lawrence venuti e il problema della traduzione
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IndiceIntroduzione.......................................................................................................................21 La teoria della traduzione nella storia.............................................................................4
1.1 L'epoca classica.......................................................................................................41.2 Dal Romanticismo alla prima metà del XX secolo.................................................81.3 La corrente moderna.............................................................................................101.4 Translation Studies................................................................................................13
2 Il decostruzionismo e i translation studies....................................................................142.1 Nascita e sviluppo del decostruzionismo: Jacques Derrida..................................142.2 Il decostruzionismo in America: gli Yale critics...................................................172.3 L'incontro con i translation studies.......................................................................19
La crisi di originalità e autorialità..........................................................................20Nuovo concetto di equivalenza..............................................................................22Cultural turn...........................................................................................................25
3 Lawrence Venuti e il problema della traduzione..........................................................283.1 Che cos'è una traduzione.......................................................................................293.2 La visibilità del traduttore.....................................................................................31
IL TRADUTTORE INVISIBILE...........................................................................31TRADUZIONE ADDOMESTICANTE E TRADUZIONE ESTRANIANTE......33VIOLENZA............................................................................................................36Il REMAINDER E LA TRADUZIONE MINORIZZANTE.................................39
3.3 Letteratura del dissenso.........................................................................................41IL CANONE E LA RESISTENZA CULTURALE................................................41LA CREAZIONE DI UNA LETTERATURA MINORE.......................................44
3.4 Traduzione e globalizzazione................................................................................46L'EGEMONIA DELL'INGLESE...........................................................................46L'EREDITA' COLONIALE...................................................................................48LA DIFESA DEL LOCALE..................................................................................50
Una conclusione: Call to action.......................................................................................53Bibliografia......................................................................................................................55
Attribution-NonCommercial-NoDerivs
CC BY-NC-ND
1
IntroduzioneAll'interno del vasto universo delle scienze umane la traduzione occupa senz'altro un
posto di rilievo. Grazie a questa disciplina qualsiasi lettore ha la possibilità di conoscere
i ragionamenti dei più grandi maestri del sapere umano e di godere dei prodotti dei più
illustri geni letterari, per quanto questi possano essere distanti nel tempo e nello spazio.
Tuttavia viene spesso dimenticato o preso in scarsa considerazione colui che realizza
questa mediazione e rende possibile la diffusione globale della cultura, vale a dire il
traduttore. La sua importanza e preparazione sono fuori discussione, eppure lettori,
critici e accademici tendono a dimenticarsene e a considerare il testo tradotto come un
originale, affermando di avere a che fare con la presenza diretta e non mediata
dell'autore vero e proprio. Questa situazione deriva da secoli di studi teorici e pratici
sulla traduzione che, come tendenza prevalente, hanno premiato e incoraggiato una
pratica traduttiva basata sulla fedeltà al messaggio originale, nel riproporre il quale il
traduttore dovrebbe scrivere come se fosse l'autore stesso e quindi occultare il proprio
intervento.
Negli ultimi anni sono nate nuove correnti di pensiero al riguardo, stimolate dal sorgere
di movimenti come il formalismo e il decostruttivismo e dal loro impatto sulle scienze
umane. Recuperando l'insegnamento di quella minoranza di intellettuali che difendono a
spada tratta la figura del traduttore e il suo diritto a mostrare il proprio intervento sul
testo, si propone una lettura, una critica e un insegnamento delle traduzioni in quanto
tali, mettendo in evidenza la loro differenza con il testo di partenza, i meccanismi che le
hanno originate, gli elementi persi nel passaggio e quelli guadagnati. La differenza e
l'alterità rappresentate dall'originale non vanno nascoste, bensì mostrate con evidenza.
Lawrence Venuti è forse colui che ha dato il contributo più interessante e innovativo a
queste ultime tendenze nei confronti dell'atteggiamento traduttivo. Essendo traduttore
di professione, in particolare dall'italiano all'inglese americano, ha potuto constatare di
persona la condizione di marginalità del traduttore in ambito accademico, editoriale,
letterario, e la scarsa considerazione che in questi stessi settori si mostra per le
traduzioni in generale, gerarchicamente inferiori al testo originale in quanto opere da
esso derivate. Nelle sue numerose pubblicazioni Venuti afferma come in realtà la
2
traduzione abbia un enorme potere e un'enorme influenza sulla cultura nella quale
vengono realizzate, poiché attraverso di esse si costituisce il canone, si formano identità,
si svelano i giochi di potere e si costruiscono relazioni internazionali più o meno
asimmetriche. La persona del traduttore ha nelle sue mani la possibilità di orientare i
giudizi, importare generi e stili nuovi, modificare le tendenze correnti nella propria
cultura di riferimento, e proprio per questo ha il dovere di mostrare il proprio intervento
sul testo e, tramite accorgimenti linguistici particolari, di mostrare in atto il gioco della
differenza espresso dal testo originale. La traduzione diventa, nel pensiero di Venuti che
ora andrò ad analizzare, uno strumento di dissenso nei confronti dei valori egemoni che
ha inizio con lo smantellamento delle logiche che li costruiscono, un progetto eversivo
che se da una parte apre alla diversità culturale, dall'altra consolida la realtà locale.
3
1 La teoria della traduzione nella storiaLa traduzione letteraria è una delle attività intellettuali più antiche della storia
dell'umanità, una necessità che risponde al desiderio di conoscenza che è caratteristica
intrinseca dello spirito umano. Nel corso della millenaria storia del tradurre, numerosi
intellettuali e letterati appartenenti alle più diverse culture si sono avvicendati nel
tentativo di dare una risposta alla questione di quanto sia possibile, legittima, efficace la
traduzione letteraria, e dalle loro riflessioni sono nate diverse prospettive teoriche che
hanno contribuito ad arricchire e sviluppare un dibattito arrivato fino ai giorni nostri.
Dalle prime esperienze di traduzione della civiltà occidentale, che risalgono al III secolo
a.C., lo sviluppo di questa attività è stato costante ed esponenziale; ritengo opportuno
rifarmi alla periodizzazione che propone George Steiner nel suo Dopo Babele: il
linguaggio e la traduzione (1984) e agli approfondimenti di Siri Nergaard in La teoria
della traduzione nella storia (1993) e Teorie contemporanee della traduzione (1995) per
indicare le tappe più importanti di questa evoluzione, citando allo stesso tempo autori
che rappresentano le basi di riferimento delle più recenti teorie sulla traduzione e i cui
testi e riflessioni hanno influenzato il pensiero di Venuti.
1.1 L'epoca classica
La prima fase corrisponde al lungo periodo che va dalle riflessioni di Cicerone
contenute nell’opera De optimo genere oratorum del 46 a.C. fino a circa diciotto secoli
più tardi, quando sarà pubblicato il saggio di Alexander Fraser Tytler Essay on the
Principles of Translation, precisamente nel 1791. Friedrich Schleiermacher Über die
verschiedenen Methoden des Übersetzens, precisamente nel 1813.
La traduzione artistica nasce nella Roma antica dove era considerata un'attività
necessaria per assimilare e "romanizzare" filosofie e letterature straniere, quasi
esclusivamente quella ellenica. Il concetto di fedeltà era allora molto differente da
quello attuale, e la traduzione era considerata più un'emulazione che un'interpretazione
fedele; si trattava di un esercizio finalizzato all'arricchimento e al perfezionamento della
lingua latina attraverso modelli greci, che nella traduzione si trasformavano e
diventavano opere completamente distinte. E' il caso di precisare che a quel tempo il
4
bilinguismo latino-greco era molto diffuso, e molti lettori avevano la possibilità e le
competenze per confrontare le due versioni, il testo originale e la versione latina.
Appartiene a questo periodo la distinzione ciceroniana tra interpres e orator, un utile
punto di riferimento ancora oggi, che distingue le due macro-modalità della traduzione:
la letterale, verbum pro verbo, e quella che riferisce il senso più profondo del discorso
originale:
ho tradotto da oratore, non già da interprete di un testo, con le espressioni stesse del pensiero, con gli stessi modi di rendere questo, con un lessico appropriato all'indole della nostra lingua. [...] non ho creduto di rendere parola con parola, ma ho mantenuto ogni carattere e ogni efficacia espressiva delle stesse1.
Un capitolo a parte meriterebbero le numerose versioni della Bibbia che si susseguono
in questa fase, e le conseguenti riflessioni portate avanti dai rispettivi autori. Qui ci si
può limitare a citare i principali: San Gerolamo nel IV secolo d.C. realizza, a partire
dalla versione greca dei "Settanta", quello destinato a diventare il testo canonico
ufficiale in latino, e afferma come una traduzione "a senso" sia preferibile ad una
"parola per parola" poiché rende possibile riproporre lo stesso contenuto con uno stile
piacevole, tranne che nel caso dei testi sacri, in cui l'originale va rispettato alla lettera:
Io per me non solo confesso, ma dichiaro a gran voce che nelle mie traduzioni dal greco in latino, eccezion fatta per i libri sacri, dove anche l'ordine delle parole racchiude un mistero, non miro a rendere parola per parola, ma a riprodurre integralmente il senso dell'originale.2
Più tardi Lutero negherà questa impostazione con la sua traduzione in tedesco di
Vecchio e Nuovo Testamento (1522-1534), che segnerà una svolta nella storia della
religione cristiana e della lingua tedesca. Il principio che muove l'azione di Lutero è
infatti la necessità di "germanizzare" i testi sacri per renderli comprensibili al popolo,
allontanandosi dalle versioni ingessate nel rispetto alla lettera dell'originale:
Ho voluto parlare tedesco e non latino né greco, poiché mi ero proposto di parlare tedesco nella mia traduzione [...] affinché un tedesco possa meglio comprendere3
.
1 Marco Tullio Cicerone, Qual è il miglior oratore, ca. 46 a.C., in La Teoria della Traduzione nella Storia, a cura di Siri Nergaard, Bompiani, 1993, p.57-58
2 ibidem, p.663 Martin Lutero, Epistola sull'Arte del Tradurre e sulla Intercessione dei Santi, 1530, ibidem, p.106-108
5
Per quanto riguarda la letteratura laica è durante l'Umanesimo che si verifica una
rinascita dell'attività traduttiva, che per tutto il Medioevo aveva avuto come ambito
privilegiato le traduzioni bibliche; intellettuali e letterati del XV secolo riscoprono i
classici greci, che traducono in latino con sempre maggiore attenzione alla fedeltà al
senso dell'originale. Leonardo Bruni (1374-1444) sarà il primo a formulare una teoria
moderna della traduzione, indicando una serie di precetti che il bravo traduttore deve
rispettare, come la conservazione del ritmo e della musicalità del testo e, soprattutto, il
rispetto dello stile dell'autore originale, che deve essere riproposto il più fedelmente
possibile:
Questo è il criterio per riconoscere un'ottima traduzione: se lo stile del primo testo viene mantenuto in sommo grado, in modo che non vengano meno le parole rispetto ai contenuti, né le parole stesse manchino di grazia e di bellezza.4
Gli antichi maestri rappresentano per l'Umanista un’inesauribile fonte di sapere, da cui
ricavare insegnamenti e regole cui riferirsi. E' un'impostazione che risponde ad un
bisogno generale di rinnovamento culturale, e che nel Rinascimento sfocerà nella
pratica dell'"imitazione": le traduzioni diventano rifacimenti, adattamenti, esercizi di
stile, che restituiscono vitalità ai testi antichi ricreandone lo spirito e il tono in un
diverso contesto.
Durante il Seicento, soprattutto in ambito francese, si preferisce sacrificare la fedeltà a
vantaggio della cura dello stile: le traduzioni devono realizzare una "nazionalizzazione"
dell'originale, che viene adattato ai canoni estetici locali, e il traduttore diventa un vero
e proprio autore che, con la pretesa di migliorare il testo originale, compie su di esso
trasformazioni talvolta radicali, aggiungendo, togliendo o modificando brani. Alla base
di questo metodo c'è la convinzione, espressa tra gli altri dal poeta e drammaturgo
Antoine Houdar de la Motte (1672-1731) che per far apprezzare gli autori antichi o
stranieri sia necessario adattarli alla mentalità contemporanea e nazionale. Allo stesso
tempo si sviluppano correnti di pensiero alternative, che rifiutano il genere delle
cosiddette belles infidèles: Pierre-Daniel Huet nel suo trattato De interpretatione del
1683 auspica il raggiungimento di un punto d'incontro tra fedeltà al senso e
piacevolezza dello stile, e critica l'eccessiva libertà del traduttore per quanto riguarda i
4 L. Bruni, Tradurre Correttamente, ca. 1420, ibidem, p.80
6
rimaneggiamenti del testo originale. In Inghilterra intanto si ribadisce la superiorità
gerarchica dell'autore rispetto al traduttore e dell'originale nei confronti delle sue
numerose versioni, ed è quindi fondamentale attenersi e rispettare il testo autoriale
quanto più possibile. Ritroviamo questi temi e prospettive anche nel secolo successivo
con una novità: l'introduzione della prima legge inglese sul copyright (1709) che tutela
le traduzioni come opere indipendenti. In tutta Europa i termini del dibattito ruotano
attorno ai due poli del tradurre, la letteralità e la libertà, e ci si chiede quale di questi
rappresenti la prospettiva ideale con cui il traduttore deve porsi nei confronti dell'opera.
In generale Steiner definisce questa prima fase come di "focalizzazione empirica
immediata"5: le considerazioni sulla traduzione sono manifestate dal traduttore stesso
nel momento in cui si cimenta nell'"addomesticamento" del testo straniero, ma si
riferiscono principalmente ad esperienze pratiche, e sono più che altro annotazioni
tecniche estemporanee, prive di pretese teoriche. Come già ricordato, l'ultimo saggio di
riferimento per quest'epoca è rappresentato dal testo di Tytler, che riprende
riassumendole le principali riflessioni sull'argomento, fino a manifestare la necessità di
regole per una corretta traduzione che si possono ricavare solo analizzando le buone
traduzioni. In sostanza, afferma la necessità per l'interprete di conoscere perfettamente
la lingua di partenza, al fine di poter capire e imitare lo stile dell'autore e riproporlo
nell'opera tradotta in modo fluido, scorrevole, trasparente; il risultato finale deve essere
una traduzione che non sembri una traduzione, nella quale il traduttore sia
completamente invisibile. Egli deve occultare la diversità tra le lingue e le culture
anche, se necessario, attraverso leggere modifiche al testo di partenza, il tutto in
funzione del principio della naturalezza dello stile (easiness o fluency). A questo
proposito Venuti avrà molto su cui dissentire, ma ne parlerò più avanti nel capitolo
dedicato alla visibilità del traduttore. Intanto è bene precisare che per Tytler il lettore
deve essere in grado di leggere la traduzione senza percepire l'origine straniera del testo,
come se questo fosse stato da sempre scritto nella sua lingua, e quindi nello stesso modo
in cui lo leggono i destinatari dell'originale.
