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Analisi di alcuni passi del Cantico dei Cantici Giulio Pinzone Vecchio – Sipontina Debora Rinaldi Ct. 2,16 Ἀδελφιδός μου μοί, κἀγὼ αὐτῷ, ποιμαίνων ἐν τοῖς κρίνοις. Il mio amato è a me, e io sono a lui, (lui) che pascola fra fra i gigli. Il mio amato è mio, e io sono sua, (il mio amato) che pascola fra i gigli. Ct. 6,3 ἐγὼ τῷ ἀδελφιδῷ μου, καὶ ἀδελφιδός μου μοὶ ποιμαίνων ἐν τοῖς κρίνοις. Io (sono) al mio amato, e il mio amato è a me, (lui) che pascola fra i gigli. Io appartengo al mio amato, e il mio amato a me, (lui) che pascola fra i gigli. Ct. 8,6 ss (6) Θές με ὡς σφραγῖδα ἐπὶ τὴν καρδίαν σου, ὡς σφραγῖδα ἐπὶ τὸν βραχίονά σου· ὅτι κραταιὰ ὡς θάνατος ἀγάπη, σκληρὸς ὡς ᾅδης ζῆλος· περίπτερα αὐτῆς περίπτερα πυρός, φλόγες αὐτῆς· (7) ὕδωρ πολὺ οὐ δυνήσεται σβέσαι τὴν ἀγάπην, καὶ ποταμοὶ οὐ συγκλύσουσιν αὐτήν· ἐὰν δῷ ἀνὴρ τὸν πάντα βίον αὐτοῦ ἐν τῇ ἀγάπῃ, ἐξουδενώσει ἐξουδενώσουσιν αὐτόν. Ponimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio: perché (davvero) forte come la morte è l’amore, dura come il regno dei morti è la gelosia/passione*: scintille di lui, scintille di fuoco sono le fiamme di lui: le grandi acque non potranno spegnere l’amore, e i fiumi non lo travolgeranno: qualora un uomo darà ogni suo sostentamento in cambio dell’amore, con disprezzo lo disprezzeranno… *la traduzione della CEI è “passione tenace”, Angelini traduce “gelosia bruciante”, Ceronetti “desiderio spietato”. *Nella traduzione greca dei Settanta (φλόγες) e nella Vulgata (flammarum) le fiamme non presentano alcuna accezione divina. Nell’ebraico, alcuni vedono una struttura che esprime semplicemente un superlativo, altri riconoscono una menzione (se così fosse sarebbe l’unica nel Ct) di Jahvé. esh shalhebetya/ shalhevetyah = espressione ebraica che viene interpretata come “fiamma di Dio”. Seguendo questa interpretazione, Ceronetti traduce dall’ebraico “una scheggia di Dio infuocata”. La traduzione della CEI è “una fiamma del Signore”.

