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1 Aroldo Romagnoli – Claudio Fantoni Aroldo racconta una storia vera.

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Aroldo Romagnoli – Claudio Fantoni

Aroldo racconta

una storia vera.

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Ti ringrazio Claudio per la pazienza con cui hai trascritto

il racconto di una parte della mia vita. Insieme lo dedichiamo a tutti coloro

che hanno sofferto, soffrono e soffriranno a causa delle guerre.

Guerre volute da coloro che, sventolando controsole la bandiera

dei loro nobili ideali, scaricano sugli altri gli orrori

che esse generano.

...volevo tanto raccontare le avventure,

i patimenti di quei due anni, ma nessuno mi ascoltava.

Nessuno voleva sapere. Tutti volevano solo dimenticare .

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Avevo due anni e mezzo quando nel 1927 venni portato dal mio babbo Angiolino a Montalcino, la zona del famoso vino Brunello, a fare il vaccino contro il vaiolo. Nel grande stanzone del Comune dove aspettavamo il nostro turno c’erano “casualmente” anche i conti di Argiano, che osservavano a distanza i tanti bambini portati dalle campagne circostanti per essere vaccinati. I conti avevano tante ricchezze, compresa una automobile e 10 poderi, ma non avevano figli. Fra i pianti e le grida dei molti bambini impauriti, che per la prima volta vedevano un dottore, lo sguardo dei conti cadde su di me. Occhi azzurri, moretto, grassoccio con due candelotti al naso che facevano luce, stavo aggrappato al collo del babbo, scal-zo,perché le scarpine non le avevo mai avute. Diciamo che non le vendevano. La contessa toccò con il gomito il suo sposo e questi si avvi-cinò a noi. Chiamato mio padre in disparte, gli offrì un pode-re a sua scelta e 27.000 lire se gli avesse dato il bambino che teneva in collo. Il mio babbo rischiò di cadere a terra, ma nello sbandamento momentaneo ebbe uno sprazzo di lucidità e disse: «Scusate, conte, ma devo sentire la mia donna» (la mia mamma Armi-da). Per tutta la strada del ritorno, passando da Lume Spento, per arrivare fino alla nostra casa, denominata l’Osteriaccia, An-giolino era assillato dal pensiero di come affrontare il discor-so con Armida, ma in cuor suo dava per scontato che l’affare era fatto. Dopo la povera cena e dopo che i due fratelli più grandi Vit-torio e Dina furono messi a letto con me nel solito paglieric-cio di foglie di granturco, Angiolino sfoderò il segreto che lo aveva turbato per tutto il viaggio di ritorno: «Armida, oggi ho visto i conti di Argiano, i padroni delle terre confinanti con

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quelle del nostro padrone, e mi chiedevano del nostro più piccino».

Armida continuò nelle faticose faccende di casa e non dette peso alla cosa.

Angiolino, fattosi coraggio con un mezzo bicchiere di vino, tornò allora più esplicito sull’argomento: «Il conte ci darebbe uno dei suoi 10 poderi a nostra scelta e 27.000 lire».

Armida continuava a non capire e guardò quanto vino era rimasto nel fiasco, poi chiese: «Ma che volete dire con questi discorsi di soldi e di poderi?».

«Vi dico che se diamo loro Aroldo, dato che non hanno fi-glioli, ci danno tutto quel ben di Dio che vi ho detto e forse anche qualcos’altro». Incalzò il babbo che avrebbe anche continuato ad esaltare i vantaggi dell’affare. Ma la mia mamma con un secco no pose fine alla chiacchierata e andò a letto.

Angiolino si ruzzolò tutta la notte al pensiero di come dare al conte la risposta negativa.

Al mattino seguente una automobile, con il tettuccio di tela pieno di polvere, arrivò sul presto alla nostra casa cercando di schivare sassi, buche e diversi fagiani.

Angiolino aspettò sulla porta l’arrivo di quella insolita visi-ta e, levatosi il cappello di feltro, lo sbatté sui calzoni di fu-stagno pieni di polvere, poi fece un sospirone, come per mandare giù un grosso macigno che gli pesava sul petto e, con me in collo, provò a muovere il passo per avvicinarsi alla vettura.

Il conte scese, lasciando la moglie all’interno con un fazzo-lettino bianco fra le mani per detergesi il sudore e forse qual-che lacrima.

Il conte, senza dire buongiorno, iniziò parlando dei fagiani maschi trovati per strada e Angiolino gli disse che ai fagiani e ai male intenzionati ci pensava il figlio del loro padrone.

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Poi, d’improvviso, il conte gli si rivolse con un «Allora?», con la voce che tradiva un’emozione malcelata.

Il babbo non sapeva più dove guardare e, cercando le paro-le, volse lo sguardo verso la mia mamma, appena uscita di casa, che con fierezza disse: «Il mio sangue non lo vendo!».

La villa dei conti di Argiano.

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Nel 1930, in occasione della nascita dei miei fratelli gemelli Romolo e Remo, la mia famiglia si trasferì nel paese di Mon-talcino, nella casa della famiglia Padelletti, sopra l’arco che si sottopassa per andare all’ospedale. Mia sorella Dina fu man-data dai nonni e Vittorio, che era poco più grande di me, fu spedito a fare il garzone a Fontebuia; viste le sue condizioni fu subito rivestito con i panni del figlio del padrone, che po-chi giorni prima era morto di tisi, ma ci restò poco perché al primo ceffone era bell’e tornato a casa.

Io cominciai le elementari e in prima classe eravamo 85 bambini maschi con un solo maestro, quello sì un vero mae-stro unico, alla faccia del maestro unico di cui si parla oggi.

Questo maestro riusciva a tenere la disciplina, senza essere cattivo e senza picchiare nessuno come usava a quei tempi, ma solo con la serietà con cui svolgeva il suo lavoro.

Mi piaceva tanto leggere e rileggere il libro che ci avevano dato e dopo poche volte lo avevo già imparato a mente e lo ripetevo girando le pagine senza bisogno di seguire con gli occhi quello che c’era scritto.

Il maestro aveva capito il mio grande desiderio di imparare e mi teneva in grande considerazione.

L’anno successivo, facevo la seconda, e un brutto giorno di gennaio il maestro ci chiese di portare 5 lire per acquistare la tessera di giovane Balilla.

Arrivai a casa mogio mogio. La mamma, nonostante fosse impegnata con i gemelli, si accorse del mio insolito umore.

Raccontai della richiesta del maestro, sapendo che le condi-zioni economiche della famiglia non ci avrebbero permesso di soddisfarla; il maestro era stato molto chiaro: «O porti le 5 lire o ti boccio!».

Il babbo prendeva 6 lire al giorno, quando sì e quando no, e la mamma, che già faceva il bucato al fiume per la famiglia Padelletti, proprietari delle stanze che abitavamo, dovette la-vorare tre giorni per guadagnare quelle 5 lire che servirono per la tessera.

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Da quel giorno diventai grande e cominciai anch’io a darmi da fare per racimolare qualche centesimo.

Il chiostro all’interno dell’ospedale di Montalcino

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Il maestro Stacchiotti, che abitava vicino all’ospedale, mi mandava ogni pomeriggio a comperargli il giornale “Il Tele-grafo”.

Gli accordi erano questi: mi dava 1 lira, compravo il quoti-diano che costava 30 centesimi e riportavo il resto di 70 cen-tesimi, in cambio ricevevo 20 centesimi di mancia.

Nel fare questo servizio ero velocissimo e nonostante i pie-dini ignudi non sentivo le pietre taglienti del selciato e nem-meno le ortiche che nascevano fra una pietra e l’altra.

Il maestro dalla finestra si divertiva a vedermi correre come il vento, ma un giorno che era piovuto scivolai e volendo sal-vare il giornale, che non si bagnasse, persi i 70 centesimi del resto.

Ero disperato anche se ritrovai quasi subito il ventino: non pensavo per niente ai ginocchi sbucciati, ma alla mezza lira che non riuscivo più a trovare e fino a quando non l’ebbi tro-vata non rientrai dal maestro, che nel frattempo, non veden-domi tornare, era in agitazione. Dapprima serissimo, quando gli raccontai dello scivolone, Stacchiotti cominciò a ridere e, sollevato, mi regalò la mezza lira che avevo ritrovato.

Io mi domandavo: «Cosa mai ci sarà scritto in questo gior-nale per doverlo comprare tutti i giorni?» e, quando lo chiesi al maestro, lui mi regalò una copia di qualche giorno prima, copia che a quei tempi veniva usato per il bagno, per il fuoco e per qualsiasi forma di incarto.

Io provai a leggerlo e rileggerlo, ma quando il maestro mi chiese che cosa c’era scritto gli risposi rispettosamente con un’altra domanda: «… e in quello di domani ci saranno scrit-te le stesse cose?». Il maestro rise e mi fece accompagnare a prendere un gelato da sua figlia, che aveva già una quindicina di anni ed era particolarmente carina e gentile, ma soprattutto non si vergognava di farsi vedere vicino a me.

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La casa di Montalcino

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Sì, perché i signori non amavano farsi vedere con i poveri e anche oggi, quando lo fanno, ostentano quello che per loro deve essere un grande sacrificio.

Vista la fiducia che il maestro riponeva in me e la sveltezza con cui facevo il servizio, altre famiglie mi comandavano piccole incombenze fino ad arrivare a consegnarmi 50 lire per fare loro la spesa. I più poveri mi davano 2 soldi di man-cia, ma quelli che stavano meglio mi davano anche 20 cente-simi.

I bottegai mi conoscevano bene e chiedevo il conto scritto della spesa per riportare il resto preciso a chi mi aveva man-dato a fare gli acquisti.

Abitando vicino all’ospedale, vedevo passare tutti i funerali e mi domandavo cosa avrei potuto fare per guadagnare qual-cosa da quelle disgrazie, ma non mi venne mai in mente nien-te; una volta andai anche a visitare un morto, ma anche lì non ci guadagnai niente. E pensare quanto si sono poi arricchiti quelli delle pompe funebri!

I piccoli guadagni mi servivano per andare alla bottega di generi alimentari della vedovina per acquistare ogni giorno una sardina salata. Le più volte però non avevo i soldi suffi-cienti per saldare il conto, così quella benedetta donna me la dava lo stesso, ma segnava comunque nel libretto dei debitori i soldi che le dovevo.

Così passarono tre anni e, quando fummo per trasferirci in Maremma, il debito era arrivato a 20 lire. A quel punto era impossibile saldare il conto ed io mi porto ancora dentro il pensiero di quelle sardine mai pagate e il non aver mai rin-graziato quella cara vedovina della bottega (che Dio gliene renda merito).

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Il 1° Gennaio 1934 la famiglia si trasferisce in Maremma. Un carro trainato da due buoi, in questa gelida mattina, scende per la strada sterrata da Montalcino verso il podere di Torri, vicino alla stazione di Roccastrada.

Il babbo Angiolino, mio fratello Vittorio ed io camminiamo dietro dietro per non aggravare il peso, la mamma, i gemelli e le poche cose che abbiamo sono sul carro. Ogni tanto la mamma mi sorride e mi fa cenno di salire vicino a lei, ma io faccio l’ometto e non voglio dimostrare la stanchezza. C’è da guadare il fiume Orcia e poco dopo l’Ombrone. Per fortuna le piogge non hanno ingrossato i due fiumi e si vede bene dove passare. Il babbo e Vittorio si tolgono le scarpe, io salgo sul carro; una buona scusa per andare vicino alla mamma e ap-profitto degli scossoni per sbatterle addosso e poi ridere con lei.

Poi, giunti sull’altro argine, salto giù dal carro e più conten-to che mai, per essere stato vicino alla mamma, ritorno a camminare. Ogni tanto ci fermiamo per far riposare e abbe-verare queste povere bestie. Il babbo strappa dai bordi della strada qualche ciuffo d’erba che si è salvato dal gelo e lo av-vicina alle bocche fumanti delle due vaccine. Per noi un pane in sei persone. Quando cala la sera non siamo ancora arrivati e il babbo decide che ci fermiamo dalla zia Argenta, a pochi chilometri dal podere di Torri. Domani lui tornerà a Montal-cino per restituire il carro che ci ha portati in Maremma. Re-steremo qualche giorno dalla zia, poi ripartiremo con il loro carro.

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A cena, mentre gli adulti parlano, capisco che il mio futuro è già stato deciso. Io non andrò più a scuola perché dovrò ba-dare le pecore del nostro nuovo padrone. Dopo un anno la mamma si ammalò gravemente e passò dall’ospedale di Grosseto a quello di Siena. Quelle poche volte che siamo andati a trovarla spendevamo 9,60 lire per il biglietto del treno per andare e tornare dalla stazione di Roc-castrada a Siena.

Quelli tra il ’34 e il ’41 furono anni molto tristi per noi: la famiglia divisa, noi a lavorare solo poche giornate al mese dai contadini per qualche tozzo di pane, con i pochi mobili di casa accatastati in qualche stalla, pronti per essere caricati sui carri per i nostri trasferimenti, dato che il babbo passava da un padrone all’altro.

Vittorio, il più grande di noi figlioli, che poteva dare un contributo a sfamare la famiglia e aveva appena cominciato a lavorare alla miniera di carbone di Ribolla, fu richiamato alle armi nel gennaio del 1941 presso il 59° Reggimento Fanteria di Tempio Pausania, in Sardegna, e da lì fu trasferito come minatore nella miniera di Carbonia. L’ambiente di lavoro che trovò a Carbonia, con quattromila minatori, era molto simile a quello di Ribolla. Pur sapendo le condizioni in cui ci aveva lasciati, era troppo lontano per poterci aiutare. La mamma morì a Siena il 16 agosto 1941 e lì venne sepolta al cimitero del Laterino. Oggi riposa insieme al babbo nel cimitero di Gavorrano.

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Anni ’20. Famiglia contadina di quei tempi.

