approfondimenti ••••• crisi finanziaria ... · la crisi finanziaria si è, così,...

10
1 © 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati ••• APPROFONDIMENTI ••••• Dopo una breve illustrazione delle cause della crisi scoppiata negli Stati Uniti nel 2008, nell’articolo si prendono in esame i suoi effetti in alcuni Paesi europei (tra cui l’Italia) e si ana- lizzano le politiche adottate nell’Eurozona per contrastarla. LA “GRANDE CRISI” Se a uno studente di economia fosse chiesto di trattare l’argomento della “grande crisi”, certamente inizierebbe con l’analizzare la dinamica di quel fatidico ottobre del 1929, nel corso del quale, in seguito al massiccio crollo dei valori di borsa, finirono in fumo decine di milioni di dollari e iniziò un decennio drammatico, caratterizzato dal fallimento di molte imprese, dalla depressione delle attività produttive e da una disoccupazione diffusa e persistente, fenomeno che presto si sarebbe esteso a tutti i Paesi industriali. Eppure, molti economisti ritengono che le profonde difficoltà in cui attualmente versano gran parte dei Paesi a capitalismo maturo siano persino maggiori di quelle di oltre ottant’anni fa, e le prospettive di ripresa delle attività produttive e dell’occupazione assai labili, nonostante le diverse – e apparentemente più solide – condizioni e articolazioni degli assetti produttivi odierni, rispetto a quelle degli inizi del Novecento. Ma per analizzare i caratteri e la portata della “grande crisi” che sta investendo l’Europa in questo primo scorcio di millennio occorre risalire, anche soltanto per cenni, a ciò che è avvenuto al di là dell’oceano, negli Stati Uniti, ancora una volta “brodo di coltura” di quella perniciosa “infezione” dell’economia capitalistica che va sotto il nome di recessione (e, a seguire, di depressione). LA CRISI FINANZIARIA STATUNITENSE: UN BREVE EXCURSUS All’origine della crisi statunitense, manifestatasi a partire dal 2008, vi è l’espansione che ha registrato, negli anni precedenti, il mercato immobiliare, con un incremento conseguente degli investimenti nel settore. Si trattava, però, di una “bolla speculativa”, destinata per ciò stesso a “scoppiare” nel giro di poco tempo. Molti americani furono indotti ad acquistare immobili, attratti dalle eccellenti prospettive del settore, e a indebitarsi per raggiungere tale obiettivo. Così crebbero a dismisura i prestiti, concessi a tassi agevolati anche a coloro che non erano in grado di offrire sufficienti garanzie di poter onorare tale impegno, come nei casi di soggetti falliti, in difficoltà economiche o comunque privi di adeguati redditi (per questo si parla di “mutui subprime”, ossia al di sotto dell’ordinaria affidabilità). D’altro canto le banche statunitensi, al fine di ridurre l’esposizione rispetto a questi prestiti altamente CRISI FINANZIARIA, RECESSIONE, INDEBITAMENTO: GLI INCUBI DELL’EUROPA di Fabio Tittarelli

Upload: duongdieu

Post on 15-Feb-2019

219 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

Page 1: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

1© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

Dopo una breve illustrazione delle cause della crisi scoppiata negli Stati Uniti nel 2008, nell’articolo si prendono in esame i suoi effetti in alcuni Paesi europei (tra cui l’Italia) e si ana-lizzano le politiche adottate nell’Eurozona per contrastarla.

LA “GRANDE CRISI” Se a uno studente di economia fosse chiesto di trattare l’argomento della “grande crisi”, certamente inizierebbe con l’analizzare la dinamica di quel fatidico ottobre del 1929, nel corso del quale, in seguito al massiccio crollo dei valori di borsa, finirono in fumo decine di milioni di dollari e iniziò un decennio drammatico, caratterizzato dal fallimento di molte imprese, dalla depressione delle attività produttive e da una disoccupazione diffusa e persistente, fenomeno che presto si sarebbe esteso a tutti i Paesi industriali.

Eppure, molti economisti ritengono che le profonde difficoltà in cui attualmente versano gran parte dei Paesi a capitalismo maturo siano persino maggiori di quelle di oltre ottant’anni fa, e le prospettive di ripresa delle attività produttive e dell’occupazione assai labili, nonostante le diverse – e apparentemente più solide – condizioni e articolazioni degli assetti produttivi odierni, rispetto a quelle degli inizi del Novecento. Ma per analizzare i caratteri e la portata della “grande crisi” che sta investendo l’Europa in questo primo scorcio di millennio occorre risalire, anche soltanto per cenni, a ciò che è avvenuto al di là dell’oceano, negli Stati Uniti, ancora una volta “brodo di coltura” di quella perniciosa “infezione” dell’economia capitalistica che va sotto il nome di recessione (e, a seguire, di depressione).