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Analisi di alcuni passi del Cantico dei Cantici

Giulio Pinzone Vecchio – Sipontina Debora Rinaldi Ct. 2,16 Ἀδελφιδός µου ἐµοί, κἀγὼ αὐτῷ, ὁ ποιµαίνων ἐν τοῖς κρίνοις. Il mio amato è a me, e io sono a lui, (lui) che pascola fra fra i gigli. Il mio amato è mio, e io sono sua, (il mio amato) che pascola fra i gigli. Ct. 6,3 ἐγὼ τῷ ἀδελφιδῷ µου, καὶ ἀδελφιδός µου ἐµοὶ ὁ ποιµαίνων ἐν τοῖς κρίνοις. Io (sono) al mio amato, e il mio amato è a me, (lui) che pascola fra i gigli. Io appartengo al mio amato, e il mio amato a me, (lui) che pascola fra i gigli. Ct. 8,6 ss (6) Θές µε ὡς σφραγῖδα ἐπὶ τὴν καρδίαν σου, ὡς σφραγῖδα ἐπὶ τὸν βραχίονά σου· ὅτι κραταιὰ ὡς θάνατος ἀγάπη, σκληρὸς ὡς ᾅδης ζῆλος· περίπτερα αὐτῆς περίπτερα πυρός, φλόγες αὐτῆς· (7) ὕδωρ πολὺ οὐ δυνήσεται σβέσαι τὴν ἀγάπην, καὶ ποταµοὶ οὐ συγκλύσουσιν αὐτήν· ἐὰν δῷ ἀνὴρ τὸν πάντα βίον αὐτοῦ ἐν τῇ ἀγάπῃ, ἐξουδενώσει ἐξουδενώσουσιν αὐτόν. Ponimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio: perché (davvero) forte come la morte è l’amore, dura come il regno dei morti è la gelosia/passione*: scintille di lui, scintille di fuoco sono le fiamme di lui: le grandi acque non potranno spegnere l’amore, e i fiumi non lo travolgeranno: qualora un uomo darà ogni suo sostentamento in cambio dell’amore, con disprezzo lo disprezzeranno… *la traduzione della CEI è “passione tenace”, Angelini traduce “gelosia bruciante”, Ceronetti “desiderio spietato”. *Nella traduzione greca dei Settanta (φλόγες) e nella Vulgata (flammarum) le fiamme non presentano alcuna accezione divina. Nell’ebraico, alcuni vedono una struttura che esprime semplicemente un superlativo, altri riconoscono una menzione (se così fosse sarebbe l’unica nel Ct) di Jahvé. ꞌesh shalhebetya/ shalhevetyah = espressione ebraica che viene interpretata come “fiamma di Dio”. Seguendo questa interpretazione, Ceronetti traduce dall’ebraico “una scheggia di Dio infuocata”. La traduzione della CEI è “una fiamma del Signore”.

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Analisi di alcuni termini: Ἀδελφιδός viene inserito nei nomina deminutiva (sostantivi alterati con valore diminutivo o vezzeggiativo rispetto al grado positivo), derivato dal sostantivo ἀδελφός. Il termine viene ricondotto ad ἀδελφιδέος, contratto spesso in ἀδελφιδοῦς, con il significato di “nipote”, che ritroviamo anche in Alcm.56A, in Erodoto con il significato di “nipote” Hdt.1.65 (figlio del fratello o figlio della sorella). Troviamo ἀδελφιδός con il significato di “amato” solamente nel nostro Ct. In alcuni punti persino con il significato di “fratellino”, affettivo. È composto da ἀ- copulativo + un termine che designa il seno della madre. La parola significa quindi “uscito dallo stesso seno”. Non può derivare da un ἀδελφεϝος. Wackernagel pensa al suffisso -eio- che normalmente serve per gli aggettivi di materia. Si è pensato anche ad un ἀ-δελφεσ- costituito dal sostantivo neutro *δέλφος. L’attico ἀδελφός sembra un arrangiamento di ἀδελφέος. Questo termine è stato creato in greco in sostituzione di un antico φρατήρ, che invece è rimasto in latino, e in greco tendeva a indicare dentro una grande famiglia con legami di sangue/sacri. Ἀδελφιδός µου con il pronome personale atono di I pers. sing. al genitivo anziché l’aggettivo possessivo è un uso tipicamente della koinè, in particolare della koinè medio-bassa. Il genitivo e gli altri casi di questo pronome si formano da un tema diverso rispetto a quello del nominativo (*eghom), cioè il tema dell’accusativo ἐµέ (con ε protetico), che nella forma atona è µε (cfr. lat. me-d). Su questo tema, e formato con l’aggiunta di una caratteristica diversa a seconda dei dialetti, abbiamo i genitivi om. ἐµεῖο, ἐµέο, att. ἐµοῦ, µου, ionici ἐµεῦ, µευ. ἐν si ricollega come locativo a un tema *en- “interiore” (lat. in), con una -ς che si ritrova in molti avverbi greci, si è avuto ἐν-ς da cui lo ionico-attico ἐις, ἐς. Ποιµαίνω è un denominativo da ποιµῆν, ενος (suffisso -µην, nomen agentis) formato con il suffisso j: *ποιµαν-jω. Appartiene a una radice legata al significato di “guardare”, “proteggere”, e che ritroviamo spesso in senso pastorale: all’attivo “far pascolare”, al medio “pascolare”, mentre il senso figurato è “governare”. Riscontriamo un legame con il lituano piemuo. L’uso del cosiddetto “dativo breve”, come vediamo in τοῖς κρίνοις, è pienamente consolidato nella koinè. Κρίνον, ου giglio. Anche nel greco moderno il termine ha mantenuto la stessa forma e lo stesso significato, mentre λειρι (λείριον) nel greco moderno identifica il tulipano. Il termine λείριον è legato invece al latino lilium della Vulgata, da cui deriva invece il nostro “giglio”. L’etimologia è sconosciuta, ma è preso in prestito da una lingua del Mediterraneo orientale. Σφραγίς, ίδος il sigillo. Può indicare l’elemento che serve a sigillare, o il marchio del sigillo, o anche un sigillo personale che si porta su un anello, un timbro, una pietra che serva a fare un sigillo. Si tratta di un derivato in -ιδ- come altri nomi di oggetto o di strumento (κνηµίς, χειρίς). È oscura la radice a cui si lega l’immagine del sigillo. Il toponimo Σφραγίδιον (una grotta sul Citerone dove risiedevano ninfe profetiche) si collega σφραγίς a σφραγέοµαι, che è formalmente inattaccabile, ma semanticamente enigmatico. Altri hanno pensato ad un legame con il verbo φράσσω, che non si può né dimostrare né rifiutare. L’uso del sigillo è preellenico nel mondo egeo. ἀγάπη in Omero il presente usuale è ἀγαπάζω (attivo o medio); troviamo una sola ricorrenza del verbo ἀγαπάω nell’Iliade e una sola nell’Odissea. Al contrario, il tema usuale in ionico-attico è proprio ἀγαπάω. Chantraine dà al verbo il significato di accuellir avec affection. Diventa assai prossimo di φιλέω ma è molto più espressivo. Se l’affezione è rivolta verso un oggetto, il significato può essere “amare”, “desiderare”. Nei LXX e nel NT viene usato in particolare per indicare l’amore di Dio per l’uomo e l’amore dell’Uomo per Dio. ἀγάπη è un termine che fa il suo esordio nel greco biblico, ma questo non significa che sia un termine recente, perché ἀγαπάω che è chiaramente un verbo denominativo e che quindi deve essere tratto da ἀγάπη è già nell’Odissea. È uno dei tanti casi in cui un verbo derivato è attestato più anticamente del nome da cui appare derivato, perciò bisogna prestare attenzione a stilare cronologie troppo precise delle parole greche. ἀγαπάω e ἀγάπη indicano un rapporto affettivo capace di dono, un amore che definiremmo di tipo oblativo (scevro da interessi egoistici e riscontrabile nei rapporti d'amore maturi), in cui al centro del rapporto non c’è più l’io, il suo piacere, il suo godimento personale, ma il tu; è qualcosa di più un legame meramente corporale. Ζῆλος il sostantivo è già attestato in Esiodo Οp.195, accoppiato con φθόνος in Democr.191, Lys.2.48. “invidia”. Ιl significato più generale è quello di “rivalità”, “emulazione” (in latino abbiamo aemulatio che ha in sé l’idea della competizione). In Arist. Rhet. 1388 ha il significato di “ambizione”, mentre nei LXX trasmette il concetto di “zelo”, “fervore”. Si è pensato per la sua origine al radicale di δίζηµαι, a quello di ζητέω.

