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ATHOME A CASAMARINA SAGONA RACCONTI DI | SHORT STORIES BY GIOVANNA CALVINO, ANTONIO MONDA, SHARIFA RHODES-PITTS, LILA AZAM ZANGANEHPIANTA

SOGGIORNO

CAMERA

CUCINA

BAGNO

ARMADIO

MOBILI

QUADRI

OGGETTI

BIANCHERIA

VESTITI

SCARPE

LAYOUT

LIVING ROOM

BEDROOM

KITCHEN

BATHROOM

CLOSET

FURNITURE

PAINTINGS

THINGS

LINENS

CLOTHES

SHOES

MARTE GALLERIA | ROMA 13/12/2008 · 14/02/2009 | MOSTRA A CURA DI | CURATED BY NICOLETTA LEONARDI | LEA MATTARELLA

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A CASA Lea Mattarella

Cominciamo dai piedi. O meglio dalle scarpe. Ovvero dalla fine, dall’ultima immagine di questo film colorato disegnato da

Marina Sagona. “Quando ho visto le sue scarpe io ho capito tutto di lei” dice Michele, il protagonista di Bianca di Nanni

Moretti al commissario, mentre confessa che sì, in effetti è stato proprio lui a far fuori quelle coppie che aveva ‘scelto’ e che

lo avevano deluso. A un commissario con le scarpe tutte uguali, nere e con i lacci, si può, anzi si deve raccontare la verità.

È così, non c’è niente da fare, le scarpe parlano, “riassumono e definiscono, mi fanno sentire a casa”, dice Marina. Le no-

stre scarpe qui sono comodamente appoggiate su una poltrona, non hanno corpo, non ne hanno bisogno. Bastano loro a

farci capire che, insomma, diciamocelo, in fondo il peggio è passato. La protagonista di questo racconto per immagini si sta

riprendendo. Tra poco si alzerà, aprirà la porta e uscirà dalla casa che l’aveva un po’ protetta e un po’ tenuta prigioniera.

Fine (lieta, tutto sommato). Titoli di coda.

Marina Sagona fa l’illustratrice. Ascolta le parole e le traduce, le sintetizza, le afferra e le blocca in un’immagine. Una sua

tavola può contenere molte frasi. L’illustratore è un po’ come lo scrittore: assume diverse identità. Ma questa volta Marina

ha messo in scena se stessa. La mostra che ha preparato – con la complicità di Nicoletta Leonardi - ha origine da una neces-

sità. La Sagona sentiva il bisogno di dare una forma alla voce bizzarra che, perennemente e insistentemente come in tutti

gli autentici artisti, si agita dentro di lei come un demone suggeritore.

“Volevo raccontare l’intimità e la claustrofobia della vita domestica attraverso lo spazio fisico della casa”. Dopo sono arri-

vate le parole: i racconti dei quattro scrittori chiamati a raccolta in questo libro sono nati dai suoi disegni. Lei che ha inven-

tato tante copertine per racchiudere in una linea ogni tipo di narrazione, questa volta ha delle storie a far da scrigno, a

contenere le sue invenzioni colorate.

La sua ostinata esplorazione della casa va seguita attentamente, perché non è esattamente quello che potrebbe sembrare

a una prima occhiata superficiale. La pittura di Marina è leggera e vivace. Persino quando è monocroma dà l’impressione

di esprimersi attraverso il colore. La sua stesura pittorica è rasserenante, tutto scorre senza ostacoli. L’impressione che fan-

no le sue opere a guardarle di passaggio è sempre quella di una certa allegria, sembrano costantemente in perfetta armo-

nia con il mondo. Marina quando disegna domina la situazione. In tutti i sensi.

Eppure queste schegge di vita, confinate tra mura chiuse, senza aperture, dalle finestre con le tende ben serrate – respira-

no anche il dolore, la rappresentazione visiva dell’assenza, del vuoto inteso come perdita e non come naturale, riposante

e addirittura indispensabile bilanciarsi del pieno. Quel letto così perfettamente in ordine, quelle gocce di pioggia un po’

sbarre e un po’ ferite, i segni che coprono lo spazio della cucina e finiscono per ingabbiarlo, lo scheletro nell’armadio che

diventa lo specchio del sé circondato da elementi ornamentali, sono racconti di malinconia, di solitudini silenziose e raccol-

te, di paure e anche di rabbie. Per esempio, quando Marina racconta la biancheria decide di utilizzare come supporto la

stoffa della sua casa che ha già vissuto una vita precedente: qui, tra righe scintillanti e limoni, si muovono le sue ombre.

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AT HOME Lea Mattarella

Let us begin with feet. Or rather, shoes. That is, from the end; from the final image in this technicolor film conceived by

Marina Sagona. “When I saw your shoes, sir, I understood everything about you,” says the protagonist of Nanni Moretti’s

movie Bianca to the Commissario. He speaks these words while confessing that yes, indeed, he is the killer. The very couple

whom he had “chosen” and who had disappointed him so, ultimately became his victim. To a Commissario whose shoes are

all the same, black lace-ups, one can, one must, tell the truth.

No two ways about it: shoes speak. “They summarize and define, they make me feel at home,” says Marina. The shoes in

question are propped up against an armchair, there is no body in them; they have no need of one. Alone they are enough

to convey the message—let’s get it out in the open, let’s be frank: the worst is over. The protagonist of this image-tale is

gathering her forces. In a moment, she will stand up, open the door and leave the home that has in part protected her, in

part held her prisoner. The end (a happy one, all things considered). Roll credits.

Marina Sagona is an illustrator. She listens to words and she translates them, she synthesizes their meaning and captures

them in images. Any single page of illustration can contain many sentences. An illustrator is a little like a writer: he or she

assumes many identities. But this time Marina has placed herself in the scene. This exhibition, prepared in collaboration

with Nicoletta Leonardi, began as a need. Marina Sagona felt she had to lend form to the bizarre voice that moves inside

her—perennially and insistently, as with all authentic artists, like a demon consul.

“I wanted to talk about intimacy and the claustrophobia of domestic life utilizing the physical space of a home.” The words

came after: the stories gathered in this book were born from the drawings. Marina, who has created many book jackets

that bestow a single unifying aesthetic on a great variety of fictions, now has stories to serve as her creel, to contain her

colourful inventions.

Marina’s tenacious exploration of the home deserves close attention, for it is not exactly all that it might appear to be at

first glance. Her style is light and lively. Even when monochromatic, her painting gives the impression of expressing itself

through colour. Her brushstrokes are soothing, everything flows free of obstacles. Glancing at her works, the viewer is struck

by a certain sense of joyfulness: they seem forever in perfect harmony with the world. When drawing, Marina is in control

of the situation in every way.

Yet these splinters of life—confined, walled-in, trapped behind tightly drawn curtains—also exude pain, the visible pres-

ence of absence, emptiness intended as loss and not as a natural, peaceful and even indispensable counterpart to fullness.

That bed perfectly made, those raindrops slightly hindered, and a little injured, the marks that cover the kitchen space and

finally enclose it, the skeleton in the closet that becomes a mirror of the artist surrounded by ornamental elements; all are

stories of melancholy, of silent and intimate solitudes, of fear and anger. Case in point: when Marina depicts household

linen, the material she uses is fabric from her own house, one that she inhabited in a previous life. Here, between dazzling

Abitano un bel mondo, non c’è che dire. Eppure le senti che stanno lì forzatamente, vestali che ripetono i loro gesti senza

volontà, angeli del focolare a cui nessuno ha chiesto il parere. Sogni infranti, speranze disilluse. E tu stai lì che stiri. Esiliata

da te stessa.