5 G. Steiner, Dopo Babele: il linguaggio e la traduzione, 1975, trad. it. di Ruggero Bianchi, Sansoni, 1984, p.230
7
1.2 Dal Romanticismo alla prima metà del XX secolo
Il secondo stadio delle riflessioni sul tradurre si apre, sempre seguendo Steiner, con il
saggio di Friedrich Schleiermacher Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens
(1813), e si protrae fino a Sous l'invocation de Saint Jérome del 1946, di Valery
Larbaud; rappresenta l'epoca in cui il problema della traduzione viene affrontato da un
punto di vista filosofico e assume valenze teoriche, svincolate dal riferimento ad esempi
particolari. L'esperienza del traduttore e del lettore di testi tradotti vengono poste in
relazione con gli studi sul linguaggio e sulla comprensione del discorso, e nascono
nuove interessanti teorie sui rapporti tra le lingue e sui meccanismi che regolano il
passaggio dall'una all'altra. Per quanto riguarda l'ambito letterario, Schleiermacher
afferma che il traduttore ha a disposizione due alternative per realizzare la propria
opera, e che la scelta tra i due metodi deve essere una decisione irrevocabile: l'uno
esclude necessariamente l'altro, e bisogna tenere presente che entrambi hanno vantaggi
e svantaggi:
O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore.6
Nel primo caso il traduttore deve operare in modo che il proprio lettore, affrontando
l'opera tradotta, abbia ben chiaro il fatto che si tratta di un testo di origine straniera:
questi
non può accontentarsi della vaghissima sensazione che quello che sta leggendo non gli riesca pienamente familiare - occorre, invece, che gli faccia l'impressione di qualcosa di nettamente diverso7.
Nel secondo caso invece il traduttore si sforza di tradurre un autore straniero come
questi avrebbe scritto se la sua lingua madre fosse stata quella della traduzione:
senza richiedere fatica e sforzo al proprio lettore vuole donargli, quasi per incanto, la presenza diretta dell'autore straniero e fargli vedere l'opera quale essa sarebbe stata se l'autore stesso l'avesse scritta originariamente nella lingua del lettore8.
Si tratta in questo caso di un esercizio "vuoto e assurdo": i concetti espressi da un
6 F. Schleiermacher, Sui Diversi Metodi del Tradurre, 1813, in Nergaard 1993 p.1537 ibidem, p.163-1648 ibidem, p.165
8
individuo sono direttamente influenzati dalla lingua e dal contesto culturale in cui egli li
formula, ed è impossibile pretendere di sapere come parlerebbe e cosa direbbe un autore
in un'altra lingua, così come è impossibile sradicare impunemente l'opera originale dal
suo contesto; un traduttore che operasse seguendo questo metodo dovrebbe eliminare gli
elementi ritenuti troppo estranei per il lettore e sostituirli con altri più "domestici",
realizzando quindi un rifacimento e non una traduzione. Schleiermacher predilige
quindi la prima alternativa, che permette ad una lingua di mantenersi giovane e
dinamica attraverso il costante confronto con l'elemento straniero, e afferma che il
lettore nel leggere una traduzione deve avere la sensazione di trovarsi di fronte a una
realtà completamente estranea a quella cui è abituato, deve poter riconoscere la
differenza culturale veicolata dal testo straniero importato; tuttavia egli avverte anche
che questo è possibile solo se il lettore è in grado di "istituire una grande quantità di
confronti", quindi se possiede un certo grado di istruzione. Venuti riprenderà e
approfondirà le riflessioni di Schleiermacher, ma lo vedremo più avanti.
Occorre ora soffermarsi su un altro testo appartenente a questo stadio di "teoria e di
indagine ermeneutica"9, un testo destinato a diventare un punto di riferimento per gli
studi moderni sulla traduzione e dove si compie un decisivo passo in avanti rispetto
all'approccio tradizionale al problema, vale a dire Il compito del traduttore di Walter
Benjamin. Pubblicato nel 1923 come introduzione alla traduzione tedesca di Tableaux
parisiens di Baudelaire, questo saggio propone di considerare la traduzione letteraria da
una prospettiva diversa da quella tradizionale, che si basava sulla dicotomia fedeltà-
libertà; la finalità ultima della traduzione non deve più essere la somiglianza con
l'originale o la comunicazione del suo senso, poiché tradurre comporta necessariamente
una trasformazione: la parola poetica dell'originale non è trasferibile, come d'altra parte
aveva già sottolineato Schleiermacher. La novità introdotta da Benjamin è costituita
dall'introduzione del concetto di "pura lingua", una sorta di linguaggio pre-babelico che
non è accessibile a nessuna lingua singolarmente bensì alla "totalità delle loro intenzioni
reciprocamente complementari"10; il compito del traduttore sarà quindi quello di far
risuonare nel suo lavoro questa unica lingua vera, affrontando l'estraneità delle lingue
9 Steiner 1975, p.23010 W. Benjamin, Il Compito del Traduttore, 1923, in Nergaard 1993 p.227
9
per mostrare come queste siano in realtà "frammenti di una lingua più grande"11. Per far
ciò occorre che la traduzione tocchi l'originale solo in un piccolissimo punto di senso
per poi allontanarsi, seguendo il proprio percorso linguistico ma, avverte Benjamin,
restando sempre fedele alla sintassi, perché è qui che può emergere la differenza
complementare delle lingue.
Come si può notare da quanto visto finora, se prima la traduzione veniva considerata
un'esperienza individuale ed empirica, da questo momento comincia a farsi strada l'idea
che la pratica del tradurre possa essere affrontata da una prospettiva ermeneutica e possa
avere influenze a livello collettivo; Goethe parla di una Weltliteratur, una letteratura
universale che rappresenti il punto d'incontro tra le culture, e la traduzione svolgerebbe
un ruolo di primo piano nella sua costituzione, contribuendo da un lato ad arricchire la
lingua e la cultura d'arrivo, dall'altro a svecchiare e infondere un nuovo spirito in quelle
di partenza.
1.3 La corrente moderna
Parallelamente alla diffusione del movimento formalista e degli studi linguistici nell'est
europeo l'interesse gradualmente si sposta verso l'analisi dei meccanismi linguistici che
rendono possibile la traduzione, dei modi per ottenere la corrispondenza semantica tra
un testo di partenza e un testo d'arrivo, delle relazioni che si instaurano tra sistemi
grammaticali diversi. Steiner parla di un periodo di "esplorazione intensa"12, durante il
quale nascono riviste specializzate e si instaurano collaborazioni più o meno proficue
fra traduttori professionisti. La traduzione viene considerata come un atto
primariamente linguistico che si realizza attraverso l'individuazione di equivalenze tra il
testo di partenza e il testo d'arrivo, ed è in questa fase che si apre la strada
all'applicazione delle leggi della statistica., della linguistica strutturale e, più avanti,
all'uso del computer, per individuare norme universali su cui costruire processi di
traduzione automatica; si tratta un punto di vista rigorosamente scientifico, il cui
riferimento costante è la lingua di partenza e la sua equivalenza con la lingua d'arrivo;
queste metodologie source-oriented, funzionali all'originale, conducono presto alla
conclusione dell'intraducibilità, essendo impossibile una corrispondenza di forma e di 11 ibidem, p.23212 Steiner 1975, p.230
10
senso assoluta tra testi scritti in lingue diverse. Di quest'idea è Eugene Nida, che
concede che si possano produrre equivalenze "abbastanza soddisfacenti" a patto che si
presti estrema attenzione a due tipi di insidie nelle quali può cadere il traduttore, vale a
dire gli errori di equivalenza sintattica e quelli di adattamento culturale:
Quando ci sono equivalenti inadeguati della strutturazione sintattica degli enunciati [...] in genere riconosciamo subito queste pecche e o le scusiamo, o almeno siamo in grado di ignorarle nel tentare di risalire al significato. Gli errori di equivalenza culturale non portano invece con sé indicazioni così ovvie, e di conseguenza la mancata concordanza non viene compresa, né l'origine dell'errore è individuabile a partire dal testo stesso.13
Nel primo caso la traduzione viene percepita come "straniera e innaturale", ma sebbene
siano pecche fastidiose non portano a gravi conseguenze a livello di comprensione del
testo, poiché sono facilmente riconoscibili; le mancanze a livello culturale sono invece
più subdole e più dannose, poiché ostacolano la finalità ultima della traduzione che
secondo Nida consiste nel fare in modo che il lettore della traduzione reagisca al testo in
maniera simile al lettore della versione originale.
Questa impostazione inizia tuttavia a vacillare nei primi anni Sessanta, quando il nuovo
approccio allo studio del testo promosso dai formalisti introduce il concetto di
letterarietà; non si tratta più di descrivere i meccanismi attraverso i quali si realizza la
traduzione, bensì di indicare le caratteristiche che la rendono tale, e quindi si passa da
un'analisi di tipo sintattico-grammaticale che aveva come punto di partenza il testo
originale a un'analisi testuale e pragmatica a partire dall'esperienza del testo tradotto.
Jackobson per esempio parla di "equivalenza nella differenza", e afferma che "ogni
esperienza conoscitiva può essere espressa e classificata in qualsiasi lingua esistente"14
attraverso l'uso di espedienti come neologismi o locuzioni; ciò che deve essere
mantenuto nel passaggio da una lingua all'altra è un nucleo di significato che
rappresenta l'essenza del messaggio dell'autore.
Negli anni Settanta e Ottanta, mentre Steiner scrive Dopo Babele, l'abbandono degli
obsoleti prescriptive translation studies è definitivo: alle teorie finalizzate a stabilire
delle norme per la corretta traduzione si sostituiscono i descriptive translation studies.
13 E. Nida, Principi di traduzione esemplificati dalla traduzione della Bibbia, 1959, in Teorie Contemporanee della traduzione, a cura di Siri Nergaard, Bompiani, 1995, p.180
14 R. Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, 1959, ibidem, p.54-56
11
che si preoccupano di analizzare il testo d'arrivo in se stesso, senza partire da
orientazioni teoriche particolari, che potranno venire messe a fuoco solo in seguito.
Come afferma Gentzler, questo approccio "reverse the order of thought, suggesting that
the field first look at what is specific about translation, and then apply that knowledge to
literary and linguistic theory. As a result, Translation Studies scholars attempt to avoid
preordained, fixed and immutable prescriptives and remain open for constant self-
evaluation and evolution."15. La dimensione culturale assume in questo periodo una
grande importanza, e si studia il rapporto che si instaura fra la traduzione -ora
considerata a pieno titolo un testo autonomo- e la cultura che la accoglie, in termini di
accettazione o rifiuto. Protagonisti di questa fase sono gli autori della scuola di Tel Aviv,
in particolare Gideon Toury e Itamar Even-Zohar; essi si oppongono al metodo
tradizionale di analisi dei testi tradotti source-oriented, che partiva dal testo originale
per individuare eventuali problemi di traduzione e le loro possibili soluzioni, e
prediligono un approccio target-oriented, che a partire dalle traduzioni stesse mira a
individuare e ricostruire le strategie che ne hanno determinato la conformazione. Toury
afferma infatti che "le traduzioni [sono] fatti appartenenti ad un solo sistema: il sistema
d'arrivo"16 e che il traduttore opera esclusivamente in funzione della cultura verso la
quale traduce; pertanto ha senso solo un’analisi eseguita a posteriori, a partire dal
prodotto finale della traduzione, la cui realizzazione è stata vincolata e condizionata
dalle norme del sistema d'arrivo. Even-Zohar intanto introduce il concetto di polisistema
letterario basandosi "sull'ipotesi di lavoro per la quale sarebbe più conveniente [...]
considerare tutti i tipi di testi, letterari e semiletterari, come un aggregato di sistemi"17;
sempre seguendo un approccio target-oriented, la letteratura tradotta viene a costituire
un sistema letterario in sé che interagisce con altri sistemi, e in particolare ogni testo
tradotto subisce influenze e condizionamenti dagli altri testi tradotti nella stessa cultura
e dal suo sistema letterario generale.
15 E. Gentzler, Contemporary Translation Theories, Routledge, 1993, p.7716 G. Toury, Principi per un'analisi descrittiva della traduzione, 1980, in Nergaard 1995, p.18717 I. Even-Zohar, La posizione della letteratura tradotta all'interno del polisistema letterario, 1978,
ibidem, p.228
12
1.4 Translation Studies
Arriviamo cosi alla corrente contemporanea degli studi sulla traduzione, il cui nome
viene proposto per la prima volta da James S. Holmes nell'articolo The name and
Nature of Translation Studies del 1972. Gli obiettivi di questo tipo di studi sono allo
stesso tempo descrittivi e teorici: ai già citati descriptive translation studies Holmes
affianca i theoretical translation studies, finalizzati a definire principi generali che
orientino la descrizione e la spiegazione delle esperienza di traduzione. Pochi anni dopo
Lefevere accetterà questa denominazione, e si può dire che da questo momento la
traduzione assume lo statuto di disciplina a tutti gli effetti, senza le pretese prescrittive
di una scienza né l'uniformità e univocità di una teoria. Con il termine translation
studies in particolare ci si riferisce tanto al processo di traduzione quanto al suo
risultato, e la centralità dell'indagine è occupata dalla spiegazione delle scelte e delle
strategie adottate dal traduttore.
Dopo una prima serie di opere che sistematizzano il lavoro di ricerca sulla traduzione,
tra cui è importante citare Translation Studies di Bassnett-McGuire nel 1980, si assiste
ad un cosiddetto cultural turn, una svolta culturale promossa dagli stessi Bassnett-
McGuire e Lefevere. Quest'ultimo scrive Translation, History, and Culture nel 1992, e
spiega come il processo dinamico di traduzione implichi una negoziazione con la
cultura di ricezione e dipenda da precise circostanze storiche. Altrove Lefevere parla
della traduzione come di una riscrittura, una trasformazione del testo di partenza, il che
sancisce definitivamente l'autonomia del testo tradotto rispetto all'originale e la
responsabilità del traduttore di salvare da "parochialism and inbreeding" la propria
letteratura nazionale attraverso l'importazione di " new and unfamiliar sounds"18. Nuovi
impulsi alla disciplina provengono infine dalla corrente post-strutturalista e dai suoi
rappresentanti, in particolare Derrida e de Man, che riconsiderano criticamente i
concetti cardine delle teorie tradizionali e mettono in discussione l'idea di traduzione
come strumento di mediazione culturale, considerandola piuttosto un veicolo per
evidenziare la differenza tra le culture stesse.
18 A. Lefevere, Translating Poetry, Van Gorcum, 1975, p.105
13
2 Il decostruzionismo e i translation studiesCome anticipato nel precedente capitolo, le teorie della traduzione più recenti hanno
subito l'influenza innegabile e decisiva del movimento decostruzionista, in particolare in
seguito alla ricezione e "istituzionalizzazione" del pensiero di Jacques Derrida negli
Stati Uniti da parte degli Yale critics. Nonostante lo stesso Derrida avesse avuto modo di
affermare che la decostruzione "is not a method and cannot be tranformed into one"19, i
pragmatici intellettuali americani la interpretano come una metodologia di analisi
critica e ne individuano presunti principi e norme, che se da una parte comportano
l'addomesticamento forzato di una pratica che nasce come eversiva e destabilizzante,
dall'altro permettono al movimento di diffondersi con successo a livello accademico e di
trovare vari campi di applicazione al di fuori della filosofia e della letteratura.
In questo capitolo accennerò al decostruzionismo "originale" di Jacques Derrida, per
soffermarmi poi sugli sviluppi statunitensi e sull'apporto di Paul de Man, e su quanto
questi impulsi abbiano lasciato il segno per quanto riguarda i translation studies.