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Alcune parole sul Cantico: Il titolo dell’opera (ebr. Shīr hash-shīrīm) rientra in una ben documentata e nota prassi ebraica, riscontrabile nell’espressione Santo dei Santi dell’Esodo, nonché in schiavo degli schiavi di Genesi 9,25, capo dei capi del Levitico. Starebbe, quindi, ad indicare “il cantico per eccellenza”, “il cantico sublime”, “il migliore fra i cantici”. Il Ct. è un componimento di argomento erotico tradizionalmente diviso in otto capitoletti, che consiste in un dialogo tra un giovane, lo “sposo”, e una fanciulla, la “sposa”, i quali si dichiarano vicendevolmente il proprio amore. Sebbene non sia chiaro a chi dei due personaggi si debbano attribuire alcuni versi, la maggioranza di essi appartiene sicuramente all’innamorata. Innumerevoli le interpretazioni delle identità dei due giovani: si è pensato a due pastori (facendo così del Ct. un poema bucolico), a due nobili (la giovane, detta in alcuni passi Sulammita, è stata anche ritenuta una principessa, o persino la nuova moglie di re Salomone), a un principe e alla prediletta fra le sue concubine, etc. Non conosciamo l’autore/gli autori del Ct. La regola dell’attribuzione darebbe il patronato a Salomone, ma la lingua NON è riconducibile al periodo salomonico (X a.C.). Le proposte di datazione dell’opera si estendono su un periodo di tempo assai lungo, dal X al I secolo a.C. Alcuni elementi lessicali, tuttavia, fanno propendere la maggioranza degli studiosi – fra i quali anche Ravasi – per una datazione fra il IV e il III a.C. L’inserimento nel canone biblico è probabilmente da collocare nel I secolo d.C., in seguito al concilio di Javnè, che ne sancì definitivamente l’interpretazione allegorica, secondo la quale lo sposo rappresenterebbe Jahvé, la sposa Israele. Più tardi, in un contesto cristiano, si vide Cristo nell’uomo, la sua Chiesa nella donna. Al contrario, le religioni riformate propendono per un’interpretazione naturalistica. Non mancarono sin dal IV d.C., tuttavia, esegesi fondate su elementi storici o pseudo-storici. La versione greca della Bibbia dei LXX è piuttosto tarda, e molto vicina al testo masoretico (cioè la versione ebraica della Bibbia ufficialmente in uso presso gli Ebrei Masoreti (I-X d.C) e usata come fondamento per la traduzione cristiana), ma ha anche qualche innesto proprio. È alla base anche della Vetus nonché della versione etiopica ed arabica. L’operazione di traduzione dei libri sacri della tradizione giudaica ebbe inizio nel III a.C. e si concluse probabilmente nel I a.C. L’opera era stata concepita per la comunità greca di Alessandria, sebbene ne circolassero anche altre. Conosciamo questo dato dalla lettera di Aristea al fratello Filocrate (III secolo, al tempo di re Tolomeo II Filadelfo, 281-246 a.C.), che ha tutta l’aria di essere un falso, ma servì successivamente per dimostrare ai tolemaidi successivi il supposto rapporto di serena convivenza con gli ebrei. Secondo la lettera (in realtà molto probabilmente di II secolo a.C.), Demetrio Falereo avrebbe proposto a Tolomeo II di fare riferimento a Eleazar, sommo sacerdote a Gerusalemme, per chiedergli di inviare sei uomini da ciascuna delle dodici tribù. Nel numero simbolico di 72 giorni, i saggi realizzarono la traduzione. Secondo la leggenda, questa sarebbe dovuta rimanere invariata. Il Pentateuco venne tradotto nel III secolo a.C., mentre gli altri libri successivamente. Il Ct. sarebbe stato tradotto in Palestina nel I a.C. La traduzione greca del titolo, costruita su un calco ebraico, è Ἆισµα ᾀσµάτων. Ἆισµα è un sostantivo formato dal tema del presente ἀείδω, con il suffisso -σµα. Ιn Erodoto abbiamo ἄεισµα, sempre con il significato di “canto, poema lirico”.

