, così come perde consensi il VU che arriva al minimo storico del 9,3%. Unico “vincitore” nelle Fiandre è il Vlaams Blok (VB), che passa dal 3% al 10,3% divenendo il primo partito nel distretto di Anversa, seconda città del paese (v. Grafico 2).

Grafico 2 . Risultati elettorali del VB nella regione delle Fiandre

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Il successo arriva dopo una campagna tutta centrata sulle rivendicazioni per una completa indipendenza delle Fiandre ed una politica di restrizioni sui flussi immigratori. Nella Vallonia tutti i partiti maggiori subiscono una flessione: il Partito socialista locale, i cristiano-socialisti ed i liberali. Gli Ecolo – cioè i Verdi francofoni - sono i mattatori della regione meridionale, balzando dal 6,5% al 13,5%. Nella regione di Bruxelles i partiti dell’estrema destra avanzano sensibilmente: il Front National – destra francofona – quadruplica i suoi consensi; il VB li triplica. Queste elezioni costituiscono un punto di

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svolta. L’elettorato del VB è probabilmente molto diverso rispetto a quello del VU – e questa non è la sede per analizzare tutte le motivazioni di questo elettorato - ma quel che conta ai fini della nostra analisi è che gli indipendentisti fiamminghi riescono ancora una volta, nel momento in cui la pratica consociativa sembra tornare a pieno regime, a smarcarsi, distinguendosi “dagli altri” e creando problemi ai partiti maggiormente affermati.

E’ come se il modello consociativo, ottimo per disinnescare conflitti troppo accesi tra rivendicazioni opposte, costituisse poi un terreno altrettanto fertile per dare i natali a movimenti e partiti che tendono a scardinare il sistema stesso. Il modello consensuale nasce nella teoria politica come alternativo alla dicotomia almondiana tra democrazia di tipo anglo-americano, stabile perché caratterizzata da una cultura politica omogenea e secolarizzata, e democrazia di tipo europeo-continentale, instabile perché caratterizzata da una cultura politica frammentata in subculture separate: una dicotomia che secondo alcuni non può essere considerata soddisfacente in quanto un certo numero di Paesi – in primis il Belgio, ma a seguire anche l’Austria, l’Olanda e la Svizzera – pur presentando un elevato grado di frammentazione culturale, pongono tuttavia in essere democrazie stabili. Tratto essenziale di queste realtà è la forte “segmentazione”, cioè la presenza nella società di linee di divisione cumulative di varia natura: religiosa, linguistica, ideologica…In tale contesto la stabilità politica sarebbe prodotta da un “sistema di accomodamento e di compromesso tra le élites”, le quali cooperano a colmare le distanze tra le varie subculture separate ed ostili. In realtà, come abbiamo tentato di dimostrare, questo stesso modello istituzionale che avrebbe dovuto svolgere un ruolo “più democratico” e “pacificatore” è ancora una volta in stallo.

2.5 Il fallimento del modello consensuale e l’affermazione del Vlaams Belang

Al momento in cui scriviamo (novembre 2007), a distanza di cinque mesi dalle ultime elezioni federali, il paese è ancora senza un governo. Se fino all’anno scorso l’idea di uno sfaldamento del Paese, possibilità ventilata da molti, soprattutto tra gli autonomisti, aveva ricevuto quasi nessun suggello editoriale o politico dalla classe dirigente interna ed internazionale, oggi la situazione è cambiata.

Il 10 giugno scorso le elezioni, oscurate mediaticamente – almeno in Italia - dalle contemporanee consultazioni presidenziali in Francia, hanno dato una netta vittoria alla destra fiamminga, a fronte di una crollo del Partito Socialista anche nelle sue roccaforti in Vallonia. Il CD&V-N-VA (cartello tra i Cristiano Democratici e Fiamminghi, l’ex CVP, e la Nuova Alleanza Fiamminga) ha ottenuto il 18,51% del totale dei voti; a seguire il Movimento Riformatore (francofono) con il 12,52% dei voti; terzo partito a livello nazionale il Vlaams Belang con l’11,99% dei consensi. A seguire i Liberali e

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Democratici Fiamminghi (Open VLD) con l’11,83%, il Partito Socialista (francofono, PS) con il 10,86%, il Partito Socialista Alternativo (fiammingo) alleato con il liberal-socialista Spirit al 10,26% e così via. Sono crollati infine i Verdi, sia nella versione francofona (gli Ecolo sono scesi al 5,10%) che in quella fiamminga (Groen! Al 3,98%). Il Vlaams Belang, pur essendosi ancora una volta attestato come secondo partito delle Fiandre, avrebbe probabilmente avuto ancora maggiori consensi se non fosse stato per la presentazione di un’altra lista indipendentista e populista come quella di Dedecker, con il suo 4,03% dei voti.

