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3 L’antitesi di Emma? Anna Karenina di Lev Tolstoj Genesi e pubblicazione: entusiasmo e stanchezza “In modo inatteso, senza sapere nemmeno io perché e con quale scopo, ho ideato i personaggi e gli avvenimenti, ho continuato, poi ho cambiato e, improvvisamente, tutto si è concatenato così bene e rapidamente che ha preso forma un romanzo di cui ho appena terminato la prima stesura: un romanzo molto vivo, appassionato, compiuto, del quale sono molto soddisfatto.” In questa lettera, datata 25 marzo 1873, e mai spedita, Tolstoj racconta all’amico Strachov — probabilmente idealizzando alquanto, come piace agli artisti —, il configurarsi nella sua mente del nucleo propulsivo di Anna Karenina, il quale calamitò in breve tempo tutto il suo fervore creativo. Tolstoj decise così di mettere da parte il progetto del romanzo sull’epoca di Pietro il grande, per il quale aveva continuato a documentarsi senza tuttavia riuscire a trovare uno sbocco nella scrittura. Questo moto inatteso è tanto più rilevante se si pensa che negli anni successivi alla stesura di Guerra e Pace, i quali avevano riempito in modo totale la sua vita, Tolstoj stava vivendo un’intensa crisi artistica e ancor più esistenziale, che si traduceva in lunghi periodi di apatia e angoscia, dominati dal timore della follia e della morte. L’autore sembrava essersi svuotato della sua capacità di osservare e rilevare la vitalità del mondo che era intorno a lui, e questa crisi sembrava irreversibile. Il romanzo di Anna, si configura quindi come una rinascita, una ventata d’aria nuova e fresca in un paesaggio arido. A ben vedere però l’idea di Anna Karenina non è così improvvisa come può sembrare. Già nel 1870 gli era balenata l’intenzione di scrivere un romanzo su una donna adultera, e a tal proposito, il 23 febbraio, sua moglie Sonja annotava nel suo diario: “mi ha detto che, per lui, tutto il problema era di rendere quella donna miserevole ma non disprezzabile e che, appena quella creatura gli era apparsa […] i caratteri maschili che aveva immaginato in precedenza erano venuti a raggrupparsi intorno a lei”. Nel 1872 inoltre un fatto di cronaca contribuirà, in quel momento ancora inconsapevolmente, a delineare la sua eroina e il suo destino tragico: Anna Stepanovna Pirogova, che viveva con Bibikov, vicino e amico di Tolstoj, alla scoperta che questi voleva sposare non lei, ma la governante tedesca dei suoi figli, era fuggita e aveva vagato tre giorni per la campagna, per poi buttarsi sotto un treno alla stazione di Jasenki. Era il 4 gennaio. Il giorno seguente Tolstoj aveva voluto assistere all’autopsia della donna nella baracca della stazione, e la vista di quel corpo sanguinante e mutilato lo aveva molto impressionato. Tuttavia in quel momento l’idea della donna adultera e della donna sotto il treno non si sono ancora fusi nella sua immaginazione, e questo avverrà solo in seguito. In quegli anni, il dibattito sulla questione femminile era arrivato anche in Russia, sebbene non venisse applicato alla condizione sociale lì presente: i più importanti letterati si erano occupati di adulterio, non solo attraverso i loro romanzi, ma anche per mezzo di studi teorici: Tolstoj in particolare si trovava a condividere le idee di Alexandre Dumas figlio, che nell’opuscolo L’uomo-donna sosteneva che il marito avesse il dovere di formare ed educare sua moglie, e che potesse ucciderla qualora le sue trasgressioni si dimostrassero incorreggibili. Tolstoj in ogni caso non aveva una concezione così drastica, e riteneva che l’ultimo giudizio dovesse essere di Dio. Tra le opere ben note all’autore di Anna Karenina che trattavano di adulterio, si annovera anche, naturalmente Madame Bovary. Non solo: nel 1857 l’autore aveva effettuato un viaggio a Parigi, e aveva potuto seguire le vicende dell’autore francese da vicino. Era arrivato infatti nella capitale il 21 febbraio, ossia pochi giorni prima del noto processo che aveva visto il romanzo flaubertiano accusato di oltraggio alla moralità. La vicenda di quel processo aveva destato tanto scalpore che era impossibile che Tolstoj non ne sapesse nulla; eppure nel suo diario non ne fa parola. L’autore è testimone diretto anche quando il romanzo esce in volume a metà aprile, e lo straordinario successo di pubblico fa esaurire le copie del libro in breve

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3

L’antitesi di Emma?

Anna Karenina di Lev Tolstoj

Genesi e pubblicazione: entusiasmo e stanchezza

“In modo inatteso, senza sapere nemmeno io perché e con quale scopo, ho ideato i personaggi e gli

avvenimenti, ho continuato, poi ho cambiato e, improvvisamente, tutto si è concatenato così bene e

rapidamente che ha preso forma un romanzo di cui ho appena terminato la prima stesura: un romanzo molto

vivo, appassionato, compiuto, del quale sono molto soddisfatto.” In questa lettera, datata 25 marzo 1873, e

mai spedita, Tolstoj racconta all’amico Strachov — probabilmente idealizzando alquanto, come piace agli

artisti —, il configurarsi nella sua mente del nucleo propulsivo di Anna Karenina, il quale calamitò in breve

tempo tutto il suo fervore creativo. Tolstoj decise così di mettere da parte il progetto del romanzo sull’epoca

di Pietro il grande, per il quale aveva continuato a documentarsi senza tuttavia riuscire a trovare uno sbocco

nella scrittura. Questo moto inatteso è tanto più rilevante se si pensa che negli anni successivi alla stesura di

Guerra e Pace, i quali avevano riempito in modo totale la sua vita, Tolstoj stava vivendo un’intensa crisi

artistica e ancor più esistenziale, che si traduceva in lunghi periodi di apatia e angoscia, dominati dal timore

della follia e della morte. L’autore sembrava essersi svuotato della sua capacità di osservare e rilevare la

vitalità del mondo che era intorno a lui, e questa crisi sembrava irreversibile. Il romanzo di Anna, si configura

quindi come una rinascita, una ventata d’aria nuova e fresca in un paesaggio arido.

A ben vedere però l’idea di Anna Karenina non è così improvvisa come può sembrare. Già nel 1870 gli era

balenata l’intenzione di scrivere un romanzo su una donna adultera, e a tal proposito, il 23 febbraio, sua

moglie Sonja annotava nel suo diario: “mi ha detto che, per lui, tutto il problema era di rendere quella donna

miserevole ma non disprezzabile e che, appena quella creatura gli era apparsa […] i caratteri maschili che

aveva immaginato in precedenza erano venuti a raggrupparsi intorno a lei”. Nel 1872 inoltre un fatto di

cronaca contribuirà, in quel momento ancora inconsapevolmente, a delineare la sua eroina e il suo destino

tragico: Anna Stepanovna Pirogova, che viveva con Bibikov, vicino e amico di Tolstoj, alla scoperta che questi

voleva sposare non lei, ma la governante tedesca dei suoi figli, era fuggita e aveva vagato tre giorni per la

campagna, per poi buttarsi sotto un treno alla stazione di Jasenki. Era il 4 gennaio. Il giorno seguente Tolstoj

aveva voluto assistere all’autopsia della donna nella baracca della stazione, e la vista di quel corpo

sanguinante e mutilato lo aveva molto impressionato. Tuttavia in quel momento l’idea della donna adultera

e della donna sotto il treno non si sono ancora fusi nella sua immaginazione, e questo avverrà solo in seguito.

In quegli anni, il dibattito sulla questione femminile era arrivato anche in Russia, sebbene non venisse

applicato alla condizione sociale lì presente: i più importanti letterati si erano occupati di adulterio, non solo

attraverso i loro romanzi, ma anche per mezzo di studi teorici: Tolstoj in particolare si trovava a condividere

le idee di Alexandre Dumas figlio, che nell’opuscolo L’uomo-donna sosteneva che il marito avesse il dovere

di formare ed educare sua moglie, e che potesse ucciderla qualora le sue trasgressioni si dimostrassero

incorreggibili. Tolstoj in ogni caso non aveva una concezione così drastica, e riteneva che l’ultimo giudizio

dovesse essere di Dio.

Tra le opere ben note all’autore di Anna Karenina che trattavano di adulterio, si annovera anche,

naturalmente Madame Bovary. Non solo: nel 1857 l’autore aveva effettuato un viaggio a Parigi, e aveva

potuto seguire le vicende dell’autore francese da vicino. Era arrivato infatti nella capitale il 21 febbraio, ossia

pochi giorni prima del noto processo che aveva visto il romanzo flaubertiano accusato di oltraggio alla

moralità. La vicenda di quel processo aveva destato tanto scalpore che era impossibile che Tolstoj non ne

sapesse nulla; eppure nel suo diario non ne fa parola. L’autore è testimone diretto anche quando il romanzo

esce in volume a metà aprile, e lo straordinario successo di pubblico fa esaurire le copie del libro in breve

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tempo; ma nemmeno di questo fa menzione: nel suo diario parla del tempo trascorso con Turgenev e delle

letture di Balzac. Tolstoj esprimerà la sua ammirazione solo anni dopo, quando nel 1904, in un’intervista ad

un giornalista francese dirà: “uno dei miei scrittori preferiti è il vostro incomparabile Flaubert. […] Il suo stile

è pieno della più pura bellezza. Si può dir questo di molti scrittori?”. Del romanzo Madame Bovary Rusanov

dirà che Tolstoj nelle loro conversazioni del 1883, aveva dichiarato di non ricordarlo, ma che quando lo aveva

letto gli era piaciuto. Oltretutto nella sua biblioteca Tolstoj possedeva una copia del romanzo pubblicata in

traduzione russa sulla rivista mensile Biblioteka dlia chteniia nel 1858.