Ma Marina Sagona è artista dalla vocazione almodovariana. Le sue donne non si arrendono, sono quelle di Volver, si fan-

no la doccia con i tacchi, si riprendono la vita e la trascinano in salvo direbbe Jovanotti. Ecco la figurina che si lava con le

scarpe: sembra davvero l’icona di una femminilità spavalda. “Sotto la doccia viene sempre una buona idea” suggerisce Ma-

rina. In questo caso l’illuminazione deve essere geniale, proprio come quella di affidare, in questa partitura, a seta e coto-

ne il ruolo della biancheria che così interpreta se stessa. Alla fine, nonostante tutto, annusi il profumo della leggerezza, di

un’irresistibile insolenza, vittoriosa nel dichiarare il proprio desiderio di essere come ci si piace. Le nuvole sulla cucina sono

spazzate via dal vento della vita.

E poi ci sono gli oggetti. Il dio delle piccole cose di Marina li trasforma in amuleti che esorcizzano la sofferenza. “Mi ero ri-

conosciuta. C’era qualcosa che mi piaceva e mi restituiva identità” scrive Valeria Parrella ne “Lo spazio bianco” a proposito

del manifesto di un film intravisto per strada in un momento di dolore. E i libri e le teiere, Mozart, le fotografie, le masche-

rine e tutto il resto per Marina sono un “autoritratto attraverso gli oggetti di uso quotidiano”. L’identità, l’esistenza nel

mondo è fatta di tanti tasselli che si aggregano misteriosamente.

Guardare questa mostra e il libro che l’accompagna è un po’ come sfogliare un album di fotografie in cui finiamo per rico-

noscere parte di noi. Quante volte ci siamo sentiti così, proprio come lei, tra le sedie e i tavoli che si attraggono e si respin-

gono come fossero persone? Non si può, a questo punto, non evocare i “Mobili nella valle” che de Chirico immaginava in

conversazione. Sappiamo che è possibile che il nostro stato d’animo si rispecchi negli angoli della casa, quasi trasudando da

questi. Succede. E allora ecco che il lavoro di Marina somiglia a quello dello scrittore proustiano “strumento ottico ch’esso

offre al lettore per permettergli di scorgere ciò che forse, senza il libro, non avrebbe veduto in se stesso”. Così è stato un

pomeriggio d’estate, mentre progettavamo questa mostra. Marta, Laura, Alessandra e io tutte intorno a un tavolo a guar-

dare i disegni di Marina e a rivedere noi.

Le pareti di questa storia, di questo living in cui ci si può trasformare in animali come nelle più antiche mitologie perché, in

fondo, se ci voltiamo a Oriente, abbiamo tutti lo stesso destino, sono quelle in cui, alla fine, avviene il riscatto. Nella stan-

za tutta per sé che Virginia Woolf sognava per la sua Judith si può innanzitutto fantasticare e acchiappare i pensieri, mo-

strarli in qualche modo. Come ha fatto Marina realizzando la sua costellazione di momenti d’essere casalinghi. Che sono

anche i nostri. Per questo tornerei all’inizio, cioè alla fine di questa sequenza di immagini, a quelle scarpe con il cinturino

che cinge la caviglia. Ecco, le vedo camminare, varcano la soglia. Adesso chi le indossa è di spalle, in strada, indossa lo stes-

so vestito verde che prima aveva fatto a pezzi. Sembra Marina. Un po’. Il resto siamo noi.

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1AT HOME A CASAPIANTA

SOGGIORNOCAMERA

LAYOUTLIVING ROOM

BEDROOM

lemon yellow stripes, her shadows move. They reside in a beautiful world: this we must acknowledge. Yet one feels that

they are forced to be there, vestals that repeat the same involuntary gestures, angels of the hearth whose opinion nobody

has bothered to ask. Shattered dreams, dashed hopes. And there you are, doing the ironing. Exiled from yourself.

But Marina Sagona is an artist of the Almodóvar school. Her women do not surrender, they are those protagonists of

Volver, they shower in their high-heels, and they reclaim life and drag it to safety. Indeed, there is the figurine showering

with her shoes on: she seems an icon of daring femininity. “Good ideas flow under the shower,” suggests Marina. In this

case, the illumination must really be a stroke of genius—like the one that here chose silk and cotton as materials with

which to depict household linen. Linen thereby interprets itself. In the end, and in spite of everything, one perceives the

scent of lightness, an irresistible insolence victoriously insisting upon its right to be however and whatever it wants. The

clouds looming over the kitchen are whisked away by life’s breeze.

And then there are the objects. Marina’s god of small things transforms them into amulets that exorcise suffering. “I rec-

ognized myself. There was something there that I liked and that gave me back my identity,” writes Valeria Parrella in “Lo

spazio bianco” (“The White Space”) about a movie billboard that her character glimpses in a moment of pain. Books, a

teapot, Mozart, photographs, masks, and so on, represent for Marina “self-portraiture via objects of daily use.” Identity—

that is, existence in this world—is composed of so many pieces of a puzzle that mysteriously fit together.

Viewing this exhibition and the book that accompanies it is a little like thumbing through a photograph album in which

we finally recognize a part of ourselves. How often have we felt that way, just like her, amid the chairs and tables that flow

together and ebb away from one another as if they were people? We can’t, at this point, avoid mentioning “Mobili nella

valle” (“The Furniture in the Valley”), pieces of furniture that de Chirico imagined in conversation together. We know that

it is possible that our frames of mind are mirrored in the corners of our homes, almost oozing from them. Such things do

happen. And so, here is Marina’s work resembling that of the Proustian author, “a kind of optical instrument that makes it

possible for the reader to discern what, without this book, he would perhaps never have seen in himself.” That’s exactly

what it felt like one summer afternoon as we sat planning this exhibition. Marta, Laura, Alessandra and I all around a table

examining Marina’s drawings and finding in them elements that belonged to us. The boundaries of this story, the confines

of this living room in which one can be transformed into animals as in the oldest myths (for if we turn to the East, we all

have the same destiny) are those where redemption comes in the end. In the room of her own that Virginia Woolf dreamed

of for her Judith one can first and foremost fantasize and collect one’s own thoughts, and show them in some way or an-

other. Just as Marina has done by creating her constellation of domestic moments of being. They are ours, too. For this rea-

son I return to the beginning; that is, to the end of this sequence of images, to those shoes with the little belt cinched tight

around the ankle. There, I see them walking, they step over the doorsill. Now, the woman wearing them has her back to

me, she’s in the street, wearing the same green dress that earlier she had cut into pieces. She looks a little like Marina. Just

a little. For the most part she resembles us.

Translated from the Italian by Michael Reynolds

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Abbiamo aspettato per anni che il suo vicino di casa morisse

ma lui non sembrava intenzionato. Il suo appartamento, adiacente a quello di Marina e con lo stesso identico layout, ne è

il gemello specchiato. Così se lui fosse morto e l’avesse messo in vendita, si sarebbe aperto per noi un mondo di infinite pos-

sibilità. Io non abito insieme a lei ma in qualità di amica del cuore ho voce in capitolo.