Dopo due mesi di colloqui infruttuosi tesi alla formazione di un governo per il paese, il re Alberto II ha sollevato il leader fiammingo cristiano democratico Yves Leterme dal suo incarico ufficiale di premier designato. I negoziati sono falliti intorno alle richieste di maggiore autonomia per le Fiandre, regione da cui Leterme proviene, rifiutate dai partiti francofoni. La sospensione dura solo una settimana; poi il re si trova costretto ad invitare Leterme ad avviare “nuovi contatti politici prima della ripresa di negoziati ufficiali per la formazione del governo”. Tempo quattro giorni e Leterme deve nuovamente gettare la spugna: la richiesta dei cristiano-democratici (CD&V) e dei liberali (Open Vld) fiamminghi di includere nel programma di governo una riforma costituzionale per rafforzare ulteriormente l’autonomia delle regioni federali ha trovato una opposizione insormontabile da parte di Joelle Milquet, presidente dei cristiano-democratici francofoni (Cdh). Da un sondaggio reso noto il 25 agosto, risulta che il 12% dei valloni e il 39% dei fiamminghi sarebbero favorevoli all’indipendenza reciproca delle due regioni federali, anche se, secondo altri sondaggi, la percentuale dei fiamminghi sale al 45%20. Un accordo di fondo sembra ancora lontano; al centro delle rivendicazioni dei partiti fiamminghi, condizionati dal buon risultato del VB e dei movimenti che si richiamano anche lontanamente all’indipendentismo, la richiesta di regionalizzare ulteriormente la gestione della finanza pubblica. Una questione dirimente è ad esempio quella delle tasse; nelle Fiandre la maggioranza dei partiti spinge per un abbassamento delle tasse che gravano sul reddito delle persone e delle imprese; la maggioranza dei partiti francofoni, invece, non vuole intaccare quelle che considera le fonti dello stato sociale. Risultato: il 18 settembre scorso il quotidiano francofono Le Soir, il più venduto nella parte sud del paese, ha dedicato la prima pagina ad uno scenario di scissione del paese. La stampa internazionale – ma non quella italiana che sembra non accorgersi di nulla – non fa più mistero delle difficoltà del paese: prima Le Monde con un editoriale21, poi addirittura il settimanale Economist che arriva a titolare:

20 Belgio/Crisi governo, cresce distanza Fiamminghi-Valloni, agenzia Apcom, 25 agosto 2007. 21 Stroobants, J.P., Les théoriciens flamands du séparatisme voient arriver la fin du royaume belge, Le Monde, 29 agosto 2007.

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“Sometimes it is right for a country to recognise that its job is done” (“A volte è giusto per un paese riconoscere che è finita”)22.

Il modello consensuale – con tutto quello che significa: grandi coalizioni ministeriali, veto reciproco tra i diversi “segmenti” della società, ricorso alla proporzionalità come criterio di attribuzione delle risorse economiche e di delega delle decisioni politiche, l’autonomia dei segmenti - di fatto non ha pacificato dunque i conflitti etno-politici latenti, non ha svolto il ruolo per cui ancora oggi molti scienziati della politica continuano ad indicarlo come il modello di democrazia più adatto per le società del futuro. Le cause di questa defaillance possono essere solo parzialmente rintracciate all’interno delle peculiarità storiche del Belgio. Chi scrive crede invece che le ragioni fondamentali di questo fallimento siano dovute anche al modello istituzionale vigente, e quindi – indirettamente – alla concezione di democrazia consensuale sottintesa al modello e teorizzata da Lijphart ed altri.

In Belgio, con l’applicazione della riforma federale e consociativa dello stato, le linee di demarcazione dei collegi elettorali coincidono oggi con le linee di confine tra comunità francofona e fiamminga. I seggi al parlamento nazionale, i dicasteri all’interno del governo, sono in numero prestabilito in base al peso demografico dei diversi gruppi culturali. (Perfino la comunità tedesca, con i suoi 70.000 membri, è forzatamente rappresentata in quanto tale). Lo stesso impianto federale del paese è funzione dei diversi gruppi linguistici: si parla di “Comunità francofona”, di “Comunità fiamminga”, di “Comunità germanofona”. I partiti politici si sono adeguati e, una volta scissi ciascuno in due partiti formalmente e sostanzialmente indipendenti (esempio: Partito socialista fiammingo e partito socialista francofono, partito liberale francofono e partito liberale fiammingo e così via), concorrono per due elettorati diversi e non comunicanti tra loro. Non esiste capo di stato e figura politica che necessiti di essere eletta a livello nazionale. Da decenni si è assistito pure ad una “territorializzazione della lingua”: a differenza del Québec, dove vige il bilinguismo obbligatorio per servizi pubblici e sociali in tutto il paese, oltre all’obbligo di apprendere la seconda lingua (rispettivamente inglese o francese), in Belgio ogni regione è mono-lingue, eccezion fatta per Bruxelles nella quale i servizi pubblici dovrebbero garantire l’accessibilità per fiamminghi e francofoni. Ma spesso solo sulla carta. Nessuna questione da dibattere in comune che non sia quella dei trasferimenti per il welfare alle regioni: insomma quanto basta per gettare benzina sulla infuocata querelle secondo cui gli “industriosi fiamminghi” manterrebbero con il pagamento delle tasse gli “scansafatiche valloni”. I media si sono adeguati a questa situazione di incomunicabilità predominante, creando di fatto due sistemi paralleli ed indipendenti, ciascuno con il suo audience predefinito e i suoi programmi ad hoc in francese o in fiammingo. Geert Lambert, senatore e leader del