Dunque, all’inizio del 1873 Tolstoj stava lavorando all’idea di un romanzo su Pietro il Grande. Aveva raccolto

materiali su materiali su quell’epoca che tuttavia cominciava a sentire troppo lontana da sé nel tempo per

poterla comprendere appieno; oltretutto, man mano che si documentava, si rendeva conto che l’idea mitica

dell’imperatore che si era tramandata non rispecchiava la realtà storica: aveva cominciato pertanto a provare

un sentimento di ostilità, che mal si sarebbe conciliata con l’opinione generale. In sintesi, Tolstoj aveva

continuato ad accumulare informazioni senza sentirsi pronto alla scrittura. Era ad un punto morto. Nel

frattempo però si era avvicinato al greco e agli scrittori greci, scoprendo in loro un’arte pura ed elegante,

concentrata, leggera ed essenziale, che gli fece venire in odio la prosa del suo precedente romanzo Guerra e

pace.

In questo stato di cose il 18 marzo di quell’anno gli capitò per caso una copia dei Racconti di Belkin di Puškin,

che la moglie aveva preso per il figlio Serëza e non aveva riposto: cominciò a leggerli rimanendo incantato

dalla loro prosa vivace e la sua attenzione cadde su un racconto di Fogli Sparsi che cominciava con la frase

“gli invitati arrivarono alla casa di campagna”. Il modo brusco di introdurre la narrazione gli piacque, e come

una folgorazione, la voglia di scrivere lo invase. Si può azzardare che fu durante quella sorta di epifania che

l’antica idea del romanzo d’adulterio e l’episodio della donna uccisasi sotto un treno si fusero insieme dando

origine ad Anna. Il giorno seguente la moglie annotava nel diario: “ieri sera Ljovočka mi ha detto a bruciapelo:

-ho scritto un foglio e mezzo e mi pare che vada bene-. […] Non feci grande caso alle sue parole; ma appresi

poi che aveva incominciato un romanzo sulla vita privata contemporanea”.

Tolstoj scrisse i primi capitoli velocemente, e in poche settimane il primo abbozzo era terminato. L’idea

iniziale era di scrivere un romanzo agile, ben lontano dalla prolissità di Guerra e Pace, in cui ogni cosa detta

sarebbe stata essenziale e ineliminabile: doveva essere un romanzo psicologico alla maniera francese,

antiromantico e realistico, e destinato al grande pubblico. Ben presto però i suoi primi propositi cominciarono

ad evolversi: l’entusiasmo si spense, la scrittura proseguì lentamente e stancamente, e i personaggi che prima

sembravano così ben delineati ora si perdevano nella sua mente, facevano i gesti sbagliati e dicevano le

parole sbagliate. Il romanzo così com’era non funzionava. Fu così che lentamente la figura della protagonista

andò evolvendosi (e intorno a lei gli altri personaggi), cambiando profondamente: se prima era una donna

volgare, grassa e non particolarmente bella, che aveva solo una vena di vitalità e fascino a renderla

interessante, pian piano divenne una bellissima donna, enigmatica e complessa. Al tempo stesso Karenin e

Vronskij, che prima erano figure totalmente positive, si fecero mediocri, facendo brillare maggiormente la

luminosità dell’eroina. Tolstoj stesso venne soggiogato dalla sua creatura, e se ne innamorò come mai gli era

avvenuto per altri suoi personaggi. Anna cambiò sotto i suoi occhi, e tutto ciò che l’autore riuscì a fare per

mitigarne il fascino fu di porle accanto una figura di contrasto: Levin.

Ciò nonostante la stesura del romanzo fu lenta e costellata di periodi di scrittura febbrile alternati ad altri di

quasi totale abbandono, tanto che spesso Tolstoj stesso denuncerà il tedio e la stanchezza di un lavoro che

sembrava non finire mai: “la mia Anna mi è venuta a noia, ne ho fin sopra i capelli”; “ah, se qualcuno potesse

finire Anna Karenina al posto mio”. In quegli anni oltretutto, diversi avvenimenti tragici turbarono la quieta

esistenza della sua famiglia nella tenuta di Jasnaja Poljana: tra il gennaio di quell’anno e la fine del 1875 gli

morirono infatti tre figli, due zie e due nipoti, che gettarono sulla casa un’ombra di morte che sembrava non

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volersene più andare. Tolstoj stesso se ne sentiva avvinto e per sfuggire all’angoscia che questa gli provocava

si allontanava per brevi periodi così da poter respirare di nuovo l’aria della vita.

In questi anni intanto il romanzo aveva visto succedersi diverse redazioni (Vladimir Zdavon ne conterà dodici),

che avevano portato con sé diversi cambiamenti: il titolo che prima doveva essere “i due matrimoni” o “le

due coppie”, era diventato quello definitivo conosciuto oggi; i nomi dei personaggi erano cambiati (per

esempio Anna prima si chiamava Tat’jana, in omaggio all’eroina dell’ Evgenij Onegin); il finale però era

rimasto invariato: la protagonista sarebbe comunque morta suicidandosi.

L’opera prosegue, e come per Flaubert, si modella sulle osservazioni di Tolstoj sul mondo circostante: modi

di fare ed espressioni dei personaggi, anche fatti stessi della loro vita, si plasmano sulla memoria dell’autore

su eventi e persone che vede intorno a sé, spesso anche molto vicine (come la moglie o i fratelli). Accanto al

titolo nella quinta redazione, compare poi la frase “a me la vendetta, io farò ragione”, che sarà in seguito

posta come epigrafe. È una citazione biblica, che compare in tre luoghi con diverso significato: nel

Deuteronomio denota la vendetta di Dio, allorché l’uomo gli disubbidirà e gli verrà meno; nella Lettera agli

Ebrei si riferisce alla vendetta contro chi ha calpestato il figlio di Dio; nella Lettera ai Romani di Paolo apostolo

indica invece che la vendetta è una prerogativa esclusivamente divina, e che gli uomini non devono giudicare,

ma amare. Posta all’inizio del romanzo determina che Anna verrà punita dal Dio biblico della vendetta, poiché

colpevole, e che questa vendetta però spetta a lui, non agli uomini. Tolstoj ha giocato sui diversi significati,

ma l’epigrafe non darà una vera illuminazione sul libro e sul suo significato, in quanto, come si vedrà, Dio

risalta in tutta la storia per la sua assenza.

Durante il 1875 le prime due parti e i capitoli 1-10 della terza vengono pubblicati sulla rivista Russkij Vestnik:

il successo è immediato, per lo stupore dell’autore, che a tratti manifesta il suo compiacimento o la più totale

indifferenza. Anche il suo giudizio sul romanzo attraversa fasi alterne, in cui un affetto profondo si sostituisce

ad un senso di disprezzo, giacché non riesce a capire il perché di tanto clamore, come se esso in qualche

modo ne sminuisse il valore: “è tanto difficile descrivere come un ufficiale ha un amorazzo con una signora?

Non c’è niente di difficile in questo, e soprattutto niente di buono! È cattivo e inutile”. Durante il 1876

compare tutta la terza parte, e durante il 1877 le altre parti fino alla settima. Nel frattempo nell’aprile di

quell’anno, l’insurrezione di Serbi e Montenegrini contro i Turchi aveva convinto l’opinione pubblica della

necessità di un intervento armato in loro difesa, intervento che si era ufficializzato il 12 aprile. Tolstoj,

contrariamente alla stragrande maggioranza, si oppose fermamente a questa guerra, e palesò direttamente

questa opinione per mezzo del personaggio Levin nell’epilogo del romanzo, quando Anna è già morta e

Vronskij si accinge a partire per la guerra. Questa divergenza di vedute provocò una frattura tra l’autore e il

direttore del giornale Katlov, che, partigiano convinto dell’intervento, si rifiutò di pubblicare l’ultima parte,

sostituendovi invece una nota in cui spiegava brevemente gli ultimi avvenimenti della storia. Tolstoj infuriato,

si fece così rimandare il manoscritto decidendo di pubblicare l’epilogo separatamente in brossura nel gennaio

1878.

Nel frattempo nell’estate del 1877 l’autore si era dedicato anche alla messa a punto del romanzo per la sua

pubblicazione in volume, che avvenne in tre tomi all’inizio del 1878, e nella quale prese parte anche Strachov.

Alcune pagine vennero riscritte e alcuni capitoli soppressi, ma nel complesso Tolstoj seguì solo parzialmente

i suggerimenti dell’amico che a tal proposito notò: “dalle sue spiegazioni ho potuto convincermi che ci teneva

molto al suo testo e che, nonostante la negligenza e la goffaggine apparenti del suo stile, aveva pesato ogni

parola, ogni giro di frase, come il più esigente dei poeti”. Da queste parole si evince, che l’ossessione per la

forma, sebbene non raggiungesse i livelli di Flaubert, non era affatto assente, come alcuni furono portati a

ritenere criticando il romanzo. Oltretutto un paragone con l’autore di Madame Bovary lo fece lo stesso amico

Fet scrivendo: “gli imbecilli grideranno al realismo alla Flaubert, mentre qui tutto è idealismo”.