LA CRISI FINANZIARIA STATUNITENSE: UN BREVE EXCURSUS All’origine della crisi statunitense, manifestatasi a partire dal 2008, vi è l’espansione che ha registrato, negli anni precedenti, il mercato immobiliare, con un incremento conseguente degli investimenti nel settore. Si trattava, però, di una “bolla speculativa”, destinata per ciò stesso a “scoppiare” nel giro di poco tempo. Molti americani furono indotti ad acquistare immobili, attratti dalle eccellenti prospettive del settore, e a indebitarsi per raggiungere tale obiettivo. Così crebbero a dismisura i prestiti, concessi a tassi agevolati anche a coloro che non erano in grado di offrire sufficienti garanzie di poter onorare tale impegno, come nei casi di soggetti falliti, in difficoltà economiche o comunque privi di adeguati redditi (per questo si parla di “mutui subprime”, ossia al di sotto dell’ordinaria affidabilità). D’altro canto le banche statunitensi, al fine di ridurre l’esposizione rispetto a questi prestiti altamente

CRISI FINANZIARIA, RECESSIONE, INDEBITAMENTO:GLI INCUBI DELL’EUROPAdi Fabio Tittarelli

“”

Page 2: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

2© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

rischiosi, tendevano a cedere i mutui stessi a terzi attraverso un complesso e multiforme ventaglio di strumenti finanziari (cosiddetta cartolarizzazione dei mutui subprime), che altri intermediari finanziari a loro volta rivendevano “inventando” ulteriori strumenti (i “derivati”). Si è così andata estendendo a dismisura, nel volgere di pochi anni, una catena di titoli (che ora definiamo “tossici”, ma che all’epoca venivano considerati il “top” dell’alta finanza, e non a caso venne attribuito agli economisti F. Black e M.S. Scholes il premio Nobel per l’economia, nell’anno 1997, per i loro studi nella determinazione del valore dei “derivati”). Tale proliferazione di strumenti finanziari, sostanzialmente senza controllo, ha costituito l’innesco della crisi: dopo i primi anni di boom, il mercato immobiliare si è saturato, i prezzi delle abitazioni sono diminuiti mentre i tassi d’interesse sui mutui s’impennavano. Molte famiglie si sono dichiarate impossibilitate a restituire il denaro preso in prestito e sono così aumentati i pignoramenti (1,7 milioni di case coinvolte nel fenomeno soltanto nell’anno 2007), che hanno ulteriormente depresso il mercato immobiliare. Di conseguenza, le banche più esposte si sono trovate in gravi difficoltà. Nel

contempo anche i titoli derivati dai mutui subprime hanno iniziato a sviluppare tutta la loro “tossicità”, e la “bolla speculativa” è scoppiata. Tra gli istituti creditizi più compromessi vi è il colosso Lehman Brothers, che il 15 settembre 2008 dichiara la bancarotta, denunciando perdite per centinaia di miliardi di dollari, sebbene le tre principali società di rating (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch) avessero mantenuto una valutazione soddisfacente dei suoi titoli sino al giorno precedente il default (fallimento). Si è trattato, a detta degli esperti, del più grande fallimento nella storia americana. Il risultato fu un gigantesco crac borsistico: nella sola giornata successiva al fallimento le borse mondiali videro cancellati 1200 miliardi di dollari di capitalizzazione.

La crisi finanziaria in pochi mesi si è propagata al mercato reale, provocando caduta degli investimenti, aumento della disoccupazione e riduzione dei consumi. Sono gli “ingredienti” tipici della recessione economica. I vari Paesi coinvolti nella crisi sono stati allora indotti a sostenere il più possibile il settore creditizio, concedendo ingenti capitali alle banche più esposte, affinché queste potessero recuperare margini accettabili di liquidità per svolgere i loro compiti di finanziamento della produzione. Nel contempo, le autorità monetarie pilotavano i tassi d’interesse verso il basso, con il medesimo intento. Ma, come vedremo tra breve, queste manovre non hanno sinora ottenuto risultati apprezzabili.

Il “peso” dei derivati finanziari

Nel corso degli ultimi due decenni è cresciuto notevolmente il valore dei titoli derivati (futures, options, swap ecc.), con la conseguenza di rendere il mercato finanziario assai più esposto alle ondate speculative, rispetto al passato. Questo è avvenuto anche per il fatto che i “derivati” vengono trattati prevalentemente “fuori borsa” (over the counter) e, quindi, al di fuori di ogni controllo delle autorità deputate. Nel grafico (tratto dal periodico tedesco Der Spiegel) si mettono a confronto i titoli trattati fuori borsa nel 2011 e l’ammontare del Pil globale (ossia mondiale) nello stesso anno.