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30 agosto 1943 Sono richiamato militare e devo lasciare il babbo da solo

con i gemelli di 13 anni. Vengo destinato al 7° Artiglieria di Corpo di Armata a Li-

vorno per essere inviato in Corsica. 10 Settembre 1943

Oggi ci trasferiscono in una caserma di Prato, a causa dei bombardamenti che ci sono stati a Pisa l’8 settembre ’43. 11 settembre 1943

Senza ordini, abbandonati alla mercé dei Tedeschi, un uffi-ciale tedesco ci raduna nel piazzale della caserma e, insolita-mente sorridente, esordisce dicendo: «Camerati italiani, per voi la guerra è finita, presto tornerete alle vostre case. Ricon-segnate le armi posandole a terra».

Di fronte a tanta cordialità, gioiosi e fiduciosi posiamo a terra i moschetti 91/38, ma d’improvviso i soldati tedeschi che ci circondano spianano i loro fucili mitragliatori e da quel momento non siamo più “fratelli camerati”, ma “traditori fatti prigionieri”.

Ci caricano sui camion e partiamo con destinazione Firen-ze. Durante il viaggio di trasferimento la popolazione vuole avvicinarsi ai camion ma viene tenuta lontana da svariati col-pi di fucile sparati in aria.

Una ragazza si avvicina al mezzo che ci trasporta e, chie-dendomi l’indirizzo, mi dice che avrebbe scritto a casa per dare mie notizie (pochi giorni dopo la lettera arrivò regolar-mente alla mia famiglia).

A sera veniamo sistemati nella caserma dei paracadutisti “Rovezzano”. In quei pochi giorni che passai in quella caserma dei paraca-dutisti, girellando qua e là alla ricerca di cibo, vidi un paraca-dute abbandonato da una parte e, per la grande curiosità di vederlo aperto, lo portai in un posto un po’ ritirato.

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Una volta aperto mi resi conto della sua immensità, quella

seta meravigliosa, impalpabile, tanto era lavorata finemente, sotto il sole di settembre, mossa da un po’ d’aria, cambiava continuamente di colore.

Cominciai a separare le funi, i ganci, le campanelle, pen-sando a quanto mi sarebbero state utili, una volta tornato a casa, per legare gli animali, mentre la seta preziosa pensavo che l’avrei regalata a tutte le ragazze del mio paese per con-fezionarci delle camicette.

Per poterci alimentare ci riempivamo lo stomaco con pan-nocchie di granturco seminato negli orti del Duce all’interno della caserma.

Pur essendo settembre, alla sera faceva fresco ed io ero ve-stito con una giacchetta di tela coloniale. Al pensiero di dover affrontare l’inverno chissà dove, mi preoccupavo di “arraffa-re” qualche indumento più pesante dal magazzino, in cui si intravedevano accatastati tanti vestiti invernali da paracaduti-sta.

La guardia tedesca era sempre lì con il mitra spianato e non si distraeva mai, ma una giacca grigioverde vicina alla porta era come se mi dicesse: «Vieni a prendermi, che sono della tua misura».

Piano piano mi avvicinai alla porta del magazzino, come se volessi curiosare all’interno, con un occhio alla giacchetta e un occhio al tedesco del mitra spianato.

Ci arrivai vicino e con lo sguardo diritto negli occhi della guardia afferrai la giacca e me la misi sottobraccio.

Lui rimase fermo, imponente come un gladiatore romano, ed io mi allontanai pian piano come ero arrivato in attesa di sentire la raffica di mitra alle mie spalle.

Questa giacchetta fu poi molto importante per il mio futuro e per quello di qualcun altro.

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17 settembre 1943 Ci inquadrano e, saliti sui camion, ci portano allo scalo

merci di Firenze Campo di Marte e ci fanno salire in quaranta per vagone bestiame, con a guardia un soldato tedesco in ogni vagone.

Sembra proprio impossibile scappare da quell’inferno, ma un giovane napoletano del nostro vagone vede lì vicino un anziano vetturino con un barroccio carico di breccia e, fattosi dare le nostre borracce dell’acqua, con grande disinvoltura scende dal vagone e si dirige verso il barroccio.

Consegna le borracce al vetturino, prende con decisione i finimenti del cavallo con la mano sinistra e accarezza la doci-le bestia con la destra tirandola verso l’uscita e poi allonta-nandosi dal treno fa schioccare la sferza.

Di fronte a tanta sicurezza la sentinella alza la sbarra senza porsi domande .

L’anziano proprietario del barroccio va a riempire le nostre borracce e, dopo avercele riconsegnate, si dirige verso il gio-vane napoletano che lo aspetta appena fuori dal cancello.

Oltre agli altri trentotto rimasti, tutti vestiti con abiti milita-ri, c’è un signore di Piombino di 35 anni con il vestito scuro di quando si era sposato e un largo cappello di feltro.

Visto che la fuga del napoletano é andata a buon fine lo in-coraggiamo a tentare anche lui a scappare. Lo carichiamo di borracce, di baci, di auguri e di saluti, poi lo aiutiamo a scen-dere dal vagone. Ma non riesce nemmeno a mettere tutti e due i piedi per terra che la guardia grida: «Alt!».

Lui diventa piccolo piccolo e dice sommessamente: «Civile … civile».

La guardia comincia a gridare richiamando l’attenzione di due ufficiali tedeschi di alto grado e lo indica come si fa con uno che vuole scappare.

Quel poveretto balbetta le parole «Civile … civile» e non sa più che fare, lui rischia la fucilazione, ma noi ridiamo ugualmente per averlo incoraggiato in questa brutta figura. Gli ufficiali ci guardano e capiscono che la colpa di tutto è la

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nostra e ci redarguiscono con parole che non conosciamo, ma dal tono capiamo bene che quelli non scherzano.

Prima di partire per chissà dove si viene a sapere che nel vagone vicino al nostro manca una tavola nel pavimento e i prigionieri cercano di far sapere al macchinista di andare pia-no nella lunga galleria della Futa (20 chilometri) per permet-tere loro di scappare.

Solo otto hanno il coraggio di scendere dal treno che rallen-ta fortemente nel colmo della galleria, ma senza fermarsi, per non destare l’attenzione delle guardie.

Eravamo coscienti che per noi era iniziato un lungo viaggio e ogni volta che il treno si fermava nelle stazioni, per far passa-re gli altri treni più veloci del nostro o con carichi di merci considerati di “maggior valore” di noi poveri esseri umani, speravamo proprio di essere arrivati a destinazione. Quando fummo a Bologna volevamo pensare che il nostro viaggio fosse finito; tutto questo passava nelle nostre menti senza un preciso motivo.

Dopo che la locomotiva ebbe caricato acqua e carbone ri-prendemmo il nostro viaggio senza sapere la meta; nessuno diceva Germania, ma in cuor nostro tutti lo pensavamo. Forse in quello stesso convoglio c’erano anche Dino Penni, Oreste Ricutini, Piero Perfetti e suo fratello Rebo, del mio stesso paese, partiti militari tre giorni prima di me; con loro ci rive-

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demmo dopo due anni, pur essendo anch’essi prigionieri in Germania, ma in campi di lavoro diversi da quello dove ero io.

Foto di Dino e Rebo prima della prigionia. Fra noi c’era un paracadutista di Mantova e ci raccontò che

in un lancio di addestramento a Civitavecchia era rimasto ag-ganciato all’ala dell’aereo. Il pilota per rilasciarlo senza dan-no si portò sul mare, poi ridusse la velocità al minimo indi-spensabile per non ammarare. Diceva che lui era riuscito a liberarsi delle funi ed era caduto in mare e poi era stato salva-to dai pescatori, che lo avevano visto appeso all’aereo. Così lui raccontava e i suoi occhi brillavano d’orgoglio.

Prima di Mantova riconobbe la sua terra e cominciò a urla-re forte dicendo continuamente: «Mi son di Mantova e mi rimango a Mantova!».

Quando però arrivammo alla stazione di Mantova, i tede-schi, che sentirono le urla del paracadutista, aprirono il por-tellone e lo trascinarono all’infermeria, ma capirono subito che non era matto e lo ricaricarono nel nostro vagone.

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Ad ogni stazione

chiedevamo ai ferro-vieri che ci riempisse-ro d’acqua le borrac-ce. Non dimenticherò mai quando attraver-sammo il Trentino. Alcune donne ci por-tavano intere casse di mele e si scusavano dicendo che erano passate tante tradotte di prigionieri e che non avevano altro da darci.

Fu allora che per dimostrare la nostra gratitudine tirai fuori la seta del paracadute e gliela regalai. Vista la loro gioia mi sentii felice di aver potuto contraccambiare quel loro gesto di grande umanità.

Quando, dopo trenta ore di viaggio, arri-vammo al Brennero era ancora giorno.

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Le SS di scorta ai vagoni controllarono tutta la tradotta e,

quando videro che nel vagone vicino al nostro c’era un buco e che mancavano otto prigionieri, cominciarono a contarci vagone per vagone e per ogni persona che veniva contata erano colpi con il calcio del fucile e pedate. Nel nostro vagone c’era un bersagliere ferito al fronte russo. Era rimasto adagiato da una parte per tutto il viaggio. D’improvviso le guardie tedesche gridarono e il portellone del nostro vagone fu fatto scorrere, il bersagliere si alzò con uno scatto, proprio da vero bersagliere.

Cinque tedeschi delle SS ci accostarono tutti da una parte e contandoci e spingendoci ci fecero passare dalla parte oppo-sta e per ognuno di noi erano calci o botte con un tondino di ferro inserito nel fodero di una spada.

Decisi di passare fra i primi e, anziché correre come aveva-no fatto tutti gli altri, camminai a passo svelto; per questo fui preso di striscio dal calcio del fucile e non riportai gran dolo-re alla spalla.

Quando passò il bersagliere fu colpito proprio nella ferita e sentimmo un urlo disumano. E mentre si travolgeva rantolan-do sulle tavole del pavimento, al buio com’era, lo trascinam-mo noi che gli eravamo più vicini, senza poter fare niente per lui.

Così lasciammo l’Italia. Arrivati in Austria, i tedeschi si sentivano a casa loro e dimi-nuirono l’aggressività che avevano quando eravamo in Italia.

Ci fecero scendere senza troppe precauzioni, sapendo che se fossimo fuggiti saremmo stati facilmente riconosciuti e riacciuffati, con le conseguenze che tutti già immaginavamo.

Per la prima volta ci dettero qualcosa di caldo. Un prigioniero di Milano che conosceva un po’ di tedesco

si mise a parlare con una guardia e subito fu avvicinato da un ufficiale e con lui parlò a lungo. Si vedeva che veniva trattato

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con rispetto e tenuto in considerazione, e questo anche nei giorni successivi. Quando arrivammo alla stazione di Monaco, furono aperti i portelloni dei carri per mostrarci ai viaggiatori che si trova-vano lungo i marciapiedi in attesa dell’arrivo dei treni. Ma le guardie, che davano le spalle alla stazione e avevano i mitra spianati contro di noi, non ci permisero di scendere.

Una signora tedesca, alta, bionda, occhi azzurri, tipica fat-trice ariana, protetta dalle guardie, passeggiava altezzosa lun-go il marciapiede e ogni volta che passava davanti ad uno dei portelloni aperti faceva ruotare la mano destra ad di sopra della sua testa, poi distendeva verso il basso il braccio sini-stro, per farci capire che ci attendeva l’impiccagione.

Riprendemmo il viaggio per un’intera giornata, poi, nel pieno della notte, la tradotta si fermò in aperta campagna. 21 settembre 1943

È l’alba e ci fanno scendere; dopo un’ora di cammino arri-viamo a destinazione.

Il nostro viaggio ha termine, dopo cinque giorni, al campo di concentramento di Kustrin III C, vicino a Berlino.

Appena giunti al campo veniamo inquadrati e dagli altopar-lanti esce una voce metallica, di un tedesco che parla molto bene la nostra lingua: «Il nemico è quello di ieri (Inglesi e Americani): volete andare a difendere la vostra patria? Potete arruolarvi con le SS e ritornare in Italia a combattere coman-dati da ufficiali italiani, oppure rimarrete in Germania e sare-te trattati molto male, dico lavorerete duramente».

A quel punto non sappiamo quale decisione prendere ed al-cuni decidono di arruolarsi, presi dal desiderio di ritornare in patria e magari, una volta in Italia, darsi alla macchia.

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Coloro che come me decidono di restare in Germania ven-gono messi da una parte e accoppiati per due, con in mano una targa numerata, vengono fotografati. Poi ci prendono an-che le impronte digitali.

Il mio numero identificativo è e resterà per sempre nella mia mente: 44753.

Smetto di essere Aroldo e divengo un numero. La prima notte non dormo in baracca per il fetore che c’è

all’interno e preferisco rimanere fuori, anche se piove, in compagnia di altri due prigionieri, tutti e tre riparati da una misera coperta. 22 settembre 1943

Al mattino vediamo entrare nel campo un grosso camion con il telone. Fa marcia indietro verso la porta d’ingresso di una baracca. Gli caricano sopra alcuni cadaveri spogliati dei loro indumenti. Un chiaro segno di come si viveva in quelle baracche. Intanto, nei giorni successivi, si digiunava e ci spostavano continuamente all’interno del campo così che potessimo ve-dere come venivano trattati i prigionieri inglesi e americani, che avevano cibo secondo gli accordi di Ginevra e la Croce Rossa che li assisteva.

Anche quelli che, fra noi italiani, avevano deciso di arruo-larsi con le SS venivano trattati da signori.

Nel corso di questi spostamenti all’interno del campo feci la conoscenza con un alpino, che era militare già da tre anni e aveva fatto anche il fronte.

Un pezzo d’uomo grande e grosso, ma che dimostrava tutte le sofferenze patite negli ultimi anni.

Aveva una giacca francese lacera e strappata, di qualche misura inferiore alla sua taglia, e, vedendo la mia nuova nuo-va e anche un po’ abbondante, mi propose di scambiarla con

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la sua razione di pane giornaliera, proveniente da una pagnot-ta divisa in sette pezzi.