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Anna Karenina: l’amore assoluto

A differenza di Emma Bovary, nel personaggio di Anna non prevalgono caratteristiche negative, anzi.

L’impressione che generalmente ne emerge è di una donna che sebbene colpevole, ciò nonostante è ben

lontana dalla loro vanità e superficialità, e pertanto maggiormente difficile da condannare.

La prima volta che compare nel romanzo, diverse pagine dopo l’inizio, è vista attraverso lo sguardo di

Vronskij: in quel breve sguardo riuscì a notare una vivacità contenuta che guizzava sul viso e si librava fra gli

occhi scintillanti […] come se ci fosse in lei qualcosa che sovrabbondava, che riempiva talmente il suo essere

da esprimersi al di fuori della sua volontà, ora nello scintillio degli occhi, ora nel sorriso. Il futuro amante di

Anna, è colpito e attratto soprattutto dagli occhi grigi di lei, enigmatici, irresistibili, che conferiscono una luce

particolare a tutta la sua figura. Anna però è anche una donna molto bella, i cui modi disinvolti e gentili

conquistano chiunque le stia intorno.

Il fatto che sia a Mosca per mediare una riconciliazione tra il fratello e la cognata, gioca inoltre a suo favore:

è una donna buona, che cerca di aiutare, per quanto possibile, le persone che le sono vicine. Tutto in lei

sembra felicità e serenità, ma ben presto alcune spie mettono in dubbio quest’idea. La principessa Kitty, che

subito si innamora di lei, nota infatti che “solo negli occhi c’era un’espressione seria e a volte triste, che [la]

colpì”. Non solo: quando Dolly le dice “tu sei raggiante di felicità” lei risponde con un “sì” quasi pensoso,

dubbioso, essendo seguito da una sospensione. Inoltre non molto tempo dopo, sarà lei stessa a confessare a

Dolly di avere i suoi “skeletons” nell’anima, e aggiungerà anche che sono tetri. Tutti questi sono indizi che

fanno emergere il sospetto che dopotutto Anna non sia del tutto felice come appare. Che il suo non sia un

matrimonio d’amore viene detto in seguito: Karenin, di diversi anni più vecchio, è stato quasi obbligato a

sposarla, e verso la moglie mostra solo una distaccata ironia. Dunque non si tratta di rapporto felice, e

nondimeno vi è tra i due una relazione serena, basata su rispetto e confidenza. Si può quindi concludere che

probabilmente prima dell’incontro con Vronskij, nemmeno Anna riesce bene a definire cosa manchi nella sua

vita, cosa ella desideri, e si accontenta della tranquillità del suo matrimonio e dell’amore per suo figlio Serëza.

Il suo viaggio a Mosca, fatto per conciliare una famiglia, paradossalmente sarà all’origine della rovina della

sua: l’incontro con Vronskij giunge inatteso, inaspettato, e anche per questo ciò che ne deriva è tanto più

sconvolgente. Anna prova un’attrazione irresistibile per quell’uomo, e al tempo stesso si rende conto esserci

qualcosa di sbagliato nel modo in cui lo guarda e nel modo in cui lui la guarda. Eppure per un breve momento,

durante il ballo, assapora l’ebbrezza di essere desiderata, solo però fino a quando si renderà conto che la sua

felicità sta causando l’infelicità di Kitty.

Anna fugge così da Mosca, per fuggire da Vronskij e da un sentimento che non sa bene definire, ma che la

travolge, togliendole ogni tranquillità sul treno verso Pietroburgo. Anna ricorda con un dolce piacere i

momenti del ballo, ma una sorta di delirio, che prefigura quello finale, la assale e distorce la realtà davanti ai

suoi occhi, trasformandola in un incubo.

Per diverso tempo Anna cerca di resistere a quest’amore, che sa bene essere sbagliato in quanto adultero,

ma l’Eros-passione l’avvince, e si insinua nell’anima di lei al modo di un’entità estranea che, a dispetto della

volontà, toglie qualsiasi possibilità di scelta ai due amanti. Essi ne vengono travolti senza potersi preoccupare

delle convenzioni sociali. Non è un caso infatti che nel delirio dopo il parto, quando rischia di morire, Anna

dica al marito: “in me c’è un’altra, io ne ho paura: lei s’è innamorata di lui, e io volevo odiarti e non potevo

dimenticare quella che c’era prima”.

La passione-Eros modifica la realtà circostante al suo sguardo: le orecchie del marito, invero, erano sempre

state così sporgenti, oppure è lei che improvvisamente, pensando a Vronskij, le trova ripugnanti? Persino

quando rivede il figlio, il suo entusiasmo si spegne e lei è assalita dalla delusione. Tutto ciò che prima

costituiva il suo regno della tranquillità e della serenità, improvvisamente le diventa odioso, insopportabile.

Anna comincia così a cambiare mentre lentamente conosce l’amore: la sua postura si fa più morbida, e il suo

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sorriso e la vitalità nei suoi occhi sono più accesi. Inaspettatamente la sua vita comincia a girare intorno a

Vronskij, che diventa la sua unica ragione di vita; e ancora non è un caso se, dopo che la colpa si è consumata

lei gli dice “io non ho altro all’infuori di te”.

A differenza di Emma, Anna non si esalta della sua nuova condizione di adultera, poiché non ama l’inganno

né la menzogna: prova vergogna per la sua colpa, si sente falsa e ingannatrice, ma la sua passione è troppo

forte, e, mentre per un verso sente orrore per la sua situazione, per l’altro verso scopre una felicità nuova,

quella dell’amore vero, che non aveva mai conosciuto, né avrebbe mai potuto avere col marito Karenin, verso

il quale, contro la sua stessa volontà, sente solo aumentare il proprio disprezzo. Ciò che Anna detesta di più

in suo marito è la sua mancanza di sentimenti che lo pone nel dovere di metterla in guardia, ma non per

gelosia, bensì per il rispetto del decoro sociale. Quando poi scopre il tradimento, Karenin le pone la

condizione inaccettabile di fare come se nulla fosse accaduto: ma lei non può né lasciare Vronskij, né

tantomeno tornare alla vita di prima, la cui aridità ora le si mostra in tutta la sua desolante chiarezza.

Anna in realtà è una figura talmente luminosa, da spingere gli uomini intorno a sé a cambiare, ad andare oltre

i propri limiti: dopotutto anche Vronskij, come Karenin, è un uomo che ama l’ordine e la disciplina, però lei

nel momento in cui rischia la morte, dopo il parto, lo spinge a conoscere la dimensione tragica dell’esistenza.

L’episodio è emblematico: Anna sta delirando, preda della febbre puerperale, ma in quel momento, così

come aveva fatto per Stiva e Dolly, vuole assumere ancora il ruolo di mediatrice, questa volta del perdono di

Karenin, il quale scoprendo finalmente la dimensione dei sentimenti, si riconcilia con i due amanti.

Presentendo la morte, Anna riesce in questo modo nell’intento di pacificare gli uomini della sua vita e di

creare tra loro tre un fragile equilibrio; ma scampata alla morte, non può che essere nuovamente travolta

dall’Eros, e tornare a disprezzare il marito. D’altra parte Karenin, dopo l’abbandono della moglie, tornerà ben

presto ad essere l’uomo mediocre che era in precedenza e Vronskij rinnega il proprio tentativo di suicidio

come un gesto insensato e irrazionale: nonostante l’intervento di Anna un vero cambiamento è impossibile,

ma questo lei lo scoprirà solo molto dopo.

Il problema fondamentale di Anna, è di essersi innamorata dell’uomo sbagliato, e soprattutto non di un

amore qualsiasi, ma di un amore totalizzante, che non lascia scampo. Vronskij non possiede la sua profondità,

e non può sostenere un’esistenza votata esclusivamente alla donna amata: perciò è inevitabile che pian piano

la sua passione si raffreddi. Con tutto ciò nel suo percorso verso la rovina l’eroina di Tolstoj sembra avere

tutte le giustificazioni del caso: non ama suo marito, e se apparentemente ha tutto (posizione sociale,

ricchezza e l’amore del figlio), le manca l’unica cosa che la sua anima desidera, ossia una vita piena; oltre a

questo la società la rinnega senza possibilità di appello, nonostante nella Russia del tempo le relazioni

extraconiugali come la sua fossero all’ordine del giorno.

La sua colpa vera non è di aver tradito il marito, ma di cercare di mantenere vivo un amore di tipo esclusivo.

Anna nella sua ansia di vita ha conosciuto l’assoluto, e non è più disposta a far sì che la sua relazione rientri

nei ranghi di un normale amore di tipo coniugale, cosa che invece cerca di fare Vronskij, il quale vuole

legalizzare la loro unione. Ciò forse spiega il suo ostinato rifiuto al divorzio, rifiuto che a prima vista appare

incomprensibile: Anna infatti vuole mantenere vivo l’amore senza bisogno di vincoli istituzionali come il

matrimonio, che renderebbe la sua relazione un obbligo e non una scelta. L’amore per lei deve reggersi solo

sull’affetto reciproco, senza bisogno di aiuti esterni: infatti nel momento in cui chiede il divorzio e capisce

che il marito probabilmente non lo concederà, sente che la sua relazione con l’amante non è più libera, ed è

invece diventata una costrizione. Da qui trae impulso anche il peggiorare della sua nevrosi, in cui la

sensazione che Vronskij non voglia più stare con lei si unisce alla gelosia. Sembra pertanto ingiusta

l’affermazione di Zazzo, che ritiene Anna un’egocentrica poiché rifiuterebbe il divorzio solo per crogiolarsi

nel suo stato di reietta, che inoltre amerebbe suo figlio solo in quanto sua appendice, e che infine vorrebbe

impedire a Vronskij di uscire dalla sfera del suo controllo per riaffermare se stesso.