22 Belgium. Time to call it a day, The Economist, 6 settembre 2007.

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partito fiammingo Spirit, è chiaro al proposito: “Constatiamo una divergenza politica di giorno in giorno più profonda tra Valloni e Fiamminghi. Una divisione che non ha più nulla a che fare con l’opposizione tradizionale tra destra e sinistra. Sulle politiche giovanili, sul sistema sanitario e in molti altri campi, non siamo più sulla stessa lunghezza d’onda. In queste condizioni mantenere in vita lo stato belga diviene troppo costoso e del tutto inefficace. Quindi perché tenerlo?”23.

Per ricapitolare la nostra periodizzazione del fenomeno etno-regionalista in Belgio, possiamo dire che alle prime rivendicazioni etno-regionaliste (a partire dalla fine degli anni ’60) è seguita quella che potremmo definire una “pax consensuale” (formalizzata con la federalizzazione completa dello Stato nel 1993), seguita da una terza fase non più di pace ma di cristallizzazione e di stallo. E’ quella che significativamente è stata ribattezzata “Bosnia Fredda”. Il paese non è solo imbalsamato, nelle sue differenze, dalle istituzioni consensuali; piuttosto è come se le divisioni interne venissero definite ancora più nettamente dal sistema politico-sociale scelto. Il sistema consociativo è un sistema che di fatto “cristallizza”, “blocca”, gli individui all’interno dei loro gruppi di appartenenza, lasciando solo la possibilità di astenersi o di essere parte di quel (già) determinato gruppo. Anche il cleavage economico tra nord e sud del paese si può esprimere solo lungo la linea etno-linguistica: abbiamo infatti visto come anche il dibattito sulla politica fiscale diviene un punto qualificante dell’indipendentismo fiammingo; un esito che sarebbe tutt’altro che scontato in un paese con partiti nazionali – e non regionali - e con una sfera pubblica nazionale – e non a compartimenti stagni -.

L’obiettivo teorico è, secondo i sostenitori del modello consociativo, quello di precludere la possibilità di una versione “antagonistica” dei conflitti politici, ma il risultato concreto è stato quello di aver negato pure una salutare opposizione “agonistica” fra interessi. Agli elettori è stata tolta “la possibilità di identificarsi con una gamma differenziata di identità politiche democratiche. Era molto probabile che il vuoto così creatosi venisse occupato da altre forme di identificazione che potevano diventare problematiche per il funzionamento del sistema democratico”24.

Non è un caso che la roccaforte del Vlaams Belang si trovi ad Anversa, città nella quale la coalizione tra socialisti e democristiani ha monopolizzato il potere politico per vari decenni. Questo ha permesso al VB di presentarsi come l’unica vera alternativa a quelli che i suoi esponenti volentieri definiscono “politicanti corrotti”. La forza attrattiva di un partito anti-establishment come il Vlaams Belang è infatti alimentata – se non originata – anche dall’incapacità dei partiti tradizionali di proporre alternative significative. La sua capacità di apparire agli elettori come realmente “alternativo” è una

23 Duttilleul, P., Bye-Bye Belgium, Editions Labor, 2006, p. 130. 24 Mouffe, C., Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, p. 79, Bruno Mondadori, 2007

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delle conseguenze negative dell’assenza di canali agonistici per l’espressione dei conflitti interni ad una democrazia.