Da diversi giorni rinunciavo al rancio perché, a chi lo man-giava, procurava vomito o peggio. A chi non riusciva a vomi-tare, spaccava lo stomaco con atroci dolori.

Da una parte la fame e dall’altra lo spettro delle sofferenze che l’alpino aveva patito in quegli ultimi tre anni della sua vita al fronte: mi ritrovai così a togliermi la giacca e scam-biarla con la sua.

Un errore gravissimo, un gesto sbagliato, al quale ripensai tante volte nei due anni di prigionia in Germania, ma non ho mai “risognato” quella giacca.

Ho sofferto tanto freddo, ho desiderato indumenti più pe-santi che potessero proteggermi dai gelidi venti del nord, ma sono sempre stato convinto che all’alpino quella giacca ser-viva più che a me. 4 ottobre 1943 Dopo giorni di minestra con sabbia e zucche da maiali, viene cotto in un grande pentolone “l’orzo mondo” e nel campo si sparge subito la voce che stanno cuocendo il riso.

Si forma una lunghissima fila e l’improvvisato cuoco ita-liano comincia a distribuire una mestolata per ogni prigionie-ro.

Da tempo ho perso la mia gavetta e ho una scodella da aviere (un piatto di alluminio con due manici) che può conte-nere il doppio di una gavetta.

Dobbiamo passare talmente vicino alla guardia tedesca che ci fa sentire la canna del mitra strusciandocela sulle costole.

Il cuoco distribuisce una ramaiolata per uno, ma, inspiega-bilmente, quando tocca a me non alza il ramaiolo e devo scorrere senza reclamare per non prendere una pallottola nel-la schiena.

Ancor oggi dopo 66 anni porto rancore a quel connazionale che mi ha rifiutato senza motivo un piatto di orzo bollito.

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Quello stesso pomeriggio cercano i volontari per andare a lavorare fuori dal campo.

Disperato per il trattamento che ci viene riservato, mi metto in fila e vengo destinato a Neudamm, un paese a diciassette chilometri oltre il fiume Oder, a cento chilometri da Berlino.

Durante il trasferimento cerco di vedere la campagna che attraversiamo e capire quali sono le loro colture, ma, non es-sendo quelle che ho lasciato nella calda Maremma, non rie-sco a capire e non mi rendo conto di che cosa coltivano.

Appena arrivati alla nuova destinazione, anziché darci da mangiare, ci utilizzano subito per rimuovere delle macerie.

Anche quella sera, comunque, nessun cambiamento di pro-gramma: digiuno e per giaciglio la nuda terra. Successivamente ci sistemarono in una baracca di legno dove dormivamo in letti a castello fatti di tavole su tre livelli.

In baracca eravamo 44, di cui 28 napoletani, 4 dell’Umbria, 1 pugliese, 4 siciliani e gli altri del Nord Italia, Emilia e Friu-li, solo io della Toscana.

Ogni giorno venivamo assegnati a dei civili e, a piedi, ci re-cavamo ad eseguire lavori diversi di manovalanza, inizial-mente sempre accompagnati da civili anziani, donne, ragaz-ze.

Il primo giorno mi recai allo scalo merci a scaricare, con un altro prigioniero, venticinque tonnellate di carbone; il giorno dopo, visto che eravamo stati bravi, ce ne dettero da scaricare cinquanta tonnellate in tre.

La guardia era tremenda. Nonostante la rete e il filo spinato che ci circondavano, chiusi in baracca, pretendeva che ci to-gliessimo le scarpe e i pantaloni per tenerli sotto chiave in magazzino; ce li ridava solo al mattino successivo per paura che tentassimo la fuga. Per dove, poi?

Le regole erano scritte in baracca e guai a chi non le rispet-tava: lavorare, non rubare, non camminare nei marciapiedi, ma solo in mezzo alla strada (come i cavalli), accompagnati da guardie, da civili o dai “datori di lavoro”; non dovevamo

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entrare nelle case, nei negozi o altri esercizi pubblici e mai rifiutare il lavoro che ci veniva assegnato.

Diritti, niente. Ad essere sinceri, fin dai primi giorni, ci furono dati dei ta-

bacchi italiani, due pacchetti di Nazionali Esportazione da venti sigarette e uno da dieci, una scatola di trinciato forte, due sigari toscani e una scatola di fiammiferi denominati svedesi. Io non fumavo ed utilizzavo quella roba in cambio di pane o altro, dato che ai tedeschi piacevano molto i nostri ta-bacchi.

Una delle prime sere finimmo lo scarico del carbone prima del solito e rientrammo alla baracca per lavarci e riposarci un po’ di più; fummo però intercettati da Paul, un agricoltore, invalido della guerra ’15-’18, che finita l’opera di erpicatura, fatta dalla pariglia di cavalli che aveva preso a noleggio, ci obbligò a tirare in quattro prigionieri gli erpici appena stacca-ti dai cavalli. Gli erpici, per chi non è di campagna, sono de-gli attrezzi agricoli di ferro con quaranta denti di 15 cm e servono per rompere le zolle e spianare il terreno dopo l’aratura.

Capii la lezione e a sera non rientrai mai più alla baracca prima dell’imbrunire. Tornando dal lavoro mi offrivo alle famiglie lungo strada per qualche lavoretto in cambio di un pezzo di pane; anche perché anche loro non avrebbero avuto nulla di più da darmi.

Pensai che una cosa importantissima sarebbe stata quella di imparare il tedesco per poter colloquiare con le guardie e con la gente, non per un fatto di sudditanza, ma per la sopravvi-venza.

Infatti quelle poche volte che mi rivolgevo a qualcuno bal-bettando e gesticolando non venivo preso in considerazione e, se non capivano che io ero disponibile a fare qualche lavo-ro per loro, come potevano assegnarmelo e poi ripagarmi con qualche fetta di pane?

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Ogni tanto cambiavano le guardie e ci mettevano sempre per-sone anziane, militari, ma non sempre di idee filonaziste; per dovere e disciplina non lasciavano intravedere le loro idee politiche, ma capivamo bene dai loro toni come la pensavano.

Intanto era cambiata la guardia della baracca. Avevano mandato un militare, invalido, di circa quarantacinque anni, che aveva la famiglia a cinquanta chilometri dal campo, e ogni tanto gli faceva visita la moglie, accompagnata da uno o due dei quattro figli che avevano.

Questa nuova guardia mi sembrava una brava persona e lo salutavo mattina, mezzogiorno e sera in tedesco, lingua che cercavo di perfezionare continuamente imparando nuovi vo-caboli. Anche se conoscevo solo poche parole la cosa funzio-nava e lui aspettava sempre il mio saluto, mi rispondeva edu-catamente con distacco senza mai accennare cordialità, solo rispetto per la mia persona.

Una sera rientrando alla baracca vidi nel viottolo un carica-tore uguale a quello del mitra che la guardia portava sempre a tracolla, anche quando andava a letto; senza raccoglierlo gli detti un calcetto e lo allontanai nascondendolo nell’erba.

Al rientro salutai la guardia come d’abitudine, lui bofon-chiò qualcosa, ma non mi rispose come era solito fare.

Era nervoso e teneva il gomito sul mitra per coprire quella parte dove doveva essere alloggiato il caricatore che aveva smarrito.

Due prigionieri umbri rientrarono in leggero ritardo, ma non più del solito; la guardia si arrabbiò e li spinse in baracca con il calcio del mitra; loro si meravigliarono di questo inso-lito comportamento e chiesero agli altri: «Ma non è venuta sua moglie?».

Capii come mai l’uomo era preoccupato e avrebbe potuto rifarsela con noi, ma non potevo nemmeno uscire dalla ba-racca per riportargli il caricatore e rassicurarlo.

Anche al mattino successivo era dello stesso umore e nem-meno rispose al mio saluto.

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Uscito di baracca mi recai diretto verso il caricatore e, sen-za farmi vedere dai compagni, lo raccolsi e, tornato indietro con una scusa, glielo riconsegnai.

Mi avrebbe baciato, ma si limitò a sorridere dicendo: «Danke» (grazie).

A quel punto pensai che da quel momento avrei potuto fare quello che volevo, senza però metterlo in difficoltà.

Acquisita la sua fiducia, invece mi si complicò la vita; in-fatti mi dava, tranquillo, le chiavi per aprire il cancello al mattino e richiuderlo alla sera, mi chiedeva di accendergli il fuoco, spazzare la guardiola e andare a comprare qualcosa per lui. Alla domenica mi mandava a ritirare, con un foglio predisposto dal comando militare, un pezzetto di carne di ca-vallo da mettere nel nostro rancio.

Quando arrivava il fornaio con il carretto del pane, ogni set-te giorni, dovevo andare insieme a lui a scaricare le cinquanta pagnotte da due chili.

Dopo un paio di volte mi aveva suggerito uno statagemma: lui intratteneva il fornaio in chiacchiere nella guardiola e io andavo fuori e gli rubavo una pagnotta dal carretto, la na-scondevo e quando rientravo potevamo procedere allo scari-co.

Alla domenica quando lavavo i pochi panni che avevo. Lui mi dava del sapone in polvere, ma voleva che lavassi anche qualcosa di suo. Io non avevo visto mai il sapone in polvere e poche volte quello fatto in casa con la soda caustica, messa a bollire in un pentolone con il grasso di maiale.

Mentre aspettavamo che i panni si asciugassero parlavamo e imparavo da lui il tedesco, che risultò poi davvero “miraco-loso”. Ci intrattenevamo in chiacchiere mentre teneva accesa la radio, con programmi di musica classica o altri in lingua tedesca.

Intanto, chiacchierando, mi rivolgevo spesso a lui dicen-dogli: «Gustav», come si fa tra vecchi conoscenti, ma sempre con il dovuto rispetto.

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Gustav aveva difficoltà a camminare e voleva che lo accom-pagnassi ogni sabato mattina alla posta in paese a ritirare i pacchi che le famiglie spedivano ai prigionieri.

La regola era questa: il prigioniero, per farsi mandare un pacco, poteva spedire a casa un modulo a forma di biglietto postale prestampato, su cui poteva scrivere solo cognome e nome; l’indirizzo del campo c’era già scritto.

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Nel pacco non ci dovevano essere lettere, ma solo cibo o vestiario.

Di solito i pacchi arrivavano per quelli del Nord Italia, per-ché lì avevano più possibilità economiche e ancora non era arrivato il fronte.

Coloro che ricevevano il pacco lasciavano alla guardia qualche cosa, ma non dividevano mai niente con gli altri pri-gionieri. La guardia si accorse che a me non arrivava mai niente e mi chiese il perché. Risposi che non spedivo mai la cartolina con la richiesta perchè i miei erano così poveri da non potermi mandare niente; vidi che ci rimase male.

Una volta, una sola volta, arrivò un pacco anche per me,

dopo sei mesi e alcuni giorni da quando era stato spedito. C’era dentro un salamino e un pane, duro come un sasso e ri-coperto da una muffettina azzurra che sembrava immangiabi-le, ma a me quel pane fatto a casa mia e impastato da mani amate sembrò appena sfornato.

Quando arrivavo alla baracca con i pacchi ritirati alla posta avevo il compito di aprirli per vedere che non ci fossero cose diverse da quelle consentite, ma una volta nell’aprire un pac-co cadde a terra una lettera che non avrebbe dovuto esserci.

La guardia si turbò, poi mi disse di aprirla e leggerla. La mamma raccontava al figlio che coloro che si erano ar-

ruolati con le SS, una volta rientrati in Italia, erano scappati con i partigiani e lei non si spiegava come mai il figlio non si fosse ancora arruolato e lo invitava a fare la stessa cosa. Ri-cordo bene quella parte della lettera in cui diceva: «Ti ho at-teso invano».

Io non avrei mai potuto ricevere una lettera così bella: la mia mamma non c’era più.

Non so che cosa fu congetturato dalla lettura di quella lette-ra, ma in ogni caso mi fu ordinato dalla guardia di gettarla nel fuoco e di non farne parola con nessuno.

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Biglietto postale inviato da Dino Penni. Dichiara di stare “benissimo”, ma i familiari riconoscono subito che non è la sua calligrafia.

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Una sera, mentre rientravo alla baracca, vidi una bella e ricca signora in un piazale e mi proposi per fare qualche lavoro per lei; mi rispose che aveva tanto lavoro da fare, ma che da solo non avrei potuto fare niente per aiutarla. Mi indicò dei carri carichi di botti di birra da novantasei litri ciascuna, pronti per essere portati alle birrerie della cittadina.

Rientrato alla baracca proposi questo lavoro ai quattro dell’Umbria, perché dei napoletani non c’era da fidarsi.

La sera dopo tornammo dallo scalo merci della ferrovia e ci presentammo alla bella signora e cominciammo a caricare le botti di birra sul carrello a due ruote.

Una volta finito di caricare le botti, pronti per partire, la si-gnora ci fermò e, vocabolario di italiano alla mano, ci chiese: «Cosa volete da cena?».

«Agli italiani non si domanda, gli si fa la pastasciutta!», ri-sposi risoluto, ma con il viso sorridente per farle capire che avevo gradito la sua domanda.

Andammo a distribuire le botti piene alla prima birreria, ri-caricammo i vuoti e poi continuammo con le altre, sempre a passo svelto fino a tarda sera.

Al nostro rientro trovammo una tavola preparata per cinque persone: in mezzo una enorme zuppiera piena di pasta al po-modoro. Era tanta, ma riuscimmo a finirla, mentre le patate che c’erano per secondo, avanzarono e le portammo in barac-ca agli altri prigionieri.

Era tanto tempo che non mangiavo un piatto di pasta e quella sera pensai tanto alla mia famiglia; mi sentivo in colpa al pensiero che sicuramente loro erano andati a letto quasi senza cena, come era nostra abitudine. Pensai alla mamma come non avevo fatto da tempo, alla sua lunga malattia e alle sue sofferenze, ai miei fratelli gemelli e al babbo incapace di crescerli da solo.