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L’inconscio ha un ruolo rilevante nel percorso di Anna. I suoi sogni riflettono le sue paure e i suoi desideri

inconsci, e contribuiscono anche ad impedirle di ragionare lucidamente sulle sue angosce. Un sogno

ricorrente è quello di un contadino con la barba arruffata che lei trova nella sua stanza e che chino rimesta

in un sacco pronunciando delle parole in francese: “il faut le battre le fer, le broyer, le pètrir” (occorre battere

il ferro pestarlo, impastarlo”). Un altro sogno è quello in cui lei vede sé stessa vivere felicemente con Vronskij

e Karenin, entrambi suoi mariti. Questi sogni, apparentemente innocui, sono invece per lei degli incubi, che

le fanno sentire più viva la propria colpa, e assumono il valore di presagi di morte.

Il rapporto tra Anna e il suo amante, che prima di vivere insieme era tanto stretto da raggiungere addirittura

la sfera dell’inconscio (il sogno del contadino passerà infatti a lui con alcune modifiche), dal momento in cui

possono stare insieme, inevitabilmente comincia a deteriorarsi. Anche il periodo in Italia, in cui lei si sente

“imperdonabilmente felice” è già costellato di ombre: Anna è infatti cosciente che Vronskij, il quale ha

rinunciato alla vita militare, in cui era cresciuto e si era sempre trovato a suo agio, è insoddisfatto della sua

nuova vita e si affanna a cercare nuovi stimoli. Anna invece non ha bisogno di altro che di lui e del suo amore:

dopotutto per lui ha perso tutto ciò che aveva.

Anna appare tanto più giustificabile rispetto alla mediocrità di Vronskij, in quanto è lei la vera rinnegata dalla

società: per lui al loro ritorno le porte pian piano si aprono di nuovo, ma non è lo stesso per lei. A ben vedere,

però questo totale rifiuto suona strano. Come già accennato, nel bel mondo russo le relazioni del tipo di Anna

e Vronskij erano piuttosto diffuse e accettate: non solo nella famiglia di Tolstoj c’erano esempi di convivenze

adultere o comunque fuori dal matrimonio, ma anche all’interno dello stesso romanzo diversi personaggi che

condannano inderogabilmente la protagonista non sono affatto esenti da critiche. Tralasciando l’esempio di

Betsy, che rifiuta di ricevere Anna finché questa non ha divorziato, il caso più eclatante è proprio la madre di

Vronskij, che definisce Anna cattiva in tutto e per tutto, una donna perduta, quando lei stessa durante la sua

vita ha avuto diverse relazioni. La totale chiusura verso Anna della madre del suo innamorato si spiega con il

fatto che, consapevolmente o meno, la giovane donna sfida le convenienze sociali: di esse conosce l’ipocrisia,

la falsità e le mette in luce, le smaschera e non le accetta. Lei fa qualcosa che molti altri hanno fatto prima di

lei, ma lo fa a modo suo, e quindi la società, che tutto tollera purché avvenga dentro i propri confini, non può

accettare che vengano infrante le proprie regole.

Anna si trova pertanto in una condizione di completo isolamento, che non le permette di avere nulla al di

fuori del suo amore. Si crea una sorta di corte fittizia, dove regnano il lusso e l’eleganza, in cui cerca di

dimenticare il suo stato, e in cui socchiude gli occhi per scacciare i brutti pensieri. Apparentemente è serena

e gaia, ma ancora una volta i sogni tornano a tormentarla nella notte con tutto ciò che di irrisolto e doloroso

c’è nella sua vita. Per sfuggire agli incubi comincia ad assumere morfina e oppio, che forse, in prosieguo di

tempo contribuiranno ad aumentare l’eccitabilità della sua condizione. In aggiunta non riesce nemmeno ad

amare sua figlia, preferendole invece una bambina non sua, ed è paradossale che lei riversi tutto il suo affetto

sul figlio avuto dal marito e non riesca invece ad averne per la bimba avuta dall’uomo amato. Tuttavia, a ben

guardare ciò è spiegabile: la figlia dopotutto è il simbolo vivente della sua colpa e della sua vergogna, e

inconsciamente lei sente che nulla di buono può e deve venire dal suo rapporto adulterino. Oltretutto la

passione come Eros è esclusiva, non permette l’affetto per un altro oggetto.

In realtà non si può dire di Anna che sia una cattiva madre: dopotutto il suo amore per Serëza è profondo e

sincero, e la consapevolezza della sua perdita è una delle ragioni della sua sofferenza, dolore che però non

condivide con Vronskij, e che egli del resto non potrebbe comprendere. Tra i due la distanza cresce così

rapidamente, causata dalla loro incapacità di comunicare che provoca continue liti e incomprensioni. Anna

ha bisogno d’amore, e al tempo stesso ha bisogno di esistere come persona nella propria autonomia. Tuttavia

il rapporto che si è instaurato con Vronskij, che ha perso lo slancio passionale iniziale, la pone in una

condizione di subordinazione rispetto a lui, laddove lei invece cerca di avere con ogni mezzo una sorta di

simmetria, di parità: vuole la possibilità di autodeterminarsi (“se io potessi essere qualcosa di più dell’amante

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avida sia pure solo di carezze … ma non posso e non voglio essere nient’altro”). Percepisce che la relazione si

sta appiattendo, assumendo sempre più le inquietanti sembianze di un normale matrimonio, simile a quello

con Karenin, in cui la donna ha solo il ruolo di moglie e madre, e in cui l’amore assume un’importanza

secondaria. È ciò che in effetti cerca di ottenere Vronskij, il quale vuole legalizzare la loro relazione e farla

entrare negli schemi della quotidianità, che a quel tempo implicava che il potere era nelle mani dell’uomo

(“non mi assoggetterò a lui, non gli permetterò di trattarmi come un bambino da educare”). Anna sente

l’ingiustizia di fondo di questa situazione, e vi si ribella, in maniera non programmatica, ma istintiva, come

l’azione di respirare. È però combattuta tra questa sua necessità, e il bisogno d’amore, che le fa desiderare

di lasciare le cose come stanno, come vengono. Ogni volta lei tradisce i suoi stessi propositi, ma non riesce a

comunicare ciò che effettivamente vuole: così accusa Vronskij di non amarla, e si infuria per delle sciocchezze.

Finisce così in un circolo vizioso, in cui la tensione emotiva, causata dalla perdita del figlio, dalla vergogna

sociale, e dalla coscienza dell’allontanamento di Vronskij, per cui, si ricordi, ha rinunciato a tutto, cresce a

dismisura, e si unisce a paure, dubbi e soprattutto alla gelosia: diviene una vera e propria psicosi.

Anna è passione, vitalità, ansia di vita e di assoluto, e perciò non può accettare le piccole gioie quotidiane

dell’amore, ma ha bisogno che questo bruci sempre con la stessa divorante intensità, rendendo ogni giorno

fuori dall’ordinario. Per questo motivo si contrappone a Kitty, che invece si omologa al canone istituzionale,

chiudendosi nel protetto ruolo di moglie e madre; si oppone a Dolly, che ha scelto di non lasciare il marito e

di dedicarsi ai figli; ma ancor più si oppone al personaggio di Levin, la cui etica del lavoro si pone in una luce

positiva in contrasto all’oscurità crescente della vita di lei.

La rovina di Anna è inevitabile. Che lei lo voglia o meno la forza della passione è così travolgente, da divenire

insostenibile per qualunque essere: Eros diviene Thanatos e rivela la sua potenza distruttiva. Anna presa da

una sorta di delirio allucinatorio nelle lunghe pagine in cui si lascia trasportare dal tranquillo incedere della

carrozza, vede la realtà circostante intrisa di orrore: tutto è odio e tutti odiano tutti. Si reca alla stazione,

consapevole ora della verità profonda della vita, dominata da un buio a cui non c’è scampo, ma ancora non

ha deciso di buttarsi sotto il treno: come fa notare Milan Kundera, il suo suicidio non è premeditato, ed è

invece il risultato di una decisione improvvisa. Solo quando vede, o crede di vedere, il contadino del suo

incubo, allora e solo allora si ricorda dell’altro uomo, quello che era morto sotto il treno il giorno del suo

primo incontro con Vronskij e che lei stessa aveva percepito come un presagio funesto. Improvvisamente sa

cosa deve fare: il mondo è odio, l’amore assoluto è un’illusione, e la forza della passione rivela il suo lato

distruttivo. Per uscire dal circolo vizioso della vita in cui è precipitata, per liberarsi, di se stessa, e di tutti, si

getta sotto il treno e in quel momento, un istante prima di morire, qualcosa le balena davanti agli occhi, una

consapevolezza che si spegne insieme a lei, e di cui nemmeno Tolstoj conosce il significato.

