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Storia della Filosofia – 5 Platone - 1
(A cura di Carlo E. L. Molteni - http://www.counselingfilosofico.it)
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(Da AAVV “Agorà 1. Manuale di filosofia” Bruno Mondadori)
Sul problema delle dottrine non scritte, ecco stralci dalla “Lettera VIII^”.
«Perciò, chi è serio, si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all'odio e
all'ignoranza degli uomini. Da tutto questo si deve concludere, in una parola, che, quando si legge lo
scritto di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti d'altro genere, se l'autore è davvero un uomo, le
cose scritte non erano per lui le cose più serie, perché queste egli le serba riposte nella parte più bella
che ha. » …
Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò
di cui io mi occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non
capiscon nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c'è, né vi sarà, alcun mio scritto. …
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La conoscenza di queste cose non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma dopo molte
discussioni fatte su queste cose, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si
accende da una scintilla che si sprigiona, così nasce nell’anima, e da se stessa si alimenta. … Su queste
cose non c’è un mio scritto né ci sarò mai» (Lettera VII^)
Ma come conoscere se tutto cambia, come sosteneva Eraclito?
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La soluzione platonica sta nell’affermare il mondo delle IDEE come vero essere, che non muta, a differenza
della realtà mutevole.
“…Quella realtà in sé di cui, tra domande e risposte, demmo la definizione, resta sempre la stessa
o muta di volta in volta? L'eguale in sé, il bello in sé, la realtà in sé di ogni cosa, la sua essenza, sono, per
quanto poco, mutabili? O piuttosto, ciascuna di queste realtà, che esiste in sé e per sé, resta costante e
immutabile e non ammette, in alcun modo, giammai, alcuna alterazione?»
«Ah, resta sempre costante e invariabile, penso, Socrate,» confermò Cebete.
«E che ne pensi di tutte le molteplici altre cose, come gli uomini, i cavalli, i vestiti e così via, di tutte
quelle cose, insomma, che sono eguali o belle, che hanno lo stesso nome delle realtà in sé? Restano
immutabili o, al contrario delle suddette realtà, non sono mai identiche a se stesse o tra loro, mai, per
così dire, invariabili?»
«È così,» ammise Cebete, «esse non hanno mai il medesimo aspetto.»
«Ebbene, tutte queste cose tu le puoi vedere, toccare, percepire con i sensi, mentre quelle immutabili
non puoi coglierle se non attraverso il pensiero e la meditazione. Non si sottraggono, forse, alla nostra
vista, non sono esse invisibili?»
«È verissimo quello che dici.»
«E allora, vuoi che ammettiamo due realtà, una visibile e l'altra invisibile?»
«Ammettiamolo, certo,» disse.
«E che quella invisibile resta sempre immutabile, mentre la visibile mai?»
«Ammettiamo anche questo,» confermò. (Fedone, 79°)
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