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22 Venerdì 7 Dicembre 2018 Corriere della Sera Scala

DENTRO LA MUSICA

Manon fra tagli e ritocchiEcco la prima versione

Un volto inedito Chailly propone l’opera così come debuttò a Torino nel 1893 e che poi Puccini modificò in più punti. Un grande esperto del compositore spiega le differenze

Giacomo Pucciniera un artistainquieto, sem-pre teso alla ri-cerca della per-fezione dell’attoc re a t i vo , n e lcontesto di un

incessante rinnovamento defacto, lontano da costruzioniideologiche, della tradizione musicale alla quale appartene-va. Questa tendenza è attestatadai numerosi ripensamentisulle sue partiture, frutto dellaverifica sul palcoscenico, acontatto con la critica e, so-prattutto, con il pubblico.

Fatta eccezione per La bohè-me e Tosca, rimaneggiate inmisura minore, tutti gli altrititoli, dalle Villi (1884) fino alTrittico (1918-1922), ultimo ca-polavoro, hanno subito cam-biamenti sostanziali, alcunidei quali, come Madama But-terfly (1904-1907) e La rondine(1917-1924), hanno generatoversioni diverse delle opere, avolte autonome, dove non soloi pentagrammi, ma pure ladrammaturgia risultava pro-fondamente mutata.

Anche Manon Lescaut, ilprimo successo clamoroso, ap-parve alla première torinesedel 1° febbraio 1893 in una ve-ste differente da come la cono-

sciamo, in un processo com-plicato che l’edizione criticatrasmette agli esecutori, per-ché quel che rimane del trava-gliato processo compositivo ètale da prefigurare, dal puntodi vista formale, almeno treversioni dopo la prima, secon-do Roger Parker, curatore dellapartitura (uscita nel 2013). Re-sta vivo il problema dell’orche-strazione, alleggerita da Pucci-ni rispetto all’autografo, macon ulteriori pentimenti nellatarda maturità.

Provo a tracciare un quadrogenerale della situazione con-frontando la versione correntee quella della première, a par-tire dal dialogo fra Lescaut eGeronte nella scena del gioconell’atto primo dove i due uo-mini discutono di sconcezzecon leggerezza («Ma la vita co-nosco forse troppo», dice ilsergente), che Puccini sfrondacavando la linea di un coro distudenti, guadagnando inchiarezza. Balzando all’attoquarto, ben altro peso assumeun duplice taglio nel finaledell’opera, a partire da «Sola,perduta, abbandonata», l’asso-lo che Puccini considerava unproblema (tanto che lo elimi-nò nel 1906 per poi ripristinar-lo), perché rallentava l’azione.Accorciò i tempi drammaticicassando otto battute dopo«Tutto è dunque finito!», incui la protagonista si attardava

nel lamento («Io sono affran-ta»), anticipando così lo sfogosuccessivo, che giunge con im-patto maggiore («Strappar dalui mi si volea »). Il drammaguadagnò in tal modo un altropasso, con l’imposizione dellastasi momentanea («Terra dipace mi sembrava questa»)che precede il delirio («Ahmia beltà funesta»), e ancorpiù, poco dopo, grazie a unulteriore taglio, dove l’angosciadi Manon si prolungava, nutri-ta da una perorazione or-chestrale che riportavaa un clima disperato.Molto più efficacerisulta la calma mor-tale della versionecorrente, col rientroin scena dell’amante(«Fra le tue bracciaamore»). Puccini ta-gliò altre dieci bb. nelduetto successivo, là do-ve Manon cantava «Io

vo’ che sia una festa di divinecarezze» su un’ulteriore pro-lungamento della trenodia fu-nebre di Crisantemi, che ottobb. prima connotava la dispe-razione di Des Grieux («Miodolce amor tu piangi»). Un ul-teriore cambiamento è di altrosegno. In chiusura della scenasettecentesca nell’atto secon-do, tutta nei minuetti e lustri-ni, Manon canta una pastorale.Ora siamo abituati a una lineadi canto sbilanciata verso