La storia di Anna sembra essere quella di una donna su cui incombe un destino ineluttabile, che le toglie ogni

vera volontà d’azione, impossessandosi di lei come una forza estranea, che la conduce lentamente ma

inesorabilmente al delirio e che la accompagna per mano fino al binario su cui lei, per sfuggire

all’insostenibilità della sua vita, decide di buttarsi. Ma in questo lei è una donna debole, perché non riesce ad

affrontare fino in fondo le conseguenze che l’amore le impone, o è al contrario una donna forte e coraggiosa

che squarcia il velo della falsità della sua esistenza, che sfida le convenzioni sociali e l’istituzione

matrimoniale, e che vuole essere di più di una semplice moglie e madre? Le opinioni critiche divergono, e

forse, come capita spesso, la verità è in entrambe e in nessuna delle due affermazioni. Tuttavia, supportando

l’ipotesi di un destino fatale e inesorabile, viene da pensare che Anna mostri una forza inaspettata nel

sopportare una forza così soverchiante, e anche che una lotta del genere è totalmente impari: Anna non

poteva vincere né contro la società del suo tempo, né contro la forza dell’Eros. Accettare una passione tale

poteva portare solo alla sconfitta.

In tutto quanto detto finora, sembra emergere un dato fondamentale, ossia la pressoché totale divergenza

di Anna da Emma Bovary. Innanzi tutto Anna è un personaggio tragico, che appartiene alla nobiltà e ha una

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profondità di sentimenti che manca del tutto all’eroina del romanzo flaubertiano. È lucida nel giudicare e

valutare la propria situazione di adultera e di rinnegata dalla società, sulla quale non si fa illusioni. Come le

eroine tragiche, è lei stessa che eccita le proprie passioni, e le esaspera fino al delirio e alla follia. Emma

invece di tragico ha solo la morte: è un personaggio piccolo-borghese che non riesce ad elevarsi dalla sua

mediocre situazione. Secondo Natalino Sapegno appartiene più al mondo della commedia borghese, con un

insolito finale drammatico.

Anna ha un’intima natura morale che le fa disprezzare dissimulazione, segretezza e menzogne. Inoltre, a

differenza di Emma ha una sola relazione, e a Vronskij sacrifica tutta sé stessa. Mentre Emma è superficiale,

egoista, e soprattutto è una pessima madre, Anna di contro è intelligente, buona, e ha un forte attaccamento

per il figlio. Emma è una cattiva lettrice, mentre Anna, anche quando si immerge in un romanzo, subito dopo

emette involontariamente un giudizio critico e se ne distanzia.

Con tutto questo, allora perché porre due donne così apparentemente diverse l’una accanto all’altra? I loro

stessi autori le trattano in modo diverso. Flaubert raramente simpatizza con lei, e lo fa solo nel momento in

cui Emma è presa dalla passione: allora si lascia andare a commenti sulla sua bellezza, ma per il resto la

condanna è senza appello. Tolstoj invece, sebbene ritenga Anna colpevole di aver attentato alla sacralità del

vincolo matrimoniale, non può fare a meno di attribuirle ogni attenuante, facendo sì che il giudizio rimanga

sospeso, delegato ad una presunta entità superiore, che però nel libro è assente. Il momento in cui questo

amore traspare con maggior evidenza è nei diversi ritratti presenti nel libro, a cominciare da quello durante

il ballo, visto attraverso gli occhi di Kitty: indossava un abito nero di velluto, con la scollatura bassa, che

scopriva le sue spalle piene e tornite, come d’avorio antico, e il seno e le braccia rotonde dal minuscolo polso

sottile. […] Kitty era innamorata di lei e non riusciva a immaginarsela che in lilla. Ma ora, vedendola in nero,

sentì che non ne aveva compreso tutto il fascino. […] Neppure l’abito nero con le lussuose trine risaltava su di

lei; era solamente una cornice, e risaltava lei sola, semplice, naturale, elegante, e nel contempo gaia e

animata. Anna possiede un fascino che incanta persino Levin il quale non riesce a distogliere lo sguardo dal

suo ritratto.

Ciò che in realtà accomuna le due donne e rende Anna una creatura à la bovary è la sua illusione anche se ha

una diversa natura da quella di Emma: l’utopia a cui Anna si aggrappa ostinatamente è infatti l’idea di poter

tenere vivo per sempre un amore appassionato e assoluto come quello che aveva preso lei e Vronskij nei

primi tempi. Tuttavia ciò risulta impossibile, e il raffreddamento di Vronskij ne è la prova: ogni relazione,

invero, conosce il momento in cui la passione iniziale si affievolisce. Nessun amore può reggersi solo

sull’attrazione, ha bisogno di basi più solide, fatte di condivisione; e soprattutto nessuno può vivere solo

d’amore. Perciò a modo suo Anna vuole rinnegare la realtà, che in ogni caso inevitabilmente le presenta il

conto, mostrandole l’irrealizzabilità della sua ambizione.

Oltretutto anche nella storia di Anna è presente un libro, in un momento importante: ella non è mai descritta

come una cattiva lettrice, che perde il suo tempo in fantasie su storielle d’amore; ma sul treno verso

Pietroburgo ha tra le mani un romanzo inglese in cui si immedesima per un breve momento, anche se in

realtà “le dispiaceva leggere, ossia seguire il riflesso della vita altrui. Aveva troppa voglia di vivere lei stessa”.

Anche Anna quindi, a modo suo, vuole vivere la vita di un romanzo, e d’altra parte il tipo di amore che esige

dalla sua relazione con Vronskij può esistere solo nell’invenzione di un libro.

Un altro fatto che lega le due donne, oltre ad una somiglianza nell’aspetto fisico (braccia bianche, collo

possente, capelli neri) è che Anna può essere vista come una versione ideale di Emma: è l’eroina tragica da

romanzo che la protagonista francese vorrebbe essere; possiede il lusso che quella desidera; scopre la

passione assoluta da Emma agognata invano tutta la vita; e realizza l’idea di andare in Italia con Vronskij,

come la Bovary aveva sognato di fare con Rodolphe. Condividono anche altri aspetti: entrambe socchiudono

gli occhi, anche se Emma lo fa durante la passione amorosa, mentre Anna lo fa per non vedere ciò che le è

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sgradito; e oltretutto il momento in cui la loro vita subisce una svolta avviene durante un ballo: Emma scopre

il piacere del lusso e della voluttà, Anna l’amore.

Da ultimo, come Flaubert, Tolstoj modella la sua eroina su figure reali, da cui trae diversi spunti. La bellezza

di Anna richiamerebbe così quella di Marija Aleksandrovna Hartung, figlia di Puškin, che lo aveva incantato

per la sua andatura disinvolta e i suoi “riccioletti arabi” (oltretutto nelle prime minute la coppia Karenin si

chiamava Puškin). Dal punto di vista morale pare invece che l’autore si fosse ispirato alla contessa Sofja

Tolstoj, celebre per la sua cultura e intelligenza. Alcune peripezie del romanzo infine sembra che furono

riprese dalle vicende del suo amico Djakov, che dopo aver divorziato aveva contratto un altro matrimonio, e

dalla relazione di Kiselev con la principessa Golitzyn, la quale aveva dato scandalo lasciando il marito.

Karenin: il morto vivente

Il Romanzo di Tolstoj è uno dei casi in cui il marito tradito è ben poco amato dal suo stesso autore. Flaubert

definisce Charles Bovary un imbecille, e certo non è un personaggio che brilli per acume o intelligenza, ma la

sua bontà, il suo amore e la sua devozione per Emma sono assoluti talché è impossibile considerarlo un

portatore eminente “del negativo”. Quando si parla di Karenin invece è il contrario: tutto in lui desta

antipatia, e se c’è un momento in cui è degno di pietà, questo non dura molto.

Il primo ritratto che si ha di lui è nelle parole di Stiva, che incontrando Vronskij alla stazione dove attende

l’arrivo della sorella, esclama: “Aleksèj Aleksandrovič, il mio famoso cognato, di sicuro lo conosci. Tutto il

mondo lo conosce”. Subito dopo aggiunge: “sì, è un uomo eccezionale; un po’ conservatore, ma un’ottima

persona”. Questo ritratto positivo verrà smentito nel corso del romanzo, e una prima avvisaglia che egli non

è poi una persona così eccezionale emerge già allorché Anna lo rivedrà pochi giorni dopo alla stazione di

Pietroburgo: “-Ah, Dio mio! Perché gli sono venute quelle orecchie?- pensò, guardando la sua figura fredda

e rappresentativa. […] Scorgendola egli le venne incontro, atteggiando le labbra al sorriso ironico che gli era

consueto e guardando verso di lei con i grandi occhi stanchi”. È pur vero che la repulsione di Anna è

riconducibile all’attrazione per Vronskij, molto più giovane e piacente; tuttavia le parole dello stesso Karenin

gettano su di lui una luce fredda: è un uomo che ironizza sui sentimenti, che vede ogni manifestazione

d’affetto come qualcosa di sciocco, di cui ridere: “-sì, come vedi, un marito affettuoso, affettuoso come al

secondo anno di matrimonio, bruciava dal desiderio di vederti- disse egli con la sua voce lenta e sottile e con

il tono che adoperava quasi sempre con lei, un tono di irrisione verso chi avesse parlato così per davvero”.