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Neudamm aveva, in periferia, anche un bel lago, che era grande come venti campi di calcio e sulla riva era stato co-struito anni prima un grande chalè. Quando andavamo lì a consegnare le botti di birra, facevamo un lungo percorso ed arrivavamo piuttosto provati.

Per sistemare le botti in magazzino dovevamo attraversare il bar; i clienti ci accoglievano festosi e si spostavano volen-tieri per farci passare. Il padrone ci riservava tutte le volte, un po’ in disparte, un tavolo con sopra un grosso boccale di birra e cinque bicchieri. A dire il vero, in quel periodo ho patito tanto la fame, ma non ho mai sofferto la sete e bere tutta quella birra a stomaco vuoto era un vero sacrificio.

Se la serata lo permetteva rimanevamo seduti una mezz’oretta e ci godevamo quello che prima della guerra era stato sicuramente un punto di ritrovo di molti giovani e molte famiglie. Ora era frequentato solo da uomini e donne di mez-za età.

Un pomeriggio, forse per una festa, c’erano una decina di ragazze in età da marito, ma, in una nazione in guerra, di uo-mini della loro età nemmeno l’ombra. Le ragazze stavano in disparte canticchiando a bassa voce alcune canzoni fra quelle autorizzate dal regime nazista e noi, ascoltando le loro belle voci le guardavamo incantati.

Uno di noi, di Perugia, che aveva in tasca un organetto a bocca, si mise a strimpellarlo e le ragazze smisero di cantare e si divertivano ad ascoltarlo. Poi iniziò a suonare il walzer viennese, ripetendo di contino il ritornello, tararatatà, tà tà, tà tà, che era l’unica parte che sapeva suonare.

Un altro dell’Umbria prese una sedia e, tenendo con la ma-no sinistra lo schienale e con la destra il sotto della seduta stretto al petto, cominciò a volteggiare fra i tavoli girando a destra e a sinistra dimostrando così di essere un bravo balle-rino. Le ragazze erano molto divertite e forse ognuna di loro avrebbe voluto essere al posto di quella sedia, ma il momento non ci permetteva di andare oltre.

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Intanto ero passato dallo scarico del carbone allo scarico del-le balle di fecola, la farina di patate.

Era bianchissima, impalpabile, ma quei sacchi erano pesan-tissimi, quando li dovevamo accatastare alla ventiduesima fi-la.

Questo lavoro era migliore di quello del carbone, ma quei sacchi mi sembravano sempre più pesanti e una volta, non ri-spettando l’ultima regola, quella di non rifiutare mai il lavoro che ci veniva assegnato, provai a suggerire alla nuova guar-dia di non mandarmi a caricare e scaricare i sacchi da cen-touno chilogrammi (cento di farina e uno di balla), suggerii che sarebbe stato meglio mandarci quelli più grandi e grossi di me, come il francese che era molto più robusto. La guardia ascoltò attentamente questa mia richiesta, fatta in un tedesco ben comprensibile, perorata con l’aiuto di gesti che mi faces-sero sembrare più piccolo di quello che ero e sono.

Dopo un attimo di sorpresa per quest’inspiegabile richiesta mi batté sulla spalla e mi disse: «Du Kleiner, aber du wrist es Shaffen!» (Tu piccolo, ma ce la puoi fare!).

Una volta svuotati i sacchi dalla farina dovevamo conse-gnarli ad una donna che provvedeva a cucirli negli angoli fa-cendoci dei triangoli vuoti. Una volta riempiti i sacchi con il prodotto lavorato, quei triangoli ci permettevano di afferrare meglio i sacchi per accatastarli nei vagoni. Ogni vagone ve-niva riempito in un’ora con centosessantotto sacchi disposti in nove file. Rimaneva solo un piccolo spazio pari a cinque sacchi onde permettere lo scarico agevole al ricevente.

La donna addetta alle cuciture mi chiese di dove ero ed io risposi: «Livorno», pensando che nessuno potesse conoscere Grosseto. Quando mi disse che aveva il marito richiamato al-le armi in quella città, tutti e due pensammo e dicemmo ad alta voce: «Wie schön wäre es zu thaschen!» (Come sarebbe bello potersi scambiare!).

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Ridemmo amaramente e a lei si bagnarono gli occhi di la-

crime, ma per non dimostrarlo abbassò il capo; poi aprì il suo borsellino e mi dette un bollino della tessera per poter pren-dere al forno mezzo chilogrammo di pane gratuitamente, poi riprese a cucire.

Il forno era dall’altra parte della strada, proprio di fronte al-la fabbrica, ma il problema era che noi non potevamo entrare nei negozi e negli esercizi pubblici, come specificato nelle regole della baracca e poi il fornaio mi avrebbe potuto de-nunciare per il possesso di quel bollino. Siccome era in stra-da, passavo quattro volte al giorno di fronte a quel forno; mi ero accorto che al banco ci stava di solito una sfollata polac-ca. Quando vidi che la ragazza era sola entrai risoluto e senza dire niente posai il bollino sul bancone, lei si girò e prese un pane bianco da due chilogrammi, invece di quello poco buo-no da mezzo chilo. Senza fare parola le dimostrai con un gran sorriso tutta la mia gratitudine e nascosi sotto la giacchetta quel ben di Dio.

Camminavo verso la baracca e strappavo via via dei pezzi di pane ancora caldo, ogni passo un boccone, tanto che quan-do arrivai lo avevo mangiato quasi tutto. Per fortuna non avevo bevuto e non bevvi subito perché sarei morto. Il pome-riggio non sapevo come fare a scaricare la farina, tanto mi sentivo “rimbottolito”, come si diceva al mio paese, a causa del rigonfiamento del pane. Un civile tedesco, che lavorava con me, aveva una scatoletta di metallo per portarci il pane del pranzo e ogni sera la riem-piva di farina per portarla a casa. Visto che mi ero accorto di questo suo furto che si ripeteva ormai da giorni e che non avevo detto niente a nessuno, mi consigliò di riempirmi le ta-sche e ogni sera portarne via un po’ anche io.

Accettai il suo consiglio e, riempite le sei tasche che avevo, alla sera mi avviai fra gli ultimi al cancello per uscire dalla fabbrica.

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Suonò la sirena, ma il cancello non si aprì e il padrone ven-ne diretto da me.

Di fronte a tutti mi trattò come il peggiore dei ladri e mi disse in perfetto italiano e poi anche in tedesco perché tutti capissero: «Hier sthiehlt man nicht! Wirf es auf den Haufen zurück! Wer Mehl will muβ danach fragen!» Qui non si ruba! Vai a ributtarla nel monte! Chi vuole la farina la deve chiede-re!).

Di fronte a tutti andai alla montagna di farina a svuotare le tasche.

Poi furono fatti uscire tutti gli operai ed io mi preparai alla peggiore delle punizioni, sarebbe bastata la sua denuncia e mi avrebbero mandato in un campo di concentramento.

Mi portò nel suo ufficio e mi disse che ogni sabato avrei dovuto portare un sacchetto da venticinque-trenta chilo-grammi; lo avrei potuto riempire e portare al cuciniere del nostro campo, affinché potesse aggiungere quella farina alla nostra minestra per renderla più soda e nutriente, così fu.

Che vergogna! Che figuraccia che avevo fatto di fronte a tutti!

Sembrava la conferma: Italiani, ecc. ecc.! Per andare ai vari posti di lavoro, tutti noi dovevamo percor-rere, quasi inquadrati, alcune centinaia di metri fino alle pri-me case del paese; giunti ai vari incroci venivamo scelti e in-dirizzati verso le fabbriche a cui eravamo destinati. Mentre percorrevamo questo primo tratto di strada, vidi un bambino di cinque o sei anni che si avvicinava per un viottolo dalla sua casa verso di noi. Giunto al marciapiede si fermò di scat-to e, alzata la manina destra verso il cielo, gridò: «Heil Hit-ler!» .

Tutti lo guardammo e sorridemmo pensando a quando era-vamo bambini e, con lo stesso gesto, ci insegnavano a dire: «Al Duce».

Finito il saluto, cominciò a sputarci contro e, presa una manciata di terra, ce la tirò addosso.

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La sua mamma era rimasta sulla porta di casa impassibile, forse orgogliosa di quei gesti. Lasciai il gruppo dei prigionie-ri e tornato indietro le dissi: «Liebe Frau, lernen Sie ihrem Sohn nicht den Hass!» (Signora, non insegnare l’odio a tuo figlio!). Una mattina chiesero ventotto manovali edili ed io mi aggre-gai ai ventisette napoletani che avevano deciso di provare questa nuova avventura.

Si trattava di aiutare dieci muratori che costruivano una nuova struttura in muratura per ospitare i prigionieri francesi.

Dopo qualche giorno, finite le fondazioni e cominciata la muratura in elevazione, fui affiancato ad un ragazzone tede-sco di diciassette anni che fin dal primo mattino cominciò a dirmi: «Scheiβe, Badoglio, Maccaroni…», e poi ancora le stesse parole e poi ancora.

A mezzogiorno non ne potevo più e d’improvviso mi av-ventai su di lui di sorpresa e lo scaraventai a terra saltandogli addosso, alzai il pugno per colpirlo al volto, ma d’improvviso, come lo avevo aggredito, così, mi ripresi dal gesto d’ira, mi fermai e mi rialzai.

Gli anziani muratori tedeschi presenti lo rimproverarono; il giovanotto si spolverò e non parlò più con me e poco anche con gli altri per tutto il pomeriggio. Il giorno dopo non si pre-sentò a quel lavoro e non tornò più.

Per andare a svolgere questo lavoro percorrevamo un lungo tratto di campagna. Mi accorsi da subito che da un campo erano state raccolte le patate; senza farmi vedere dai napole-tani, scavai con le mani nella terra umida e ne trovai quattro sfuggite ai raccoglitori.

Appena arrivato al cantiere accesi un focherello fra due mattoni e con un ciotoletto e un po’ d’acqua misi a lessare le quattro patate. Il capomastro se ne accorse sicuramente, ma fece finta di niente.

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Spesso, dalla vicina casa colonica, si avvicinava un bambi-

no di quattro o cinque anni, che non distingueva i tedeschi dai prigionieri, mi passava vicino ed io gli sorridevo e lo chiamavo a nome, dato che avevo sentito la sua mamma ri-chiamarlo ad alta voce dalla porta di casa. La giovane mam-ma lo chiamava: «Erik, Erik!», ma subito dopo si girava, do-vendo svolgere anche i lavori del marito che si trovava in guerra.

Alla vista del fuoco il bambino si avvicinò e cominciò ad aggiungere dei pezzetti di legno sparsi nel cantiere e nel vici-no bosco ed era contento di partecipare alla cottura delle “sue“ patate. Fu lui a dirmi: «Danack teilen wir» (Dopo si fa a mezzo).

Quando giudicai che ormai le quattro patate erano cotte le scolai e messomi seduto di fronte al bambino gliene sbucciai due e gliele detti. Sicuramente non erano migliori di quelle che gli preparava la sua mamma, ma la gioia per aver contri-buito alla loro preparazione gliele fece sembrare ottime.

Una la mangiò subito e l’altra la portò a casa orgoglioso di farla vedere alla mamma.

Il capomastro aveva seguito lo svolgimento di tutta la sce-na, ma non disse niente, anzi evitò di passare proprio di lì per tutto il tempo necessario alla cottura.

Il giorno dopo i napoletani fecero razzia delle poche patate rimaste in quel campo, ma arrivati al cantiere, furono rimpro-verati severamente e dovettero riportarle alla legittima pro-prietaria, la mamma di Erik.

Erik veniva ogni tanto a farmi visita perché gli allestivo, lontano dai pericoli, un piccolo cantiere edile.

Qualche volta mi portava una mela datagli per me dalla sua mamma e, come per le patate, facevamo a mezzo.

Avevo sempre paura che il capomastro dicesse qualcosa, ma non intervenne mai, pur vedendo questa irregolarità.

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Un giorno vidi un soldato intorno alla casa di Erik e, la se-ra, quando passammo di lì per rientrare alla baracca, mi sof-fermai a parlare con lui.

Lui capì che io ero quello delle patate cotte a suo figlio e per quello che potemmo dirci l’uno dell’altro seppi delle sue vicissitudini militari in Iugoslavia e capii che non se la pas-sava tanto bene e lo dimostrava anche dalla divisa che, una volta giusta, ora gli stava grande un paio di misure, tanto era dimagrito.

Era della classe 1921, ma gli anni passati in guerra lo ave-vano segnato regalando al suo viso almeno altri dieci anni in più rispetto ai soli ventitré che aveva.

Finito di parlare mi chiese di aspettare un momento e quan-do ritornò aveva con sé un pacchetto contenente la razione che gli sarebbe dovuta servire per il viaggio dalla Iugoslavia; me lo regalò per dimostrarmi quanto avesse apprezzato il mio affetto per suo figlio, come se io lo potessi sostituire quando fosse ripartito per la guerra.

Pian piano la costruzione stava per finire e ogni giorno di-

minuiva il numero di prigionieri che venivano richiesti; fui l’ultimo a lasciare quel lavoro e vidi anche l’arrivo dei pri-gionieri francesi per cui era destinata.

L’ultimo giorno di lavoro il capomastro mi chiese di dove ero ed io orgogliosamente dissi: «Firenze». L’uomo, con un fare non più autoritario come era stato per tutto il periodo della costruzione, esaltò le bellezze di quella città e si com-plimentò per il mio lavoro, ma con la stessa franchezza si la-mentò dei napoletani. Ogni tanto, e poi con maggiore frequenza, la sera passava una signora che chiamava Gustav; lui mi dava le chiavi della sua baracca, mi faceva chiudere il cancello alle sue spalle e si appartava con lei fino a tarda notte.

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6 giugno 1944

È quasi sera, le giornate di luce sono molto lunghe, sto par-lando con Gustav, nella sua baracca con la radio accesa, ma lui riesce a sentire che “la signora della sera” lo sta chiaman-do.