I lavori in casa sono una delle cose più sgradevoli che mi siano capitate nella vita ma vado pazza per la fase iniziale in cui si

immagina come riconfigurare gli spazi. Passo notti intere sul sito immobiliare del New York Times a studiare i floor plans

degli appartamenti in vendita, correggendoli a matita. Marina mi ha confessato di avere la stessa perversione, cosa che mi

rassicura su di me ma mi preoccupa per lei.

Così, senza nulla togliere ai meriti dell’appartamento di Marina, la sua parte più bella è quella che non c’è. Ho usato fin qui

due parole in inglese perché la mia unica esperienza diretta in questo campo si è svolta a New York e la mia psiche non am-

mette variazioni linguistiche.

Tornando a noi, in questi ultimi cinque anni il vicino di casa

ha dimostrato di essere più solido lui sulla sua sedia a rotelle che i pilastri su cui lei aveva fondato la propria esistenza . Ve-

nuti meno alcuni elementi decisivi, Marina ha per adesso archiviato il progetto espansionistico e abbracciato la casa che c’è.

Ha spostato mobili e rivestito muri, spalancando le sue porte al turbinio di una nuova vita. Ci sono stati cocktail e festini e

io ho assistito impotente all’invasione di un territorio sul quale credevo di avere dei diritti. Quello spazio familiare si è bru-

talmente riempito di alieni, venuti da chissà dove e frutto di nuove complicità nate dall’oggi al domani. Finché un giorno,

sconvolgendo me e l’armonia cromatica della casa, Marina è arrivata addirittura a sostituirmi con tre bionde, tutte e tre

nuove migliori amiche. Bionde effimere che con il tempo sono state ristrutturate, tanto che di tre ne rimangono due, di sfu-

mature perfettamente a metà tra il senape dell’ingresso e l’arancio della cucina.

Ma io, che non perdono facilmente, nel frattempo ho coltivato di nascosto la mia vicina del piano di sotto. Questa nuova

alleanza promette opportunità che lasceranno mute di ammirazione Marina e le sue seguaci.

Potrei per esempio convincere la vicina a vendermi la sua casa, diventando io splendidamente duplex. O sposare suo fratel-

lo banchiere e aggiudicarmi l’intero palazzo. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, venderle il mio appartamento per un

prezzo superiore alla media del mercato e trasferirmi da Marina nella camera degli ospiti che non c’è.

GIOVANNA CALVINO

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We had been awaiting the death of Marina’s next-door neigh-

bor for several years, but he seemed to have no intention of dying in the near future. His apartment, adjacent to hers, had

the same layout, was its identical twin. If he would only die and put his apartment up for sale, it would open a world of in-

finite possibilities for her, and for me. I did not live with Marina, but as her closest friend, I had a say in all matters.

Home renovation is one of the most unpleasant things I have ever experienced, but I adore the initial phase, where you get

to imagine how to remake a space. I spend entire nights on the New York Times real estate website, studying the floor

plans of apartments for sale and improving them in my mind. Marina has also admitted to this perversion, which reassures

me, but makes me worry about her. I have translated this text into English, but even in the Italian original I used the words

layout and floor plan. That’s because my only direct personal experience of home renovation took place in New York and

the trauma has branded these words on my psyche.

But back to us…

Not to take anything away from Marina’s beautiful apartment,

but the most beautiful part of it was the part that wasn’t there: the apartment still occupied by the neighbor who refused

to give up the ghost. In these last five years, the next-door neighbor has proven to be more resilient in his wheelchair than

the foundations of Marina’s adult life. As some of the crucial elements of that life have given way, she has—for now—put

aside her expansionist project and embraced the home that is actually hers. She has moved furniture around, covered the

walls anew; she has swung her doors wide open to the tourbillon of a new life. There were cocktail parties and soirees as

I witnessed impotently the invasion of my familiar territory. That intimate space filled suddenly with aliens landed out of

the blue, the product of new complicities born from one day to the next. Until one day, I was usurped and the chromatic

harmony of the apartment upset by three blondes, all Marina’s new best friends. Thankfully the trio of blondes proved

ephemeral and today only two of them remain, with colorings that blend perfectly with the mustard yellow of the foyer

and the orange of the kitchen counter.

But I am not one who easily forgives, and I have in the meantime secretly cultivated the trust of my downstairs neighbor.

This new alliance is ripe with opportunities that will leave Marina and her followers awestruck.

I could, for instance, convince my neighbor to sell me her apartment, which would make my place a jaw-dropping duplex.

Or I could marry her banker brother and purchase the whole building. Or, if all else fails, I could sell my apartment to her

for a handsome price, and move in with Marina, into the guest room she doesn’t have.

Translated from the Italian by Giovanna Calvino

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2AT HOME A CASACUCINABAGNO

ARMADIO

KITCHENBATHROOM

CLOSET

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Come ho fatto a ridurmi così.

Meglio scacciare subito questi pensieri. Meglio guardare avanti. Il passato è storia: questo è il paese delle opportunità, mi-

ca dei rimpianti.

Sono stato un re e posso tornare a esserlo. Devo solo superare questo momento, perché si tratta soltanto di un momento.

Bridget mi ha lasciato urlando che non c’è un secondo atto nelle vite americane. Mi ha urlato dietro anche chi è che l’ave-

va detta, questa massima immortale. Voleva farmi sentire che lei era colta e io pensavo solo ai soldi, o forse voleva sigilla-

re con l’autorità di una persona famosa il mio fallimento sentimentale. Ma oggi quella frase mi fa pensare solo a quanto

mi è successo. Altro che sentimenti: quelli vanno e vengono. L’importante è quello che si costruisce. E io so quello che ave-

vo costruito e che oggi non ho più. Ho gestito fondi che avrebbero sostenuto l’economia di interi paesi africani. Ho avuto

una casa di due piani al 770 di Park Avenue, quadri trattati dai dealer più prestigiosi, una villa a Millbrook ed una a Cap

Ferrat. Un elicottero e una barca a vela sempre pronta a Palmer Point. Non so se ho voluto troppo, se ho perso il mio fiuto

o semplicemente la fortuna, che poi nella vita è l’unica cosa che conta. Devo solo al mio avvocato se oggi non sono in car-

cere. Con lui non sono stato molto riconoscente: devo ancora pagarlo, e chissà se mai riuscirò a farlo.

In questi ultimi mesi ho dormito a Central Park, ma da qualche giorno mi sono affezionato alla panchina di Sutton Place

che affaccia sul ponte di Queensborough. Una volta Bridget mi ha sfidato a indovinare quale film c’era stato girato. Ho ri-

sposto “La febbre del sabato sera” e lei si è limitata a sorridere. Se mi vedesse in questo stato oggi non sorriderebbe, e io

sorrido ancora meno quando penso che oggi quella panchina è diventata la mia casa.

Non mangio da due giorni, non mi lavo da almeno quattro, e più cerco di cacciare via il passato e più ritorna.

Ho percorso la Grand Street inseguendo la vista del ponte. Ho voluto vedere qual è il punto in cui l’isola viene aggredita

dal quartiere che crede ancora di essere una città. Le fondamenta sono gloriose, potenti… bastano quelle per farmi senti-

re quello che sono stato.