Subito dopo, alla richiesta di notizie su suo figlio, replica: “e questa è tutta la ricompensa […] per il mio

ardore? Sta bene, sta bene …”. Poco più avanti inoltre, commenta i giorni trascorsi da solo dicendo “sì, la mia

solitudine è finita. Non puoi credere come sia seccante (egli marcò la parola “seccante”) pranzare da soli”:

un commento nel quale l’importanza di Anna come persona e come moglie sembra essere quella che

potrebbe avere un oggetto decorativo. L’assenza di Anna non genera dolore, come si potrebbe pensare, ma

è solo un fastidio, una seccatura in più.

Karenin risulta tanto più sgradevole se lo si paragona alla figura di Anna, la cui vitalità, prima sovrabbondante

negli occhi di lei, in presenza del marito involontariamente si spegne. Anche in confronto a Vronskij, il

contrasto gioca a suo sfavore: entrambi hanno un simile ideale di vita, ciò nondimeno il giovane conte è

elegante, mondano, amabile, in salute; insomma una figura tutta umana, là dove al contrario Karenin di

umano sembra avere ben poco. In effetti non sarebbe difficile immaginarlo come se fosse sempre stato

vecchio, e anche la sua giovinezza, allorché viene raccontata, ha qualcosa di grigio e incolore: Karenin è un

orfano che durante la propria vita non è riuscito a coltivare amicizie, e che ha trovato nel proprio lavoro di

funzionario governativo il suo unico scopo, la sua unica ragion d’essere. Si capisce fin da subito che il suo non

è stato un matrimonio d’amore, anche se più oltre verrà spiegato che la decisione si sposarsi è stata presa a

causa delle pressioni ricattatorie di una zia di Anna, che lo accusa di averla già compromessa. Karenin non ha

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scelta: o sposarla, o perdere il proprio posto. Così la divergenza rispetto al matrimonio di Charles diviene

palese: questi infatti ama profondamente Emma, e la sua volontà di unirsi a lei nasce tutta dalla spontaneità

dei suoi sentimenti.

A ben guardare però, i due personaggi hanno qualcosa in comune: il loro modo di chiamare a letto la propria

moglie è simile, visto che Charles dice “vieni Emma, è ora”, mentre Karenin dichiara “è ora, è ora”. Tuttavia

anche qui va sottolineata una differenza: le maniere comuni del primo infatti, contrastano con la pedanteria

del secondo.

Il marito di Anna è stato definito, con espressione che ha avuto credito, “un sepolcro imbiancato”. Invero,

come già accennato, Karenin sembra avere ben poco di vivo: è un “concentrato di insensibilità, ipocrisia e

pavidità”, che fa del ruolo di funzionario l’abito della propria vita. È un uomo che si è creato un mondo fittizio

fatto di una ritualità puntuale e maniacale, quasi paranoica: è il perfetto depositario dell’ordine e della

sobrietà; il tutore del represso. Alcuni studiosi lo descrivono come il regnante di un mondo artefatto,

perfettamente chiuso e preordinato, in cui non c’è spazio per i sentimenti: è come una macchina, che non

riuscendo a comprendere ed analizzare la vita nella sua parte più irrazionale, si finge morto per non esserne

travolto. Anna si suicida buttandosi sotto un treno, ma a ben guardare anche la scelta di vita del marito ha

qualcosa di attinente ad un suicidio, perché egli di fatto sceglie di non-vivere.

Il suo modo di pensare, parlare, vivere, si conforma a quello di una pratica burocratica, che va analizzata

schematicamente, punto per punto, e categorizzata. È capace di accendersi solo davanti a ciò che è

inanimato, come una pratica appunto (“il viso di Aleksèj Aleksandrovič si colorò di animazione mentre

scriveva rapidamente, come un appunto per sé, lo schema di queste idee”). Ciò è perfettamente visibile nel

suo modo di rapportarsi al proprio dramma familiare: scaccia via il dolore, che pure deve provare, e usa degli

stereotipi per far rientrare la sua situazione all’interno della normalità. Quando mette in guardia Anna contro

il tradimento non lo fa per gelosia, egli non sa nemmeno cosa sia, ma per tutelare le convenienze, per lui

assai più importanti del fatto che Anna possa amare un altro che non sia lui: i problemi dei suoi sentimenti,

di ciò che è accaduto o può accadere nella sua anima non sono affar mio, sono affari della sua coscienza, di

pertinenza della religione, […] pertanto […] il mio dovere invece si definisce in modo chiaro. Come capo della

famiglia, io sono la persona obbligata a guidarla, e perciò , in parte, una persona che risponde; io devo indicare

il pericolo che vedo, mettere in guardia e persino impiegare l’autorità. Io devo parlarle. Quando poi Anna gli

confessa il suo tradimento Karenin assume “la solenne immobilità di un morto”. Le sue riflessioni risaltano

per la loro incredibile freddezza analitica: “ho sbagliando legando la mia vita a lei; ma nel mio errore non c’è

nulla di cattivo, e perciò io non posso essere infelice. Il colpevole non sono io, […] ma lei. Ma lei non ha nulla

a che fare con me. Per me non esiste. […] Io non posso essere infelice per il fatto che una donna spregevole

ha commesso un crimine; io devo soltanto trovare la via d’uscita migliore dalla penosa situazione in cui lei mi

mette”. Karenin di fatto razionalizza ciò che per definizione non è razionalizzabile, come il sentimento del

dolore, e si concentra su questioni pratiche: per lui è più importante evitare uno scandalo. Si consola col fatto

di non essere il primo né l’ultimo marito tradito, e si pone degli esempi, partendo addirittura da Menelao,

fino a giungere ai casi più recenti avvenuti nell’alta società. Considera le soluzioni possibili: la prima, ossia il

duello, viene scartata con una lunga digressione ipocrita per nascondere il fatto che in realtà trema alla sola

idea di una pistola puntata contro di lui. La seconda, il divorzio, viene anch’essa messa da parte per il clamore

che sicuramente avrebbe provocato e che lo avrebbe posto in cattiva luce e reso vulnerabile nella sua

posizione di funzionario. “In nome della religione”, dunque, decide, inverosimilmente, di lasciare tutto com’è:

purché la cosa non si venga a sapere, la loro vita deve tornare alla stessa tranquilla serenità di prima. Karenin

cerca inutilmente di normalizzare una situazione che di normale non ha nulla.

Naturalmente egli non può sentirsi colpevole: d’altronde è sua moglie ad averlo tradito, e a lui non balena

nemmeno per un istante l’idea di ciò che egli le ha tolto per tutti quegli anni: l’amore e l’affetto. Anche come

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padre fa una povera figura: tratta il figlio con la stessa distaccata ironia che usa verso sua moglie, che crea

nel bambino un timore istintivo verso un padre incapace di mostrare il benché minimo gesto di tenerezza.

Karenin è un miope, incapace di vedere la rete dei sentimenti intorno a lui: non capisce la natura dell’amore

tra Anna e Vronskij, e non si accorge dei segnali di cambiamento che avvengono in sua moglie, palesi a tutti

tranne che a lui. Improvvisamente, quando cerca di parlarle, si accorge che la porta tra loro è chiusa; ciò che

però non ha mai compreso, è che l’anima più profonda di sua moglie gli è sempre stata inaccessibile, e che

solo ora che ella ha conosciuto l’amore questa è salita in superficie rendendogliela quasi estranea (“Anna,

ma sei tu?” dice non a caso quando lei mostra fastidio nel sentirlo scrocchiare le dita).

Che lo voglia o meno, comunque, è Anna stessa che lo costringe suo malgrado a penetrare e a conoscere la

sfera dei sentimenti: sul suo letto di morte, infatti, Karenin si sente invaso per la prima volta in vita sua

dall’amore e dal perdono, che in quel momento lo rendono una persona finalmente viva e luminosa,

superiore allo stesso Vronskij, che umiliato nel suo orgoglio da tanta magnanimità non può che andarsene e

prendersela con sé stesso tentando il suicidio. Karenin perdona tutti, e incredibilmente, comincia perfino ad

occuparsi della bambina non sua, verso cui inizia a provare un tenero attaccamento. Tuttavia questo suo

cambiamento è di breve durata: nonostante il suo slancio cristiano, si ritrova ben presto solo, e a questo

punto non può nulla contro il dolore che lo avvolge: non riesce a capacitarsi di come, dopo tutto quanto è

accaduto, egli si ritrovi abbandonato, deriso e disprezzato, e soprattutto non è in grado di conciliare il suo

slancio d’amore e il suo perdono con la sofferenza che gliene è derivata. Perduta ogni certezza non gli resta

che dedicarsi nuovamente alla sua carriera, che tuttavia, senza che lui se ne renda nemmeno conto, si è

arrestata: Karenin diventa ridicolo, poiché è ormai un uomo superfluo, inutile, schernito davanti ai suoi stessi

occhi, ma che non si accorge che la sua influenza è decaduta.

Per sfuggire al dolore non gli resta che rifugiarsi in un nuovo mondo artefatto, divenendo una sorta di

burattino nelle mani della contessa Lidja Ivànovna. Questa lo avvolge in una religiosità mistica, bigotta e

ipocrita che ben presto diventerà grottesca e ripugnante, come Stiva avrà occasione di sperimentare

direttamente nel suo incontro con i due e Jules Landau, il quale molto probabilmente non è un vero mistico

ma è solo un imbroglione.