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Breve commento dei passi tradotti: Ct. 2,16 Questi versi, insieme con la loro ripresa simmetrica in 6,3, esprimono la reciproca appartenenza dei due amanti, in greco sottolineata efficacemente dal costrutto del dativo di possesso. La formula utilizzata è riscontrabile anche in contesti di alleanze politiche. Nel testo greco l’accumulo di pronomi di prima persona singolare (µου ἐµοί, κἀγὼ) evidenzia la volontà di autoaffermazione della donna, nonché il suo desiderio di mostrare l’unicità e l’esclusività dell’appartenenza. In ebraico questo stesso concetto viene rafforzato dal ripetersi di un suono nasale labiale, che conduce il lettore/l’ascoltatore alla percezione del pronome ebraico di prima persona. Il fatto che l’amato sia ὁ ποιµαίνων ἐν τοῖς κρίνοις ha fatto propendere alcuni studiosi per un’interpretazione bucolica del Ct. (vedi sopra). Ἀδελφιδός in questo solo caso ha il significato affettivo di “amato”, e non di “fratellino”, con un uso osservabile anche nei canti erotici egiziani. Ct. 8,6 Inverte audacemente l'ordine abituale delle cose, in base al quale l'uomo afferma i suoi diritti su una donna scelta. La donna si dichiara sigillo sul braccio dell'uomo, rivendicandone la proprietà. Questo è un motivo costante nel poema (vedi 2,16 e 6,3). La donna esorta il suo amante a tenerla vicina a sé come uno stampo usato per sigillare i documenti, indossato intorno al collo o al braccio, e forse più letteralmente come il segno lasciato da un tale sigillo, un marchio o un tatuaggio che segna permanentemente il corpo e il cuore della sua amata. La donna stessa si configura come elemento di identificazione dello sposo ed emerge l’idea di una comunione totale e di una fusione delle identità; la donna sembra parlare anche di una implicita uguaglianza. Né lei né il suo amante possono resistere alla reciproca attrazione emotiva e sessuale. All’origine dell’idea di questo sono stati visti i filàtteri ebraici, capsule di cuoio contenenti rotolini con passi biblici, portati sul braccio. In questi versi si raggiunge l’apice del Cantico dei Cantici in cui “l'unica forza da mettere contro la Morte è l’Amore”. In ebraico: ‘azzah kammawet ‘ahabah: “Forte come la morte l’Amore”, si tratta forse di una delle frasi più celebri della Bibbia, certamente la più citata del Ct, nonché la più ripresa e la più rielaborata. Essa rimanda al celebre binomio greco Eros-Thanatos; tentare di esemplificare la questione vorrebbe dire costruire vere e proprie antologie di poesia e di letteratura amorosa. La Morte e l’Amore sono come schierati uno di fronte all’altro in guerra. Il testo è preciso: il regno dell’amore è forte come quello della morte. Quello che ora si proclama è l’essenza stessa dell’amore nella sua perfezione, e nella sua trascendenza. Thanatos è una non-vita, un’ombra, e in quanto tale è la negazione della vita, ed amore qui è proprio vita, forza vitale. L'eros è invece miracoloso; il termine scelto nella versione dei Settanta è ἀγάπη (vedi sopra), per evitare qualsiasi confusione con Eros, dio dell'amore greco. L’amore con la sua esclusività e la sua “gelosia” riesce a sopravvivere alla Morte. Le sue fiamme, infatti, non sono facilmente estinguibili come quelle di un focolare, ma sono scintille che appiccano fuochi colossali, o fulmini che la divinità scaglia sulla terra. L’Amore, che potrebbe sembrare una realtà così lieve e delicata, è capace di ergersi con tutto il suo potere equiparandosi per forza e resistenza alla morte. Non si tratta, perciò, solamente di una comparazione della forza dell’amore con quella della morte, bensì di una esaltazione della forza intrinseca al sentimento amoroso. Curiosa l’interpretazione cultuale di Marvin Pope sulla base in particolare di 8,6, per cui il cantico sarebbe stato un canto funebre , e non si rivolgerebbe quindi a riti di fecondità, né a cerimonie nuziali. Osserviamo la struttura grammaticale del testo così com’era in ebraico, per comprendere le scelte di traduzione nei Settanta:

I due termini che la donna usa per descrivere la morte sono: 1.῾azzah (κραταιά) indica la potenza trionfatrice, persino brutale e truce, che tutto piega 2. Qašah (σκληρός) esprime una durezza tirannica, quasi crudele.