Mi saluta e, come sempre, mi fa chiudere il cancello alle sue spalle e mi dice di aspettarlo nella sua baracca.

Vado di corsa alla radio, cambio frequenza e ascolto Radio Londra che trasmette in italiano questo messaggio: «Le forze alleate sono sbarcate in Normandia».

Come faccio a trattenere un segreto così grande non lo so, senza poterlo comunicare a Gustav o condividere con gli altri prigionieri; è dura potersi addormentare pensando da una par-te alla imminente fine della guerra, ma anche al sicuro ina-sprimento della prigionia. 7 giugno 1944

Oggi vengo mandato a caricare e scaricare mattoni. È arri-vato un potente trattore gommato che riesce a tirare due ri-morchi alla volta, ma l’operazione di aggancio non è facile e va per le lunghe; il capomastro comanda più volte, all’autista poco esperto, le manovre che deve eseguire: «Ein bischen weiter… Ein bischen zurück…» (Poco più avanti… poco più indietro…).

Questo avanti e indietro lo innervosisce e le nostre risatine e i nostri commenti ancora di più.

Lui ha saputo dello sbarco in Normandia e si lascia sfuggi-re: «Diese Nacht sind sie in Frankreich angekommen, a ber-die Unsringen haben sie ins Wasser zurückgeworfen!... ins Wasser! … ins Wasser! » (Questa notte hanno tentato lo sbarco in Francia, ma i nostri li hanno ributtati in acqua! … in acqua! … in acqua!). Questo diceva nero di rabbia con l’indice della mano destra rivolto verso terra.

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Non ho dormito tutta la notte al pensiero dello sbarco, sicu-ro che la guerra finirà da un momento all’altro, mi sento un coraggio da leone e orgoglioso rispondo: «Ihr habt sie nicht ins Wasser zurückgeworfen, sie sind inder Normandie ange-kommen!» (Non li avete ributtati in acqua, sono sbarcati in Normandia!).

Nero di rabbia, con il suo indice diritto verso il mio naso pronto anche a staccarmi la testa: «Pass mal auf!… Du Spion!» (Fa’ attenzione!… Tu spione!).

Era meglio se fossi stato zitto perché tutto il giorno, ogni volta che i nostri sguardi si incontrano mi dice: «Pass mal auf !… Du Spion!».

Non vedo l’ora che il lavoro finisca e con esso possa finire un incubo.

Se “il giorno più lungo” è stato il 6 di giugno per gli ameri-cani e gli inglesi, per me è stato il 7 giugno.

A sera rientro terrorizzato alla baracca, ma nessuno sa nien-te di quanto è successo in Francia ed io non posso raccontarlo a nessuno. 21 Giugno 1944

Sono le ore 12.00 e stiamo per tornare alla baracca, dopo aver caricato e scaricato non so quanti sacchi di farina. Il cie-lo si riempie in un attimo di 700 bombardieri americani e 1200 aerei caccia, che si dirigono in direzione di Berlino per il primo bombardamento.

Uno dei bombardieri americani, carico di bombe, deve ef-fettuare un atterraggio di fortuna proprio in un campo vicino al paese. I caccia che ha di scorta girano invano sopra al grande bombardiere, come fa la mamma di un uccellino che cade prematuramente dal nido, poi devono ripartire per attac-care la contraerea berlinese come previsto nei loro piani di volo. I caccia, giunti per primi a Berlino, scendono veloce-mente di quota provocando un fischio simile alle sirene del cessato allarme. La popolazione, assimilandolo alla fine del bombardamento, esce in strada dai rifugi proprio quando co-

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minciano a cadere le bombe e muoiono moltissime persone civili.

Per noi invece è una bella giornata perché risveglia un po’ lo spirito, abbrutito dal solo faticoso lavoro, e ci fa pensare che forse siamo vicini ad una svolta. Quel pomeriggio non andiamo a lavorare e ci godiamo lo scontro fra gli americani, sul bombardiere a terra, e i tedeschi che pian piano lo circon-dano. Il mitragliere americano tiene alla lontana i tedeschi, che intanto si organizzano, ma non possono sparare sull’aereo per il pericolo che esploda con tutto il suo carico. Noi, in cuor nostro, facciamo il tifo per il mitragliere ameri-cano e commentiamo fra prigionieri. Qua e là, a distanza dal grosso aereo, si formano dei gruppetti di persone del paese e non fanno caso se siamo quei prigionieri che poche ore prima disprezzavano, anzi, con me, che parlo un po’ di tedesco, si intrattengono per conoscere il mio pensiero. Nel gruppo di persone a me vicine c’è una strana coppia fatta da un prigio-niero, un bersagliere bergamasco, un certo Montanari, e da una vedova tedesca di nome Martha che lavora alla fabbrica della Orange Motorzubehör, dove noi andiamo saltuariamen-te per lavori di facchinaggio e manovalanza. La fabbrica del-la Orange costruisce motori, torni e fresatrici di grosse di-mensioni e Martha, che prima lavorava alla Orange di Berli-no, dopo la morte del marito, era stata trasferita lì a Neudamm.

Montanari le sta vicino senza farsi notare, ma non le toglie mai lo sguardo di dosso. Le si avvicina talmente da appoggia-re la mano a quella di lei e si sente sicuro di poterlo fare per-ché nell’aria si respira una sensazione insolita. Ma, nel pome-riggio, quando finiscono le munizioni e la mitragliatrice da 20 millimetri, con i suoi tre colpi ravvicinati, cessa di dire: «Li-ber-tà, li-ber-tà», gli americani devono consegnarsi ai te-deschi per essere fatti prigionieri. Ancora una volta siamo sconfitti, lo spettacolo finisce, e i nostri sogni pure. E triste-mente torniamo alla baracca, anche quel giorno senza man-giare. A sera ripenso al bombardiere, ma la mia mente va al

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bersagliere bergamasco e a Martha, che sono innamorati e mi si ripresentano alcuni dei momenti in cui lui si era dimostrato gentile con lei durante la nostra presenza lavorativa all’interno della fabbrica.

Montanari era orgoglioso di essere stato bersagliere e di aver partecipato alla battaglia di Tobruck in Cirenaica; diceva di aver conosciuto da vicino il generale Rommel, sopranno-minato “la volpe del deserto”, diceva inoltre che Rommel era andato d’ispezione ai fortini dove lui montava di guardia e si era complimentato con i bersaglieri italiani per i quali nutriva sincera ammirazione.

Il tutto è contenuto in una sua celebre frase: «Il soldato te-desco ha stupito il mondo; il bersagliere italiano, straordina-rio, coraggioso e disciplinato, ha stupito il soldato tedesco».

Questi fatti me li aveva raccontati in italiano davanti a Mar-tha e nello stesso momento voleva che io li traducessi in te-desco per farli sapere anche a lei. Ora tutto mi era più chiaro.

Noi prigionieri lavoravamo per un certo Füstemberg. Era un tipo alto, biondo, sempre con un grosso sigaro in bocca. Pur essendo soltanto proprietario di un barroccio e di una pa-riglia di cavalli, anche scadenti, si era ritrovato, con la guerra, a dover gestire tutti noi prigionieri e ad arricchirsi alle nostre spalle. Infatti aveva la possibilità di destinarci dove lui vole-va, riscuotendo dalle ditte per cui noi lavoravamo, senza però darci niente. 21 agosto 1944

Alla sera, insieme ai circa 200 prigionieri delle 5 baracche sparse in luoghi a me sconosciuti, siamo radunati nella ca-serma del comando militare che si trova nel centro del paese. Inquadrati in mezzo al piazzale ci dicono: «Da oggi verrete pagati come gli operai tedeschi. I cancelli delle baracche sa-ranno aperti. Dovete solo firmare un foglio di accettazione di queste condizioni».

I tedeschi, nel bene e nel male, erano di parola.

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Ad uno ad uno ci avviciniamo per firmare, anche se qual-cuno è titubante, ma quando è la volta del prigioniero Ran-dazzo, uno dei quattro siciliani, ad altissima voce dice: «Io non aggio a tradire l’Italia!».

La guardia tedesca che è a pochi metri da lui non capisce di sicuro il significato di quelle parole, ma certo recepisce il to-no con cui sono dette e alla parola “Italia” gira il mitra verso il prigioniero Randazzo e spara.

Vicino a lui c’è un giovane prigioniero, che ha appena fir-mato per accettazione delle nuove condizioni, per sbaglio viene colpito, il suo corpo viene trapassato da parte a parte dalla pallottola e muore sul colpo.

Randazzo viene imprigionato e noi rientriamo alla baracca scortati dalle guardie con i mitra spianati, per paura di una nostra sommossa. 22 agosto 1944

Al mattino Randazzo firma e viene riportato alla baracca. Füstemberg si presenta all’ora di pranzo e ci propone due

marchi e mezzo al giorno. Siccome un operaio tedesco prende dieci marchi al giorno

noi non accettiamo, volano male parole e gli viene detto chia-ramente: «I vagoni di carbone te li devi scaricare da solo» . Solo due emiliani, suoi ruffiani da tempo, accettano le condi-zioni proposte.

Füstemberg ritorna al comando racconta l’accaduto e ci de-scrive come rivoluzionari. Sembra strano il fatto appena raccontato: non prendevamo niente per lavorare come somari e quando ci propose due marchi e mezzo al giorno successe il finimondo e rischiammo il campo di concentramento. In quegli anni un marco valeva 10 lire e un operaio italiano prendeva 20-30 lire solo per i giorni in cui lavorava; per lo stesso importo noi non accet-tammo.

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Passarono alcuni giorni e, lavorando come prima, senza esse-re pagati, ci dissero di prepararci per una destinazione ignota.

Quando dissi al padrone della fabbrica di farina che ci avrebbero trasferiti dimostrò di essere dispiaciuto; di fronte a me provò a telefonare all’Arbeitzan (comando di lavoro) di Berlino per chiedergli se poteva trattenerci. La risposta fu negativa e gli fu confermato che solo Füstemberg poteva trat-tenere due prigionieri a sua scelta.

Qualche sera dopo, tornati in baracca, ci dettero dieci minu-ti di tempo per prepararci per il trasferimento. Per quello che avevamo da preparare erano più che sufficienti.

Destinazione ignota. Fui trasferito a Berlino e durante il viaggio ero molto

preoccupato e non mi sbagliavo perché con quelle accuse e con il nostro comportamento ci avrebbero potuto inviare in un campo di concentramento o fatti fucilare.

Durante quello che poteva essere l’ultimo viaggio della mia vita, pensavo alla Maremma che avevo lasciato già da quasi un anno; in quel mese avrei visto tutti i campi con le stoppie dei grani “segati”, pronti per essere di nuovo lavorati, pensa-vo alle vacche maremmane dal mantello grigio-nero e alle lo-ro lunghe corna appuntite, bestie instancabili a tirare l’aratro. Berlino Fine agosto 1944

Appena arrivati ci fecero allestire una stanza per quindici persone con i letti e le reti, materassi e coperte, in un ambien-te in muratura all’interno della fabbrica Metallinverger.

Mi sembrava di essere in albergo a tornare a dormire in un letto vero. Dopo un anno che dormivo sulle tavole, mi sem-brò un sogno. I primi giorni però, non essendo più abituato a dormire sul materasso, mi svegliavo di soprassalto pensando di sprofondare. La struttura era stata bombardata e una bom-ba inesplosa aveva attraversato il tetto e il solaio del primo piano ed era ancora inesplosa al piano terreno

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Dalla nostra camerata si vedeva il cielo e la bomba intatta

al piano di sotto che ci faceva sempre compagnia.

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Fui impiegato alternativamente ai forni e alle presse per la lavorazione di argento, ottone, rame ed altri metalli di valore.

La lavorazione a catena che non si fermava mai nei turni 6,00-14,00 14,00-21,30 21,30-6,00, era particolarmente fati-cosa, tanto da farmi risognare i pesanti sacchi di farina. Ad ogni fine turno potevamo uscire per andare in città. L’accordo che avevamo firmato veniva veramente rispettato, anche economicamente.

La prima sera che uscii, salii su un treno che percorreva in soprelevata tutta la città.

La stazione di Schöneweide era vicina all’uscita della fab-brica e si dovevano effettuare sette fermate prima di arrivare ad Alexanderplatz. Partito da un paesino di cento anime, ma soprattutto da un podere denominato “il mulino”, che veniva allagato ogni volta che il torrente faceva la piena, mi ritrovai in quella meravigliosa piazza divenuta famosa negli anni av-venire per il famigerato muro e per la canzone omonima.

Di fronte a tanta grandezza ebbi paura di non tornare più a casa.

Con un biglietto ferroviario potevamo girare tutta la città, ma non dovevamo uscire dalle stazioni; ogni treno aveva in testa una insegna luminosa con la stazione di destinazione.

Quando arrivammo in stazione per effettuare il viaggio di ritorno trovammo un treno pronto per partire. Chiesi ad una giovane se la destinazione di quel treno fosse Schöneweide e lei mi disse di sì.

Dopo sette stazioni non arrivammo a destinazione ma, con-tinuando ad andare avanti ci ritrovammo in aperta campagna lontani da Berlino. Dopo tanto viaggiare decidemmo di scen-dere. Quando chiedemmo informazioni alla capostazione si mise le mani nei capelli, poi fu molto chiara e gentile indi-candoci i treni da prendere per tornare indietro. Saremmo do-vuti rientrare prima delle 22, ma fin quasi alle 6 del mattino non arrivammo alla fabbrica.

La guardia, che era sulla porta ad aspettarci e stava per dare l’allarme ci disse: «Warum sospat?» (Perché cosi tardi?).

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Dato che ero quello che parlava il tedesco un po’ meglio degli altri, cercai di spiegare che avevamo sbagliato treno e gesticolavo per tranquillizzarlo e per farmi capire. D’improvviso mi venne in mente il pacchetto di sigarette che avevo nel taschino e, sapendo quanto erano desiderate, gliele offrii nella speranza che chiudesse un occhio, o meglio tutti e due. E così fu.