2.1 Nascita e sviluppo del decostruzionismo: Jacques Derrida
E' bene iniziare con una precisazione: "decostruzionismo" è un termine al quale i
filosofi e gli studiosi che lo mettono in pratica preferiscono "decostruzione", in quanto
sono concordi nel denunciare che ogni ismo porta con se una normalizzazione, un
dogmatismo, una riduzione a tesi, e il tentativo di fornire una serie di regole e criteri
prestabiliti che ne permettano la teorizzazione a quello che essenzialmente è una pratica
di lettura e scrittura è un favore non richiesto né particolarmente apprezzato. Tuttavia,
come afferma Diodato, il termine è particolarmente adatto proprio per queste sue
caratteristiche, in quanto se non altro ha il merito di marcare la netta distanza tra "una
pratica inimitabile e in movimento e i limiti di una traduzione dei suoi contenuti"20.
Il maggior esponente e primo teorico del movimento che pratica la decostruzione è il
filosofo francese Jacques Derrida, che lo introduce sulla scena accademica negli anni
Sessanta. A lui si deve anche la scelta, appunto, della parola che lo definisce, come
19 J. Derrida, Letter to a Japanese Friend, 1983, in Derrida and Differance, ed. Wood & Bernasconi, Warwick: Parousia Press, 1985, p.3
20 R. Diodato, Decostrusionismo, Editrice Bibliografica, 1996, p.5
14
spiega nella Lettera a un amico giapponese:
When I chose the word, or when it imposed itself to me [...] I little thought it would be credited with such a central role in the discourse that interested me at the time. Among other things I wished to translate and adapt to my own ends the Heidggerian word Destruktion or Abbau. Each signified in this context an operation bearing on the structure or traditional architecture of the fundamental concepts of onthology or of Western metaphysics. [...] I remembed having looked to see if the word "deconstruction" (which came to me it seemed quite spontaneously) was good French. I found it in the Littré. The grammatical, linguistic, or rethorical senses [...] were found bound up with a "mechanical" sense [...]. This association appeared very fortunate, and fortunately adapted to what I wanted at least to suggest..21
La considerazione da cui muove il decostruzionismo è l'inadeguatezza del linguaggio a
formulare proposizioni logiche e incontrovertibili sulle cose, e quindi l'impossibilità di
descrivere con esattezza e verità la realtà. Per questo motivo il movimento non ambisce
a fondare leggi assolute e si articola essenzialmente come una pratica di scrittura su
scrittura: i decostruzionisti effettuano un'analisi critica dei testi appartenenti alla
tradizione, volta a smontarne la struttura per svelarne le incongruenze e le
contraddizioni interne, per far emergere il non-detto e i significati inconsci, al fine di
dimostrare come non sia possibile rintracciare al loro interno un senso unico e univoco,
poiché ci si trova di fronte a una pluralità potenzialmente infinita di letture e di
significati, assenti ma nello stesso tempo presenti come tracce di qualcosa che manca.
"Non esiste nulla al di là del testo"22 ("Il n'y a pas de hors-texte") è una frase chiave per
avvicinarsi alla pratica decostruttiva: un testo non rimanda a nulla al di fuori di sé, non è
espressione di teorie né delle intenzioni del suo autore: il testo è "un palcoscenico, una
cornice che ospita una messinscena, uno spettacolo, una finzione capace di crescere e
proliferare nelle letture, nelle interpretazioni"23. Il testo apre all'interpretazione creativa,
che si articola in una catena ermeneutica ininterrotta; il significato slitta e differisce
continuamente da un segno grafico all'altro, da una traccia all'altra, ed è quindi
irraggiungibile in maniera definitiva. La pratica decostruttiva è un lavoro rigoroso sul
testo che ha come fine mostrare questo infinito differimento, mettendo in crisi l'idea
tradizionale di un centro di significato attorno al quale si organizzerebbero e
21 Wood & Bernasconi 1985, p.122 J. Derrida, Della Grammatologia, 1967, versione italiana a cura di Gianfranco Dalmasso, Jaca book,
1969, p.182 23 Diodato 1996, p.25
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strutturerebbero i vari elementi testuali.
Nonostante queste premesse i decostruzionisti non fanno della mera distruzione; la
corrente antimetafisica cui appartengono, rifacendosi a pensatori come Nietzsche e
Heidegger, afferma che non è più possibile ignorare i limiti della tradizione filosofica,
ma allo stesso tempo presuppone la possibilità di costruire una filosofia alternativa, che
abbandoni le pretese di trasparenza e che si mantenga al margine del linguaggio. La
scrittura decostruttiva mette in pratica un "doppio gesto", che da una parte capovolge la
gerarchia delle opposizioni concettuali, le coppie di contrari sul cui rapporto dinamico si
basa tradizionalmente il sistema testuale, ma dall'altra mette in atto una ricostruzione
dell'argomentazione filosofica che prevede l'allontanamento da ogni essenzialismo:
il decostruzionismo [...] riconosce l'inevitabilità dei sistemi concettuali ma insieme pretende che tali sistemi rinuncino alle pretese di essenzialismo, fondazionismo, corrispondenza, conoscenza privilegiata, ontoteologia, logocentrismo. [...] può fare tutto ciò in quanto lo mostra ponendosi come scrittura, in quanto si autogiustifica nella sua stessa pratica.24
In sostanza fare filosofia dopo la morte della filosofia diventa "una interpretazione
testuale generalizzata" che avviene attraverso "una pratica [...] di stile e di
trasformazione del vocabolario attuale"25. Non si cerca più di rintracciare il significato
originario del testo, che è inevitabilmente perduto, bensì di frammentare il messaggio
che ci arriva come traccia, come lascito di un autore assente. L'obiettivo per Derrida è
problematizzare e rendere perturbanti quegli elementi della tradizione che il lettore era
abituato a considerare lineari e trasparenti, in modo da mettere in luce soprattutto la
differenza che intercorre necessariamente tra le nostre interpretazioni e gli oggetti
interpretati; a tal proposito Derrida introduce il termine différance, che indica sia il
divario incolmabile tra la traccia e ciò cui essa rimanda, sia l'infinito differimento,
spostamento, disseminamento del significato messo in atto attraverso l'esercizio di una
scrittura eversiva, che manifesta l'assenza di un significato ovvio rinviando all'infinito
ad un referente in realtà irraggiungibile, ma comunque sempre possibile. Una lettura
decostruzionista efficace "procede passando di differenza in differenza, di traccia in
traccia senza mai smarrirsi in un puro esercizio grafico, senza mai volersi smarrire
24 ibidem, p.3025 M. Ferraris, La Svolta Testuale: il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli 'Yale Critics' , Unicopoli,
1984, p.24
16
nell'indifferenza della semplice ripetizione: [...] Derrida è interessato al (sempre)
possibile e non al nulla."26.
2.2 Il decostruzionismo in America: gli Yale critics
Negli Stati Uniti il decostruzionismo e i suoi principi sono ricevuti e accolti con
entusiasmo già nel 1966, quando Derrida partecipa, invitato da René Girard, al
convegno di Baltimora "The languages of criticism and the science of man". Il
movimento si diffonde poi in corrispondenza con gli spostamenti del filosofo francese,
che insegna in qualità di visting professor in varie università americane, tra cui,
appunto, quella di Yale. Qui il suo approccio all'analisi testuale troverà grande seguito
soprattutto presso un gruppo di illustri critici letterari, che verranno polemicamente
etichettati col nome di Yale critics da certi detrattori del decostruzionismo. La loro
pratica di lettura e critica decostruzionista è stata oggetto dell'attenzione di Richard
Rorty, che nel saggio Nineteenth Century Idealism and Twentieth Century Textualism la
colloca nel più ampio filone del "testualismo", un termine con il quale definisce la
tendenza contemporanea, di derivazione romantico-idealista, finalizzata a costruire una
cultura basata sull'interpretazione potenzialmente illimitata dei testi che costituiscono la
storia del sapere umano. In questo saggio viene proposta la distinzione tra un
"testualismo forte" (strong textualism) che "assume il testo come semplice supporto di
un'analisi del tutto autonoma rispetto alle dichiarazioni esplicite contenute in esso", e un
"testualismo debole" (weak textualism), più aderente alle "intenzioni dichiarate dal testo
preso in esame"27. Il decostruzionismo letterario, secondo Rorty, si collocherebbe nel
ramo del testualismo debole, proprio in virtù della sua estrema enfasi sul messaggio
letterario in sé, e il decostruzionismo di Yale in particolare "appare [...] come quella
modalità ermeneutica attraverso la quale il critico si pone come un bricoleur di testi fatti
interagire gli uni con gli altri, ma che vengono rispettati nella loro dimensione testuale,
e non sono trattati come sintomi di altre realtà"28. Come già sostenevano gli esponenti
del New criticism il testo va letto per se stesso, senza cercare di ricondurlo a teorie
letterarie o schemi concettuali, ma l'apporto del decostruzionismo modifica l'oggetto e
26 S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile: un'introduzione, Jaca book, 1997, p.16327 Ferraris 1984, p.10628 ibidem, p.109
17
quindi l'obiettivo dell'analisi critica: è necessario ora cogliere nel testo non la coerenza
interna, il nesso fra i vari elementi che lo compongono, bensì le incongruenze e le
contraddizioni nascoste, gli elementi perturbanti che ne impediscono un'interpretazione
univoca e che ne sanciscono, di fatto, l'illeggibilità.
Tra gli Yale critics il più influente è senz'altro Paul de Man; presente all'esordio di
Derrida negli Stati Uniti e convinto sostenitore del decostruzionismo, rielabora
l'insegnamento del filosofo francese introducendo interessanti novità. Secondo de Man
la critica novecentesca è stata caratterizzata da una dialettica tra "cecità e visione", per
la quale i critici più rigorosi "sembrano destinati stranamente a dire qualcosa di assai
differente da ciò che intendevano dire. La loro posizione critica [...]è rovesciata dai loro
risultati critici. Ne consegue una prospettiva penetrante ma difficile sulla natura del
linguaggio letterario. Sembra, tuttavia, che questa prospettiva sia stata ottenuta solo
perché i critici erano in preda a questa singolare cecità: il loro linguaggio poté procedere
alla cieca verso un certo grado di lucidità solo perché il loro metodo trascurò di
coglierne il bagliore."29. In sostanza, le analisi critiche più lucide portano i loro autori a
smentire i propri assunti teorici di riferimento. Questo non significa che basti adottare
un approccio al testo più "immanente", poiché, seguendo le tesi di Peirce, de Man è
consapevole che in un’interpretazione è impossibile eliminare un certo grado di
soggettività da parte dell'interpretante; è però opportuno rinunciare ad un approccio
puramente metodico all'analisi del testo, e mettere in atto una "resistenza alla teoria",
cioè una lettura che si opponga alle teorie della letteratura fondate sulla grammatica. De
Man sottolinea come il testo letterario (e solo quello) si articoli su due livelli,
grammaticale e retorico; le marcature retoriche del testo sono gli elementi che lo
caratterizzano come letterario, e per questo devono essere enfatizzate da una lettura che
voglia dirsi decostruzionista. L'aderenza al testo è totale: al contrario di Derrida, de Man
si concentra sull'aspetto filologico del messaggio abbandonando qualsiasi approccio
filosofico; rivaluta la dimensione retorica come indipendente e necessaria, non più
semplice ornamento testuale, in opposizione ad un metalinguaggio critico che ormai non
è più possibile. Una conseguenza di queste riflessioni è che, secondo de Man, ogni testo
29 P. de Man, Cecità e Visione / Linguaggio Letterario e Critica Contemporanea,, 1971, trad. it. di Eduardo Saccone, Liguori, 1975, pp.131-32
18
letterario contiene già in sé la propria decostruzione: "il testo [...]si autodecostruisce:
consente letture multiple ma incompatibili, cosicché qualsiasi lettura ammessa come
vera potrà comunque essere smontata [...] da altre letture, da altri elementi contenuti nel
testo."30. La doppia lettura è diretta conseguenza della duplicità allegorica del testo, che
a livello grammaticale presenta un significato trasparente e chiaro e a livello retorico un
altro significato non immediatamente visibile. Ogni testo contiene in sé la possibilità di
due letture, diverse e incompatibili tra loro ma entrambe perfettamente legittime: "l'una
è precisamente l'errore denunciato dall'altra, e non può che essere annullata da essa" 31.
Pertanto il commento critico non è una semplice appendice del testo, bensì è finalizzato
a metterne in evidenza la frattura interna, il carattere allegorico e contraddittorio, in
sostanza a dimostrarne l'illeggibilità - intesa come l'impossibilità di individuare un senso
univoco. E' impossibile scegliere tra le due letture in termini di verità ed errore, poiché
entrambe sono possibili; viene abbandonato qualsiasi simbolismo e affermata
l'impossibilità di dare un unico senso ad un testo che rimane in balia "di una confusione
potenziale tra enunciato figurato e enunciato referenziale"32. Il critico ha il compito di
distinguere, e non di decidere.
2.3 L'incontro con i translation studies
L'atteggiamento nei confronti dell'interpretazione testuale proposto da Derrida e diffuso
negli Stati Uniti dai suoi discepoli non poteva non avere influenza diretta anche
nell'ambito della traduzione, soprattutto in un periodo già caratterizzato da un
proliferare di studi sull'argomento. Il movimento dei translation studies aveva già preso
il via dalle teorie degli studiosi della scuola di Tel Aviv e dai contributi di letterati
americani come Holmes e Lefevere, che avevano introdotto importanti novità, prima fra
tutte il riconoscimento "ufficiale" dell'autonomia del testo tradotto rispetto all'originale;
questo aveva spostato l'attenzione dall'analisi dei meccanismi di resa dell'equivalenza
tra originale e traduzione allo studio del testo tradotto in sé, delle scelte che avevano
guidato il traduttore e dell'impatto di queste sulla cultura ricevente. Tuttavia, seppure
autonomo e indipendente, il testo tradotto continuava ad essere considerato una
30 Sabrina Ferri, Allegorie della lettura in Paul de Man, in "Testo e Senso" n.2, 1999, p.16531 P. de Man, Allegorie della lettura, 1979, trad. it. di Eduardo Saccone, Einaudi, 1997, p.1932 De Man 1979, p.127
19
derivazione da un'opera originale completa e compiuta in se stessa, cui si sforzava di
assomigliare tanto nello stile quanto nell'effetto che doveva produrre sul lettore; la
distinzione gerarchica e la relazione di dipendenza che legava la traduzione al suo
originale non era mai venuta meno, e la traduzione aveva il compito di trasportare il
significato del testo originale il più possibile intatto verso un'altra lingua e cultura,
quindi di mediare una comunicazione.