Page 3: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

3© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

LA CRISI FINANZIARIA SBARCA IN EUROPA

Nel continente europeo, e segnatamente nell’area dell’Unione europea, la crisi si è diffusa con estrema rapidità e prevedibile virulenza. Negli anni precedenti, diversi Paesi dell’Eurozona avevano fatto registrare buoni (e talvolta eccezionali) ritmi di crescita economica. Ciò si è manifestato particolarmente in Irlanda e Spagna, con tassi molto elevati di occupazione e soddisfacenti incrementi annuali del Pil. Ma, come hanno argomentato numerosi studiosi in merito, si è trattato in definitiva di una crescita “viziata”, disomogenea e soprattutto non supportata da un’adeguata politica industriale (in Irlanda, per esempio, vi è stato un boom dell’edilizia simile a quello statunitense, ma il settore è poi entrato in crisi trascinando nella recessione l’intero assetto economico-produttivo del Paese, rimasto piuttosto carente sul piano industriale). Nel contempo, in questi Paesi sono cresciuti i salari nominali (anche se assai meno quelli reali); questo ha contribuito a determinare una progressiva perdita di competitività rispetto ad altri contesti ben più solidi nell’architettura industriale (come, per esempio, la Germania e, seppure in misura minore, la Francia).La crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti si è così estesa alle economie europee causando dapprima un forte rallentamento del reddito e una perdita di posti di lavoro, e successivamente una vera e propria recessione dell’attività produttiva. A farne le spese sono stati un po’ tutti i Paesi, ma con dinamiche diverse secondo il rispettivo grado di fragilità, sotto il profilo sia del mercato reale, sia di quello finanziario. In quest’ultimo mercato, in particolare, il crac della banca d’affari Lehman Brothers, i successivi crolli di borsa, l’esasperazione dei rischi legati all’emissione dei “derivati” e la difficoltà del settore creditizio che ne è conseguita hanno prodotto un mix fatale anche in molte istituzioni bancarie dell’Europa, fortemente esposte nella trattazione dei titoli “tossici”. Per questo, anche nel nostro continente si sono manifestate notevoli turbolenze in borsa, che hanno necessariamente coinvolto il mercato reale, il quale già scontava, nel complesso, tassi assai modesti di crescita. Già a partire dall’autunno del 2008 la produzione industriale in Europa cala bruscamente, il rallentamento si aggrava ulteriormente l’anno successivo, tanto che molti analisti hanno considerato il 2009 come il peggior periodo di recessione economica dopo la fase depressionaria del 1929.

Ad aggravare la situazione è anche la continua ascesa del prezzo delle materie prime, in particolare del petrolio. Per comprendere ciò basti pensare che alla fine del 1998 il petrolio era quotato a meno di 10 $ al barile, mentre nel luglio del 2008 la sua quotazione tocca il triste record (triste per le finanze dei Paesi importatori di petrolio, ovviamente, tra cui il nostro) di 147 $ al barile. Il prezzo del greggio è poi sceso a livelli più accettabili – in sintonia con la recessione – ma si è comunque mantenuto su valori assai superiori a quelli del decennio precedente (attualmente il greggio a barile è quotato nella borsa di Wall Street 107 $, e la quotazione media a un anno è prevista a 123 $ al barile).

L’apprezzamento del petrolio ha poi determinato una tensione sul fronte dei prezzi di tutti gli altri prodotti (per l’“effetto domino” che notoriamente ha questa risorsa energetica sulla produzione di ciascun bene). Ne è derivata una situazione generale che, seppure non può dirsi strettamente di tipo stagflazionistico (ossia caratterizzata da una crescita dei prezzi associata a recessione economica e disoccupazione lavorativa), non ha certamente favorito il rientro della crisi e/o la ripresa dell’attività produttiva.

Page 4: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

4© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

DALLA CRISI ECONOMICO-PRODUTTIVA ALLA CRISI DEI “DEBITI SOVRANI”