Erano ormai le sei e non rimaneva altro da fare che andare al lavoro. Per ogni turno di lavoro erano previsti due intervalli di 15 minuti e uno di 30, scanditi con precisione dalla sirena. Gli operai tedeschi, durante le due soste più brevi, erano soliti mangiare del pane, con burro o salumi, custodito gelosamen-te in scatole di latta, il tutto accompagnato da orzo caldo o birra. Nella sosta più lunga si recavano alla mensa a fare pranzo o cena.

Siccome noi prigionieri non avevamo niente da mangiare, in quei pochi minuti potevamo solo riposarci. Una volta mi avvicinai alla porta della mensa e vidi un anziano operaio che si alzava da tavola lasciando nel piatto gran parte del cibo. Non ci pensai due volte e, anche se per noi era vietato entra-re, mi misi al suo posto e cominciai a mangiare quello che gli era avanzato, usando il suo stesso cucchiaio. Alcuni operai tedeschi mi guardarono senza dire una parola.

Io allora mi sentii come il cane di un pastore o di un por-caio, che tutto il giorno lavora a radunare pecore o maiali e si ferma solo quando si siede il padrone per mangiare un boc-cone di pane aspettando che gliene lanci un tozzo.

Io non sono un cane, mi dissi, e di scatto mi alzai lasciando sul piatto una parte degli avanzi.

Berlino veniva bombardata quasi ogni notte dagli Inglesi,

gli americani bombardavano di giorno, raramente, ma con formazioni di bombardieri più potenti e numerose. Quando eravamo in camera a riposare, per proteggerci dalle bombe,

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scendevamo al piano terra proprio vicino alla bomba inesplo-sa; quando eravamo sul posto di lavoro, se comandati, dove-vamo restare a guardia dei macchinari che usavamo in quel momento. Chi si muoveva e andava in giro durante un bom-bardamento, veniva individuato come “sciacallo” e fucilato all’istante.

Vicino a noi c’era un rifugio antiaereo, ma agli italiani non era concesso di entrare, mentre ai prigionieri francesi, polac-chi o inglesi era concesso.

Capitava spesso che alcune donne tedesche, nel correre ver-so il rifugio, cadevano o svenivano; in quei casi andavamo a dare loro soccorso e, facendo un seggiolino con le braccia, le portavamo al rifugio nella speranza di poter entrare, ma se ci riconoscevano come italiani ci buttavano fuori, nonostante la buona azione che avevamo compiuto.

La città, piena di canali navigabili e con tanti barconi per il trasporto delle merci, aveva i palazzi con bellissime facciate in muratura e i tetti e i solai interni tutti in legno trattato a ce-ra, per proteggerlo dall’umidità. Ogni volta che venivano colpiti, quei palazzi si incendiavano e, con fiamme altissime, si svuotavano di tutto quello che c’era al loro interno; resta-vano solo i muri perimetrali, come tanti colossei .

L’unica cosa buona dei bombardamenti era che il giorno dopo ci spettava un pacchetto da dieci sigarette che regolar-mente scambiavo con il cibo al mercato nero; vietatissimo anche per i tedeschi, figuriamoci per gli italiani.

Nell’ottobre del ’44 arrivarono da noi dei deportati civili italiani.

Era successo che nella zona di Massa-Carrara i tedeschi avevano fatto dei rastrellamenti e avevano preso un giovane; il babbo si era offerto in sostituzione del figlio, ma i tedeschi non ne avevano voluto sapere, poi, vista l’ostinazione del pa-dre, avevano fatto prigioniero babbo e figliolo.

Essendo toscani come me, parlavo spesso con loro e mi ca-pitava di sentire le lamentele del babbo circa il lavoro fatico-so che gli toccava fare e la fame che bisognava patire.

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«Ma che ci sono venuto a fare qui?», diceva il babbo. «Ve lo dicevo, babbo: non venite, non venite», rispondeva

rispettosamente il figlio. La cosa era seria, ma noi ci ridevamo di cuore a sentire

spesso queste frasi che si scambiavano tutte le volte come fosse stata la prima.

Fu siglato un accordo che prevedeva il rimpatrio di coloro che avevano un’età inferiore ai 16 anni o superiore ai 65, e degli ammalati che avessero avuto bisogno di una convale-scenza superiore a quattro settimane.

Saputo questo il babbo diceva: «Io torno a casa, caro figlio-lo, ti pianto qui e torno a casa».

Allora sì che ridevamo e lo incoraggiavamo a continuare in quel tono. Canepa era un meccanico navale genovese di 24 anni con un bell’aspetto e una robusta corporatura; nonostante la giovane età aveva viaggiato molto nelle navi che andavano per il mondo e ogni tanto ci raccontava cose di paesi stranieri per noi sconosciuti.

Persona di carattere, si rifiutava di fare qualsiasi lavoro gli venisse comandato, e si produceva dei danni fisici, fino a in-filare un dito nell’acido solforico.

Stava tutto il giorno con una lima a fare degli anelli di otto-ne come quelli artigianali che si vedono oggi in vendita nei mercatini; anelli che poi regalava a quelle donne che lavora-vano in fabbrica con noi.

Questo lo rendeva simpatico alle donne che ricevevano un simile pensiero e lui, approfittando di ciò, una sera, andò a trovare a casa una di quelle signore.

Era una bella signora, nonostante la cinquantina, ed abitava proprio nelle vicinanze, al quinto piano di un palazzo di cui si vedevano le finestre dalla fabbrica.

Canepa si era intrattenuto un po’ troppo in quella casa, tan-to che il marito lo aveva trovato in compagnia della moglie, un po’ scarruffata .

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Il marito aveva cominciato a discutere ad alta voce, poi a gridare, ma quando si provò a picchiare la moglie, Canepa si era avventato su di lui e, colpendolo con un cazzotto, lo ave-va sdraiato a terra. Impaurito era sceso di corsa giù per le sca-le, ma al piano terra c’erano già ad aspettarlo due poliziotti avvisati dai vicini di casa.

Alla notte, quando lo lasciarono libero, ci raccontò che i poliziotti avevano apprezzato il fatto che lui aveva difeso la povera donna dai colpi del marito; si potrebbe dire: legittima difesa, oppure … cornuto e mazziato. 1 febbraio 1945

Vengo spostato dalle presse e mandato a lavorare provviso-riamente alle trance con un tedesco di poche parole, ma con una espressione in volto che era come se mi dicesse: «Du ekelst mick an!» (Mi fai schifo!).

Conoscere il tedesco mi aveva permesso di sapere che i la-vori venivano classificati in economia, pesanti e pesantissimi. Per i lavoratori che come me svolgevano alle presse i lavori più faticosi, quelli pesantissimi, era previsto un supplemento rancio che consisteva in mezzo pane e un pezzetto da 400 grammi di salame il mercoledì di ogni settimana.

Quello svolto dal tedesco alle trance non era considerato un lavoro pesantissimo e quindi al tedesco non spetta il supple-mento, questo fatto non lo sopportava perché lo faceva senti-re inferiore a me e il solo pensiero lo mandava in bestia.

A mezzogiorno mi dice : «Du Ausländer, ich Deutscher, du hast alle Rechte und ich nur pflichten» (Tu straniero, io tede-sco, tu diritti, io doveri).

Poi decide di timbrare il cartellino e abbandonare il lavoro. Io faccio la stessa cosa. 2 febbraio 1945

Il capo reparto mi chiama e mi chiede cosa sta succedendo, ma io,visto il modo di comportarsi dei tedeschi, mi comporto allo stesso modo, non faccio la spia, non spiego le motiva-

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zioni del suo comportamento e mi limito a dire: «Wenn er aufhört zu arbeiten, höre ich auch» (Quando lui smette di la-vorare, smetto anche io).

Il capo reparto apprezza il mio comportamento; avevo capi-to la loro mentalità: ferma e non polemica come gli italiani. 26 febbraio 1945, forse lunedì

Alle ore 8 mi presento in fabbrica per il turno della mattina, ma, mentre timbro il cartellino, vengo chiamato dal capo re-parto che, senza spiegazioni, mi dice di presentarmi alle 21,30 per il turno di notte e ritornare al lavoro pesantissimo delle presse.

Decido che quella sarà una giornata di ferie-vacanza, cosa che non avevo mai fatto in vita mia. Torno alla baracca e mi cambio; pantaloni blu della marina e un giaccone di pelle, tutta roba scambiata al mercato nero con le sigarette che non fumo, quattro conti dei pochi marchi che ho in tasca, poi via alla stazione di Schöneweide, sette fermate e discesa ad Ale-xanderplaz. È una bella giornata, mite per i tedeschi, per me un po’ fred-dina soprattutto perché i miei vestiti non sono adatti per quel clima. Mi sembra di essere elegante, o almeno presentabile, con quei pantaloni blu e il giaccone scuro che mi copre bene la camicia, da festa e da lavoro.

Prima delle dieci sono a passeggio nel centro di Berlino da-vanti ad un enorme supermercato vicino alla piazza e vedo entrare e uscire dalle porte girevoli tante donne con le borse cariche di spesa.

Per alcuni minuti rimango fuori per capire il funzionamento delle porte girevoli e penso a come poter entrare da quelle porte che vedo per la prima volta, poi mi faccio coraggio e con un respirone profondo mi avvicino e non so come mi ri-trovo all’interno. Senza toccare niente e senza comprare nien-te cammino in lungo e in largo; i banchi non sono rifornitis-

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simi, ma io non ho mai visto niente di simile con tanto assor-timento in un solo negozio.

Uscire risulta molto più facile perché una volta avvicinato-mi titubante alla porta girevole vengo spinto fuori da una donnona tedesca che ha le borse piene di roba e poco tempo da perdere. Istintivamente le dico: «Danke». Che sospironi profondi… Che bella giornata… Forse non tornerò mai più a casa mia, ma se e quando tornerò e raccon-terò quello che ho visto oggi, penso che nessuno mi crederà; dirò che ho visto una bottega come cento forse mille botteghe delle nostre città, tutte insieme in una sola stanza.

Fatti pochi passi mi giro indietro per rivedere la grandezza del supermercato e mi accorgo che dietro di me c’è Montana-ri e poco più in là Martha, la vedova della fabbrica della Orange. Passeggiano vicini, ma non fanno capire che sono insieme; se uno dei due fosse stato fermato, l’altro avrebbe continuato il cammino senza fermarsi. Solo io posso capire che i due sono insieme.

E bravo il bersagliere bergamasco, che si è travestito da te-desco con gli abiti del povero marito della vedova! Anche se non sono proprio della sua misura, fa un figurone; come si dice in Maremma: «Sembra il cane di un signore».

Mi torna in mente che Martha, pur lavorando a Neudamm, ha una casa a Berlino e lo aveva detto il giorno dell’atterraggio di fortuna del bombardiere americano; aven-do visto passare tutti quegli aerei in direzione di Berlino ave-va espresso la sua preoccupazione per la casa che aveva la-sciato. Subito mi riconosce, accenna un saluto affinché man-tenga il distacco, poi mi si avvicina e mi chiede come sto e dove lavoro. Mi dice che, terrorizzata, era fuggita da Neudamm salendo appena in tempo su un camion per Berli-no, qualche momento prima dell’arrivo delle truppe russe e che le aveva proprio viste con tanto di stella rossa sul cappel-lo.

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Vorrei parlare anche con Montanari che mi ha ben ricono-sciuto, ma continua a camminare lentamente senza fermarsi. Troppe cose glielo impediscono e non può giocarsi quella preda troppo importante per la sua sopravvivenza. Ancor più contento, dopo quel gradito incontro, mi godo la bellezza della città, cammino sereno e spensierato e mi sento in faccia la fresca aria e il tiepido sole di fine febbraio. Resto nelle vicinanze del ristorante in cui mi reco sempre. Lì con mezzo marco si acquista una razione chiamata Stampo, una brodaglia fatta di cavolo e rapi, e ne possiamo comprare quanta ne vogliamo, basta avere i marchi; delle altre pietanze ne possiamo acquistare solo una razione, senza eccezione, nemmeno per i tedeschi. Avevo ragione: è proprio una bella giornata di ferie-vacanza.

Sono quasi le dodici e vedo avvicinarsi Wanda con una grossa borsa della spesa .

Wanda è una giovane ragazza che lavora nel ristorante dove vado sempre a mangiare; con lei ho fatto conoscenza intratte-nendola brevemente con frasi carine, che io mi preparo in an-ticipo. Poche parole che lei si aspetta ogni giorno da me, ma che sono bastate per instaurare un rapporto di simpatia reci-proca.

Le vado incontro per aiutarla ed incoraggiato dai buoni ri-sultati di Marta e Mantovani mi lancio in una frase d’approccio: «Heute sind deine Augen wie die Farbe des ita-lienischen Himmels» (Oggi i tuoi occhi sono del colore del cielo dell’Italia).

Lei mi sorride, forse nessuno le aveva mai fatto un così bel complimento e le sue guance arrossiscono.

Poi le tolgo gentilmente la borsa di mano e la accompagno verso il ristorante, raccontandole che ho passato una bella mattinata, che sono stato al supermercato e che poi ho incon-trato delle vecchie conoscenze. Lei si complimenta con me e si lascia accompagnare volentieri. Stiamo bene insieme, ma

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per noi non c’è pace: suona il preallarme del bombardamen-to. Allunghiamo il passo e saliamo veloci le scale del risto-rante, io pago il pranzo, poi mi accomodo al tavolo e Wanda va in cucina al suo lavoro.

È molto indaffarata e non ha dimenticato che è già suonato il preallarme. Io penso a noi due; quando lei passa davanti al-la finestrina passavivande, accenna un sorrisetto e senza dire niente va verso un angolo e prende gli avanzi dei clienti e me ne prepara, come sempre, un bel piatto, lo stesso in cui erano avanzati. Le prime volte facevo fatica a mangiare quella roba sapendo che era avanzata a qualcuno, poi la fame e la genti-lezza con cui Wanda me la conserva e me la offre mi fanno dimenticare la loro provenienza.