La crisi di originalità e autorialità
Il decostruzionismo come abbiamo visto mette in crisi l'idea di un'unità testuale
organizzata attorno ad un unico centro di significato, presentando il testo come una
catena di significanti ininterrotta in cui il significato differisce continuamente da una
traccia grafica all'altra, in un gioco linguistico di presenza ed assenza che può dare
luogo a una molteplicità inesauribile di interpretazioni. La teoria della traduzione dei
translation studies muove da questo presupposto per affermare che in realtà non esiste
un originale da cui partire, poiché l'identità stessa dell'originale cambia in base alle
letture e alle interpretazioni. Edwin Gentzler nella sua opera Contemporary Translation
Theories individua una serie di domande potenzialmente destabilizzanti che sorgono nel
momento in cui si pensa al problema della traduzione in termini decostruzionisti:
What if one theoretically reversed the direction of thought and posited the hypothesis that the original text is dependent upon the translation? What if one suggested that , without translation, the original text ceased to exist , that the very survival of the original depends not on any particular quality it contains, but upon those qualities that its translation contains? What if the very definition of a text's meaning was determined not by the original, but by the translation?33
Il testo originale non ha un significato fisso e stabile che si possa afferrare e
ritrasmettere, e quindi non ha senso parlare di traduzione come di derivazione. Se al di
là del linguaggio non esiste niente di certo, come postulano i decostruzionisti, una
corrispondenza totale al cambiare del codice linguistico non è realizzabile, perché "che
rapporto potrebbe ancora intercorrere [...] tra due parole assolutamente diverse, sciolte
cioè da qualsiasi legame che le unisca?"34. L'esperienza della traduzione è in questo
senso impossibile, tuttavia è necessaria al testo originale perché diventi completo. La
33 Gentzler 1993, p.144-14534 Caterina Resta, La misura della differenza: saggi su Heidegger, Guerini, 1988, p.123
20
prospettiva con cui si guarda al testo viene rovesciata, come già era accaduto
nell'ambito della critica degli studiosi di Yale; la traduzione non deve cercare di mediare
per la cultura ricevente un messaggio originale che in realtà non esiste, deve bensì
mettere in luce il continuo slittamento di significato, le fratture interne del testo
originale, mostrare come sia impossibile procedere secondo parametri di equivalenza e
mettere in scena l'esperienza della differenza. Scrive Derrida:
Se il traduttore non restituisce né copia un originale, è perché quest'ultimo sopravvive e si trasforma. La traduzione sarà in verità un momento della sua propria crescita, vi si completerà nell'ingrandirsi [...]. Se l'originale domanda un complemento è perché all'origine non era là senza colpa, pieno, completo, totale, identico a sé.35
e de Man:
the original [...] demands translation; it cannot be definitive since it can be translated. [...] The translation canonizes, freezes, an original and shows in the original a mobility, an instability, which at first one didn't notice36
La traduzione ha quindi il merito di garantire la sopravvivenza e la canonizzazione
dell'originale, proprio perché contribuisce a farne intravedere la trama nascosta, il gioco
della différance che ne governa la struttura. L'originale si può chiamare tale solo quando
viene tradotto, poiché è la traduzione che ne mette in moto le dinamiche interne, che
libera il potenziale nascosto del testo e del linguaggio. Si tratta in ogni caso di una vera
e propria trasformazione del testo di partenza, una ricostruzione che comporta
necessariamente una violenza sulla struttura originale, una serie di modifiche che in
parte costituiscono delle perdite e in parte degli arricchimenti ma che mai riusciranno a
produrre un testo che sia equivalente all'originale. In sostanza si tratta di sostituire la
catena di significanti che costituisce il testo originale con un'altra catena di significanti,
dimenticando nozioni come identità di senso o fedeltà e concentrandosi solo sul
linguaggio in se stesso. Allo stesso modo, il decostruzionismo mette in questione la
nozione tradizionale di autorialità. Il testo originale era considerato gerarchicamente
superiore a qualsiasi traduzione se ne potesse trarre perché manifestazione diretta delle
qualità personali del suo autore, e quindi prodotto della sua specifica identità e della sua
35 J.Derrida, Des tours de Babel, 1985, in Nergaard 1995 p.39736 P. de Man, '"Conclusions: Walter Benjamin's The Task of the Translator', 1983, in The Resistance to
Theory, Manchester University Press, 1986, p.82
21
spontanea ispirazione. Si deve a Michel Foucault l'idea che in realtà l'atto della
creazione è condizionato da una serie di circostanze determinate storicamente, e
l'ispirazione dell'autore non proviene dalla naturale predisposizione del suo spirito,
bensì è influenzata in maniera determinante dal suo contesto di formazione, dal sistema
di relazioni in cui è inserito, dal tempo e dallo spazio in cui si trova ad agire, elementi
dei quali non è quasi consapevole. Più che un individuo, l'autore è una "funzione", utile
a semplificare concettualmente il complicato processo che sta dietro la creazione; in
realtà il linguaggio letterario non si esaurisce in un significato univoco che gli viene
attribuito dall'autore, bensì è costantemente autoreferenziale, rimanda continuamente a
se stesso e a null'altro, come se si scrivesse da sé. Ai decostruzionisti interessa poco
l'autore o il significato esplicito che questi avrebbe dato al testo, e la loro analisi si
dirige verso il non detto, verso gli elementi che non sono visibili ma che veicolano un
significato represso e nascosto dalla struttura testuale. Ed è proprio la traduzione che fa
emergere questo significato nascosto, che orienta il senso dell'originale e che mette in
scena il gioco delle parole su loro stesse; il traduttore non deve semplicemente mediare
una comunicazione attraverso le culture, bensì deve creare un testo che sia il luogo del
movimento del significato, che invece di fissare un senso per l'originale ne estenda i
confini e permetta al gioco della differenza di continuare in altre nuove direzioni.
Nuovo concetto di equivalenza
Il fenomeno della traduzione assume quindi nuove connotazioni alla luce delle teorie
decostruzioniste. Abbiamo visto crollare i concetti di autorialità e originalità, e quindi la
crisi della distinzione gerarchica tra il testo originale e la traduzione; in sostanza i due
testi sono equivalenti e si complementano a vicenda:
If the relation of the translation to the original is that of complement, the reverse is also true, and the relation is by nature symmetric. But if the essential relation is symmetric, there is no provision to mark any essential difference between an original and a translation. The two need each other in the same way, and they complement each other in the same way. To that extent they are equivalent.37
Abbiamo inoltre messo in luce come sia impossibile pensare di trasportare intatta una
catena di significanti da una lingua all'altra senza perdere - o acquistare - qualcosa per
37 Difference in Translation, edited and with an introduction by J. Graham, Cornell University Press, 1985, p.27
22
strada, e come la traduzione debba occuparsi di limitare le perdite e intensificare i
guadagni, realizzando una catena di significanti parallela che più che adattare e mediare
la comunicazione tra culture metta in evidenza il gioco della differenza evocato dal testo
originale utilizzando la lingua d'arrivo. Per far ciò il traduttore deve cercare di esprimere
l'inespresso scrivendo un testo retorico, nel quale il linguaggio faccia riferimento
costante a se stesso, dato che non esiste un significato fisso e stabile cui appoggiarsi.
A questo punto ci si potrebbe chiedere se sia ancora legittimo parlare di traduzione; il
lavoro critico della decostruzione è radicale nel smontare le categorie tradizionali del
discorso, e nel saggio What did Archimedes mean by 'χϱνσόϛ'? Robert J. Matthews pone
così la questione:
how can we abandon the traditional assumptions that meanings are determinate and furthermore present to mind without thereby impugning the very possibility of translation?38
Sappiamo che la traduzione è possibile e realizzabile, poiché ne possediamo esempi su
esempi; tuttavia manca una teoria che descriva e spieghi ciò che renda una traduzione
tale. E' perciò necessaria una nuova teoria del linguaggio, un nuovo criterio di
equivalenza, che spieghi come sia possibile il fenomeno della traduzione in un contesto
privato di punti di riferimento stabili. Derrida suggerisce di abbandonare il termine
"traduzione" e parlare invece di una "trasformazione regolata di una lingua da parte di
un'altra lingua, di un testo da parte di un altro testo"39, una prospettiva che mette in
evidenza come non si possa parlare più di una semplice mediazione, del trasferimento di
un nucleo di significato che bene o male rimane immutato. Il filosofo francese, nel suo
commento al saggio di Benjamin, riprende il concetto di reine Sprache, la lingua pura
enigmatica e irraggiungibile di cui originale e traduzione costituiscono i frammenti
scomposti: il compito, impossibile ma necessario, del traduttore è precisamente quello
di far combaciare questi due frammenti così da evocare, attraverso la rappresentazione
della loro differenza strutturale, questa lingua superiore, la cui -presupposta- esistenza è
ciò che garantisce la possibilità stessa della traduzione.
Abbiamo detto che il traduttore deve rappresentare la differenza; per farlo si vedrà
38 R. J. Matthews, What Did Archimedes Mean by 'χϱνσόϛ'?, ibidem, p.15139 J.Derrida, Posizioni: Scene, atti, figure della disseminazione, 1972, trad. it. di Marialuisa Chiappini e
Giuseppe Sertoli, Ombre Corte Edizioni, 1999, p.31
23
costretto ad operare una radicale trasformazione del testo di partenza attraverso un uso
particolare della sua lingua, forzando le strutture sintattiche e grammaticali oltre i loro
limiti, usando termini insoliti e note a margine, sfruttando insomma qualsiasi espediente
che risulti per il lettore abbastanza destabilizzante da costringerlo a considerare il testo
proprio come una traduzione, da indurlo a riflettere sulle possibilità del linguaggio e sul
gioco della differenza qui svelato. Il contatto con l'originale sarà dato proprio dalla
corrispondenza di riferimento alla lingua pura, a quel piccolissimo punto di contatto di
senso tra i due testi. Ma fino a che punto è legittimo forzare il proprio linguaggio?
Seguiamo quello che Philip E. Lewis dice nel suo saggio The Measure of Translation
Effects:
the real possibility of translation -the translatability that emerges in the movement of difference as fundamental property of languagese- points to a risk to be assumed: that of the strong, forceful translation that values experimentation, tampers with usage, seeks to match the polyvalencies or plurivocities or expressive stresses of the original by producing its own. But [...] how far can the abuse be carried? does an abuse principle not risk sacrificing rigor to facility? sacrificing the faithful transmission of messages to playful thinkering with style and connotation?40
Se la traduzione è una violenza sul testo originale, come possiamo sapere fino a quale
livello possiamo spingerci nel modificarlo, senza che la traduzione rischi di deformarlo
irrimediabilmente? Esiste il rischio di subordinare il contenuto del messaggio alla
forma, così come prima esisteva il rischio opposto, e cioè quello di trascurare la resa
formale per rispettare con la massima fedeltà il significato del testo di partenza. Ma
Lewis è deciso nel rispondere che questo rischio in realtà non esiste, o meglio può
essere evitato facendo ricorso ad un nuovo concetto di fedeltà, "one that requires
attention to the chain of signifiers, to syntactic processes, to discursive structures, to the
incidence of language mechanisms on thought and reality formation, and so forth."41.
Ogni traduzione comporta una violenza e un abuso, ma questo abuso, se misurato e
costantemente tenuto sotto controllo, ha il merito di completare e ampliare l'originale
senza per questo sottrargli la propria identità, e compensare quindi le perdite che la
trasformazione del testo comporta irrimediabilmente. Il testo di partenza "survives by its
40 Philip E. Lewis, The measure of translation effects, in Graham 1985 p.41 41 ibidem, p.42
24
mutation. [...] It grows, matures"42, e una traduzione che non pratichi questo tipo di
"fedeltà abusiva" rischia di addomesticare eccessivamente il testo per la cultura
ricevente e di far così venir meno il gioco della differenza e il movimento del
linguaggio presenti nell'originale, compromettendo la ricezione del testo da parte del
pubblico e diminuendone il valore dinamico atrofizzandolo in un unico significato. Per
concludere, "la traduzione non cercherebbe di dire questo o quello, di trasportare tale o
tal altro contenuto, di comunicare questo carico di senso, ma di far rimarcare l'affinità
tra le lingue, di esibire la sua propria possibilità [...]. La traduzione rende presente in
una maniera [...] quasi profetica un'affinità che non è mai presente in questa
presentazione."43.
Cultural turn
Il rinnovamento iniziato con l'introduzione delle teorie decostruzioniste nel campo dei
translation studies raggiunge il suo apice negli anni '90, quando Susan Bassnett e André
Lefevere pubblicano una raccolta di saggi intitolata Translation, History and Culture; in
questa antologia si vuole sollecitare lo studio del testo tradotto non più da una
prospettiva semplicemente teorica o linguistica -che in ogni caso non è affatto da
rinnegare- bensì considerando fattori extratestuali che hanno la loro innegabile influenza
sulla creazione e sulla ricezione dell'opera in entrambe le sfere culturali, quella di
partenza e quella di arrivo. Per fattori extratestuali Bassnett e Lefevere intendono ad
esempio "how a text is selected for translation [...], what role the translator plays in that
selection, what role an editor, publisher or patron plays, what criteria determine the
strategies that will be employed by the translator, how a text might be received in the
target system."44, elementi legati strettamente al momento storico e alle condizioni in cui
la traduzione viene non solo realizzata, ma anche concepita, preparata e finalmente
ricevuta dalla cultura cui è destinata. Si tratta di individuare quei processi manipolatori
determinano l'opera dell'autore e del traduttore, i quali non lavorano in isolamento
(come già annotato da Foucault) bensì sono il prodotto di determinate circostanze
culturali. Bassnett e Lefevere mettono in particolare l'accento sull'importanza delle 42 Gentzler 1993 p.16543 Nergaard 1995, p.39544 Susan Bassnett, The Translation Turn in Cultural Studies, 1998, in Lo Stesso Altro, a cura di Susan
Petrilli, Melteni Editore, 2001, p.151
25
relazioni di potere che governano l'attività della traduzione, che molte volte è praticata
in base alle aspettative dei centri di potere e delle istituzioni della cultura d'arrivo. Lo
studio della traduzione può perciò servire a rendersi conto del sistema di manipolazione
del testo letterario messo in atto dalle istituzioni, a realizzare come l'individuo abbia ben
poco da dire in confronto a quanto già stabilito dai centri di potere. I traduttori, sia pure
inconsapevolmente, secondo Bassnett e Lefevere operano all'interno dei valori
propagandati dalle istituzioni, non potendo fare diversamente se vogliono farsi
intendere. In questo contesto una pratica di scrittura eversiva, che è esattamente ciò che
propone il decostruzionismo, è uno strumento importante per opporsi all'egemonia
culturale.
Tuttavia finora i vincoli e i limiti imposti dal linguaggio di arrivo difficilmente sono
stati superati; questo perché tradizionalmente il mondo accademico ha tenuto in scarsa
considerazione il lavoro del traduttore, limitandosi a valutare positivamente solo quelle
traduzioni che non lo sembrano, che cioè sono scritte in un linguaggio pienamente
corrispondente alle regole dello standard di arrivo, scorrevole e semplice, che faccia
sembrare la traduzione un originale. E' lo stesso motivo per il quale il nome del
traduttore viene relegato molto spesso sul retro della copertina, reso quasi invisibile,
tanto che le critiche letterarie dimenticano di menzionarlo come se non esistesse e come
se il testo ci giungesse tale e quale lo devono ricevere i lettori dell'originale. Il cultural
turn è l'ultimo appello dedicato al ribaltamento di questa prospettiva, con la differenza
rispetto al passato che si preoccupa soprattutto di questioni materiali e pragmatiche,
muovendo dalla sfera filosofica e linguistica. Considerare la traduzione come tale,
rendersi conto della differenza che veicola, permette di portare alla luce i significati
nascosti del testo proprio perché si assiste al linguaggio che richiama a gran voce
l'attenzione su se stesso e su qualcosa che il lettore deve essere stimolato ad afferrare.