Paradossalmente Karenin, che aveva cercato inizialmente la vendetta con mezzi sottili, volendo impedire che

Anna e Vronskij fossero felici insieme, e togliendo ad Anna il figlio tanto amato, la ottiene con la morte di sua

moglie, che accomoda tutto e lo ristabilisce nella posizione di vincitore (tra l’altro otterrà che la figlia non sua

cresca con lui). È da notare infine che il suo personaggio scompare dalla scena diverso tempo prima della fine

del romanzo, per riapparire solo indirettamente attraverso alcuni accenni fatti da altri: come a sottolineare

che comunque la sua importanza non è più rilevante.

Il narratore: simmetria e contrappunto

Ciò che emerge immediatamente leggendo Anna Karenina è la sua complessità. Laddove Flaubert aveva

concentrato la propria attenzione sul personaggio di Emma, configurandolo come il fulcro centrale intorno a

cui ruotava tutta la storia, Tolstoj invece non dedica attenzione soltanto alla sua eroina femminile, ma le

affianca anche la narrazione di altre storie. In questo modo costruisce un romanzo di tipo polifonico, nel

quale diverse voci si intrecciano, ognuna portatrice della propria verità, senza però che una prevalga

sull’altra, e nel quale il narratore si configura come un occhio che segue i vari personaggi, dei quali nessuno

risulta essere totalmente positivo o negativo.

Il mondo di Tolstoj è pertanto un mondo in cui non ci sono più vere certezze, dove il Dio menzionato

nell’epigrafe è in realtà assente, e dove Anna viene condannata, dalla società e dal suo stesso autore, che

pure non riesce a resistere al suo fascino, solo in nome di un canone di regole e valori ormai obsoleti. L’unica

forza che sembra dominare dall’alto la vita dei personaggi, è una sorta di determinismo dell’Eros, una forza

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assoluta che muove la vita della protagonista verso la rovina, che le toglie ogni possibilità di deliberazione,

come se fosse soggetta ad un destino ineluttabile, inevitabile.

In realtà non si può dire che Tolstoj condividesse moralmente le scelte di Anna, però nel romanzo si avverte

che la voce della donna adultera possiede essa pure il diritto di essere ascoltata, malgrado la donna sia

colpevole.

Il narratore del romanzo quindi non assomiglia a quello flaubertiano, che spesso, a discapito dell’intento di

fare un romanzo “che sembri essersi fatto da sé”, interviene con commenti e sentenze: al contrario il

narratore di Anna Karenina è semplicemente un occhio, che segue e registra, che dà la stessa rilevanza al

nastro di un abito quanto alla morte tragica di un personaggio: un occhio, che mostra la realtà in tutta la sua

complessità. A differenza di Flaubert oltretutto, che si caratterizza per un uso continuo dell’imperfetto che

tende ad appiattire ogni momento in una lunga serie di abitudini sempre uguali, Tolstoj invece dà valore ad

un istante per il suo valore in sé di diversità rispetto a tutti gli altri. Inoltre, probabilmente per alleggerire una

storia la cui complessità rischiava di creare eccessiva dispersione, Tolstoj non indugia in descrizioni

paesaggistiche o in resoconti storici sul passato dei personaggi, ma dice di loro solo ciò che è essenziale a

definirlo.

Questo narratore non deve però essere confuso con un narratore onnisciente, poiché è una voce che non sa

tutto, e gli esempi più evidenti sono rilevabili nelle morti di Nickolaj e di Anna, dove entrambi nel momento

della fine vedono come una luce che illumina per un attimo le loro vite donando loro una consapevolezza che

appartiene soltanto a loro, una rivelazione che né Tolstoj, né la voce narrante, sanno cosa sia: di Anna infatti

viene detto che “la candela alla cui luce aveva letto un libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male,

avvampò di una luce più vivida che mai, le illuminò tutto quello che prima era nell’oscurità, crepitò, cominciò

ad offuscarsi e si spense per sempre”.

Una delle maggiori novità del romanzo è l’utilizzo del monologo interiore, che qualificandosi come un vero e

proprio flusso di coscienza (ancora prima di Proust e dell’uso massiccio che ne farà nella sua opera), accosta

tra loro i pensieri del personaggio, così come vengono, insieme alle percezioni sul mondo esterno. Esemplari

a tal proposito, naturalmente, sono le pagine in cui Anna, prima della decisione di suicidarsi, osserva dal

carrozzino le vie e il movimento delle altre persone, mentre pensa al suo rapporto con Vronskij: “-ufficio e

deposito. Dentista. Sì, dirò tutto a Dolly. A lei non piace Vronskij. Proverò vergogna, dolore, ma le dirò tutto.

Lei mi vuole bene e io seguirò il suo consiglio. Non mi assoggetterò a lui, non gli permetterò di trattarmi come

un bambino da educare. Filippov: ciambelle … Dicono che mandi la pasta a Pietroburgo. L’acqua di Mosca è

così buona”.

Uno dei pochissimi commenti in cui la voce narrante si fa più visibile è la frase iniziale: “tutte le famiglie felici

sono simili tra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”. Il fatto che questa sentenza sia posta in una

posizione così rilevante, assume un valore particolare: la felicità livella, mentre ogni infelicità è diversa a

modo suo da tutte le altre. Nel romanzo non è un caso che le cosiddette “famiglie felici” siano appena

accennate: l’attenzione infatti è tutta per le altre: quella di Anna, di suo fratello Stiva, e di Levin, che sebbene

possa apparire una famiglia felice, in realtà presenta anch’essa le sue difficoltà e le sue ombre. Per Tolstoj

non è importante solo la famiglia formata da padre, madre e figli, ma tutto l’insieme dei legami familiari: in

questo modo coloro che nella loro vita non hanno avuto questo supporto incontrano maggiori difficoltà nel

formare un nucleo proprio, e spesso ciò che creano è fragile e destinato al fallimento, e invero i personaggi

delle cosiddette “famiglie infelici” sono tutti orfani: Levin, che associa idealmente l’amore al matrimonio e

l’idea di moglie a quella di madre; Anna, che tradisce il marito; Stiva, donnaiolo impenitente; Karenin che è

cresciuto all’ombra protettiva del fratello e di uno zio. L’unico escluso è Vronskij che tuttavia essendo stato

educato nell’ambiente militare, e con una madre dalla moralità discutibile, non può immaginare una vita

familiare, e prima di incontrare Anna, nemmeno la desidera. Alla luce di tutto ciò, per Tolstoj risulta essere

scontato che il matrimonio tra Anna e Karenin sia destinato al fallimento, mentre i matrimoni di Levin e Stiva

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possono reggersi solo sulle spalle delle rispettive mogli, Kitty e Dolly, che hanno alle spalle una famiglia

compatta e onorevole: gli Ščerbackij.

Come s’è detto, la narrazione è costruita intorno alle storie di diversi personaggi, anche se quella di Anna

risulta essere la più importante (come è visibile dal titolo e dal fatto che dopo la sua morte sostanzialmente

il libro si conclude). Ciò che stupisce in un romanzo così articolato è che la narrazione non si perda in un

accostamento disordinato, ma che invece segua un percorso cronologico che vede alternarsi in maniera

perfettamente equilibrata i vari intrecci, i quali in questo modo possono completarsi soltanto nel loro

confronto con gli altri. Vi è pertanto un uso perfettamente equilibrato della simmetria e del contrappunto,

per cui vi sono due famiglie, di cui una si crea (Levin e Kitty) mentre l’altra va sfasciandosi (Anna e Karenin).

Si trovano poi diversi tipi di amore: quello tra Dolly e Stiva rispetta norme e ruoli sociali, ed è basato sugli

affetti, le convenienze e i compromessi; quello tra Kitty e Levin vede invece l’amore come una scelta di

responsabilità, che si costruisce giorno per giorno; infine quello tra Anna e Vronskij è quello tra un uomo e

una donna assoluti in cui il sentimento nasce a prescindere da ogni volontà, al di fuori da ogni norma sociale

e morale. L’opposizione più rilevante però risulta comunque quella tra le ultime due coppie, in cui

l’appartenersi tenero e fragile di due anime unito alla felicità delle piccole gioie quotidiane si contrappone

alla passione travolgente dell’Eros e all’infelicità tragica. Le due storie assumono anche una struttura

contrastante: quella tra Anna e Vronskij è un sistema chiuso che si apre alla stazione di Mosca e si chiude

circolarmente a quella di Obiralovka: è impregnata si simboli che danno la sensazione di un destino che li

governa dall’alto. Quella di Levin e Kitty è invece un libro aperto, che si apre in un punto qualsiasi, al loro

incontro sulla pista di pattinaggio, e si chiude in un altro punto qualsiasi, a cui ne seguiranno molti altri dello

stesso tipo: non vi sono simboli, e il fato sembra disinteressarsi di loro.