All’interno della grande cucina mi prepara velocemente su una mensola il piatto dello Stampo, che ho già pagato, poi va verso l’angolo in cui tiene per me il piatto con gli avanzi di verdure, patate, carne o salumi e in quel preciso momento comincia il suono dell’allarme e sentiamo sopra alle nostre teste il rombo inconfondibile dei bombardieri americani. Wanda scappa d’improvviso, io la chiamo ad alta voce, mi sbraccio per farmi notare dal cuoco, cerco di fermare un ca-meriere indicando i piatti che mi sono stati preparati, ma nes-suno mi ascolta e tutti abbandonano il ristorante. Sono l’ultimo a lasciare il locale nella speranza che qualcuno mi possa avvicinare i piatti già pronti che mi sono stati preparati con tanto amore da parte di Wanda.

Esco nella piazza e vedo che tutti corrono verso la metropo-litana, io solo procedo lentamente cercando di vedere Wanda e penso che non ho mangiato e chissà quando potrò di nuovo mangiare.

La fame passa avanti all’amore. Per questo motivo sono l’ultimo ad arrivare alla metropoli-

tana e, nonostante i suoi cinque livelli è piena all’inverosimile. Mentre scendo la prima rampa di scale trovo delle donne svenute; con un altro uomo ne prendiamo una per

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le braccia e per i piedi e riusciamo a portarla al riparo nel primo livello.

Con le prime bombe è colpita la conduttura principale della città e lo scroscio dell’acqua che esce con tanta pressione fa un rumore assordante, ma non copre quello delle bombe che fanno tremare la terra come un terremoto. Rimango bloccato in attesa che mi cada in capo la bomba successiva.

5000 fortezze volanti, 700 caccia, 15-20 minuti di bombar-damento e Berlino è completamente distrutta, 25.000 i morti

Pochi minuti indimenticabili, nonostante che ormai ci sia abituato. Anzi, questa volta sono stato fortunato perché ho trovato posto in un luogo che risulta avere la funzione di un rifugio; non dimentichiamoci che agli italiani non è concesso di entrare nei rifugi antiaerei. Suona il cessato allarme, che indica la fine del bombarda-mento, e come le formiche la gente comincia ad uscire dai ri-fugi.

All’uscita dalla metropolitana che è stato il mio rifugio ve-do che è stato colpito un furgoncino carico di verze e la bom-ba che lo ha colpito le ha sparpagliate nel raggio di una deci-na di metri. Adocchiata la palla di cavolo più grossa di tutte, dritto come un fuso, mi precipito a raccoglierla. Mi carico sottobraccio un cavolo di almeno cinque chili e, quando mi giro per allontanarmi, vedo due gendarmi di fronte a me. Quello che sto facendo è considerata una forma di sciacallag-gio per la quale è prevista la fucilazione immediata. Mi guar-dano fissi negli occhi senza accennare assenso; abbasso lo sguardo in attesa di una pallottola che non arriva, forse faccio loro pietà e senza dirmi niente mi lasciano andare.

Con quella palla di cavolo sottobraccio, contento di essere vivo e disperato nel vedere tanta distruzione, che mi avrebbe portato sicuramente a patire più fame per i giorni a venire, mi avvio verso la stazione.

Mi giro un attimo per vedere quella piazza che è stata se-riamente danneggiata ed è ora circondata da palazzi in fiam-

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me. Il ristorante è rimasto in piedi, Wanda si è sicuramente salvata.

Wanda quante volte mi hai sfamato… ed ora che poteva nascere qualcosa di più di una semplice reciproca simpatia veniamo divisi.

Io non ritornerò mai più in centro e non ti rivedrò mai più. La stazione è completamente distrutta e i binari sono inar-

cati con le loro traversine ad una altezza di almeno trenta me-tri. Non so cosa fare, ma dopo un attimo di sbandamento de-cido che devo tornare a piedi verso la baracca. Non è facile tornare alla baracca percorrendo a piedi quelle strade che io ho visto solo dal treno, riconosco qualche palazzo rimasto miracolosamente in piedi e, speriamo, qualcuna delle sette stazioni che devo incontrare prima di arrivare alla fabbrica. Quel cavolo mi sembra sempre più pesante e, per riposarmi, decido di sedermi per su un blocco di cemento a forma di cu-bo. Quando sto per riprendere il cammino mi si avvicina una signora, dice velocemente alcune parole che non capisco e mi consegna un cartoccio, poi allunga il passo.

Non ci crederete, è un panino imbottito con burro e salame. Lascio il cavolo e riprendo a camminare mangiando in un at-timo quel panino mandatomi da Dio. Dopo poco si fa buio, verso le 16 il sole è già tramontato, ma le fiamme che escono dalle case incendiate ai lati della strada illuminano il percorso che devo fare. La città è piena di fumo, con le case che bruciano internamente come dei bracieri e dalle finestre si innalzano lingue di fuoco fino alla sommità di esse, i canali sono pieni di tavole e barconi incendiati.

Alcune persone dicono che sono stati lanciati dei volantini dai bombardieri americani con su scritto: «Die Flammen rei-chen bis zum Himmel, ihr tut uns leid, wir fliegen mit den Bomber an Bord zurück». (Le fiamme salgono al cielo, ci fa-te pietà, rientriamo con le bombe a bordo). Tutta fantasia, ma per quanto è successo potrebbe essere pu-ra verità.

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Per strada riconosco alcuni prigionieri che vanno nella mia stessa direzione, mi aggrego a loro e, facendoci compagnia, in mezzo al fumo e alle macerie, arriviamo alla baracca dopo la mezzanotte. Gli altri prigionieri, non vedendomi rientrare, mi danno per spacciato e dicono: «Il toscanino è morto».

Quando arrivo vorrei raccontare del bombardamento del centro di Berlino, ma nessuno mi ascolta e si limitano a dirmi che nella nostra fabbrica sono cadute ventotto bombe. Il giorno dopo cominciammo a ripristinare la fabbrica soprat-tutto nella copertura. Proprio quel giorno un giovane murato-re tedesco di diciassette anni, camminando sulle travi della copertura, trovò un legno che, lesionato dalle bombe, si tron-cò sotto i suoi piedi e cadde da una altezza di quindici metri morendo sul colpo.

I tedeschi, che solitamente erano molto attenti per le perso-ne ferite, una volta constatata la morte del giovane muratore, sapendo che non c’era più nulla da fare per lui, continuarono a lavorare e a farci lavorare; le tante morti che avevamo visto ci avevano abbrutiti.

Dopo dieci giorni la fabbrica riprese a lavorare a pieno rit-mo. 3 Marzo 1945

Preciso, quasi monotono, alle ore 12, altro bombardamento degli americani.

Suona la sirena e corriamo al rifugio della fabbrica, escluso quelli comandati che devono restare di guardia ai macchinari.

Siamo al riparo, ma la guardia fa un giro e butta fuori tutti gli italiani perché a noi non è concesso di entrare nei rifugi.

Quando rientra riconosce un siciliano per i suoi baffetti ca-ratteristici degli uomini della sua regione. Pistola alla mano gli chiede: «Naim?» (Nome?). Lui risponde: «Français». L’altro allora gli grida: «Auswais!» (Documenti!). Il siciliano

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si vede scoperto e si dà alla fuga correndo nel piazzale anti-stante.

La guardia è orgogliosa di averlo individuato e buttato fuo-ri, così comincia a inveire contro gli italiani dicendo: «Ver-lauste» (Pidocchiosi), « Scheiβe», «Verräte» (Traditori).

Sono il solo italiano rimasto e, quando la guardia si avvici-na, un francese mi copre leggermente. La guardia lo fissa ne-gli occhi e gli dice: «Du bleiben du gut» (Tu resta, tu buono). Continua il giro e non si accorge di me. Intanto fuori cadono le bombe ed io penso ai miei compagni che avrebbero potuto trovare posto nel rifugio.

Alla fine del bombardamento mi incammino con un operaio tedesco verso il nostro posto di lavoro; come abbiamo fatto altre volte, esprimiamo il nostro pensiero politico e ci tro-viamo d’accordo nel dire che nazismo e fascismo stanno fa-cendo del male ai loro popoli.

Quando stiamo per riprendere il lavoro, mi sorride e, con un colpetto sulla spalla, mi dice: «Gut, pass er dich nicht er kannt hat» (È andata bene che non ti ha riconosciuto), ed io: «Non è giusto che li abbia fatti uscire… Non siamo colpevoli di questa guerra…. Anche noi siamo vittime». 20 Aprile 1945

Siamo spostati nelle baracche di Oberschöneweide, la sta-zione successiva.

Lì siamo vicini al fronte russo; Berlino è ormai accerchiata. Da est, dove mi trovo, stanno per arrivare i Russi, ad ovest

gli alleati. 22 Aprile 1945

La stazione ospita uno scalo merci grandissimo ed anche se si rischia la morte bisogna andare in cerca di cibo fra i vagoni in sosta. Ormai Berlino è accerchiata, ma le SS sparano an-che sulla folla. Riesco a trovare un carro di patate, ma faccio

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prima a lasciarle che a prenderle, perché sento alle mie spalle l’arrivo delle guardie.

Una donna tedesca invece non si lascia intimorire e con una borsa a rete piena di scatolette di carne, passa davanti ad una guardia che gli punta la pistola dicendole: «Lascia la borsa o sparo!». In quattro italiani accerchiamo la guardia e invitiamo la signora a non svuotare la borsa, anzi prendiamo una cosa ciascuno a dimostrazione che la guardia avrebbe dovuto uc-cidere anche noi.

Poi ci ripenso e mi dico: «Ma valeva la pena un gesto così sconsiderato di fronte ad una pistola puntata?».

Intanto le SS si organizzano e un capitano, con l’uso degli altoparlanti della stazione ci intima di lasciare immediata-mente lo scalo merci e di andare verso un campo di raccolta ad est della città, conclude dicendo: «Tutti quelli che verran-no trovati fra i vagoni saranno fucilati».

Un fiume di persone nascoste fra i vagoni merci esce, come topi, e si dirige verso il fabbricato della stazione per poi in-camminarsi verso il luogo indicato. 24 Aprile 1945

Sono due giorni che si cammina verso una meta sconosciu-ta e quando finalmente incontriamo una guardia comunale e gli chiediamo dove si trova il campo di raccolta lui gentil-mente ce lo indica, dato che si trovava proprio sottostrada. Ringraziamo la guardia, ma continuiamo il nostro cammino fino alla fine della città, dove troviamo una botteguccia di generi alimentari e birreria. Veniamo a sapere da un ragazzo che i russi sono a venticinque chilometri da noi e stanno per arrivare con le loro armate. Sono convinto che questo è il po-sto migliore dove aspettare la nostra liberazione. 25 Aprile 1945

È il giorno della liberazione dell’Italia; per noi, ignari di tutto, un giorno di attesa delle truppe russe.

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26 Aprile 1945 Arrivano i Russi. È la prima volta che li vedo. È uno spet-

tacolo. Precede l’arrivo di tutti i battaglioni un grosso carro armato

in assetto da guerra, con il compito di esplorare la zona prima che arrivi il resto del reggimento.

Si capisce bene che la guerra è finita, ma alcuni tedeschi ir-riducibili, appostati dietro una siepe cominciano a sparare, fermano il primo carro armato e feriscono un capitano russo. I russi li individuano facilmente e in breve fanno cessare quello stupido fuoco di paglia.

Il capitano ferito si fa medicare da un soldato tedesco che si era dato loro prigioniero e commenta: «Si deve ancora morire senza una ragione anche se non hanno più niente da difende-re». Un bellissimo gesto quello di farsi curare da un prigio-niero tedesco anziché dalle crocerossine bielorusse e ucraine che, con il grado di ufficiali, seguivano il battaglione russo.

Poco dopo, con un rumore indescrivibile, arriva un altro carro armato dello stesso tipo; è carico di militari gioiosi e le stelle rosse sui loro pesanti cappelli mi sembrano le stelle del cielo.

Su quel carro sta seduto un soldatino piccolo e grassoccio, con le guance rosse rosse, quasi una mascotte, con il cappello di traverso e sorridente canta e suona una piccola fisarmonica della sua terra. Il rombo dei potenti motori impedisce a tutti di sentire la sua voce e le note della sua fisarmonica, ma lui canta, canta sicuramente una bellissima canzone che parla di libertà! Le donne offrono da bere ai soldati che accettano senza en-trare nelle case.

Un soldato russo, che segue il carro armato, saluta un bam-bino che gli sorride, poi lo prende in braccio come se fosse suo figlio… e pensare che io credevo che i russi mangiassero i bambini, così come diceva la propaganda fascista.

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Quando arriva il primo battaglione alcuni soldati si mettono a ballare come fanno i cosacchi ed è una grande festa. 27 Aprile 1945

Alle prime luci dell’alba, io e gli altri prigionieri, vediamo un cavallo da tiro che lentamente traina un carro carico di zaini militari, ma, stranamente, non c’è nessuno a guidarlo. Fermiamo la povera bestia e subito saliamo per vedere cosa c’è negli zaini. Quasi tutti contengono panni sporchi, ma uno è più pesante degli altri e decido di prenderlo.

Ci allontaniamo da quel carro per vedere cosa abbiamo pre-so e, con nostra sorpresa, oltre ad alcuni indumenti militari, troviamo grosse scatolette di carne, miele e una bottiglia di cognac francese. Si mangia!

Durante la mattinata ci accorgiamo che i russi si sono inse-diati in una fattoria disabitata e noi ci aggreghiamo a loro; li aiutiamo a scaricare delle munizioni e loro ci ricompensano con un po’ di cibo. A sera ci lasciano la possibilità di dormire nel fienile della fattoria.

È il momento di festeggiare, siamo vivi, siamo stati liberati; tiro fuori la bottiglia di cognac e dopo un sorso siamo già tut-ti ubriachi. 8 Maggio 1945

Oggi i tedeschi hanno firmato la resa incondizionata. 9 Maggio 1945

La guerra dura fino alle ore 12 di oggi. Nel pomeriggio si sentono, in segno di festa, solo gli spari

dei fucili mitragliatori russi e si vede fino a sera il cielo sol-cato dai proiettili traccianti.