Si è detto che un po’ tutti i Paesi, chi in misura più sostenuta, chi in misura minore, sono stati costretti a intervenire a sostegno del sistema bancario compromesso nel vortice dei titoli “tossici” e delle ingenti perdite conseguenti allo scoppio della “bolla speculativa”, mediante massicce iniezioni di liquidità. La ricapitalizzazione delle banche, a sua volta, ha però “scoperto” i loro conti, che già segnavano il rosso stabile. In sintesi, i Paesi industrializzati hanno contratto debiti enormi per salvare gli istituti bancari dal fallimento, nella consapevolezza che, in assenza di tale intervento, l’intera dimensione capitalistica avrebbe potuto venire meno, con effetti devastanti su tutti i prevedibili fronti. L’equazione alla quale si è creduto (ciecamente, secondo molti analisti) è la seguente: salvataggio delle banche – aumento della liquidità – aumento delle potenzialità di credito – aumento degli investimenti – crescita della produzione – incremento dell’occupazione (o riduzione della disoccupazione) – aumento del reddito globale – ripresa economica. Si tratta della classica “ricetta monetarista” per uscire da una crisi: fare affidamento sull’espansione dell’offerta globale usando unicamente la leva monetaria, anziché stimolare con opportune misure (anche o soprattutto pubbliche) la domanda globale. Se il sistema creditizio è “ben lubrificato”, si asserisce, non serve altro affinché il mercato agisca per il meglio, riportando il sistema in equilibrio di piena occupazione. E i disavanzi pubblici? Essi sono stati a loro volta “finanziati” facendo ricorso all’indebitamento: i vari governi, per fare fronte alla ricapitalizzazione delle rispettive banche, hanno dovuto emettere titoli di Stato a diverse scadenze, determinando la progressiva dilatazione della loro esposizione debitoria (verso i singoli risparmiatori, ma anche verso banche, assicurazioni, fondi d’investimento, sia nazionali sia esteri). La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi), come ha osservato un notista tedesco, «per anni hanno sperato di poterli ridurre attraverso una crescita maggiore, che avrebbe assicurato più entrate fiscali. Ma la crescita non c’è stata, le entrate neanche e ora, attraverso il salvataggio delle banche, i debiti sono cresciuti all’inverosimile. Così è cominciata la crisi del debito» (W. Uchatius, Die Zeit). Lo stesso autore, in altra parte del suo articolo, sottolinea un aspetto non marginale della condizione del capitalismo contemporaneo: la scarsa (o, come egli dice, “truccata”) crescita che si era manifestata in precedenza un po’ in tutti i Paesi europei, ivi compresa la Germania, che pure ha sempre goduto fama di una “locomotiva” capace, con la sua solidità economico-produttiva, di trainare gli altri Paesi. Egli, infatti, dimostra dati alla mano come, tra il 2000 e il 2006 – ossia precedentemente allo scoppio della crisi finanziaria – il Pil della Germania sia cresciuto di 354 miliardi di euro, mentre nello stesso periodo l’aumento del debito pubblico sia stato di 342 miliardi di euro. In pratica, sostiene Uchatius, «il Paese si è fatto prestare il benessere. La crescita è stata fasulla. La macchina dell’economia tedesca corre, ma corre a vuoto». Ovviamente questo non vale solo per l’economia tedesca, ma per l’insieme delle economie altamente sviluppate («se si toglie la scorza del debito, il frutto della crescita economica è minimo»). La crisi dei debiti sovrani sta coinvolgendo gran parte degli Stati dell’Eurozona, ma in misura assai diversa tra loro. Vediamo in breve i principali “anelli deboli” di questa catena.

Il caso Spagna

Il Paese iberico – unitamente all’Irlanda della quale si parlerà tra breve – è il classico esempio di come una crescita economica possa risultare effimera. A metà degli anni Novanta del secolo scorso la Spagna ha manifestato un incremento del reddito e dell’occupazione che molti osservatori hanno definito persino “miracoloso”, trainato

Page 5: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

5© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

soprattutto da alcuni settori di mercato, primo fra tutti quello immobiliare. Al deflagrare della crisi, il Paese è entrato in una crisi profonda: il Pil inizialmente ha rallentato, poi è diminuito, la disoccupazione lavorativa è cresciuta sino a raggiungere livelli prima impensabili (oltre il 20%), il debito pubblico è schizzato dal 34% del 2007 al 67% del 2009, ossia è quasi raddoppiato nel volgere di due soli anni. Il “miracolo” spagnolo ha così mostrato tutti i suoi limiti di tenuta (nel 2009 l’agenzia di rating Moody’s ha assegnato alla Spagna il primo posto nel suo Misery Index, l’indicatore creato dall’economista A. Okun ottenuto sommando il tasso di disoccupazione e il tasso d’inflazione).