Le simmetrie però non si limitano a questo. Ve ne sono alcune più immediatamente visibili, come la felicità

di Anna e Vronskij in Italia parallela a quella dei primi tempi del matrimonio di Levin e Kitty. Successivamente

invece la felicità conquistata con fatica dalla seconda coppia si contrappone alla crescente infelicità che

domina il rapporto della prima. Direttamente vengono poi messe a confronto lo sfarzo di Anna con la povertà

di Dolly, e la stessa ricchezza di Anna contrasta col suo stato civile di reietta e adultera. Meno evidente può

essere invece il confronto tra la gelosia di Levin, pronto a scaldarsi con ogni uomo che sia gentile con sua

moglie, e la non-gelosia di Karenin, assai più preoccupato delle convenienze, che reputa tale sentimento

disonorevole per sé e sua moglie. Ancora, la dichiarazione di Karenin a Dolly sulla fine del suo matrimonio

contrasta con la contemporanea nascita dell’amore tra Levin e Kitty. Un ultimo fatto rilevabile, è poi una

sorta di comune indecisione che domina tutta la prima parte del romanzo: Levin è indeciso se dichiararsi o

meno; Stiva non sa scegliere tra sua moglie e la governante; Dolly non è sicura se lasciare o perdonare il

marito; Kitty è incerta se abbia fatto bene o meno a rifiutare Levin.

Con tutto questo, il personaggio di Levin, che assume diverse caratteristiche del suo autore, arrivando quasi

ad essere una maschera con cui Tolstoj inserisce nel romanzo il suo punto di vista su diverse questioni, si

oppone però solo in apparenza ad Anna come un modello positivo, poiché entrambi alla fine subiscono uno

scacco definitivo: Anna certo si uccide, mentre Levin continua a vivere, nondimeno nemmeno lui riuscirà a

trovare una risposta definitiva ai suoi dubbi, e la tentazione del suicidio aleggerà sempre nella sua mente.

Il confronto tra le diverse voci del romanzo in effetti fa sì che infine la voce narrante non consenta di avere

risposte certe, o una morale precisa da seguire: il lettore viene lasciato libero di giudicare da sé e di trovare

da solo le soluzioni che cerca.

Con questo gioco di contrapposizioni e rimandi la struttura del romanzo risulta incredibilmente unitaria e

compatta: anche le due storie che corrono parallelamente, e sono apparentemente distaccate l’una dall’altra,

hanno il loro punto d’incontro nel personaggio di Oblonskij, dal momento che è sia fratello di Anna, che amico

e futuro cognato di Levin. Oltre a questo il suo personaggio incarna anche il ruolo di guida nel bel mondo di

Mosca e di Pietroburgo: il suo assumere e cambiare le proprie idee secondo quelle della maggioranza e il suo

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mantenersi sempre su un piano di allegra giovialità lo rendono il miglior rappresentante della vanità e della

vacuità del suo mondo, nel quale ovviamente si trova perfettamente a suo agio.

Così come Flaubert in Emma Bovary, Tolstoj sparge diversi simboli nel romanzo, alcuni dei quali utilizzati dallo

stesso autore francese ma con significati diversi. Se anche qui l’azzurro indica le illusioni (“-oh! Com’è bella

la vostra età,- continuò Anna. –Ricordo e conosco quella nebbia azzurra […] quella nebbia che ricopre tutto

nell’età beata in cui sta appena terminando l’infanzia […]”), e il sigaro si associa anch’esso al lusso e alla

sensualità (perfino Anna si metterà a fumare verso la fine del romanzo, quando il suo rapporto con Vronskij

è già verso la rovina), il verde e la nebbia, che in Emma si ricollegavano al suo decadimento morale, qui

legandosi a Levin, testimoniano la sua unione con la natura. Altri simboli si configurano poi nelle orecchie di

Karenin, emblema della repulsione di Anna per lui, e i denti di Vronskij, che caratterizzano la sua figura

giovane sana (non a caso dopo la morte di Anna, sul treno che deve portarlo al fronte, egli è un rottame

afflitto dal mal di denti). L’inconciliabilità tra l’amore per Vronskij e per il figlio Serëza emerge invece nella

scena in cui Anna, dopo aver visto di nascosto il bambino, per togliere una sua foto dalla cornice di un album

ne usa un’altra che poi rivelerà ritrarre proprio l’amante: come dire che l’amore per uno esclude quello per

l’altro. Un ulteriore simbolo può essere anche rintracciato nella lettera “A”, che probabilmente non a caso, è

l’iniziale del nome di tutti i personaggi che ruotano intorno al personaggio di Anna: Aleksej Aleksandrovič

Karenin, Aleksej Vronskij, Annuška, domestica di Anna, e Anna la figlia nata dalla sua relazione. Oltretutto la

lettera “A” potrebbe far pensare, ad un lettore più esperto, alla lettera scarlatta che la protagonista Hester

Prynne dell’omonimo romanzo di Hawtorne, era costretta a portare sul petto come simbolo della sua colpa:

l’adulterio. Infine però è il treno a caratterizzarsi come simbolo per eccellenza, presente in tutti i momenti

rilevanti della narrazione: l’incontro dei due amanti, il suicidio di Anna, la partenza di Vronskij. Il treno è così

il mezzo del fato che conduce Anna verso la sua fine. Allo stesso modo, anche la carrozza ha uguale

importanza, essendo presente nel momento della confessione di Anna al marito e nel lungo monologo

interiore finale.

Alcuni fatti, o alcuni oggetti, nel loro valore simbolico ricorrono nel libro più volte e si costituiscono come

delle prefigurazioni o premonizioni. Il sogno del contadino che rimesta nel sacco si configura infatti come un

presagio di morte, e l’incidente alla stazione, quando Anna incontra Vronskij per la prima volta preannuncia

la morte dell’eroina. La stessa storia del tradimento di Stiva, con cui il romanzo ha inizio, si costituisce come

un anticipazione di ciò che avverrà nel matrimonio della stessa Anna, sebbene con ruoli rovesciati e con esito

differente. Il tormento interiore di Anna poi, durante il ritorno a Pietroburgo, anticipa il monologo interiore

del finale, prima che lei si suicidi. La scena della corsa di cavalli, in cui muore Frou-Frou, a causa di un errore

di Vronskij, precorre invece ciò che avverrà nel rapporto con Anna: egli sarà la causa della rovina di lei, così

come lo è stato per il suo animale, a cui tra l’altro si rivolgeva come se fosse una donna.

Tutte queste anticipazioni si legano alla predestinazione di Anna, alla sua inevitabile caduta, e fanno sì che

su tutto il libro aleggi come un’ombra la presenza della morte, che oltretutto aveva tormentato l’autore

durante la stessa stesura del romanzo: non è un caso forse che in tutto il libro ci sia un solo capitolo con un

titolo, e che questo sia appunto “la morte”. Tra l’altro questa parte, nella quale si narra della morte di

Nickolaj, fratello di Levin, preannuncia la morte della stessa protagonista.

Anche i gesti hanno per Tolstoj un’importanza non trascurabile, dato che hanno il merito di illuminare sulla

psicologia del personaggio, così come il socchiudere gli occhi di Anna testimonia il suo disagio profondo o lo

scrocchiare delle dita di Karenin lo caratterizza come un uomo esente dalla sfera dei sentimenti, che compie

i gesti meccanici che farebbe una macchina. Il gesto, anzi, assume una rilevanza particolare in relazione

all’importanza che il dialogo assume per l’autore, che ritiene che tutti i personaggi mentano, e che ciò che

invece vogliono esprimere davvero risieda nel non-detto. La comunicazione tra i vari personaggi così, ed in

particolare quella tra Anna e Vronskij, si caratterizza come una comunicazione disfunzionale, una non-

comunicazione, in quanto Anna usa un linguaggio non attinente alla situazione (come accusare Vronskij di

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non amarla dopo che questi le ha detto che devono rimandare la partenza) per esprimere il suo profondo

disagio. Ciò che ne emerge è che Anna non riesce a tradurre nelle parole giuste il suo bisogno d’amore e di

autonomia, dal momento che Vronskij, che ha il potere nella conversazione, o elude i segnali che gli indicano

che il vero messaggio è un altro (“No,non mi sono annoiata e già da un pezzo ho imparato a non annoiarmi”)

oppure finge un apparente interesse con frasi tipo “dimmi, che cosa devo fare perché tu stia tranquilla? Sono

pronto a fare qualunque cosa perché tu sia felice”. In questo modo viene evidenziata l’incomunicabilità delle

loro dispute che come ha notato Marina Mizzau seguono tutte lo stesso schema alla fine del quale Anna

ottiene una parziale resa dell’amante senza che però sia riuscita davvero ad esprimere il suo disagio con le

parole giuste, e senza che i nodi di crisi del loro rapporto siano stati sciolti.

Il simbolismo di cui si è parlato è in realtà molto più pronunciato che in Emma Bovary. Tuttavia tra i due

romanzi, apparentemente così distanti, occorrono alcune similitudini d’intreccio: in entrambi infatti una

donna giovane e bella è sposata con un uomo mediocre che non la rende felice; entrambe le donne cercano

quindi la felicità in rapporti extraconiugali che divengono prevalentemente di tipo sensuale; le madri dei loro

amanti poi (nel caso specifico quella di Léon e quella di Vronskij) disapprovano le loro relazioni poiché

compromettono la loro carriera; inoltre lo stesso suicidio delle due protagoniste avviene non

premeditatamente ma in un momento di frenesia, anche se per ragioni diverse. Il declino dell’amore tra Anna

e Vronskij oltretutto richiama quello tra Emma e Léon, mentre invece la repulsione di Anna per le orecchie

di Karenin, si rispecchia in quella di Emma per il rumore che Charles produce mentre mangia. Infine in

entrambi vi è una scena importante ambientata in un teatro, guardato da entrambi gli autori come luogo di

ritrovo mondano in cui emergono la vanità, la falsità e l’ipocrisia della società.