Ora la guerra è finita, non rimane che contare i morti, è un numero spaventoso, cinquanta milioni di morti, più della me-tà sono russi.

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Speriamo che questa tragica guerra ci porti tanta esperien-

za, porti via l’odio fra i popoli, apra la coscienza degli uomini di potere e rimanga nella memoria di tutta l’umanità. 10 Maggio 1945

Dopo aver camminato molto arriviamo a Potsdam, poco a sud di Berlino, dove è organizzata per oggi una grande sfila-ta, tutti insieme: russi e prigionieri di tutte le nazioni.

Il viale principale dove avviene la sfilata è pieno di bandie-re rosse ed è una grande festa per tutti, vincitori e vinti. Alla fine della manifestazione mi ritrovo vicino ad un soldato rus-so che ha sul petto tre piani di decorazioni. Mi chiede chi so-no e quando gli dico che sono un prigioniero italiano mi dice: «Come puoi chiamarti prigioniero avendo ceduto le armi ai tedeschi? Voi italiani avete allungato la guerra di due anni aumentando il numero dei morti».

Non so cosa rispondere, anche se non mi sento colpevole di quello per cui mi si accusa e allora cambiando discorso gli chiedo: «Questa medaglia più grossa cosa rappresenta?».

«La battaglia di Stalingrado», risponde orgoglioso. Conti-nuo ad indicare le altre, per evitare discussioni in questo giorno di festa, e lui mi dà la motivazione di ognuna delle medaglie al valore. In quei giorni tirava un’aria poco bella fra le grandi potenze sul fiume Elba. Non si facevano passare più i prigionieri e, dopo la resa di Berlino, le truppe corazzate russe partirono verso la frontiera. Furono giorni che fecero pensare al peggio. Poi le grandi potenze si rimisero a ragionare e si riprese lo scambio dei prigionieri. 27 Giugno 1945

Oggi a Berlino c’è la grande sfilata delle potenze vincitrici. Hanno scelto la parte meno devastata ed hanno accostato ai

bordi le macerie dei palazzi distrutti. Sfilano tanti mezzi e

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tanti soldati. Vogliono insegnare ai tedeschi e al mondo di non provarci più, tanto viene esaltata la loro potenza. Finita la parata, decido che è il momento di cessare il mio girovaga-re e di pensare al mio rimpatrio. Per fare questo bisogna che vada verso il campo di raccolta ed è quello che faccio andan-do nel campo di Lukenwalle. Il campo era grandissimo e c’erano tanti ex prigionieri; negli spazi verdi pascolavano liberamente alcuni cavalli.

Quei docili animali furono ammazzati tutti, uno per ogni notte, e mangiati; per ultimo toccò anche al cavallo del capi-tano tedesco che comandava il campo.

Quando agli italiani si allunga la corda sono capaci di tutto. Al mattino successivo venimmo radunati e il capitano ci

disse: «Sono arrivati dei viveri e alcuni italiani adibiti allo scarico, in mia presenza, ne hanno rubata una parte destinata anche a tutti voi. Ho chiesto che un barbiere italiano venisse nella mia palazzina a farmi barba e capelli e questo ha cerca-to di andare a letto con mia moglie. Vi siete mangiati anche il mio cavallo! Ma che volete che mi tiri giù i pantaloni?»

Intanto nel campo si verificarono alcuni casi di colera e di tifo e noi speravamo che da un giorno all’atro venisse orga-nizzato il nostro viaggio per il rimpatrio. 24 Agosto 1945

Oggi è prevista la partenza della prima tradotta per l’Italia. Io sono nella lista di quelli che devono partire, ma quando ar-riva il convoglio ci accorgiamo che sopra ci sono dei prigio-nieri italiani provenienti dalla Russia e rinunciamo a partire, affinché loro, più provati di noi, possano rientrare prima alle loro case.

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26 Agosto 1945

Oggi partiamo veramente e nei pochi vagoni di terza classe veniamo pigiati in 1600.

Non riesco a muovere le gambe per molte ore e vengo pre-so da dolori fortissimi fino a quando cambiamo treno. Ci spostano su carri bestiame, dove posso sgranchirmi e tentare di ricamminare, ma non ci riesco e vengo adagiato da una parte. Ogni tanto il treno si fermava in aperta campagna e molti pri-gionieri scendevano e facevano man bassa di tutto ciò che trovavano di commestibile. Un contadino provò a scacciarli aiutandosi con la falce fienaia, ma non riuscì a salvare il suo raccolto di patate, gliene presero tante che qualcuno le portò anche a casa in Italia.

Ora, anche se mi vergogno di essere stato un italiano come loro, ad onor del vero, devo dirvi che quando il treno si fer-mava per tutta la notte in prossimità di qualche paese succe-deva di peggio e non mancarono abusi nei confronti di alcune ragazze tedesche.

La gente del posto andò a reclamare dalla scorta russa che ci accompagnava e il maggiore, che comandava il convoglio, fece suonare l’adunata. Siccome ancora non riuscivo ad al-zarmi e a camminare da solo venni aiutato per potervi parte-cipare. Quando fummo tutti schierati il comandante russo, vi-sibilmente arrabbiato, ci disse: «Questi gesti orribili fanno vergogna a tutti voi italiani, questi gesti mi fanno capire di che pasta siete fatti. Queste cose non si fanno nemmeno in tempo di guerra. Se dovessero ripetersi furti o violenze, fac-cio staccare la locomotiva e vi riporto a Berlino e fino a che la città non sarà tornata come un giardino voi non rivedrete l’Italia. Vergognatevi!».

Avevamo toccato il fondo.

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Fortunatamente il treno ripartì e il giorno dopo incrociam-mo un convoglio proveniente dalla Francia, con tanta gente e con tanti viveri a bordo.

Tutti i prigionieri che, al momento che erano stati presi dai tedeschi, possedevano uno strumento musicale, poterono conservarlo e a nessuno ne fu mai requisito uno. Così, venne organizzata velocemente una piccola banda che passò suo-nando e cantando nelle carrozze del treno francese. I passeg-geri apprezzarono molto questo gesto gioioso e ricambiarono offrendo parecchia roba da mangiare. Io ero rimasto seduto da solo nel carro bestiame e, nonostante avessero ricevuto molto cibo, nessuno me ne offrì un poco.

Poi la scorta cambiò e passammo in mano agli americani, ma appena il treno si mosse dovette subito fermarsi. Un pri-gioniero si era suicidato mettendo il collo nel binario. Ve-nimmo a sapere che nel periodo della prigionia aveva contrat-to una terribile malattia, allora incurabile, la sifilide e non aveva il coraggio di tornare a casa e così l’aveva fatta finita.

Passato Monaco ci fermarono a Innsbruck e ci alloggiarono in una caserma dell’artiglieria da poco abbandonata.

Eravamo circondati da verdi montagne, altissime, le sole che ci dividevano dall’Italia. In cinque andarono in cerca di funghi, ma io, che avevo ancora problemi nel camminare, mi misi a girellare intorno alla caserma e trovavo qua e là tra i rifiuti alcune cosette da mangiare, in particolare ceci sporchi e duri, ma li mangiai ugualmente.

Quelli che erano andati in cerca di funghi tornarono e li mangiarono, ma, non sapendo che erano velenosi, morirono tutti.

Quello stesso giorno ci caricarono su un treno e in poco tempo fummo al Brennero. Fermi per una breve sosta, vidi che davanti alla stazione erano sistemate delle bancarelle per la vendita di poveri alimenti, ma i 24 centesimi di marco che avevo in tasca non mi erano sufficienti per acquistare un pez-zo di pane; allora comperai un grappolo di uva galletta al prezzo di 20 centesimi.

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Arrivati a Trento ci dettero un mezzo piatto di riso. Non dico che ci avrebbero dovuto accogliere come eroi, ma nem-meno come degli estranei.

Ricordo che un ragazzino di dieci-dodici anni girellava con una foto, grande come una cartolina, e la mostrava a tutti. Pensai che cercasse notizie di un parente e mi avvicinai nella speranza di poterlo aiutare.

Nella foto c’era ritratto Mussolini impiccato per i piedi in piazza Loreto a Milano.

Avevo tanto sofferto, avevo visto tante persone morte e ve-dere questa immagine mi fece male.

Io non avevo avuto niente dal Duce, non ero mai stato fa-scista, ma non potevo gioire nel vederlo morto e ho sempre pensato che ucciderlo sia stato un errore.

Il gesto di questo ragazzino italiano mi fece ricordare il

bambino tedesco che, istigato dalla mamma, ci aveva sputato e tirato la terra. Dietro a questi fatti c’è sempre un adulto che spinge a fare una cosa brutta che non è nella natura di un bambino. «Sviluppare le menti senza uniformarle, arricchirle senza in-dottrinarle, insegnare a prendere posizione senza essere fa-ziosi, dare il meglio di se stessi senza attendere ricompensa», diceva una persona che non so come si chiama, ma che aveva sicuramente ragione. Prima di riprendere il viaggio, quando stava per calare la se-ra, anziché darci qualcosa da mangiare, misero un disco e ci fecero sentire la canzone del Piave. A notte fonda arrivammo alla stazione di Bologna dove stava per partire verso il sud un treno composto da carri bestiame stracolmo di gente.

Il convoglio non riusciva a partire e gli americani comincia-rono a sparare in aria per allontanare la gente.

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Quando il treno si mosse, corsi verso il primo vagone ma venni respinto, provai sul secondo ma non riuscii ad afferrare la maniglia, solo dal terzo vagone una mano si sporse, mi af-ferrò con forza e mi tirò su.

Dentro c’erano marito e moglie napoletani, sfollati. Aveva-no occupato buona parte del vagone con un materasso e non volevano fare posto a nessuno, ma un soldato toscano, che aveva combattuto con gli americani e ancora indossava arma-to la loro divisa, quando vide che il napoletano non intendeva spostare il materasso, anzi gli si scagliava contro, fece valere la sua forza e ci potemmo accomodare tutti alla meglio. 3 Settembre 1945

Al mattino presto siamo alla stazione di Firenze Campo di Marte, la stessa da cui ero partito.

Gli americani sganciano la locomotiva e quando noi chie-diamo loro quando ce ne avrebbero fornita un’altra per ripar-tire ci dicono: «Fatevela ridare dai tedeschi».

Questa è la loro considerazione per gli italiani. Essere a Firenze, quella che avevo detto essere la mia città,

mi fa sentire un poco a casa. A casa. C’è un momento di ri-flessione. Desidero tanto rivedere e riabbracciare i miei fami-liari, è la mia grande speranza, ma da questa tragedia c’è da aspettarsi di tutto. Sono passati due anni ed io non ho mai avuto loro notizie.

Finalmente si riparte e, dalla campagna e dal paesaggio che vedo dal treno, essendo la stessa stagione in cui ero partito, è come se nel frattempo non fosse successo niente. Invece…

Poche ore di viaggio e scendo alla stazione di Montepescali e trovo subito un amico, Lido Bertini, che aveva un bel ca-mion tre assi americano, salutandomi si offre per portarmi a Sticciano, a pochi chilometri da casa. Mentre mi accompagna a casa mi dice che molte famiglie di mia conoscenza sono state colpite da lutti, altre stanno aspettando invano il ritorno dei loro cari dalla guerra o dalla prigionia.

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Rivedo il mio paese, riconosco la forma dei poggetti, gli al-beri, i viottoli, i profumi, il rumore del fossetto del mulino, lo attraverso, allungo il passo e sono finalmente a casa.

Noi siamo tutti vivi! I gemelli si sono fatti grandicelli. Dina si è sposata con

Bruno. Vittorio è rientrato dalle miniere della Sardegna pochi giorni prima di me, il 28 agosto, e possiamo riabbracciarci dopo quattro anni che non ci vediamo.

Il babbo lo ritrovo molto invecchiato, più dei due anni che sono passati. Vorrei tanto raccontare le avventure, le sofferenze di quei due anni, ma nessuno mi ascolta.

Nessuno vuole sapere. Tutti vogliono solo dimenticare. Ma se delle guerre saranno ricordati solo i nomi degli eroi, i

potenti, che non provano le sofferenze, continueranno a farci fare le guerre.

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Foto di Vittorio, in alto a destra Il vivere quegli anni di gioventù in una fabbrica così grande fecero crescere culturalmente Vittorio, che al suo ritorno era disinvolto nel parlare. Sapeva trattare sia con il padrone che con il fattore, senza alzare la voce esponeva le nostre ragioni cercando di fare i nostri interessi. Questa esperienza lo porte-rà a dedicarsi ad attività sindacali anche successivamente agli anni ’50.

Per questo motivo era soprannominato “il sindaco”.

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Aroldo Romagnoli e Claudio Fantoni vivono a Sticciano, in

provincia di Grosseto. Qui Claudio Fantoni lo ha conosciuto fin da bambino, ma solo ora ha saputo del patrimonio di memorie che quest'uomo, ormai vecchio, portava con sé.

Ha quindi avuto il merito, raccogliendo queste sue testimo-nianze, di stimolarlo al ricordo. Un ricordo che nessuno pa-reva più interessato a risvegliare, che poteva essere svanito, e che invece si è ripresentato vivido e crudo.

In questo che è un incrocio tra una biografia ed un diario, ritroviamo l'atmosfera di un secolo passato, ed il fumo e l'o-dore della guerra e della morte.

Non c'è un briciolo di retorica nelle righe che Aroldo e Claudio hanno scritto. La scrittura è un filo d'acqua che pas-sa accanto, ed a volte sopra, ai cadaveri, alle miserie, alla violenza, senza che da esse sia contaminata. Senza perdere quell'inevitabile obiettività che scaturisce dal semplice fatto che chi racconta può dire: “Io c'ero”.

Prof. Franco Failli Università di Pisa.