Un compagno di dormite a Sutton Place mi ha detto che nei palazzi vicino al fiume è facile entrare. È un africano gigante-

sco, e non ho mai saputo il suo nome. Lui non ha mai visto la luce: è passato dalla miseria del suo paese a quella di questa

terra. Mi ha spiegato che non c’è portiere, e per superare la porta interna basta suonare il citofono fingendo di fare delle

consegne. Poi, per entrare negli appartamenti basta usare una metrocard o un carta di credito. L’ultima volta che ho preso

la metro è stato quando studiavo a Columbia, ma le carte di credito le ho tenute tutte, anche se ora non hanno alcun cre-

dito. Un giorno le sbatterò in faccia a tutti quelli che oggi sono in riunione e non prendono le mie telefonate, quelli che

non mi riconoscono, e quelli che si voltano dall’altra parte pensando inorriditi “ma quello è veramente Tim? Come ha fat-

to a ridursi così… ha trentatré anni e ne dimostra cinquanta…”

Il negrone aveva ragione, è un gioco da ragazzi entrare in questi palazzi. Ora si tratta solo di aspettare la notte per entra-

re in un appartamento. Un tempo l’idea di attendere non l’avrei neanche concepita, roba da perdenti, ma di questi tempi

è l’unica cosa che faccio. E la notte mi sembra eterna. Bridget mi diceva sempre che è tenera, citando non so chi. Forse era

il suo modo per dirmi che mi voleva bene. Forse era quello di ribadire la mia ignoranza. Chissenefrega, ormai.

Ho scelto un appartamento all’ottavo piano solo perché l’otto è il mio numero preferito. E il B perché in fondo a Bridget ci

ANTONIO MONDA

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How did I end up like this?

I’d better stop thinking that way right now and start looking ahead. The past is history. This is the land of opportunity, not

of regrets. I was a king and I can be king again. I just have to get through this phase, because that’s what it is: a phase.

Bridget left me. She left screaming that there were no second acts in American life. She even turned back to scream the

name of whoever it was that uttered this immortal maxim, wanting to make me feel that she knew things, I guess, whereas

I thought of nothing but money. Or maybe she wanted to slap a seal bearing the authority of somebody famous on my ro-

mantic failure. Nowadays, whenever I remember those words I just think of all I’ve been through. I don’t mean in matters

of the heart: feelings come and go. I mean what you’re able to build; that’s the only thing worth a damn. And I know what

I built, and what I no longer have. I managed funds that could have shored up the economies of entire African nations. I

owned a two-storey apartment at 770 Park Avenue, paintings bought from the most prestigious dealers, a villa in Millbrook,

another in Cap Ferrat, a helicopter, and a yacht moored and ready at Palmer Point… Maybe I asked for too much, I don’t

know. Maybe I lost my knack or merely my luck, which is all that counts in life. My lawyer is the only reason I’m not in jail

today. I didn’t thank him enough, really. In fact, I still haven’t paid him. Who knows if I ever will.

I slept in Central Park for months. Then, a few days ago, I moved to a nice bench in Sutton Place with a view of Queensbor-

ough Bridge. Bridget once asked me to guess the movie they’d filmed there. Saturday Night Fever, I replied, and she just

smiled. If she saw me now she wouldn’t smile. I sure don’t when I think that that bench is now my home. I haven’t eaten in

two whole days, I haven’t washed in at least four, and the more I try to forget the past the more it comes flooding back.

I walked down Grand Street, with the bridge in front of me. I wanted to see the exact point where the island gets mugged

by the sprawling neighborhood that still insists on thinking it’s a city. The piers are magnificent, powerful… Just looking at

them I remember what I once was.

I met this guy, a fellow lodger in Sutton Place, who told me that getting into the buildings down by the river was easy. He’s

this big African guy and I still haven’t asked him his name. All he’s ever known is darkness: straight from misery in his na-

tive country to misery here. He explained that there was no doorman, and to get through the front door all you had to do

was ring the doorbell and pretend you’ve got something to deliver. Then, to get into the apartments you need a Metro-

Card or a credit card, that’s it. The last time I took the subway I was a student at Columbia, but I’ve still got my credit cards,

even if they’re no-credit cards by now. I’m going to throw them in the faces of those people who are always in meetings

these days, who never take my call; those people who don’t recognize me, who turn away, horrified, and think, “Is that re-

ally Tim? How did he end up like that… He’s thirty-three but he looks fifty…”

The big black guy was right, it’s child’s play getting into these buildings. Now I only have to wait for nightfall to break in-

to an apartment. There was a time when the idea of waiting was unthinkable—losers wait! These days it’s all I do. And the

night feels like it lasts forever. Bridget used to say it was tender, quoting I don’t know who. Perhaps it was her way of telling

me how much I meant to her. Perhaps it was a way of underlining my ignorance. Who fucking cares, anyway?

I chose an apartment on the eighth floor, just because eight is my favorite number. And “B” because deep down I still think

of Bridget. The black guy was right about the thing with the credit card as well. There was nothing to it. I slipped in, closed

the door behind me, and stood there, paralyzed.

penso ancora. Il negrone aveva ragione anche con la storia delle carte di credito. Sono entrato senza problemi e poi, dopo

aver richiuso la porta, sono rimasto paralizzato.

Come ho fatto a ridurmi così.

E cosa faccio se qualcuno si sveglia. Finora neanche un rumore, ma devo avere un odore terribile.

Devo trovare subito soldi o qualcosa da portar via. O almeno da mangiare. Devo dare un senso alla follia che mi ha porta-

to in questa casa. Ma la verità è che non sono mai stato così stanco. Di me stesso.

Una volta ho detto a Bridget che per secoli la cucina è stato il regno delle donne. Lei l’ha presa male, ma io non volevo di-

re nulla di brutto. Anzi.

Chi vive qui deve pensarla come lei. La sua vita sembra altrove. La cucina è troppo ordinata per essere realmente amata, e

la finestra invita a vedere fuori, il treno che passa sul ponte.

Ma cosa ne so, magari su questo tavolo prepara piatti prelibati o mangia felice con la persona che ama. Magari crede an-

cora nei sentimenti, e di me avrebbe solo pietà. Magari mi farebbe mangiare.

Non mi ero ancora reso conto di quanto mi mancasse una casa. Ogni singola stanza. Persino il bagno. Perché a me i bagni

hanno sempre messo allegria: in fondo è lì che riveliamo senza finzioni quello che siamo nella realtà.

Vorrei potermi lavare, e rimanere sdraiato per ore nella vasca. A guardare le curve troppo strette dei tubi, il richiamo all’or-

dine e alla pulizia del lavandino, l’indifferenza delle mattonelle. Finora non avevo mai amato una casa, ma solo quello che

poteva rappresentare e mostrare. Io nel mio bagno mettevo teli e profumi, chi abita qui delle foto in bianco e nero. Reg-

giseni e cristalli.

Deve trattarsi di una donna.

Sì, è proprio una donna, e dorme abbracciata a una bambina. Devono essere madre e figlia. Si somigliano, e prima di ad-

dormentarsi devono essersi dette qualcosa di divertente, perché sembra che stiano ancora sorridendo.

La mamma deve essere fissata con le scarpe, perché nell’armadio a muro ce ne sono molte. Sono coloratissime e con i tac-

chi alti. Bridget era tutto il contrario: si vestiva che sembrava un’Amish, e poi era molto alta.

Nella mia vita da re i miei investimenti hanno sottratto denaro a molte persone, ma chi li ha mai conosciuti. Oggi invece

questa donna la vedo. Vedo dove mangia, dove si lava, dove e come si veste.