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La prima parte è messa in relazione con la seconda da un kî, inteso da Lys come conclusivo (perciò, dunque), mentre da altri come la congiunzione causale “poiché”. Il greco dei settanta pone ὅτι. La Vulgata traduce quia, interpretando quindi la subordinata come una causale. Il sigillo ha in sé la forza di esprimere qualcosa di definitivo, irreversibile e siglato per sempre; questo sarebbe successivamente motivato con la tenacia, l’inflessibilità e indistruttibilità dell’amore rispetto alla Morte. Pope considera il sigillo dotato di un valore apotropaico: dovrebbe tutelare e proteggere contro forze ostili, come un amuleto. Nel Ct il kî dopo un imperativo, come nel nostro caso, ha sempre un chiaro valore causale (2,4.5.10-11.14). Altri (Bonora, Tromp) optano per un valore asseverativo/enfatico della particella: “veramente l’amore è forte...”, “sì l’amore è forte..!”. In questo modo avremmo due asserzioni distinte, la prima focalizzata sulla celebrazione dell’uguaglianza dei due sessi, e l’altra formulata per esaltare la potenza e l’inflessibilità dell’Amore. Sicuramente la particella è una “connessione allentata, un artificio abbastanza precario.” Ravasi opta per un valore “blandamente causale”, notando però che si potrebbe parlare di un ambiguo valore “causale-asseverativo” che non verrebbe del tutto risolto né con la prima, né con la seconda delle ipotesi che sono state formulate. Il carattere fondamentale di teorizzazione di questi versetti del Ct è testimoniato dalla presenza di termini solenni, che non troviamo in nessun altro passo dell’opera. Mawet, in greco θάνατος, šeôl (Sheol, ossia gli inferi ebraici), in greco ᾅδης, rešapîm (il termine per indicare le fiamme, le scintille), in greco πῦρ, majim rabbîm (le grandi acque), in greco ὕδωρ πολὺ, e infine il nome per indicare il fiume: neharôt, in greco ποταµός. C’è quindi una condensazione del significato recondito di tutto il Ct. Il “regno dei morti”, ossia Sheol, l’anti-mondo biblico dove domina il silenzio, privo di colori, dove l’esistenza è una larva. La fame dello Sheol è insaziabile come quella della Morte. In ebraico lo sheol, è inoltre il “buco nero” in cui tutto è divorato. Nei Proverbi la morte viene descritta come una bocca mostruosa dalle fauci spalancate e insaziabili che non restituiscono mai ciò che hanno inghiottito. L’avversario del regno dei morti è lo ζῆλος (qin’ah), variamente tradotto come “passione”, “desiderio”, “gelosia”. Quest’ultima forse è la traduzione più appropriata. Questo vocabolo di solito viene impiegato in parallelo con termini che indicano lo sdegno, l’ira, la tensione, ed è capace di molteplici sfumature che vanno dalla gelosia alla passione, dal furore all’invidia. L’idea di base resta il possesso reciproco, in un’ottica che pone il cantico come una oscillazione interiore continua fra tensione-gelosia e possesso-riposo. L’amore del Ct. ha una connotazione di totale esclusività, che può simbolicamente essere rappresentata dalla gelosia. Il tema ha anche nella Bibbia un largo uso in un contesto nuziale (Pr 6,34: “La gelosia accende lo sdegno del marito”), ed è anche un termine spesso utilizzato per indicare la “gelosia” di Dio per il suo popolo, Israele: i due “amanti” si appartengono esclusivamente. Traducendo “gelosia”, o in qualsiasi altro modo, non possiamo tuttavia rendere la vastissima gamma di sfumature che il termine ha nell’ebraico (sdegno, possesso, esclusività, unicità). Ct. 8,7 I due elementi antitetici del fuoco e dell’acqua sono qualificati con un senso quasi trascendente, con il ricorso ad un lessico mistico-mitologico. Polarmente, l’immagine del fuoco evoca quella dell’acqua. L’espressione ὕδωρ πολὺ, le “grandi acque” fa riferimento alle acque che, secondo la cosmologia di Israele, circondano la piattaforma della Terra, sospesa su colonne, e si accaniscono su di essa. L’unico a possedere il potere sulle “grandi acque” è Jahvé, che le sconfisse anche in occasione della fuga del suo popolo dall’Egitto. Se l’amore può resistere alle grandi acque, partecipa necessariamente della potenza divina. L’immagine dell’acqua, e in particolare dei fiumi (ποταµοί), può essere concepita nello specifico come un rimando ai fiumi del regno dei morti. Si verrebbe così a creare un nuovo rimando all’aldilà: la mortifera e incolore natura dei fiumi infernali non è in grado di “sommergere/travolgere” le fiamme dell’amore. In ebraico il verbo è štp, che dà l’idea dell’inondazione.