Il caso Irlanda

Anche in questo Paese si sono verificate nel giro di pochi anni una crescita poderosa e un’altrettanto massiccia recessione, e anche qui troviamo al primo posto nello sviluppo (“drogato”) il settore immobiliare. Cresciuta per circa un quindicennio sull’onda della speculazione edilizia, l’Irlanda aveva fatto registrare incrementi del reddito e dell’occupazione tra i più elevati della sua storia, al punto da meritarsi l’appellativo di “tigre celtica”. Ma il suo profilo produttivo si è mantenuto assai squilibrato e privo di quegli “anticorpi” necessari in periodi di turbolenza economica. L’ondata speculativa innescata dalla crisi dei mutui subprime statunitensi ha trovato, pertanto, l’economia irlandese strutturalmente impreparata ad affrontare la situazione: l’occupazione lavorativa è diminuita sensibilmente e il Paese è entrato in recessione. Il debito pubblico è aumentato sino a superare la soglia consentita del 60% del Pil (ora sfiora il 100%). Assai peggiore è stato l’andamento del deficit di bilancio, il quale è cresciuto vertiginosamente, al punto che, attualmente, esso fa registrare il triste record, nell’ambito Ue, del 32,4%, a fronte di un deficit “consentito” del 3%. Il governo irlandese è stato quindi costretto a chiedere un prestito alla Banca centrale europea di 85 miliardi di euro, accettando in cambio un severo programma di austerità (riduzione della spesa sociale, tagli alle retribuzioni pubbliche, applicazione di nuovi tributi). Nel luglio del 2011 l’agenzia Moody’s ha assegnato un rating BA1 all’Irlanda, che declassa i titoli del debito sovrano di questo Paese al rango di “junk”, “spazzatura”. Ciò significa che, secondo questa società, i titoli del debito irlandese sono “ad alto rischio” e il governo è così costretto a offrire tassi d’interessi sempre maggiori per ottenerne la sottoscrizione. La crisi, in tal modo, finisce per avvitarsi su se stessa.

Il caso Portogallo

Anche il secondo Paese iberico, il Portogallo, sta soffrendo particolarmente le conseguenze della crisi. Ma, a differenza della Spagna, qui troviamo una condizione economico-produttiva che si è mantenuta di basso profilo per tutto il periodo precedente il crac finanziario. Il problema del Portogallo, quindi, non è la crescita dell’indebitamento pubblico o il particolare coinvolgimento delle sue banche nell’avventura dei “derivati”, ma l’arretratezza della sua struttura industriale, che oltre al turismo ha ben poco da offrire. Per questo il Paese appare particolarmente fragile di fronte alla crisi, e anche una dimensione debitoria di per sé non proibitiva (inferiore a quella dell’Italia) fa comunque dubitare gli analisti

Page 6: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

6© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

sulla sua capacità di avviare una ripresa economica tale da riportare in ordine i conti pubblici. Attualmente il Portogallo è sotto stretta osservazione da parte della Bce in quanto destinatario di un primo intervento di aiuti per un ammontare complessivo di 80 miliardi di euro. In cambio, il governo portoghese si è impegnato a varare una manovra economica fortemente restrittiva, sia sul piano del contenimento della spesa pubblica, sia su quello della moderazione salariale.

Il caso Grecia

La situazione della Grecia è decisamente peggiore di quella degli altri Paesi più compromessi dalla crisi. Nel corso del 2009 la Grecia sembrava dimostrare di “tenere la barra” meglio di altri, ma il nuovo governo a guida socialista, sul finire di quell’anno, ha reso ufficiale un grave squilibrio nei conti pubblici: il precedente governo (conservatore), infatti, aveva “truccato” i bilanci e tenuto quindi nascosto un buco nei conti pubblici sconosciuto alle autorità europee. Per questo il passivo annuale è schizzato al 12,7% e le prospettive di risanamento e di crescita si sono fatte assai labili. I mercati finanziari hanno subito reagito sfiduciando la Grecia: le tre maggiori agenzie di rating si sono affrettate a dare giudizi negativi sull’affidabilità finanziaria del Paese, e la recessione produttiva, unitamente a un alto tasso (endemico) di corruzione e di evasione fiscale, hanno fatto il resto. La Grecia ha letteralmente collassato. Il governo, di conseguenza, ha varato una serie di misure altamente impopolari nel tentativo di mettere ordine nei conti pubblici, scatenando la reazione esasperata della popolazione. Nel contempo, Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale (la cosiddetta troika) concordemente hanno deciso il rifinanziamento del Paese e l’abbattimento di metà del debito a carico dei creditori privati. Il tentativo, del tutto eccezionale, è stato quello di evitare il default della Grecia, che avrebbe coinvolto altre economie a rischio e probabilmente compromesso il sistema monetario basato sull’euro. Nel corso dei due anni successivi la Grecia è stata destinataria di altri prestiti, sempre con il proposito di favorire un risanamento delle sue finanze e una ripresa economica. Il 21 febbraio 2012, infine, i ministri delle Finanze dei Paesi a moneta comunitaria (l’“eurogruppo”) hanno approvato un nuovo piano per scongiurare il fallimento greco, per un ammontare di 130 miliardi di euro. Come contropartita, Atene è stata costretta ad accettare le pesanti condizioni imposte dai partner (ulteriori tagli alla spesa pubblica, alle pensioni, ai salari). Inoltre il governo dovrà versare gli interessi sul prestito prima ancora di potere toccare un solo centesimo per pagare le retribuzioni ai pubblici dipendenti o le fatture delle amministrazioni pubbliche. Infine, una rappresentanza permanente della “troika” sarà presente nel Paese allo scopo di verificare l’attuazione delle misure restrittive da adottare. Questo significa che il governo greco è, di fatto, commissariato: il Paese ha ceduto, al momento, la sua sovranità. Il primo ministro Papademos (un tecnico, banchiere, ex membro della Bce), subentrato dopo le dimissioni del socialista Papadopulos, si è persino impegnato per iscritto che chiunque vincerà le prossime elezioni (previste per l’aprile del 2012) manterrà le promesse di risanamento secondo il piano concordato con la “troika”.