Gentzler conclude il suo libro con un'esortazione:
I hope this book serves to aid future collaboration, to break down misconceptions of competing viewpoints, and to further open the door for new, alternative approaches. [...] The deconstruction of the authorities governing the field of translation, of literary criticism, of culture in general, is merely a first step. Although modern translation theory has evolved a long way since its structuralist beginnings, it now stands on the threshold of a very exciting new phase, one which can begin to unpack the relations in which meaning is constituted, and thus better
26
inform our post-structuralist conception of language and literary discourse, as well as our selves. With such insight, perhaps we will be less likely to dismiss that which does not fit into or measure up to our standards, and instead open our selves to alternative ways of perceiving -in other words, to invite real intra- and intercultural communication.45
Come vedremo nel prossimo capitolo, credo che questo appello sia stato raccolto in
questi ultimi anni da traduttori di professione tra i quali Lawrence Venuti, che
preoccupati per il proprio status di marginalità e invisibilità si occuperanno di formulare
nuovi concetti e proporre nuove pratiche per una riscossa della categoria, al fine di
svincolare la propria attività dalle relazioni di potere che finora l'hanno diretta e di
presentare il problema della traduzione sotto una nuova luce.
45 Gentzler 1993 p.198-199
27
3 Lawrence Venuti e il problema della traduzioneNei primi due capitoli ho discusso delle varie teorie e studi sulla traduzione che si sono
susseguiti nella storia e degli sviluppi più recenti caratterizzati dall'applicazione
dell'approccio decostruzionista al problema; ora intendo soffermarmi su Lawrence
Venuti, docente di Lingua e Letteratura inglese alla Temple University di Philadelphia e
traduttore professionista in particolare di autori italiani contemporanei, e sul suo
interessante e innovativo atteggiamento nei confronti della propria attività. Si può
legittimamente considerare Venuti tra i massimi rappresentanti del filone post-
strutturalista dei translation studies proprio perché dalla lettura delle sue numerose
pubblicazioni si avverte da un lato il debito con Derrida e il decostruzionismo
americano, e dall'altro l'interesse condiviso con Bassnett e Lefevere per uno studio della
traduzione più interdisciplinare, rivolto a questioni pratiche e a quella serie di
meccanismi che entrano in gioco nel processo traduttivo. La metodologia di lavoro che
segue e che consiglia a tutti quei traduttori che vogliano aderire alla sua lezione nasce a
partire dalla lettura dei vari intellettuali che si sono occupati del problema della
traduzione, e che ho citato nei primi capitoli. Sviluppando il pensiero -tra gli altri- di
Schleiermacher, Benjamin, Graham, Derrida, Venuti ha maturato una propria
convinzione riguardo a cosa significhi effettivamente scrivere una traduzione e a quali
prospettive future esistano per chi svolge questa attività.
La sua riflessione ha origine dalla constatazione effettiva di come il traduttore si ritrovi
attualmente a lavorare in una condizione di marginalità, trascurato da case editrici,
istituzioni e ambiti accademici, e per lo più dimenticato dai lettori; si tratta di una
situazione che può essere modificata solo agendo dall'interno, e quindi Venuti sprona i
propri colleghi a prendere coscienza del proprio ruolo e a sfruttare le potenzialità finora
ignorate della pratica traduttiva. A livello del singolo testo Venuti suggerisce al
traduttore l'adozione di particolari strategie traduttive che, agendo sul linguaggio,
rendano visibile e riconoscibile il suo intervento, e che costringano il lettore a leggere
tenendo presente che si tratta di una traduzione. In questo modo la differenza e l'alterità
costituite dal testo straniero possono venire alla luce e, una volta introdotte
violentemente nel panorama letterario nazionale, possono innescare un'azione di
28
dissenso e di resistenza ai valori tradizionali, che possa concretizzarsi in un
rinnovamento del canone e un'apertura all'estraneo e a nuove forme di scrittura andando
così ad arricchire il patrimonio culturale nazionale. Infine, Venuti considera la
situazione a livello internazionale, le asimmetrie culturali, economiche e politiche che si
sono andate consolidando nel corso dei secoli, e sottolinea come l'adozione di una
strategia traduttiva consapevole possa contribuire a riequilibrare i rapporti tra civiltà
nell'epoca della globalizzazione. L'obiettivo del suo discorso è promuovere nelle sedi
appropriate un ripensamento a livello di studio, insegnamento e valutazione -critica ed
economica- della pratica traduttiva, che va presa in molto più seria considerazione in
virtù del cambiamento e rinnovamento sociale che è in grado di promuovere se praticata
con il giusto rispetto per la differenza culturale e con il giusto atteggiamento eversivo e
allo stesso tempo costruttivo.
3.1 Che cos'è una traduzione
Prima di analizzare come Venuti suggerisce di affrontare il problema della traduzione è
bene soffermarsi sulla sua definizione dell'oggetto della questione:
"Translation is a process by which the chain of signifiers that constitutes the source-language text is replaced by a chain of signifiers in the target language which the translator provides on the strenght of an interpretation"46
Il riferimento a Derrida e al carattere differenziale e differito del significato è ormai
chiaro; il debito che le nuove teorie della traduzione hanno nei confronti della pratica
decostruzionista è ampiamente sottolineato da Venuti, che riconosce come la
"poststructuralist textuality redefines the notion of equivalence in translation by
assuming from the outset that the differential plurality in every text precludes a simple
correspondence of meaning", e che, più avanti, definisce la traduzione come
"transformative and interrogative [...] it sets going a deconstruction of the foreign
text"47. La traduzione è, anche per Venuti, il luogo dove può manifestarsi e svilupparsi il
gioco della differenza, e in sostanza le sue posizioni coincidono con quelle già
analizzate degli ultimi translation studies. Vorrei perciò soffermarmi sulla seconda parte
46 Lawrence Venuti, The translator's invisibility: a history of translation , Routledge, 1995, p.1747 Rethinking Translation: Discourse, Subjectivity, Ideology, edited by Lawrence Venuti, Routledge,
1992, p.7-8
29
della citazione sopra riportata, vale a dire sul concetto di "interpretazione".
L'autore considera il testo originale come "the site of many different semantic
possibilities that are fixed only provisionally in any one translation, on the basis of
varying cultural assumptions and interpretive choices, in specific social situations, in
different historical periods."48. Questa affermazione mette l'accento sul fatto che ogni
traduzione è storicamente determinata, dipendente dalla struttura nella quale viene
realizzata e in cui verrà poi recepita; per questo motivo ogni riedizione di un testo
originale costituisce una inevitabile violenza, una sopraffazione, una ricostruzione
secondo una linea interpretativa seguita dal traduttore e dipendente dalle circostanze in
cui si trova a lavorare. La traduzione riduce le infinite possibilità di significato del testo
di partenza e seleziona tra queste quelle che risulteranno meglio comprensibili al lettore
della lingua d'arrivo, introducendone allo stesso tempo di diverse, non previste
dall'autore originale:
A translation always communicates an interpretation, a foreign text that is partial and altered, supplemented with features peculiar to the translating language, no longer inscrutably foreign but made comprehensible in a distinctively domestic style.49
Come già suggerito da Graham, ogni traduzione è allo stesso tempo una perdita e un
guadagno, e Venuti sviluppa questa considerazione fino ad analizzarne le conseguenze
effettive nella cultura di partenza e nella cultura d'arrivo. Da una parte la traduzione può
agire sul canone letterario della cultura che la riceve, in termini di rinnovamento o
conservazione; d'altro canto la traduzione corre anche il rischio di ridurre
eccessivamente le potenzialità del messaggio originale e trasformarsi in un
addomesticamento del testo, che viene forzatamente ricondotto a valori scelti in seno
alla cultura d'arrivo; questo procedimento dà luogo alla formazione di stereotipi nei
confronti delle culture straniere, e si potrebbe trasformare in uno strumento di
discriminazione, propaganda, terrorismo. In ogni caso la responsabilità è nelle mani del
traduttore stesso: è lui che deve scegliere se aderire ai modelli dominanti
tradizionalmente nel settore o se mettere in pratica una forma di dissenso. Vedremo ora
quali scelte ha a disposizione secondo Venuti nel momento in cui deve realizzare il
48 Venuti 1995, p.1849 Lawrence Venuti, The Scandals of Translation: Towards an ethics of difference, Routledge, 1998, p.5
30
proprio testo, e quali strategie l'autore consiglia ai propri colleghi di seguire in virtù
appunto del rispetto dell'alterità del testo originale.
3.2 La visibilità del traduttore
IL TRADUTTORE INVISIBILE
Attualmente l'atteggiamento del mondo editoriale angloamericano è, per Venuti,
piuttosto ostile nei confronti della traduzione:
"Translation is stigmatized as a form of writing, discouraged by copyright law, depreciated by the academy, exploited by publishers and corporations, governments and religious organizations."50.
Si tratta di una disciplina relegata ad un ruolo del tutto marginale nel panorama
letterario nazionale, nel quale il traduttore scompare, vittima, non del tutto incolpevole,
di una sorta di invisibilità. Con questo termine l'autore intende una condizione che si
riferisce a due fenomeni: da una parte un "illusionistic effect"51 ricercato dallo stesso
traduttore, che si sforza di scrivere in maniera fluida e facilmente comprensibile per il
lettore, aderendo all'uso comune della lingua in cui traduce; dall'altra un atteggiamento
ampiamente diffuso da parte di chi legge e valuta la traduzione, il cui giudizio
favorevole è concesso a quelle traduzioni scritte con un linguaggio scorrevole, nel pieno
rispetto del messaggio e dello stile dell'autore, vale a dire traduzioni che non sembrano
tali, che potrebbero passare per originali. In effetti ci si può accorgere di quanto poco sia
tenuto in considerazione il lavoro del traduttore, o meglio di quanto si cerchi di
nascondere il suo intervento sull'originale semplicemente constatando come, salvo rare
eccezioni, il suo nome venga relegato sul retro della copertina, una sezione spesso
trascurata dal lettore comune che, nonostante sia consapevole di stare leggendo un testo
tradotto, preferisce dimenticarsene e dedicarsi ad una lettura che sia il meno
problematica possibile. In accordo a queste aspettative il testo viene riscritto dal
traduttore secondo lo standard della lingua di riferimento, in un linguaggio trasparente,
che richiama il meno possibile l'attenzione su se stesso per lasciar trasparire quello che
dovrebbe essere il messaggio originale, finalizzato insomma alla semplice
50 Venuti 1998, p.151 Venuti 1995, p.1
31
comunicazione di informazioni. Si tratta di un atteggiamento che riflette una concezione
di originalità e autorialità che come abbiamo visto i più recenti translation studies
cercano di smantellare, "the individualistic conception of authorship"52 che condanna la
traduzione a un ruolo secondario, ai limiti del falso, e che quindi impone al traduttore di
nascondere il più possibile il proprio intervento, di dare l'illusione della presenza diretta
dell'autore, di instaurare con lui un rapporto psicologico particolare fino alla repressione
della propria personalità, fino all'identificazione totale. Annullandosi nell'autore il
traduttore conferma e rafforza la propria posizione marginale nell'universo letterario, e
implicitamente autorizza critici e recensori a trascurare il processo traduttivo e a fare
riferimento al testo come se si trattasse di un originale.
Questa situazione di marginalità del traduttore in ambito americano è rafforzata dalle
scelte editoriali effettuate a livello globale per quanto riguarda libri da importare ed
esportare. Venuti fa notare come l'inglese sia la lingua più tradotta al mondo, ma allo
stesso tempo quella in cui si traduce meno53. All'interno dei confini nazionali le
pubblicazioni originali superano di gran lunga le traduzioni da qualsiasi lingua, e
contemporaneamente le case editrici straniere a partire dal periodo post-bellico hanno
appoggiato l'egemonia culturale americana. Il risultato è uno strapotere della lingua
inglese e un radicamento della sua presenza nelle altre culture, mentre i paesi anglofoni,
soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti, hanno sviluppato culture protezionistiche,
monolingui e impermeabili nei confronti dell'elemento straniero, che si cerca di
nascondere o bandire da qualsiasi pubblicazione. La scorrevolezza e l'invisibilità che ne
consegue sono perciò favorite e incoraggiate da editori e critici, che promuovono la
diffusione dello standard linguistico e il mantenimento dello status quo, rifiutando e
marginalizzando quei prodotti che risultano eversivi o poco accessibili. Venuti afferma
con chiarezza che "the translator's invisibility is symptomatic of a complacency in
Anglo-American relations with cultural others, a complacency that can be described [...]
as imperialistic abroad and xenophobic at home."54.
Si tratta quindi di un circolo vizioso: il traduttore che voglia ottenere un minimo
52 ibidem, p.653 ibidem, cfr. p.12-1554 ibidem, p.17
32
riconoscimento, anche -o soprattutto economico, deve adeguarsi allo stato attuale delle
cose, una situazione di marginalità che, d'altra parte, viene mantenuta immutata dalla
pratica eccessivamente addomesticante dei traduttori stessi.
TRADUZIONE ADDOMESTICANTE E TRADUZIONE ESTRANIANTE
Per scomparire dal testo e trasmettere al lettore l'illusione di originalità il traduttore
invisibile utilizza una tecnica che Venuti definisce domesticating, addomesticante,
rifacendosi alla distinzione di Schleiermacher tra i due metodi di traduzione
fondamentali. Secondo il filosofo tedesco il traduttore indipendente ha a disposizione
due alternative tra cui scegliere: o avvicinare il lettore all'autore o avvicinare l'autore al
lettore. La seconda scelta, come abbiamo visto, è inaccettabile per Schleiermacher,
poiché "questo non è tradurre [...] tende a diventare sempre più un rifacimento, [...] un
[...] artificio"55 Il metodo addomesticante, riprende Venuti, è "an ethnocentric reduction
of the foreign text to target-language cultural values"56, è un mezzo per trasportare
l'autore al lettore lasciando quest'ultimo comodamente seduto a riceverlo. Alla base di
questo metodo traduttivo esiste l'idea, condivisa da molti teorici, secondo la quale una
traduzione ben riuscita deve produrre nel suo lettore una reazione simile a quella che
deve provare il ricevente dell'opera originale, e per farlo deve necessariamente piegarsi
al sistema di riferimento della cultura d'arrivo. Venuti rileva come la traduzione
addomesticante sia la strategia che ha finora prevalso nel panorama editoriale
angloamericano, e indica nel trattato di Tytler che ho già menzionato il documento che
più di ogni altro ha difeso e autorevolmente canonizzato la scorrevolezza. In questo
testo l'autore afferma come esista un'essenza di fondo, un comune sentire tra gli esseri
umani, che distingue una "public sphere of cultural consensus"57 i cui membri sono
accomunati dall'amore per il buon gusto, per l'armonia e l'eleganza. Ogni traduttore
dovrebbe perciò tenere presente questi elementi nel momento in cui realizza il suo testo,
ed evitare espressioni troppo forzate o discontinue, in modo da scrivere così come
avrebbe scritto l'autore originale se fosse appartenuto alla cultura d'arrivo. Il traduttore
55 Nergaard 1993, p.17656 Venuti 1995, p.2057 ibidem, p.69
33
deve instaurare una relazione psicologica con l'autore straniero, farne emergere l'anima
nel testo tradotto attraverso la pratica della scorrevolezza, ed eventualmente modificare
il testo originale secondo il proprio gusto raffinato, eliminando imprecisioni o brutture
che rischierebbero di stonare con il canone di eleganza e buon gusto nazionale. Le
convinzioni di Tytler vengono riprese negli anni '60 da Eugene Nida e dal suo concetto
di equivalenza dinamica, il quale afferma che una traduzione per raggiungere il suo
scopo dovrebbe cercare di "relate the receptor to modes of behavior relevant within the
context of his own culture"58; il traduttore deve impiegare un linguaggio scorrevole e il
più possibile naturale, uno stile semplice basato sulla completa comprensione del
significato del testo originale e finalizzato alla sua trasmissione immediata al ricevente
della lingua d'arrivo. Si instaurerebbe in questo modo una comunicazione interculturale
del tutto lineare e priva di ostacoli, garantita dalla convinzione che tutti gli esseri umani
siano identici nella loro essenza. Una traduzione di questo tipo produce come risultato
l'annullamento delle differenze, che non vengono comunicate bensì ignorate ed
appiattite. Venuti sottolinea il fatto che la manipolazione del testo di partenza messa in
atto da questa strategia traduttiva è controllata e gestita totalmente dalla cultura d'arrivo,
che si appropria del testo straniero fornendone un'interpretazione etnocentrica, senza
tenere in nessuna considerazione la differenza culturale, linguistica, sociale
rappresentata dall'opera originale e tentando di imporre al lettore una certa visione del
mondo. Lo stile scorrevole e l'effetto di trasparenza si presentano come la realizzazione
di una equivalenza semantica totale, mentre in realtà sono frutto di una "partial
interpretation, partial to [target]-language values, reducing it if not simply excluding the
very difference that translation is called on to convey."59.