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La parte conclusiva del verso è un aforisma sapienziale (in ebraico mašal) che pone in opposizione la coppia antitetica Amore-Denaro. Renan pensò che esso fosse stato inserito da un cantore esperto, un professionista, che tentava di trarre una morale dall’intera opera. Robert la ridusse invece ad una mera glossa in prosa, malamente giustapposta. Harper, dal canto suo, affermò la solenne centralità di questo verso nel contesto di una ipotetica “riforma matrimoniale” della quale questo verso si farebbe sostenitore. Nel mondo ebraico le pratiche matrimoniali erano di tipo contrattualistico, e con esse si sanciva un patto fra due clan. La giovane sposa (l’età media per una donna doveva essere intorno ai 12-14 anni) veniva offerta dal padre insieme con una dote, elemento indispensabile per l’accordo nuziale. Il mašal affermerebbe, al contrario, che il fondamento del matrimonio è l’amore reciproco fra gli sposi, non acquistabile né vendibile. Di parole anoghe ci si serve nei Proverbi e in altri scritti sapienziali per indicare che la Sapienza è un bene supremo, e stolto è l’uomo che tenta di appropriarsene illecitamente: “Il possesso (della sapienza) è preferibile a quello dell’argento E il suo provento a quello dell’oro, essa è più preziosa delle perle e neppure l’oggetto più caro la eguaglia.” (Pr 3,14-15) “La scienza val più delle perle E nessuna cosa preziosa la eguaglia.” (Pr 8,11) “La sapienza non si scambia con l’oro purissimo, non la si può acquistare a peso d’argento, non la si paga neppure con l’oro di Ofir, né con l’onice prezioso, né con lo zaffiro, non la uguagliano né l’oro né il cristallo, non la si tratta con vasi di oro fino, non contano né coralli né pietre dure, meglio è pescar la saggezza che le perle (…)” (Gb 28,15-19) Il termine della traduzione greca per indicare la ricchezza è βίον, che può essere inteso come “sostanza”, “sostentamento”, “tutto ciò che si ha per vivere”. Il termine ebraico pressoché equivalente è hôn (tutte le ricchezze della casa, i propri averi). Il greco si serve di un efficace poliptoto: ἐξουδενώσει ἐξουδενώσουσιν αὐτόν, per enfatizzare che è degno di disprezzo (e quindi non sapiente!) chi tenta di acquistare l’amore. Bibliografia C. Angelini (a cura di), Cantico dei cantici, Einaudi, Torino 1973. V. Bonato, Il Cantico dei cantici: significato letterale, teologico e mistico, EDB, Bologna 2009. G. Ceronetti (a cura di), Il Cantico dei cantici, Adelphi, Milano 1975. P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, Paris 1968-1980. L. Heilmann, Grammatica storica della lingua greca, Società editrice internazionale, Torino 1963. G. Ravasi, Il Cantico dei cantici: commento e attualizzazione, EDB, Bologna 1992.