Il caso Italia

Trattare della nostra condizione economica e di bilancio pubblico in poche righe è, necessariamente, riduttivo. Tuttavia alcuni connotati salienti del caso Italia si possono riassumere senza necessità di ponderose analisi. A differenza di altri Paesi, il sistema creditizio italiano non è stato particolarmente coinvolto nel crac finanziario conseguente allo scoppio della “bolla speculativa” dei

Page 7: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

7© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

mutui subprime: i portafogli delle nostre banche, in definitiva, non abbondavano di titoli risultati poi “tossici”. Tuttavia, anche l’Italia ha iniziato a manifestare chiari segni di cedimento già dalla fine del 2009, anche se fino alla metà dell’anno successivo vi erano ancora tutti i margini per realizzare manovre correttive che avrebbero potuto, se non favorire una crescita economica, almeno tamponare efficacemente la crisi in atto. Ma queste misure non sono state adottate. Il forte rallentamento del Pil, associato a un volume del debito che stava crescendo negli ultimi mesi dopo un periodo di progressiva diminuzione e, soprattutto, la scarsa credibilità del governo e del sistema politico, sono tutti elementi che hanno influito in vario grado sui mercati finanziari. Ancora nella primavera del 2010 il Tesoro era in condizione di rifinanziare il proprio debito collocando titoli pubblici a tassi d’interesse piuttosto bassi (attorno al 2%), ma alcuni mesi dopo l’attacco speculativo già imponeva il collocamento di altri titoli a medio-lunga scadenza a tassi ben più elevati (quasi il 6%). Da questo momento si è assistito a un continuo aggravamento della situazione, che ha prodotto un incremento sia del deficit sia del debito pubblico. Nel contempo, le agenzie di rating tagliavano l’affidabilità del nostro Paese, e la fissazione dei tassi ne veniva ulteriormente condizionata. Lo spread (il differenziale di rendimento dei titoli pubblici italiani rispetto a quelli tedeschi presi a riferimento) è salito sempre

più, fino a portarsi oltre 500 punti a fine del 2011. Di pari passo con la crisi economica è maturata la crisi politica. Il 12 novembre 2011 il capo del governo Silvio Berlusconi rassegnava le dimissioni, sull’onda delle difficoltà manifestatesi nella maggioranza e della pressione delle istituzioni europee, preoccupate che la terza potenza economica dell’Eurozona potesse giungere al default. Il resto è cronaca. L’attuale governo presieduto da un tecnico, Mario Monti (docente di economia all’Università Bocconi di Milano, già commissario europeo, figura particolarmente gradita alla “troika”) sta varando una serie di misure molto severe per riportare ordine nei conti pubblici. Tuttavia, ciò che più preoccupa molti analisti, in questa delicata fase, non è propriamente il volume dell’indebitamento pubblico o il valore dello spread, ma la condizione di recessione in cui versa l’economia del Paese. Il Pil, infatti, non cresce da due anni e le previsioni sono per una sua diminuzione nel 2012 e nel 2013. Parallelamente, la disoccupazione sta raggiungendo livelli drammatici, specie per quanto riguarda i giovani e le donne, e segnatamente nelle Regioni meridionali. Ciò implica che, accanto a provvedimenti che possano riportare sotto controllo i conti pubblici, occorre implementare manovre che rilancino la competitività, inducano nuovi investimenti, consentano l’assunzione di forza lavoro: in una parola, che favoriscano la fatidica “crescita”.