Nel paese inoltre – lo abbiamo brevemente dimostrato - lo “scontro politico” interessa l’unico fronte sul quale il regime istituzionale non può creare “compromesso”, ma solo consolidare la divisione: quello linguistico-culturale. Il livello “comunitario”, quello del confronto linguistico e culturale tra francofoni e fiamminghi, è l’unico livello al quale la politica e la società belga riescono a formulare il confronto bipolare che negli altri paesi esiste – sul fronte socio-economico o etico-filosofico – tra sinistra e destra, tra conservatori e liberali. “Paradossalmente i partiti populisti di destra danno espressione, per quanto in maniera assai problematica, a reali esigenze democratiche di cui i partiti tradizionali non si fanno più carico. Sanno far nascere nella gente la speranza che le cose possano andare diversamente”25.

Emblematico che di fronte a tale sfida i partiti belgi adottino la strategia del “cordone sanitario”. Nessun contatto, nessun dialogo, nessuna alleanza con “l’estrema destra”: questo mantra, seguito rigorosamente da media e partiti tradizionali, è diretta conseguenza di un certo modo di concepire la politica e le istituzioni. In una prospettiva consensuale l’idea del confronto “agonistico tra le parti” è superata, al limite ritenuta incompatibile con la modernità stessa. L’emergere della “marea nera” – come la chiamano i giornali francofoni – è vissuta dall’opinione pubblica ed interpretata da editorialisti di grido semplicemente come il ritorno di forze arcaiche e primordiali. Forze contro le quali occorre mobilitare la parte “sana” del paese. La stessa identificazione del VB con la destra fascista può risultare corretta solo ad un osservatore distante e disattento, oppure a chi preferisca spostare il conflitto con il VB sul piano morale. Muovendosi su questo terreno i partiti belgi raggiungono vantaggi tattici indiscutibili: innanzitutto, creando la distinzione tra “noi” e “loro” –seppure su un piano morale-, rafforzano la propria identità; inoltre contro le”forze del male” ritorna utile un repertorio, anche retorico, quale quello dell’antifascismo.

Breve: pur consapevoli della distanza che separa la teoria e la prassi liberale da un qualsiasi movimento come quello del VB, con le sue tesi accesamente nazionalistiche, fortemente razzistiche e piuttosto populiste, crediamo che “l’indebolimento della frontiera politica”, figlio di una concezione ideale e dell’attuazione di un modello istituzionale consensuale, sia di per sé foriero di risultati nefasti. L’indebolimento della frontiera politica lascia spazio a partiti che si presentano di fronte all’elettorato, magari in maniera fittizia e propagandistica, come l’alternativa alla semplice e consueta alternanza.

25 Mouffe, C., ibidem, p. 81

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Inoltre la “moralizzazione” dell’arena politica, strategia ad hoc per fare blocco contro alcuni partiti emergenti e allo stesso tempo utile per auto-assolversi a seguito di una gestione forse errata della cosa pubblica, sprofonda il dibattito pubblico nel confronto – questo si arcaico – tra “bene” e “male”, tra “amico” e “nemico”. Utilizzando le parole di Chantal Mouffe, possiamo dire che “è in qualche modo ironico che l’approccio che sostiene il superamento del modello di politica basato sull’opposizione amico/nemico finisce per ridare vita proprio al modello che aveva dichiarato obsoleto”26. Un modello, quello amico/nemico, che è la negazione stessa dei principi liberal-democratici. Il primo carattere della “democrazia dei moderni” sta infatti, secondo alcuni autori27, nel fatto che “il regime democratico si fonda sull’assunto che sia possibile dissentire e opporsi ai detentori del potere senza per ciò essere considerato necessariamente nemico. In questo senso, alla dicotomia amico/nemico viene preferita la dicotomia amico/avversario, ove questo secondo è appunto chi dissente e si oppone”.

Conclusioni

La questione belga suscita interesse scientifico per sé e per le conseguenze che la sua evoluzione potrà significare ai fini di una critica della teoria consociativa di Lijphart.

Siamo però altrettanto convinti che l’esito della crisi istituzionale del paese debba sollevare, non solo tra gli addetti ai lavori, anche un quesito politico sul futuro di tutti i paesi che adottano il modello di democrazia consensuale, ed in particolare un quesito sul futuro dell’Unione Europea.

La crisi odierna del processo di integrazione comunitaria ha sicuramente molte e diverse ragioni. Alla luce di quanto visto a proposito della realtà consensuale belga, si può affermare che una delle ragioni dello stallo comunitario potrebbe derivare dalla convinzione secondo la quale un tipo di società caratterizzato da differenze nazionali, radicate e di antica origine, possa essere opportunamente governato solo da istituzioni che “si conformino ampiamente al modello consensuale e non a quello maggioritario di democrazia”28.

26 Mouffe, C. ibidem, p. 87 27 Vedi tra gli altri Fisichella, D., Lineamenti di scienza politica, Carocci, 2003 28 Lijphart, A., Le democrazie contemporanee, p. 67, Il Mulino, 2001

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