L’armadio è pieno di abiti ancora più colorati delle scarpe, e in un angolo ci sono due camicie da uomo. Devono essere di

una persona che viene ogni tanto. Chissà se lei lo aspetta con trepidazione o non vede l’ora che vada via. Chissà se hanno

mai visto i treni insieme. Chissà se la bambina è sua.

Se avessi anch’io una figlia, oggi sarebbe diverso. Forse non mi farei mai vedere da lei in questo stato. O forse no, mi farei

vedere perché anche questa è vita. Chissà come reagirebbe. E chissà come reagirebbero queste due donne sorridenti nel

vedermi piangere appoggiato all’armadio pieno di scarpe e di abiti colorati, con l’unico desiderio di morire. O dormire.

O forse soltanto sognare di poter vivere ancora.

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How did I end up like this?

And what do I do if somebody wakes up? There’s nothing stirring, but Jesus I must smell awful.

I have to find some money now. Or at least something to eat. It’s insane being here, inside this house, and I have to give

the insanity some meaning. But I’ve never felt so goddamned tired. Tired of myself.

I once told Bridget that, for centuries, the kitchen had been the realm of women.

She took it the wrong way: I didn’t mean anything negative. On the contrary.

Whoever lives here must think of kitchens in the same way Bridget does. It’s too tidy to be really loved, and the window in-

vites your gaze outside, to the train crossing the bridge.

But what do I know, maybe mouthwatering dishes are set on this table, maybe the occupant eats happily in the company

of loved ones. Maybe the person who lives here still believes in feelings, and would have nothing but pity for me. Maybe

he or she would make me something to eat.

I hadn’t realized how much I missed having a home, how I miss every single room, even the bathroom. Because bathrooms

have always put me in a good mood: it’s there that we reveal what we really are, without any disguises.

I’d like to be able to take a bath, to sit in the tub for hours and stare at the tight turns in the pipes, the call to order sounded

by the sink, the indifference of the tiles. I have never really loved a house, but only what it represents. I used to put linen

towels and perfumes in my bathroom; whoever lives here fills theirs with black & white photographs, bras and crystal cu-

rios. The occupant must be a woman.

Yes, it’s a woman, and she’s sleeping arm in arm with a small girl. Mother and daughter. Yes, they look alike, and before

they fell asleep they must have been giggling at something funny that one of them said, because it looks as if they’re still

smiling.

The mother must be obsessed with shoes—the walk-in closet is full of them. They’re all so colorful, with high heels. Brid-

get was the complete opposite: the way she dressed she looked like an Amish, tall as she was.

In that other life, when I was king, my investments deprived many people of money but who ever met these people in per-

son! Now I can see this woman. I see where she eats, where she washes, where and how she dresses.

The closet is full of clothes that are even more colorful than her shoes. There are two men’s shirts hanging in the corner.

They must belong to someone who comes over now and again. Who knows whether she waits for him with butterflies in

her stomach or can’t wait until he leaves. Who knows if they have ever watched the trains together from the window. Who

knows if the child is his.

If I had a child today things would be different. Perhaps I wouldn’t let a child of mine see me in this state. Or no, perhaps

I would, because this too is life. How would a child react to seeing me like this? And who knows how these two smiling

women—the mother and her daughter—would react if they woke and saw me in tears leaning against a closet full of col-

orful shoes and dresses, with just one wish: to die. Or to sleep.

Or maybe just to dream of living once again.

Translated from the Italian by Michael Reynolds

3AT HOME A CASAMOBILI

QUADRIOGGETTI

FURNITURE PAINTINGS

THINGS

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Mi piace trascorrere il tempo in case prese in prestito. È per via

del disagio che infliggono, visto che i miei movimenti non sono ancora calibrati rispetto allo spazio. Inciampo sulle soglie

quando giro l'angolo troppo bruscamente; avverto dei doloretti quando mi chino o mi allungo per raggiungere un piano

di lavoro troppo basso o troppo alto, costruito appositamente per un abitante di straordinaria altezza; pareti rimaste in-

tatte dal periodo in cui era di moda la carta da parati di iuta che reprime ogni desiderio di sognare a occhi aperti durante

la siesta pomeridiana.

Forse è un effetto equivalente all'austerità dell'arredamento

nella cella di una suora adibita alla mortificazione della carne. Nella casa di un estraneo, in cui sono presenti gli arredi di

un estraneo, le ferite fisiche ed estetiche avvicinano all'Ignoto. Sono più vigile nella casa di un estraneo, non solo per via

del jet-lag o del suono dei pavoni del vicino che urlano, ma anche perché, lontano da casa, non è possibile attraversare co-

me un sonnambulo il percorso domestico a ostacoli disposto con cura in base ai miei gusti.

A casa mia, gli oggetti non inducono a un esaltato stato di gra-

zia. Probabilmente vengono scelti per lo scopo opposto. Tutto ciò che è familiare dentro casa contiene e giustifica i miei im-

pulsi e difetti. Questa sedia e questo tavolo, su cui compio il mio rito sacerdotale del tè mattutino, con gli oggetti sistemati

nel modo predestinato fin dal giorno della Creazione; quel divano, che fu testimone di numerosi e incauti appuntamenti

senza porre la minima obiezione.

Gli agi della propria dimora: il mio tappeto di pelle d'agnello,

sempre disponibile come un cane fedele, la mia sedia a dondolo, rassicurante come il mio ultimo innamorato ma con una

costanza di gran lunga superiore. Le qualità umane o animali che attribuiamo ai nostri oggetti sono di solito positive. Non

scegliamo di circondarci di lampade che potrebbero tradirci o di tavolinetti che cresceranno per poi abbandonarci. In tal

modo, nelle nostre case creiamo un universo molto dissimile dalle vite che effettivamente conduciamo, tutto ciò che nel-

l'esistenza è instabile e inconciliabile si svolge su uno sfondo rigido e prevedibile.

SHARIFA RHODES-PITTS

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I like to spend time in borrowed houses. It is because of the

discomforts they inflict, my movements are not yet calibrated to the space. I crash into thresholds when making too sharp

a turn round a corner; slight aches arise from reaching up or down toward a countertop too high or too low, customized

to an occupant of extreme height; walls unchanged since the fashion for burlap wallpaper repel mid-afternoon reverie.

Perhaps it is an equivalent effect to the austerity of a nun’s

cell: interior arrangements as precursor to mortification of the flesh. In a stranger’s house, with a stranger’s belongings,

physical and aesthetic injuries bring one closer to the Unseen. I am more awake in a stranger’s house, not only because of

jet-lag, or the sound of the neighbor’s screaming peacocks, but also because, far from home, it is not possible to sleepwalk

through the carefully arranged domestic obstacle course of my own design.

In my own house, the objects do not lead to an exalted state

of grace. Perhaps they are chosen for the opposite purpose. All that is familiar at home contains and condones my impulses

and shortcomings. This chair and this table, where I carry out a sacerdotal rite of morning tea, with objects set in places

determined since Creation; that sofa, which quietly witnessed but did not object to a number of ill-advised trysts.

The comforts of home: my lambskin rug that is as good as a

loyal pet, my rocking chair as comforting, and yet more constant than the last lover. The human or animal qualities we at-

tribute to our objects are typically positive. We do not choose to be surrounded by lamps that might betray us or end-ta-

bles that will grow up and move away. In this way, in our homes we create a universe that is very unlike our actual lives, all

that is unsteady and unreconciled about existence takes place against a backdrop that is rigid and predictable.