Spread, un termine tecnico ormai sulla bocca di tutti…

Lo spread (letteralmente: diffusione, distribuzione) è il differenziale di rendimento tra i titoli pubblici – in genere a medio-lunga scadenza – di un Paese e quelli di un altro Paese preso a riferimento. Nel caso dell’Italia, lo spread è valutato in rapporto ai titoli della Germania (Bund). Il valore dello spread è assegnato dai mercati finanziari, e oscilla quindi momento per momento, in funzione delle quotazioni dei titoli riferiti ai due Paesi. Esso, in definitiva, esprime la differenza nell’affidabilità dei due emittenti, nel senso che minore è tale affidabilità, maggiore dovrà essere il rendimento del titolo, affinché il risparmiatore sia indotto a sottoscriverlo. Spesso è misurato in punti base, che sono centesimi di punto: per esempio, 200 punti base equivalgono a 2%. Se, per esempio, lo spread dei titoli pubblici italiani è pari a 300, significa che il tasso di interesse di quei titoli è del 3% superiore al tasso dei Bund tedeschi. Ovviamente, se a parità di altre condizioni il tasso d’interesse dei

Mario Monti

Page 8: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

8© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

Bund si modifica, varia di conseguenza lo spread. È altrettanto evidente che maggiore è lo spread e più onerose sono le condizioni di pagamento degli interessi da parte del soggetto debitore, ossia dello Stato. Di seguito riportiamo l’andamento dello spread riferito al nostro Paese nel corso del 2011.

LE POLITICHE ANTICRISI NELL’EUROZONA

La crisi finanziaria ed economica che stiamo vivendo ha posto in evidenza alcuni elementi di rigidità del sistema monetario europeo sorto dagli accordi di Maastricht del 1992. Da allora sono passati vent’anni, e l’area della moneta unica si è progressivamente estesa includendo Paesi con strutture produttive e assetti industriali piuttosto diversificati (si pensi alle differenze esistenti fra Germania, Francia e Italia, tra i primi a essere membri della Unione europea, e Cipro, Malta, Slovacchia o Estonia, entrati a far parte dell’Eurozona in epoca recente). Attualmente, come noto, gli Stati che adottano l’euro sono 17, mentre i membri dell’Ue sono 27: ciò significa che oltre la metà degli Stati comunitari ha una moneta comune e una politica monetaria comune, anche se ciascuno di essi ha una propria politica di bilancio, propri tributi e così via. L’ampliamento dell’Eurozona ha, come è evidente, comportato non pochi problemi di coordinamento e armonizzazione degli orientamenti di fondo per la solidità dell’intero sistema. L’attuale crisi ha fatto risaltare, per così dire, questi problemi. Il primo e più rilevante di essi è il fatto che la politica economica della Ue ha, da un lato, il fondamentale obiettivo della stabilità monetaria, da attuarsi prioritariamente rispetto a qualsiasi altro orientamento, e dall’altro la possibilità di intervenire a tutela di tale obiettivo con un ventaglio assai limitato di misure. In sostanza, l’imperativo categorico è il ferreo controllo del livello dei prezzi nell’Eurozona e la “sanità” dei bilanci pubblici dei relativi Paesi, ma le possibili manovre per assicurare tale risultato si riducono, di fatto, alla fissazione del tasso d’interesse a lungo termine da parte della Bce e all’eventuale modifica di tale livello in funzione delle esigenze dei mercati. Qualsiasi altra manovra o iniziativa per contrastare gli squilibri economici e le turbolenze della finanza è affidata a ciascun Paese, secondo il proprio orientamento.

Page 9: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

9© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

La Ue a diciassette può, al più, usare quella che viene indicata come “moral suasion” (persuasione morale), può decidere – come è recentemente avvenuto nei riguardi di taluni Paesi maggiormente coinvolti nella crisi – un programma di aiuti finanziari e richiedere un pacchetto di misure di politica economica da adottare, può vigilare affinché i Paesi che beneficiano degli aiuti ottemperino agli impegni presi ma, in definitiva, le istituzioni comunitarie – Bce in primis – non hanno un vero e proprio potere di imporre una data politica economica, né un potere interdittivo equivalente. Ben consapevole di tale limite, con l’aggravarsi della crisi dei debiti sovrani la Ue ha deciso l’istituzione (marzo del 2011) di un Meccanismo europeo di stabilità (European stability mechanism, Esm) con l’intento di intervenire finanziariamente nei riguardi dei Paesi in difficoltà. Esso consiste in un fondo di salvataggio europeo, al quale partecipano, pro-quota, tutti gli Stati aderenti alla moneta unica, che potrà porre a disposizione dei Paesi richiedenti prestiti a tassi agevolati per una durata variabile secondo l’entità delle somme e la gravità delle situazioni affrontate. Il fondo stabilirà anche le misure che dovranno essere adottate dai Paesi destinatari degli aiuti per il rientro del loro squilibrio, prevedendo apposite sanzioni per gli Stati che non dovessero rispettare le scadenze di restituzione dei prestiti.Di recente il Consiglio europeo ha deciso che l’entrata in vigore dell’Esm, prevista inizialmente per la metà del 2013, sia anticipata di un anno.