Al contrario, la traduzione estraniante, metodo prescritto dallo stesso Schleiermacher, ha
come obiettivo quello di trasmettere la sensazione di differenza culturale, cercando di
trasportare il lettore verso un altro sistema di riferimento. Venuti si sofferma sul saggio
di Schleiermacher apprezzandone la chiarezza e l'incisività, senza rinunciare alla
rielaborazione di alcuni concetti. Innanzitutto avverte che il filosofo tedesco sosteneva
questa tesi soprattutto in ragione di finalità nazionalistiche; in quell'epoca - i primi anni
58 E. Nida, Toward a Science of Translating. With Special Reference to Principles and Procedures Involved in Bible Translating, Brill, 1964, p.159
59 Venuti 1995, p.21
34
dell'Ottocento - la Germania era divisa tra una confederazione di stati organizzata da
Napoleone a ovest del Reno e la monarchia prussa a est controllata dagli eserciti
francesi, e Schleiermacher nelle sue lezioni all'università di Berlino (capitale della
Prussia) esortava all'indipendenza e all'unificazione dei territori tedeschi sotto una
lingua e una guida comuni. La liberazione dai dominatori avrebbe dovuto essere
raggiunta anche e in special modo attraverso la sostituzione dell'egemonia culturale
francese con quella tedesca, e la creazione di una letteratura nazionale di riferimento
avrebbe dovuto essere il compito di una nuova élite colta. Schleiermacher suggeriva
innanzitutto la necessita di confrontarsi con altre culture europee per riscoprire i propri
tratti distintivi, e questo confronto poteva passare solo attraverso una pratica traduttiva -
diversa da quella francese- che permettesse al lettore di viaggiare per il continente, fare
esperienze della diversità culturale che lo abita e tornare al proprio paese arricchito. La
contraddizione secondo Venuti sta in affermazioni come quella secondo la quale il
popolo tedesco, in virtù di una "speciale vocazione [...] a tradurre in grande quantità"
sarebbe destinato a "unire nella propria lingua, in una grande totalità storica, conservata
nel centro e nel cuore dell'Europa, tutti i tesori della scienza e dell'arte straniere assieme
ai propri"60; l'élite borghese tedesca viene ritenuta da Schleiermacher superiore rispetto
al resto degli intellettuali europei, l'unica in grado di mediare la formazione di un
canone internazionale, ma tale canone verrebbe così modellato a partire da un "cultural
narcissism"61 determinato dalla convinzione della propria supremazia intellettuale.
L'etnocentrismo perciò non viene abbandonato, bensì viene trasformato in un elitarismo;
quando l'autore tedesco suggerisce al traduttore estraniante di impiegare un linguaggio
intricato che si discosti da quello colloquiale e popolare, è solo per indirizzarlo ad un
pubblico ristretto ed erudito, l'unico in grado di comprendere il significato di quest'uso
particolare. Tuttavia, lasciando da parte le implicazioni ideologiche della teoria di
Schleiermacher, le sue considerazioni sono un valido punto di partenza per cominciare a
pensare a una traduzione alternativa al modello tradizionale angloamericano, che si
opponga alla violenza etnocentrica sinora dominante e accetti di fare i conti con la
differenza. Lo spunto di riflessione più innovativo che offre l'autore tedesco è l'idea che
attraverso la pratica della traduzione estraniante il traduttore possa riuscire a 60 Nergaard 1993, p.177-17861 Venuti 1995, p.110
35
promuovere un cambiamento nei valori culturali dominanti nella propria società,
arrivando anche ad agire sulle strutture sociali che la determinano; egli può mettere in
pratica un'azione di dissenso, che rifiuti apertamente la sottomissione al canone.
VIOLENZA"Translation is the forcible [violento] replacement of the linguistic and cultural difference of the foreign text with a text that will be intelligible to the target-language reader."62.
Con questa affermazione Venuti sottolinea il fatto che qualsiasi traduttore che voglia
svolgere il proprio lavoro in modo da essere compreso dal lettore della lingua d'arrivo
deve necessariamente modificare il testo di partenza, ed è costretto ad agire su di esso in
modo molto incisivo. La sostituzione della catena di significanti originale con un'altra
scritta in un codice diverso, come abbiamo già sottolineato, comporta inevitabilmente la
trasformazione del messaggio originale, e quindi qualsiasi tipo di traduzione mette in
atto un tipo di violenza interpretativa che Venuti definisce "ethnocentric"63: la
traduzione deve per forza omologare il testo alla cultura d'arrivo e adattarlo ai parametri
di intelligibilità del lettore d'arrivo, in modo che questi possa decifrarlo. Tuttavia, è bene
ricordare che "the freelance literary translator always exercises a choice concerning the
degree and direction of the violence at work in any translating.64.
Se consideriamo i due diversi tipi di traduzione che abbiamo prima descritto, è subito
evidente come quello che comporti il maggior grado di violenza etnocentrica sia la
traduzione addomesticante. Con questa strategia traduttiva la trasformazione del testo
originale è radicale, poiché questo viene ricondotto a forza nel sistema di riferimenti del
lettore della cultura d'arrivo, perdendo qualsiasi traccia di ogni differenza culturale. La
traduzione scorrevole, perfettamente lineare e di comoda lettura, non disturba la
comprensione del lettore e dà l'impressione di una totale corrispondenza di significato.
Come abbiamo visto, questa strategia si basa sul concetto di equivalenza dinamica e
sulla convinzione che il significato sia "a timeless and universal essence, easily
transmittable between languages and cultures regardless of the change of signifiers, the
62 ibidem, p.1863 ibidem, p.2064 ibidem, p.19
36
construction of a different semantic context out of different cultural discourses, the
inscription of target-language codes and values in every interpretation of the foreign
text"65; il traduttore addomesticante in sostanza pretende di entrare in una relazione
psicologica di identificazione con l'autore originale, in modo da capire perfettamente il
suo messaggio e da trovare il modo di veicolarlo intatto al proprio lettore utilizzando i
riferimenti culturali della lingua d'arrivo. Nei casi in cui non venga segnalata in qualche
modo dal traduttore, per esempio in una prefazione, la forzatura sul testo originale può
passare del tutto inavvertita, e il risultato è una traduzione che non sembra essere una
traduzione. Venuti fornisce vari esempi di questo metodo traduttivo che imperversa da
secoli in ambito angloamericano, come la versione della Vita dei Cesari realizzata da
Robert Graves, il quale annuncia nella prefazione il proprio sforzo addomesticante. In
questo testo, riporta Venuti66, Graves compie una serie di interventi anacronistici ed
etnocentrici, che modificando date, sistemi numerici, ed indicazioni topografiche
trasformano irrimediabilmente il testo latino, con lo scopo dichiarato di rendere questi
riferimenti più familiari per il lettore contemporaneo inglese. L'eleganza stilistica è un
altro elemento che permette di identificare quasi con totale sicurezza l'eccessivo
addomesticamento messo in pratica dalla traduzione, perché spesso segnala come il
testo sia stato riscritto secondo gli standard canonici del linguaggio poetico-letterario
della cultura d'arrivo. Si può quindi affermare che la traduzione addomesticante risulta
estremamente violenta nei confronti del testo e della cultura di partenza, che vengono
stravolti e rimaneggiati, mentre è assolutamente docile con la propria lingua e il proprio
lettore, in quanto segue le convenzioni stilistiche della prima e asseconda le aspettative
del secondo.
La traduzione estraniante, al contrario, è un valido strumento per limitare la violenza
etnocentrica. Secondo Venuti si tratta dell'unico metodo che permetta di veicolare al
lettore della lingua d'arrivo la differenza culturale rappresentata dal testo originale, e
l'unico che possa mostrare la traduzione per quello che è. Non si tratta di trasmettere
l'elemento straniero del testo come se questo fosse la sua essenza, il suo nucleo di
significato; la differenza è "a strategic construction whose value is contingent on the
65 ibidem, p.6166 ibidem, cfr. p.29-34
37
current target-language situation."67. Non bisogna raccontare l'alterità del testo, bensì
mostrarla in atto attraverso un linguaggio che si discosti nettamente, anche solo in
alcuni punti strategici, dall'uso comune della cultura d'arrivo. E' il solo modo che ha la
lingua per richiamare l'attenzione del lettore su sé stessa: gli elementi insoliti ed estranei
che si esibiscono agli occhi del lettore rendono la decifrazione del testo più
problematica e la lettura diventa alienante. Ovviamente la violenza etnocentrica non può
essere del tutto soppressa, perché la traduzione deve poter essere intelligibile, e gli
elementi perturbanti devono appartenere per forza di cose alla cultura d'arrivo. Vedremo
più avanti da dove vengono recuperati questi elementi; per ora possiamo affermare che,
a differenza della traduzione addomesticante, la pratica estraniante non maschera la
violenza etnocentrica in azione, bensì la esibisce:
"Foreignizing translations that are not transparent, that eschew fluency for a more heterogeneous mix of discoruses, are equally partial in their interpretation of the foreign text, but they tend to flaunt [sfoggiare] their partiality instead of concealing it."68.
Venuti69 prende ad esempio a questo proposito le traduzioni di Ezra Pound di un'elegia
anglosassone scritta alle origini della poesia inglese, The Seafarer (Il nocchiero). Nello
scrivere la sua traduzione il celebre poeta americano decide di rendere l'alterità del testo
straniero abbandonando l'inglese moderno e utilizzando termini anacronistici che
risultano poco familiari al lettore contemporaneo. Questi, perdendo per un attimo i
propri punti di riferimento, sarà portato ad interrogarsi sull'origine del testo, e dovrà
quindi riconoscere di avere a che fare con una traduzione, una consapevolezza che,
secondo Venuti, darebbe ottimi frutti soprattutto a livello accademico, dove si riscontra
"on the one hand, an utter dependence on translated texts [...]; on the other hand, a
general tendency, in both teaching and publications, to elide the status of translated texts
as translated, to treat them as texts originally written in the translating language." 70. Le
traduzioni infatti vengono implicitamente considerate come fedeli riproduzioni del
messaggio originale, e quindi portatrici di un unico significato autoriale che il docente
dovrà svelare e trasmettere ai propri studenti. Si cerca di eliminare ogni elemento che
67 ibidem, p.2068 ibidem, p.3469 ibidem, cfr. p.34-3670 Venuti 1998, p.89
38
possa richiamare l'attenzione sul fatto che si tratta di testi derivati, e per questo si
preferiscono traduzioni scorrevoli che diano l'illusione della trasparenza. Tuttavia in
questo modo quello che viene impartito è un insegnamento etnocentrico e narcisista,
basato su di un'interpretazione del tutto parziale e condizionata dalla cultura d'arrivo.
Sarebbe utile perciò per gli studenti avere la piena consapevolezza che tali
interpretazioni "are limited and provisional, situated [...] in a specific cultural situation
[...]. And with the knowledge of limitations comes the awareness of possibilities,
different ways of understanding the foreign text"71. Si tratta in sostanza di una pratica
che viene esercitata nel pieno rispetto della differenza culturale rappresentata dal testo
originale, e che ha l'obiettivo di scuotere violentemente il lettore dalla sua passività, di
disorientarlo e di costringerlo a rendersi conto di stare effettivamente leggendo una
traduzione.
Il REMAINDER E LA TRADUZIONE MINORIZZANTE
Come abbiamo visto, il traduttore per rendersi visibile nel testo deve mettere in pratica
una traduzione che estranei con violenza il lettore dal proprio ambiente culturale e gli
permetta di fare esperienza di quella differenza incarnata dalla cultura straniera; per far
ciò deve ricorrere a un linguaggio particolare, che opponga resistenza all'uso comune e
che renda la lettura alienante. Tra i presupposti teorici da cui Venuti prende spunto per
elaborare le proprie idee sulla traduzione, il più rilevante è quello secondo il quale il
linguaggio non è solo uno strumento astratto a disposizione dell'individuo che lo utilizza
in modo indipendente secondo una serie di regole, bensì è una "collective force, an
assemblage of forms that constitute a semiotic regime"72. Le varie forme nelle quali si
organizza gerarchicamente la lingua all'interno di una società sono lo standard, in
posizione dominante, e una serie di variabili minori, in posizione secondaria rispetto alla
varietà maggiore ma in grado di interferire con le sue regole. Queste variabili minori,
riporta Venuti, sono chiamate da Lecercle remainder, e sono delle deviazioni dalla
norma che mostrano l'impossibilità di formulare regole universali, rivelando la natura
"socially and historically situated"73 della varietà standard e le lotte di potere che
71 ibidem, p.9372 ibidem, p.973 ibidem, p.10
39
sottostanno al suo predominio nella comunità linguistica. Il testo letterario è, di norma,
scritto appositamente per liberare il remainder, poiché utilizza un tipo di linguaggio non
comunicativo, autoreferenziale. Tuttavia, quando un testo letterario presenta abbastanza
innovazioni stilistiche e sintattiche, risultano evidenti le contraddizioni e i giochi di
potere sui quali si costruisce la gerarchia linguistica, e la varietà maggiore risulta carica
di forzature estranee, tanto da risultare aliena a se stessa. Diventa perciò una lingua
minore, non più aderente allo standard, e i testi che utilizzano questo tipo di varietà
entrano a far parte della cosiddetta letteratura minore, che "in releasing the reminder [...]
indicates where the major language is foreign to itself"74. Più avanti riprenderò questo
concetto; per quanto riguarda invece il processo traduttivo vero e proprio, al fine di
creare l'effetto di alienazione sul lettore il traduttore estraniante si serve per l'appunto di
quegli elementi della lingua d'arrivo che ne rappresentano il remainder; occorre perciò
sfruttare al massimo le potenzialità della propria lingua e creare un testo composto dalla
fusione tra più varietà e stili che si allontani dall'inglese standard. Una traduzione di
questo tipo viene definita minorizzante proprio perché è volutamente costruita
utilizzando le varietà minori della lingua, e il suo obiettivo è ricreare nel testo d'arrivo
quelle caratteristiche linguistiche, stilistiche, formali, che costituivano il remainder del
testo di partenza, la sua differenza rispetto allo standard. A questo proposito Venuti fa
una precisazione: "The aim of minoritizing translation is [...] never to erect a new
standard or to establish a new canon, but rather to promote cultural innovation as well as
the understanding of cultural difference by proloferating the variables"75 all'interno della
lingua d'arrivo. L'introduzione di varietà sub-standard nella varietà maggiore
rappresenta necessariamente un abuso (ricordiamo il concetto di fedeltà abusiva di
Lewis) e quindi implica una dose di sperimentalismo letterario che può scoraggiare il
lettore comune. Per non rendere il discorso minorizzante eccessivamente elitario, Venuti
raccomanda di introdurre le variazioni (e quindi liberare il remainder) solo in "at
significant points in a translation that is generally readable"76, in modo da ottenere da
una parte una più ampia diffusione del testo e dall'altra la graduale "democratizzazione"
dell'elemento della differenza, abituando il lettore popolare a leggere e interpretare
74 ibidem75 ibidem, p.1176 ibidem, p.12
40
correttamente le traduzioni minorizzanti. Inoltre, proponendo l'elemento deviante solo
in certi momenti strategici della narrazione, è più facile che questa devianza risalti
all'occhio del lettore e destabilizzi maggiormente le sue percezioni, poiché si tratta un
improvviso scarto in un contesto a lui familiare.