l’acuto: la ragazza tocca ilDo narrando il «mira-

colo d’amor» con en-fasi cortigiana a be-neficio del vecchiolibertino, che poil’invitava ai baluar-di. A Torino, invece,il Do era facoltativo,

e Manon, più schiva,chiudeva sfumando

rivolta ai cortigiani.Ma il cambia-

mento che muta la fisionomiadell’opera è quello dell’interofinale primo. Nella prima ver-sione l’atto si concludeva conun concertato di vaste propor-zioni e fattezze scapigliate, do-ve il volume in scena è notevo-le: si sfoderavano le spade e labagarre si scatenava in uno sti-le di ascendenza grandoperi-stica che può ricordare Edgar.Ma Illica si rese conto che oc-correva rendere più motivato ilpassaggio di Manon da questafuga precipitosa al boudoir del«palazzo aurato», e proposeche «con un ardito colpo diforbice si tagliasse il finale pri-mo e al suo posto vi si pones-se qualche cosa di Lescaut eGeronte che rendesse poi piùchiaro il secondo atto». Giàper la ripresa al Teatro Novaranel 1893 Puccini approntò ilfinale oggi noto, che fu poiconsacrato a Napoli nel 1894con l’autore presente in sala.Con questa decisione si perdo-no un brano di evidente vir-tuosismo orchestrale e trattisperimentali, ma si guadagnafinezza ironica. Leggerezza earguzia portano al temino delflauto che apre l’atto II, foto-grafando la Manon cortigiana.Alla Scala, grazie a Chailly, sisentirà un’opera diversa dalsolito, dunque, che ci mostre-rà un Puccini più acerbo, magià musicista di razza.

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Il maestro apportava numerosi ripensamenti dopo il contatto con il pubblico e con la critica

L’esecuzione presentata alla Scala, ci mostrerà un Puccini piùacerbo, ma già musicista di razza

di Michele Girardi

Grandi vociMaria Guleghina e José Cura nella Manon diretta da Muti e con regia di Cavani, stagione 1997/98; sotto, Giacomo Puccini

Michele Girardi insegna storia della musica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato, tra l’altro, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano (Venezia, 1995, 2002, premio «Massimo Mila» 1996). Specialista dei secoli XIX e XX, e in particolare di teatro musicale fin de siècle, è autore di estesi saggi su Berg, Boito, Massenet, Verdi e altri, apparsi su libri e riviste specialistiche europee e statunitensi

L’autore

L’opera di RossiniLa Cenerentola di Ponnelle, più attuale che maiLa Cenerentola di Rossini tornerà a febbraio alla Scala nell’allestimento creato da Jean-Pierre Ponnelle per Claudio Abbado nel 1973 e qui ripreso da Grischa Asagaroff. Un allestimento che ha quasi mezzo secolo e che sembra più attuale che mai come l’esecuzione musicale: da qualche anno infatti i teatri sono sempre più propensi ad affidare anche Rossini ai direttori nell’esecuzione filologica. E le sonorità, i tempi e i fraseggi di un Rossini «svecchiato» da 200 anni di prassi sedimentate e

via via sempre più lontane dalla concezione originale, suonano quanto mai nuove. Sul podio ci sarà infatti Ottavio Dantone, noto barocchista e alla Scala applaudito proprio nel repertorio del primo ‘700. Angelina (questo il nome di Cenerentola) sarà interpretata da Marianne Crebassa, al suo primo ruolo rossiniano al Piermarini; come Don Ramiro ci sarà Maxim Mironov, continuatore di un’illustre tradizione di tenori rossiniani russi che risale a Nicola Ivanoff e che alla Scala ha visto trionfare da ultimo Juan Diego Florez; Carlos Chausson canterà Don Magnifico, per Dandini si alterneranno Nicola Alaimo e Mattia Olivieri, come Alidoro Erwin Schrott e Alessandro Spina. (E. Pa.) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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