You might think, in light of these observations, that I have

devised a new way to live with my things—a rapid and unsentimental pattern of accumulation and abandonment. The op-

posite is true. If I were to suddenly move tomorrow, most pieces would be dragged across town or across the continent. I

keep my conspirators close. This inability to be rid of my treasures spills over into a missionary’s fever to aid the dispos-

sessed. From rural antique shops I rescue pieces of furniture for a house I do not yet have, for a life I have not yet lived (that

life which requires a vast Duncan Phyfe sofa too big for my New York apartment; it is in storage). On an evening walk, I

bring home items that other people have discarded as trash. They receive a cursory wipe with disinfectant, known to kill

99.9% of bacteria but with no confirmed power against a difficult aura.

Alla luce di queste osservazioni, potreste pensare che ho

escogitato un modo completamente nuovo di vivere con le mie cose: un susseguirsi rapido e anaffettivo di accumuli e ab-

bandoni. È vero il contrario. Se dovessi improvvisamente trasferirmi domani, la maggior parte del mobilio verrebbe trasci-

nato con me da una parte all'altra della città o da un continente all'altro. Desidero che miei cospiratori siano sempre al mio

fianco. Questa incapacità di disfarmi dei miei tesori degenera in una smania missionaria che mi spinge a soccorrere gli sfrat-

tati. Dai negozi di antiquariato di campagna salvo mobili per una casa che ancora non ho, per una vita che non ho ancora

vissuto (quella vita che richiede un ampio divano Duncan Phyfe troppo grande per il mio appartamento di New York; è in

deposito). Dalle passeggiate serali, porto a casa oggetti che altre persone hanno gettato tra i rifiuti. Ricevono una rapida

passata di disinfettante, che uccide il 99,9% dei batteri ma non ha alcun potere certo contro una certa difficile aura.

Non riesco a smettere di leggere riviste di arredamento di in-

terni, che offrono sempre nuove promesse: "Il nuovo look bohémien" o "Stile cottage da spiaggia". Leggo di un uomo che è

proprietario di dodici case in giro per il mondo e fa in modo che, in anticipo sui suoi spostamenti da una casa all'altra, il suo

personale spedisca copie identiche di certi mobili. Leggo di una donna anziana, dotata di un gusto impeccabile, che è riuscita

a far sì che i suoi mobili si intonassero alla moda del tempo, dagli anni in cui era una giovane ingenua appena arrivata in cit-

tà fino ai giorni nostri, ora che è diventata una matriarca del bridge. E poi i mobili di cartone, un'idea futuristica per i poco

pretenziosi ma ecologisti. E infine una ricetta per la felicità: dopo delusioni d'amore, comprate sempre lenzuola nuove.

Traduzione dall’inglese di Elena Fantasia

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I cannot give up the habit of reading home décor magazines,

always offering new promises: “The New Bohemian Look” or “Beach Cottage Style.” I read about a man who owns twelve

homes around the world and instructs his staff to dispatch identical copies of certain pieces in advance of any move from

one house to another. I read about an elderly woman, possessed of impeccable taste, who has managed to make her fur-

nishings match current fashion all the way from her ancient past as an ingénue in the city to her present days as a bridge-

playing matriarch. Also, cardboard furniture, a futuristic idea for the noncommittal but eco-conscious. And, prescriptions

for happiness: after heartbreak, always buy new sheets.

4AT HOME A CASABIANCHERIA

VESTITISCARPE

LINENS CLOTHES

SHOES

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“A cosa stai pensando? A cosa pensi? A cosa?

Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.”

Sono imprigionata in una gabbia di colore, un'ombra sottile che porta un minuscolo vassoio. Ho amato molti uomini, ma nessuno granché.

Ho recitato molte parti, ma nessuna granché bene. Sono un'ombra che porta un vassoio, la flebile ombra di un angelo dagli occhi scolori-

ti, un'ombra aggrovigliata in colori evanescenti. Sono grigia arancione color talpa blu verde marrone gialla nera. E a volte sogno di...

“Che cos'è quel rumore?”

Il vento sotto la porta. “E ora, quel rumore?

Che sta facendo il vento?”

Ora ho freddo. Una corrente d'aria fredda sibila sotto la porta a vetri. Ho acceso una luce intensa e sono entrata in una cabina. Le mura

al di fuori della mia gabbia di vetro sono colore arancione cinese, proprio come arancione cinese sono i miei asciugamani, i miei guanti e

i tappetini. Non avevo proprio voglia di scegliere qualcos'altro, abbinamento di colori, tonalità cangianti. Al negozio, non sono riuscita a

cercare nient'altro. Sentivo freddo dentro, freddo come adesso, solo più freddo. "Desidera qualcos'altro?" mi ha chiesto una ragazza, vo-

ce melliflua, occhi annacquati. "Basta così. Tutto il resto, lo stesso". Sono prigioniera nel sogno di un arcangelo. Un demone domestico

intrappolato dentro un sogno impostore. Tutta sexy, su tacchi a spillo. L'acqua scorre sui miei seni tesi. Scorre sulle mie membra serrate. I

miei capelli sono lunghi, sapete, le mie gambe seducenti. Ma la cabina è stretta, il colore è vincolante e l'arcangelo sta fissando. Sono con-

finata e non esco, no no non esco. Altrimenti i miei capelli, la mia testa, i miei seni e le mie membra finiranno, in quel sogno domestico.

Niente ancora niente.

“E niente non sai? Non vedi niente? Non ricordi

niente?”

Sono un cane con la testa di donna. Un cane intelligente, ma pur sempre un cane. Lasciato libero, esco in giardino, sotto gli alberi di li-

moni. Gli alberi di limoni con limoni gialli, drupe di limone e foglie di limone. Ora mi muovo a lunghe falcate sotto gli alberi, ora sbat-

to contro un muro su cui sono dipinti alberi di limoni. Oppure rotolo in una coperta beige, con disegni di limoni stampati. O corro in

tondo nel giardino, sotto gli alberi di limoni. I vicini in cucina guardano fuori e aggrottano le sopracciglia, confusi. Mi scateno, mi la-

mento e abbaio. Ricordo, niente. Forse solo Benji, ricordo, Benji, che è uscito stamattina per andare a scuola. Non ha voluto parlarmi. Io

non ho parlato con nessuno. Quindi, lasciata libera, sono uscita in giardino, sotto gli alberi di limoni.

“Stasera sto male di nervi. Sì, male. Resta con me.

Parlami. Perché non parli mai? Parla.

Il cane con la testa di donna me lo sono inventato. Sono ancora qui, davanti a una montagna di biancheria. A stirare interminabili pile

di biancheria. Serie di chicchi rossi si intersecano in griglie rettangolari. Mentre appoggio la mano sinistra sulla fronte, chicchi rossi

LILA AZAM ZANGANEH

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“What are you thinking of? What thinking? What?

“I never know what you are thinking. Think.”

I am caught in a cage of color, a slender shadow bearing a tiny tray. For a thousand days a slave girl destined to be king. I have loved

many men, but none too much. Played many parts, but none too well. I am a shadow bearing a tray, the fey shadow of an angel with

fading eyes, a shadow snared in fading colors. I am gray orange taupe blue green brown yellow black. And sometimes, I dream of…

“What is that noise?”

The wind under the door.