Abbiamo perciò chiarito cosa significa rendere visibile il traduttore nel proprio testo,
vale a dire utilizzare una pratica estraniante che richiami l'attenzione del lettore
deviando dal linguaggio standard. Allo stesso modo si può applicare il discorso
estraniante a livello del corpus di opere che definisce il canone di una nazione,
introducendo questo ambiente omogeneo dei testi che risultino devianti, richiamino
l'attenzione su se stessi proprio per la loro estraneità e contribuiscano quindi a rivalutare
il ruolo del testo tradotto e diffondere un atteggiamento di apertura nei confronti della
differenza.
3.3 Letteratura del dissenso
IL CANONE E LA RESISTENZA CULTURALE
Il canone è quell'insieme di opere che, in seguito a varie circostanze, sono state scelte a
rappresentare l'identità di una nazione in base alla convinzione che incarnino il meglio
di quanto sia stato prodotto nella storia del sapere umano. In ambito letterario si tratta di
testi che offrono modelli di scrittura e interpretazione convenzionalmente accettati come
normali e normativi, e ritenuti rappresentativi della cultura umana universale. Per
quanto riguarda le strategie traduttive, abbiamo già sottolineato come Venuti ricordi
spesso nei suoi lavori che il metodo canonico in ambito angloamericano è quello basato
sulla scorrevolezza e sull'effetto di trasparenza, che mette in atto una violenta riduzione
etnocentrica del testo straniero ai valori dominanti e allo standard linguistico della
cultura d'arrivo. Ma il canone prestabilito risulta estremamente influente anche per
quanto riguarda la scelta dei testi da importare; se è vero che il traduttore è libero di
dirigere il proprio interesse verso un autore piuttosto che un altro, è anche vero che la
sua decisione è in qualche modo vincolata da altri fattori.
Da sempre i testi tradotti cui si è deciso di dare maggiore visibilità, e quindi quelli che
sono stati poi eletti a far parte del canone angloamericano, rappresentano valori, ideali,
41
situazioni compatibili con il gusto comune, con le aspettative dei lettori. Mentre i testi
considerati eversivi o dal significato oscuro sono stati spesso trascurati o rifiutati, quelli
dal messaggio comprensibile e, soprattutto, condivisibile, hanno superato la prova per
essere ammessi nel canone, in quanto andavano ad ampliarlo senza stravolgerne le
caratteristiche di fondo, così come è stata canonizzata la traduzione addomesticante che,
limando eventuali asperità e nascondendole, paradossalmente, con l'illusione della
trasparenza, permetteva al messaggio così rimaneggiato di essere interpretato dai critici
in chiave etnocentrica e consegnato alle istituzioni accademiche. La conseguenza è stata
la formazione di una letteratura tradotta che, riducendo e riscrivendo il testo straniero in
termini locali, non dà il giusto rilievo alla differenza culturale e linguistica imponendo
allo stesso tempo determinate interpretazioni dell'altro:
Translation patterns that come to be fairly established fix stereotypes for foreign cutlures, excluding values, debates and conflicts that don't appear to serve domestic agendas77
Una costruzione del canone realizzata in questi termini ha perciò condotto alla
formazione e al consolidamento di una serie di stereotipi riguardanti le culture straniere,
che hanno contribuito a orientare la scelta dei traduttori verso altri testi che ribadissero
questi stessi stereotipi. L'adeguamento dei traduttori alle norme culturali locali è
motivato soprattutto da ragioni commerciali, essendo le case editrici in generale
abbastanza riluttanti ad accettare traduzioni poco attraenti per il pubblico popolare;
anche a livello accademico, la selezione di testi stranieri scelti per essere insegnati nelle
scuole premia la scorrevolezza della traduzione e la conformità dell'opera ai valori
canonizzati, e i critici letterari spesso si muovono nella stessa direzione giudicando una
traduzione in base all'identificazione del traduttore con quello che si suppone essere lo
spirito dell'autore originale:
Institutions [...] show a preference for a translation ethics of sameness, translating that enables and ratifies existing discourses and canons, interpretations and pedagogies, advertising campaigns and liturgies -if only to ensure the continued and unruffled reproduction of the institution.78
In sostanza i valori del canone sono stati stabiliti e vengono continuamente riproposti da
77 ibidem, p.6778 ibidem, p.82
42
un ristretto gruppo di addetti ai lavori (accademici, editori, critici) che gestisce la
pubblicazione e la circolazione delle traduzioni e ne influenza di riflesso anche la
produzione.
L'opinione di Venuti è che questo stato di cose può solo portare ad un impoverimento
della cultura nazionale, poiché escludendo discorsi marginali in favore del
consolidamento di quelli dominanti non si fa che perpetuare gli stessi stereotipi culturali
promossi dall'élite senza tenere nella giusta considerazione la differenza; l'autore perciò
invita i propri colleghi a promuovere una resistenza al canone e un suo rinnovamento,
che può avvenire da una parte con l'adozione di una pratica traduttiva estraniante, che
abbiamo già considerato, e dall'altra "by choosing to translate a text that challenges the
contemporary canon of foreign literature in the target language."79. Questa scelta
dissidente dà la possibilità alla cultura della lingua d'arrivo di fare un'esperienza di
differenza utile per ringiovanire la propria letteratura e includere nuovi generi e nuove
forme letterarie nel proprio canone, in modo da promuovere l'interculturalità. In ogni
caso si tratta di una pratica sovversiva, che destabilizza le consolidate ideologie locali e
propone alternative che possono sconcertare il lettore. Il testo scelto in questi termini
risulta doppiamente straniero per la cultura che lo importa, e quindi Venuti giustamente
pone la questione:
Can a translator maintain a critical distance from domestic norms without dooming a translation to be dismissed as unreadable?80
A questo proposito l'autore sottolinea il fatto che una traduzione per rivelarsi estraniante
e formare un gruppo di lettori aperto alle innovazioni e attento alla differenza culturale
non deve rischiare di risultare incomprensibile per la sensibilità popolare. Come già
visto per quanto riguarda la liberazione del remainder, occorre trovare il giusto
equilibrio fra tradizione e innovazione:
The key factor is the translator's ambivalence toward domestic norms and the institutional practices in which they are implemented, a reluctance to identify completely with them coupled with a determination to address diverse cultural constituencies, elite and popular.81
79 Venuti 1995, p.14880 Venuti 1998, p.8481 ibidem, p.87
43
Il traduttore deve sempre tenere presente il canone, mostrare di conoscere quelle stesse
regole che vuole infrangere, e fare in modo che sia chiaro il discorso dominante cui si
propone di resistere, se non vuole che il suo lavoro rimanga destinato solo ad un
ristretto gruppo di seguaci in grado di coglierne appieno le potenzialità eversive.
Occorre proporre al lettore tematiche, generi, forme narrative che possa riconoscere e
identificare senza esitazione come devianti dal canone; in poche parole, occorre mettere
in pratica un progetto minorizzante.
LA CREAZIONE DI UNA LETTERATURA MINORE
Venuti instaura qui un collegamento tra il concetto di traduzione minorizzante e quello
di letteratura minore che ho prima accennato, e che indica quel tipo di testi che,
all'interno dei confini nazionali, risultano devianti rispetto al proprio canone in quanto
utilizzano un linguaggio sperimentale, minore rispetto allo standard. In base allo stesso
principio il progetto di traduzione minorizzante prevede che si scelgano testi che
prendano le distanze dal canone della letteratura straniera esistente nella cultura
d'arrivo, testi che rappresentino una deviazione dallo stereotipo culturale che il canone
ha imposto al lettore e che questi ha ben presente. Se l'irrompere della varietà minore in
un contesto dominato dallo standard ha come conseguenza quella di svelare le gerarchie
linguistiche di una comunità, allo stesso modo l'introduzione nel canone di testi che si
riferiscono a discorsi normalmente marginalizzati rende manifesti i giochi di potere e il
sistema elitario di inclusione-esclusione di valori. Venuti riprende questo concetto da
Lefevere:
the translator will have to know where the "gaps" in his own national literature are, and he will also have to know where he can find suitable material with which to "stop" them.82
La scelta del traduttore sarà motivata da quella che egli sente essere una mancanza nel
proprio canone, un elemento che crede vada riformato o diversamente interpretato, in
modo da mostrare interamente la diversità rappresentata della tradizione letteraria
straniera e non ridurla all'immagine unidimensionale tradizionalmente proposta ai
lettori. L'obiettivo è quello di creare una letteratura minore attraverso i testi tradotti che
82 Lefevere 1975, p.105
44
dia rilevanza a quei segmenti sociali e a quelle culture che sono state escluse dal
processo di formazione del canone, in modo da rimediare agli squilibri causati da una
pratica traduttiva etnocentrica. Ogni traduttore che voglia seguire questo progetto
minorizzante "is prepared to be disloyal to the domestic cultural norms that govern the
identity-forming process of translation by calling attention to what they enable and
limit, admit and exclude, in the encounter with foreign texts."83. Il progetto minorizzante
ha quindi la finalità di rimuovere gli stereotipi canonici progressivamente consolidati
dall'affermarsi della traduzione addomesticante; vengono proposte nuove prospettive
con cui guardare alle culture straniere, cercando tuttavia nello stesso tempo di evitare il
rischio che queste si impongano e vadano a costituire un nuovo canone:
A translation ethics of difference reforms cultural identities that occupy dominant positions in the domestic culture, yet in many cases this reformation subsequently issues into another dominance and another ethnocentrism.84
Come già sottolineato nel caso del linguaggio, la proposta di Venuti non mira a
sostituire uno standard con un altro, e il suo proposito non è quindi quello di
canonizzare nuovi stereotipi. L'autore propone la diffusione di una pratica traduttiva
innanzitutto consapevole di essere storicamente determinata, legata a un preciso
momento storico e soprattutto vincolata alla personale interpretazione del traduttore. E'
per questo motivo che l'autore insiste a lungo sul fatto che ogni traduzione deve
mostrarsi come tale, perché nel momento in cui si propone sulla scena letteraria come
eversiva deve essere chiaro che si tratta di una tra le possibili interpretazioni, e quindi il
dissenso messo in atto va interpretato come la proposta di una pratica critica sistematica,
che non può esaurirsi nella mera sostituzione di valori al vertice:
A translation practice that rigorously redirects its ethnocentrism [...] wuold form a cultural identity, but one that is simultaneously critical and contingent, constantly assessing the relations between a domestic culture and its foreign others and developing translation projects solely on the basis of changing assessments.85
Venuti sottolinea a questo proposito che la traduzione è uno strumento che agisce su un
doppio versante; infatti se da un lato, come abbiamo visto, trasmette l'estraneo e
contribuisce alla formazione di rappresentazioni locali dei soggetti stranieri cui si
83 Venuti 1998, p.8384 ibidem85 ibidem, p.84
45
riferisce, dall'altro incide anche sulla cultura d'arrivo e sui gruppi di lettori che catalizza
su di sé. Ogni traduzione infatti si rivolge ad un determinato pubblico a seconda degli
interessi del traduttore stesso, il quale seleziona il testo di partenza e imposta la propria
strategia traduttiva in modo da innescare "a process of 'mirroring' or self-recognition'"86
nel lettore-destinatario della traduzione; si tratta di un meccanismo fondamentalmente
narcisistico, in base al quale il lettore si riconosce nei valori messi in gioco dal
traduttore e aderisce al suo progetto. Quando la traduzione è in mano a determinati
gruppi sociali questi possono lavorare in modo da favorire i propri interessi, inscrivendo
i lettori in determinate ideologie, credenze, posizioni sociali e politiche, e siccome
nessuna disciplina è un'isola, una traduzione realizzata in un certo modo può influire sul
cambiamento sociale. Nel caso della traduzione addomesticante, attraverso le varie
strategie di cui abbiamo già parlato, il testo viene ricondotto all'ideologia dominante
nella cultura d'arrivo, e il cambiamento sociale viene di fatto rallentato, se non arrestato.
Per quanto riguarda invece la traduzione estraniante e il progetto minorizzante di
Venuti, questo aspetto della traduzione viene utilizzato per agire sulla sensibilità del
lettore attento, che viene stimolato con continui richiami alla differenza culturale e
messo in guardia rispetto ai giochi di potere che finora hanno promosso valori elitari e
maggioritari ignorando le culture marginali. Il traduttore minorizzante affinché il suo
progetto abbia successo deve perciò rivolgersi lettori che sappiano cogliere il suo
messaggio; il cambiamento sociale può avvenire solo quando ci sia comprensione e
collaborazione tra le due parti in gioco nel processo traduttivo.
3.4 Traduzione e globalizzazione
L'EGEMONIA DELL'INGLESE
Abbiamo visto nei precedenti paragrafi che all'interno di una cultura esistono gerarchie
di potere che definiscono i rapporti tra varietà linguistiche superiori e inferiori, tra
letterature dominanti e subordinate, tra gruppi maggioritari e di minoranza; allo stesso
modo a livello internazionale le relazioni tra gli stati sono da sempre state caratterizzate
da sbilanciamenti in favore delle superpotenze, che hanno col tempo consolidato la
86 ibidem, p.77
46
propria egemonia. Queste asimmetrie, inaugurate dalla formazione dei vari imperi
coloniali, rimasero pressoché immutate anche dopo il raggiungimento dell'autonomia da
parte delle colonie, per le quali la dipendenza politica era solo superficiale rispetto a
quella culturale ed economica che rendeva impossibile la cessazione totale dei rapporti
con la metropoli. Inoltre, il recente fenomeno della globalizzazione e le nuove realtà che
lo costituiscono, come la creazione di grandi multinazionali e lo sviluppo dei mezzi di
comunicazione e informazione, hanno contribuito a rendere più aggressive ed ambiziose
le politiche di diffusione dei valori dominanti a livello mondiale. Secondo Venuti infatti
anche a questo livello operano gli stessi meccanismi che definivano il rapporto tra
dominatori e indigeni, con l'unica differenza che ora la traduzione non serve più uno
Stato, bensì un capitale aziendale. Le strategie di marketing e di insediamento sul
territorio del prodotto pubblicizzato "enact a process of identity formation in which
colonizer and colonized, transnational corporation and indigenous consumer, are
positioned unequally"87, con lo scopo di convincere l'individuo della necessità di aderire
ai modelli e ai valori che gli vengono proposti come superiori. Attualmente la scena
internazionale è dominata dalla supremazia assoluta della lingua inglese e dalla
larghissima diffusione e idealizzazione dei valori occidentali e dello stile di vita
nordamericano, fino al punto che l'esistenza stessa delle varie peculiarità locali viene
messa a repentaglio. Venuti ricorda spesso come questa situazione si rispecchi in ambito
editoriale, dove "[b]y routinely translating large numbers of the most varied English-
language books, foreign publishers have exploited the global drift towards American
political and economic hegemony in the postwar period, actively supporting the
international expansion of Anglo-American culture."88. L'appello di Venuti riguarda
l'adozione di una pratica traduttiva più consapevole e soprattutto più dissidente nei
confronti dei valori dominanti, che può aiutare a contrastare l'egemonia occidentale in
un contesto post-coloniale, nel quale la popolazione un tempo sottomessa cerca di
costruire la propria identità culturale, e in paesi che vedono la propria identità
linguistica e letteraria vacillare sotto i colpi della globalizzazione.