Il Patto di stabilità e crescita (Psc)

Il Patto di stabilità e crescita (Psc), siglato ad Amsterdam nel 1997, è l’accordo che ha per obiettivo il controllo delle politiche di bilancio dei Paesi aderenti alla moneta unica. Esso prevede, fra l’altro, oltre al fine primario della stabilità dei prezzi, il vincolo per ciascuno Stato di mantenere il rapporto tra deficit annuale di bilancio e Pil entro il valore del 3% e il rapporto tra il volume dell’indebitamente pubblico e il Pil entro il 60% (per i Paesi che fossero molto lontani da tale limite, è sufficiente il loro impegno a ridurre progressivamente il divario nel corso degli anni, per evitare le sanzioni dovute all’inosservanza del rispetto del parametro). Più di recente è stata avanzata dalla Commissione europea una proposta di riforma del Patto, nel senso di un rafforzamento dei vincoli in esso stabiliti, che dovrebbero essere recepiti dagli Stati membri nelle rispettive Costituzioni. Di seguito, sono illustrate graficamente le condizioni in cui ciascun Paese dell’Eurozona si trova attualmente, relativamente ai due parametri di bilancio.

Page 10: APPROFONDIMENTI ••••• CRISI FINANZIARIA ... · La crisi finanziaria si è, così, tradotta nella crisi degli Stati sovrani. Questi ultimi (o meglio, i rispettivi governi),

10© 2012 RCS Libri S.p.A. – Tutti i diritti sono riservati

••• APPROFONDIMENTI •••••

LE CRITICHE ALL’ATTUALE POLITICA ECONOMICA DELLA UE

Si è parlato più sopra della debolezza dell’Unione europea relativamente all’assenza di efficaci politiche d’intervento in caso di crisi. Una delle critiche più incisive a questo riguardo è diretta alle funzioni della Bce. Questo organismo, infatti, a differenza delle Banche centrali nazionali, non ha a propria disposizione un ventaglio di possibili manovre per contrastare gli squilibri del sistema economico. D’altra parte, alle Banche centrali dei Paesi aderenti all’Uem sono state sottratte tali attribuzioni. Di conseguenza, nessun organismo al vertice del sistema creditizio, nell’ambito dell’Eurozona, è un “prestatore di ultima istanza” come lo è, per esempio, la Federal Reserve (la Banca centrale statunitense). La Bce, infatti, non può emettere prestiti, né acquistare titoli dai vari Stati, né richiedere che intervengano in tal senso le Banche centrali nazionali. Per questo, una delle proposte – che sinora non è stata posta in agenda a causa del fermo diniego della Germania – è quella di prevedere la possibilità, da parte della Bce, di emettere titoli pubblici “europei” (Eurobonds) e di potere liberamente negoziare (acquisti/vendite) titoli del debito pubblico di ogni Stato aderente. Un altro ordine di critiche, di più ampia portata, è quello nei riguardi dei fondamenti stessi del Trattato di Maastricht istitutivo dell’Uem. Da più parti si osserva che il mantenimento del vincolo della stabilità monetaria “costi quello che costi” (e quindi astraendo dalle reali condizioni economico-produttive in cui i sistemi si trovano a operare) scoraggia sistematicamente la crescita economica. Come ha di recente sottolineato un gruppo di economisti italiani al riguardo, le proposte di modifica delle attribuzioni della Bce, pur interessanti, sarebbero da sole insufficienti «e diventano null’altro che fumo negli occhi se accompagnate dall’accettazione di nefaste politiche di bilancio restrittive e da una politica monetaria del tutto indifferente allo sviluppo e all’occupazione e preoccupata solo di contenere l’inflazione» (S.

Cesaratto, C. D’Ippoliti, S. Levrero, R. Realfonzo, A. Stirati, Per una nuova politica in Europa, http://www.economiaepolitica.it). In sostanza, è lo stesso “dogma monetarista” a essere messo in discussione. E di fatto le attuali difficoltà in cui si dibattono molti Paesi dell’Eurozona (compreso il nostro), stretti fra una condizione debitoria che deve assolutamente rientrare in tempi rapidi, il reddito nazionale a crescita zero o in diminuzione, una disoccupazione lavorativa a livelli insostenibili, una povertà diffusa e in crescente aumento, un assetto industriale non competitivo, sono tali che quello della “crescita” diventa un obiettivo quasi mitico in assenza di adeguate politiche espansive, nonché di politiche migliorative del mercato del lavoro.