“What is that noise now? What is the wind doing?”

I am cold now. A cold draft hisses beneath the glass door. I’ve switched a bright light and stepped into a booth. The walls outside my

glass cage are Chinese orange, just as my towels and wash gloves and rugs are Chinese orange. I could not bother to choose anything

else, matching colors, shifting shades. At the store, I could not search for anything else. I felt cold inside, about as cold as now, only colder.

“Anything else?” asked the girl, voice mellifluous, eyes afloat. “That will be all. Everything else, the same.” I am a captive in an archangel’s

dream. A domestic demon trapped in a sham dream. Sexed up, on high-heels. Water gliding over taut breasts. Gliding through tight

limbs. My hair is long, you know, my legs alluring. But the booth is narrow, and the color binding, and the archangel’s staring. I am

bound and I shan’t go out, no no I shan’t go out. Or else my hair and head and breasts and limbs shall be done with, in that domestic

dream.

Nothing again nothing.

“Do

“You know nothing? Do you see nothing? Do you remember

“Nothing?”

I am a dog with a woman’s head. A clever dog but, still, a dog. Let loose, I run out into the garden, under lemon trees. Lemon trees with

yellow lemons and lemon drupes and lemon leaves. Now I lope under the trees, now I crash into a wall painted with lemon trees. Or

else I wallow in a beige blanket, patterned in lemon prints. Or else I run in circles in the garden, under lemon trees. The neighbors in

their kitchen look out and frown, befuddled. I binge and bitch and bark. I remember, nothing. Perhaps only Benji, I remember, Benji,

who left for school this morning. He would not talk to me. I talked to no one. So let loose, I ran out into the garden, under lemon trees.

“My nerves are bad to-night. Yes, bad. Stay with me.

“Speak to me. Why do you never speak? Speak.”

I made up the dog with a woman’s head. I am still here, facing a pile of linen. Pressing never-ending lengths of linen. Strings of red beans

aspettano in fila e si moltiplicano come pani biblici davanti ai miei occhi. Mano sinistra sulla fronte, giro in tondo e ancora in tondo, sti-

rando con la mano destra quella pila di biancheria che cresce all'infinito. E scivolo via, su piste rosse di perle senza vita.

Quelle sono le perle che erano i suoi occhi.

“Sei vivo o morto? Non hai niente in testa?”

Rapidamente trovo un sentiero nella foresta. Piante tropicali, alberi lussureggianti, magnolie rosa. Un vento delicato fa ondeggiare fio-

ri giganteschi e foglie rugiadose. Qui ci sono già stata. Un sentiero in cui cupole di ghirlande proiettano ombre scure nel sottobosco pal-

pitante. Dove la luce del giorno è solo un velo traslucido sopra il tetto della foresta. Dove il sussurro frusciante e cadenzato dei rami

evoca luoghi ancora sconosciuti. Ogni volta sogno di penetrare, oltrepassare, spalancare il drappo magico. Sono venuta qui per incon-

trare mio figlio in una profondità maculata. Silenziosamente sorrido in trepida attesa. Ma d'improvviso la foresta sembra sconfinata e

spoglia e tutto quel che resta, quando apro gli occhi, è una stampa a fiori su un vestito fuori moda.

“Che cosa farò adesso? Che cosa devo fare?”

“Uscirò come sono e me ne andrò per le strade

con i capelli sciolti, così. Cosa faremo domani?

Cosa faremo mai?”

Mi immagino in 44 modelli diversi. 44 possibilità (e contando) 44 costruzioni mentali che si uniscono o si dividono a piacimento. I miei

sogni su misura. I miei frammenti color verde mela, fragili e fugaci. Come tanti baccelli verde pisello per una signora in attesa, che un

tempo danzava in una luna verde mare.

SBRIGATEVI PER FAVORE CHE È ORA

SBRIGATEVI PER FAVORE CHE È ORA

"È ora di svegliarsi, signora!" Posso andare liberamente? O sto vagando prigioniera nel sogno a occhi aperti di qualcun altro? Mi sono

addormentata sulla sedia di un uomo. Gambe sollevate, le suole delle scarpe con il lato migliore esposto al sole. Con il cuore sotto i pie-

di. Cosa farò domani? Cosa farò mai?

L'acqua calda alle dieci e se piove

un'automobile chiusa alle sedici.

E ci faremo una partita a scacchi

premendoci gli occhi senza palpebre

in attesa che bussino alla porta.

Traduzione dall’inglese di Elena Fantasia

NdT: la traduzione delle citazioni proviene da "La terra desolata" di Thomas S. Eliot, Feltrinelli, 1995, traduzione dall'inglese di Angelo Tonelli.

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crisscrossing in rectangular grids. As I lay my left hand on my forehead, red beans wait in line and multiply like Biblical breads before

my eyes. Left hand on my forehead, round and round and round I go, pressing with my right hand that ever-growing length of linen.

And on I glide, over red lanes of lifeless pearls.

Those are pearls that were his eyes.

“Are you alive, or not? Is there nothing in your head?”

Swiftly a forest path I find. Tropical plants, luxuriant trees, pink magnolia. A gentle wind sways giant flowers and lubricated leaves. I

have been here already. A path where crown canopies cast dark shadows through heaving undergrowth. Where daylight is only a translu-

cent scrim over the forest roof. Where the sigh-and-sough of lilting branches beckons toward places as yet unknown. Each time I dream

of stepping through, of brushing past, of parting open the magic drapery. I have come here to meet my son in some dappled depth.

Silently I smile in anxious expectation. But of a sudden, the forest seems boundless and bare, and all that remains, when I open my eyes,

is a pattern of flowers on an old-fashioned dress.

“What shall I do now? What shall I do?”

“I shall rush out as I am, and walk the street

“With my hair down, so. What shall we do to-morrow?

“What shall we ever do?”

I fancy myself in 44 different pieces of fabric. 44 possibilities (and counting.) 44 figments coming together or parting at will. My tailored

dreams. My apple-green fragments, fleeting and frail. As many pea-green pods for a lady in waiting, dancing once in a sea-green moon.

HURRY UP PLEASE IT’S TIME

HURRY UP PLEASE IT’S TIME

“Time to wake up, Madame!” May I walk free? Or am I a wandering captive in someone else’s daydream? I have fallen asleep in a man’s

chair. Legs up, shoe soles sunny side up. My heart under my feet. What shall I do tomorrow? What shall I ever do?

The hot water at ten.

And if it rains, a closed car at four.

And we shall play a game of chess,

Pressing lidless eyes and waiting for a knock upon the door.

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Marina Sagona è nata a Roma e vive a New York con la figlia Anna.I suoi disegni sono apparsi sul New York Times e il New Yorker.Nel 2006 ha scritto e illustrato il libro per bambini “No. Anna e il cibo”; nel 2007 ha rappresentato l’Italia alla Biennale di illustrazione di Bratislava.Tra le sue mostre personali:· 2008 Non La Libreria Parigi· 2007 Punti fermi

Galleria Le Nuvole Palermo· 2001 I live here

California College of Arts & Crafts, San Francisco

· 2000 Call a date Swatch Space, New York

· 1999 Marina SagonaTeatro Valle, Rome

Marina Sagona was born in Rome and now lives with her daughter Anna in New York.Her illustrations have appeared in TheNew York Times and The New Yorker. In2006, she wrote and illustrated a children’sbook entitled “NO: Anna and Food”. In 2007, she was Italy’s representative at the Bratislava Biennial of Illustration. Her personal exhibitions include:· 2008 Non La Libreria Paris· 2007 Punti fermi

Galleria Le Nuvole, Palermo· 2001 I live here

California College of Arts & Crafts, San Francisco

· 2000 Call a date Swatch Space, New York

· 1999 Marina SagonaTeatro Valle, Rome

Giovanna Calvino è nata aRoma e vive negli Stati Uniti

da vent'anni. Hafatto un dottorato in

letteratura comparataall'università della

Pennsylvania e insegnaletteratura italiana e

francese alla New YorkUniversity. Abita all'ultimo

piano di una casaottocentesca senza ascensore

vicino al Central Park.