87 ibidem, p.16588 Venuti 1995, p.15
47
L'EREDITA' COLONIALE
L'assoggettamento delle popolazioni indigene alla volontà e alle leggi dei conquistatori
in tempo coloniale avveniva principalmente attraverso l'indottrinamento delle
generazioni più giovani e la messa in pratica di un programma di evangelizzazione, per
realizzare il quale si rendeva inevitabile il ricorso alla traduzione e alla diffusione dei
testi canonici della cultura occidentale. La lingua dei colonizzatori si era imposta come
dominante sui vari idiomi locali, e la traduzione dei testi provenienti dalla metropoli in
lingua indigena veniva realizzata dai colonizzatori stessi in modo che servisse a ribadire
con chiarezza le gerarchie di potere all'interno della colonia89; inoltre, una volta tracciata
la linea di separazione tra cultura egemone e cultura subordinata, anche all'interno di
quest'ultima agiva il meccanismo manipolatorio:
Because translation can influence the course of literary traditions, it has been deliberately used by colonial governments to create indigenous literary cultures that favor foreign domination.90
Come abbiamo visto prima, le traduzioni hanno la capacità di creare identità culturali
all'interno della cultura che le riceve, e i colonizzatori, controllando scrupolosamente i
testi con i quali gli indigeni venivano in contatto, facevano in modo che questi
sviluppassero la convinzione della propria inferiorità e che appoggiassero i propri
padroni in virtù della loro presunta superiorità culturale. In questo contesto si è persa
l'autonomia originale della cultura indigena, e sono nate civiltà ibride, translinguistiche
e transculturali, composte da una fusione fra elementi tradizionali locali e tendenze
provenienti dalla metropoli. Finché la situazione nelle colonie è rimasta sotto il
controllo dei colonizzatori, l'ibridazione culturale veniva sfruttata affinché assicurasse
l'accettazione e l'approvazione della dominazione straniera, propagandando in termini
locali valori appartenenti alle élite politiche della madre patria. Il progetto coloniale
inglese prevedeva infatti la formazione di una classe di traduttori indigena ma
completamente anglicizzata, che arrivasse a costruire una identità nazionale locale sopra
una base valoriale e linguistica britannica; anche nel caso dell'importazione di testi
originalmente non scritti in lingua inglese, le traduzioni venivano realizzate a partire 89 Venuti cita l'esempio dei missionari spagnoli del sedicesimo secolo, i quali predicavano agli indigeni
delle isole Filippine nella lingua locale mantenendo però i termini chiave in latino o castigliano, attribuendo così una maggiore autorevolezza alla propria cultura (cfr. Venuti 1998, p.165-166)
90 ibidem, p.167
48
dalla versione inglese, ed erano quindi "inevitably sahped by Anglo-American canons
for foreign literatures, as well as the discursive strategies that prevail in English-
language translating."91
Dopo la guerra mondiale, le colonie hanno acquisito progressivamente libertà e
autonomia politica dai colonizzatori, ma come abbiamo detto rimane forte un vincolo di
dipendenza culturale, linguistica ed economica che influenza pesantemente le scelte
editoriali e le strategie traduttive. Riporta infatti Venuti che "[i]ndigenous publishers
invest in British and American bestsellers because they are much more profitable than
domestic literary works, which lack wide recognition [...]", e una volta importati i testi
stranieri sono tradotti "mostly into government-designated official languages or into the
native language that dominates the publishing industry, and this practice deprives
vernaculars of the linsuistic and literary enrichment that translation can work on
them."92. Tuttavia l'avvio di progetti di traduzione di testi stranieri affidati a traduttori
locali ha da una parte contribuito a migliorare questo stato di cose e ad accrescere la
consapevolezza della lingua indigena delle proprie possibilità. Scrive Venuti:
"Translating in minor languages is often a calculated political move designed to preserve them, to enhance their expressive capacities, and to stimulate cultural development"93.
L'esercizio della traduzione costituisce un buon allenamento per la lingua, che viene
arricchita di nuovi usi, e questo è tanto più vero in un contesto nel quale la naturale
evoluzione della lingua è stata bloccata oppure indirizzata dall'esterno in ragione di
precise finalità politiche. Quando poi comparvero sulla scena i primi movimenti
nazionalisti la traduzione entrò a far parte di un progetto politico di resistenza
all'egemonia della cultura degli ex padroni, e iniziò a venire utilizzata con intenti
espressamente polemici nei confronti dei valori dominanti:
"The mere use of a minor language to communicate can be a political act, a protest against its minority, even a criminal offence against the majority."94.
Nell'ottica di questo progetto l'ibridazione linguistica lasciata in eredità dal dominio 91 ibidem, p.16392 ibidem, p.16293 The Translator-Studies in Intercultural Communication, vol.4, N.2, (1998):Translation & minority,
guest editor Lawrence Venuti, St. Jerome Publishing, p.13894 ibidem, p.138
49
coloniale viene sottolineata ed enfatizzata proprio per rendere manifesta la
sopraffazione che la lingua locale ha subito per opera dei colonizzatori, e nello stesso
tempo si sottopone la varietà standard a continue variazioni che "destabilize constants of
expression and content and expose the political interests served by linguistic standards,
revealing the social hierarchies"95. Tradurre utilizzando una varietà linguistica minore
significa per Venuti incidere in maniera rilevante sull'egemonia della varietà dominante
svelando contemporaneamente le gerarchie di potere che sussistono nella società, e può
essere una pratica utile alla costruzione di una nuova identità locale autonoma e
contraria all'imitazione dei valori britannici.
LA DIFESA DEL LOCALE
Lo strumento per opporsi all'egemonia della cultura angloamericana nell'industria
editoriale mondiale può quindi essere individuato in una pratica traduttiva che sfrutti
l'ibridismo lasciato in eredità dalla dominazione coloniale in contrasto con la passiva
accettazione e propaganda dei valori dominanti. Mentre in ambito americano al
traduttore dissidente Venuti richiede di importare la differenza culturale e di renderla
manifesta cercando di evitare un eccessivo addomesticamento del testo, nel caso delle
culture straniere la prospettiva deve essere necessariamente capovolta: infatti una
traduzione estraniante, che cioè cerchi di aderire il più possibile al discorso del testo
originale, potrebbe essere controproducente nel momento in cui ad essere tradotto è un
testo portatore di quei valori cui ci si vorrebbe opporre. Per riuscire a creare un'identità
locale che metta in discussione l'egemonia culturale imposta dall'esterno può perciò
rivelarsi molto efficace procedere con una pratica traduttiva che faccia intravedere nel
testo elementi appartenenti alla cultura d'arrivo con i quali il lettore locale possa
identificarsi:
Since the domestic in developing countries tends to be a hybrid of global and local trends, translation can revise hegemonic values even when it seems to employ the most conservatively domesticating strategies, [...] that are designed to reinforce dominant indigenous traditions in the translating culture.96
La reinterpretazione in termini locali del testo straniero e dei concetti e discorsi che
95 ibidem, p.13996 Venuti 1998, p.189
50
trasmette può dare origine a nuove tendenze di matrice indigena e contribuire così a
creare e consolidare un'identità nazionale autonoma che incorpori in sé idee moderne ed
elementi culturali innovativi provenienti dall'occidente. I traduttori che aderiscono a
questo progetto riconoscono comunque l'importanza di imparare dagli stranieri, e quindi
il discorso addomesticante in questo caso non annulla completamente la differenza
culturale, bensì la reinveste in una identità ibrida e allo stesso tempo del tutto originale,
ormai affrancata dall'egemonia angloamericana. Al centro di ogni traduzione ragionata
deve essere perciò sempre presente il rispetto dell'alterità, nell'ambito però di un
progetto di costruzione o di consolidamento di una propria identità particolare;
importare l'alterità senza elementi culturali locali cui contrapporla rischia di condurre
all'omologazione e all'adeguazione dei valori indigeni a quelli che appartengono alla
civiltà dominante, e la traduzione rischia di incoraggiare un'accettazione passiva
dell'egemonia angloamericana senza dar seguito a un dibattito che promuova il
cambiamento culturale. E' dello stesso parere lo studioso polacco Piotr Kwieciński, che
nel saggio Translation Strategies in a Rapidly Transforming Culture afferma:
where the direction of translation is from a dominant into a dominated culture and where the dominated culture is in a state of flux and is being 'absorbed' into the dominant [...] [r]adical foreignization [...] appears [...] to sustain rather than resist the process of domination; it follows that conscious adoption of relatively more domesticating strategies could serve as a means of resistance, a 'strategic intervention' against cultural comination.97
In un contesto nel quale le case editrici promuovono l'importazione di testi aderenti ai
valori dominanti e destinati a consolidare i rapporti asimmetrici tra cultura di partenza e
cultura d'arrivo, l'adozione di una pratica traduttiva addomesticante piuttosto che
estraniante può quindi essere la via giusta per interrompere la dissoluzione della cultura
indigena in quella egemonica, oppure per avviare la creazione di letterature che siano
veramente locali e innescare un rinnovamento culturale.
Esiste tuttavia anche una dose di rischio in questo progetto:
in subordinate cultures with rich literary traditions, translation that pursues an extreme localization risks an homogenizing emphasis that may reflect and encourage ethnic or religious fundamentalisms while eliminating the cultural differences of foreign texts.98
97 in Venuti 1998(2), p.20398 Venuti 1998, p.189
51
Enfatizzando lo scontro di civiltà e la supremazia dei valori locali nei confronti di quelli
stranieri, traducendo quindi senza il rispetto per l'alterità e la diversità, possono nascere
fondamentalismi e nazionalismi di stampo estremista, che invece di favorire il
cambiamento culturale forzerebbero l'adesione e l'omologazione a valori elitari,
selezionati e manipolati esclusivamente dai centri di potere locale. In questo caso il
traduttore mostra una totale chiusura o un aperto rifiuto nei confronti di qualunque
elemento straniero, con la pretesa di difendere un'identità che in realtà è stata costruita
in base ad interessi localizzati. Un esempio di scrittura trasgressiva che scongiura il
rischio del fondamentalismo arrivando allo stesso tempo a consolidare un'identità
nazionale può essere individuato nell'approccio "cannibalistico" alla traduzione dei
fratelli brasiliani de Campos, il cui cannibalismo non va inteso "in the Western sense,
i.e. that of capturing, dismembering, mutilating and devouring, but in a sense which
shows respect, i.e. as a symbolic act [...] of absorbing the virtues of a body through a
transfusion of blood"99; la traduzione assimila le virtù dell'originale e le rielabora in
termini locali, in modo da creare un testo che partecipi in modo concreto alla creazione
di un'identità e una letteratura nazionali.
99 Gentzler 1993, p.192
52
Una conclusione: Call to actionIl titolo dell'ultimo capitolo di The Translator's Invisibility mi sembra adatto a
riassumere il senso del lavoro di Lawrence Venuti, che ho analizzato in questo
elaborato. Lo scopo dichiarato più volte del traduttore americano era ed è quello di
incitare i propri colleghi a mobilitarsi attivamente per migliorare la propria condizione
ed uscire da quella condizione di marginalità e invisibilità che ha finora contraddistinto
la loro attività, e per farlo Venuti elargisce a piene mani consigli e suggerimenti che
abbiamo discusso e commentato. La sua lezione è rivolta esplicitamente ai propri
connazionali, ma può essere recepita con profitto anche nel nostro Paese, dove
l'industria della traduzione è da una parte più sviluppata e dinamica per quanto riguarda
i testi importati, ma dall'altra stenta ancora a riconoscere i giusti meriti alla figura del
traduttore. In Italia la legge sul diritto d'autore (art. 2575 del Codice Civile) tutela tanto
le opere originarie quanto "le elaborazioni di carattere creativo dell'opera stessa", che
includono tra le altre cose "le traduzioni in altra lingua"; tuttavia il contratto a
prestazione d'opera, modalità che nella maggior parte dei casi regola il rapporto tra la
casa editrice ed il traduttore, aggira tale norma e spesso l'interprete si ritrova a dover
accettare condizioni sfavorevoli per quanto riguarda i propri interessi. Dal punto di vista
sociale la situazione non è molto diversa, poiché il lavoro del traduttore viene
generalmente considerato come puramente meccanico, un'abile conversione di codice
linguistico che fornisce al lettore il testo come si suppone lo avrebbe scritto l'autore
originale. L'invisibilità del traduttore è una realtà anche da noi, e il metodo traduttivo
addomesticante è altrettanto incoraggiato e apprezzato in ambito critico, editoriale e
accademico.
Nonostante queste premesse è importante sottolineare che negli ultimi anni il dibattito
sull'argomento è particolarmente vivace, soprattutto grazie al contributo di singoli
esperti e studiosi o di riviste specializzate come la milanese Testo a Fronte, e la ricerca
scientifica nel settore va assumendo una dimensione sempre più internazionale. Lo
stesso Lawrence Venuti, così come numerosi intellettuali provenienti da vari Paesi, fa
parte del comitato scientifico della citata rivista, e uno dei suoi tre direttori, Gianni
Puglisi, ha curato personalmente l'introduzione alla versione italiana di The Translator's
53
Invisibility; questa collaborazione evidenzia come sia già attivo da tempo uno scambio
di idee tra gli addetti al mestiere a livello globale, e come ogni nuovo suggerimento
possa servire a indicare quelle che potrebbero essere le nuove frontiere della traduzione.
In questo panorama si inserisce felicemente l'insegnamento di Venuti, che può fornire
nuovi spunti alla discussione sulla traduzione nell'era della globalizzazione. Dal nostro
punto di osservazione possiamo sperimentare di persona l'egemonia della lingua e della
cultura anglosassone nel mondo, e il discorso sulle relazioni di potere, le gerarchie di
valori e le differenze linguistiche che partecipano al processo traduttivo può stimolare i
traduttori nostrani a ricercare soluzioni alternative al tradizionale, rigido metodo
traduttivo. Il suggerimento a rendere visibile la propria presenza nel testo che il
traduttore rivolge ai propri colleghi è una provocazione che merita di essere riproposta
nel nostro Paese, e l'atteggiamento eversivo-creativo che ne consegue potrebbe risultare
enormemente utile allo svecchiamento della nostra lingua scritta e al rinnovamento
della nostra impostazione culturale. L'insegnamento di Lawrence Venuti è uno stimolo
intellettuale che vale senz'altro la pena di importare in Italia, al fine di formare una
nuova generazione di traduttori "militanti" che riscoprano il valore della differenza e
rivalutino essi per primi l'importanza della propria professione come veicolo dell'alterità
e non semplice strumento di mediazione, e che vedano se stessi come potenziali forze
propulsori del cambiamento culturale e sociale.
54
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