Giovanna Calvino was bornin Rome and has been living

in the United Statesfor over twenty years. Shehas a Ph.D. in comparative

literature from theUniversity of Pennsylvania

and she teaches Italian andFrench literature at

New York University. Shelives on the top floor of a19th Century townhousewith no elevator, close to

Central Park.

Antonio Monda è unmeridionale che vive a NewYork. Sposato con Jacquie,giamaicana, è l'orgoglioso

padre di tre figli. Ha dato alsuo cane, Winston, il nome

del suo statista preferito.Insegna al Dipartimento di

cinema della New YorkUniversity, e ha curato

esibizioni per il MoMA, ilGuggenheim e il Lincoln

Center. Ha diretto numerosidocumentari e il film

"Dicembre". Scrive per LaRepubblica. I suoi libri sono

"La Magnifica Illusione",“The Hidden God",

"Tu Credi?" e il romanzo"Assoluzione".

Antonio Monda is a southernItalian who lives in New York.

He's married to a Jamaican,Jacquie, and proud father of

three. His dog, Winston, isnamed after his favorite

statesman. A professor in theFilm Department at New York

University, he has curatedexhibitions at the

Guggenheim, MoMA andLincoln Center. He has

directed severaldocumentaries and a featurefilm, entitled "Dicembre". Hewrites for La Repubblica andhis books are: "La Magnifica

Illusione," "The HiddenGod," "Do you Believe?" and

the novel "Assoluzione".

Sharifa Rhodes-Pitts è saggistae giornalista. I suoi lavori

sono pubblicati su diversetestate, tra cui The New York

Times e The Boston Globe. Haricevuto riconoscimenti dalla

Independent Press Association,dalla Rona Jaffe Foundatione dalla Lannan Foundation.

Nel 2006-2007 ha partecipatoal programma Fulbright nelRegno Unito ed ha appena

vinto la borsa di studio messaa disposizione per il 2009 dal

Centre International desRécollets di Parigi. È

attualmente impegnata nellascrittura di una trilogia sugli

afroamericani e l'utopia; il suo primo libro, “Harlem is

Nowhere”, sarà pubblicato da Little, Brown.

Sharifa Rhodes-Pitts is anessayist and journalist whose

work has appeared in TheNew York Times, and The

Boston Globe, among others.She has received awards

from the Independent PressAssociation, the Rona Jaffe

Foundation and the LannanFoundation. In 2006-2007 shewas a Fulbright scholar in theUnited Kingdom and she has

just been named a 2009laureate of the Centre

International des Récollets inParis. Ms. Rhodes-Pitts is

writing a trilogy on African-Americans and utopia; her

first book, “Harlem isNowhere,” will be published

by Little, Brown.

Lila Azam Zanganeh è nata,piuttosto casualmente,

a Parigi da genitori iraniani. Ha insegnato letteratura,

cinema e lingue romanze allaHarvard University. Dal 2002,

collabora con Le Monde e i suoilavori sono stati pubblicati in

The New York Times, The ParisReview e La Repubblica. Nel 2006, ha curato una

raccolta di saggi narrativisull'Iran. Il suo primo libro,

“Light of My Life”, un'opera ametà tra il romanzo e il saggiosulla felicità secondo VladimirNabokov, sarà pubblicato nel

2009. Le citazioni in“Biancheria, vestiti, scarpe”

provengono da “La terradesolata” di T.S. Eliot (1922).

Lila Azam Zanganeh was born,quite by accident, in Paris to

Iranian parents. She has taughtliterature, cinema and

Romance languages at HarvardUniversity. She is, since 2002,

a contributor to Le Monde andhas been published in The New

York Times, The Paris Review,and La Repubblica. In 2006,

she edited a collection of narrative essays on Iran.

Her first book, “Light of MyLife,” a combination of fiction

and essay about happinessaccording to Vladimir Nabokov,

will be published in 2009. The sentences quoted

in “Linens, clothes, shoes” are all excerpts from T.S. Eliot's

“The Waste Land” (1922).

Layout 1 | cm. 15,5 x 27,5Layout 2 | cm. 31 x 55Living 1, 2 | cm. 21,5 x 28Bedroom 1, 2, 3, 4 | cm. 27,5 x 16,5

Kitchen 1, 2, 3, 4 | cm. 49 x 21,5Bathroom 1 | cm. 12,5 x 14Bathroom 2 | cm. 27 x 9Bathroom 3 | cm. 14 x 11Bathroom 4 | cm. 19 x 16,5Bathroom 5 | cm. 19 x 21Closet 1, 2 | cm. 20 x 20

Furniture 1 | cm. 21,5 x 13Furniture 2 | cm. 15,5 x 15,5Furniture 3 | cm. 14,5 x 20,5Furniture 4 | cm. 19 x 13,5Furniture 5 | cm. 24 x 8Furniture 6 | cm. 14 x 17Furniture 7 | cm. 14 x 20,5Furniture 8 | cm. 16 x 21,5Furniture 9 | cm. 28 x 17,5Furniture 10 | cm. 32 x 38,5Paintings 1, 2 | cm. 25 x 21,5Things 1 | cm. 55,5 x 31Things 2 | cm. 55,5 x 34,5

Linens 1 | cm. 40 x 28Linens 2 | cm. 30,5 x 39Linens 3 | cm. 41 x 41Linens 4 | cm. 45 x 48Clothes 1 | cm. 24 x 24Clothes 2 | cm. 43 x 24Shoes 1, 2 | cm. 20 x 20

Tutte le opere sonorealizzate a gouache su carta, escluso il gruppo“Linens”, realizzato a gouache su stoffa.

All works: gouache on paper. Except “Linens” group:gouache on fabric.

Page 37: ATHOME - Intro ad orecchio acerbo e addirittura indispensabile bilanciarsi del pieno. ... Quante volte ci siamo sentiti così, proprio come lei, ... Ecco, le vedo camminare, varcano

MARTE Galleriavicolo del Farinone 32, 00193 Roma

tel 0039.06.97602788 www.m-artegalleria.com | [email protected]

Traduzioni | Translations Elena Fantasia, Michael ReynoldsGrafica | Graphic design orecchio acerbo

Finito di stampare nel mese di dicembre 2008 da Futura Grafica ‘70, Roma | Printed in December 2008

by Futura Grafica ’70, Rome

© 2008 Marina Sagona© 2008 Giovanna Calvino

© 2008 Antonio Monda© 2008 Sharifa Rhodes-Pitts© 2008 Lila Azam Zanganeh

Per la presente edizione | For this edition© 2008 orecchio acerbo s.r.l.

viale Aurelio Saffi 54, 00152 Romawww.orecchioacerbo.com