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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D'ASCOLI” PAROLE E REALTÀ DELL’AMICIZIA MEDIEVALE a cura di Isa Lori Sanfilippo - Antonio Rigon Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XXII edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-4 dicembre 2010 ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO ROMA 2012 FULVIO DELLE DONNE Amicus amico: l’amicizia nella pratica epistolare del XIII secolo estratto da:

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ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI “CECCO D'ASCOLI”

PAROLE E REALTÀDELL’AMICIZIA MEDIEVALE

a cura di Isa Lori Sanfilippo - Antonio Rigon

Atti del convegno di studiosvoltosi in occasione della XXII edizione del

Premio internazionale Ascoli Piceno

Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 2-4 dicembre 2010

ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVOROMA 2012

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FULVIO DELLE DONNE

Amicus amico: l’amicizia nella pratica epistolare del XIII secolo

estratto da:

III serie diretta daAntonio Rigon

Comune di Ascoli Piceno Fondazione Cassa di Istituto storico italianoRisparmio Ascoli Piceno per il medio evo

© Copyright 2012 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno

Coordinatore scientifico: ISA LORI SANFILIPPO

Redazione: SILVIA GIULIANO, SALVATORE SANSONE

ISBN 978-88-89190-97-5

Stabilimento Tipografico «Pliniana» - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2012

Il progetto è stato realizzato con il contributo dellaFondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno

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Amicus amico: l’amicizia nella pratica epistolare del XIII secolo

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«Quoniam que non extollitur amicitia subito tabescit et alget, necessa-rium inter amicos esse dinoscitur se relativis affectibus prevenire. Namager incultus, nisi vomeris acumine pluries rescindatur, fructus denegatexpectatos. Ignis etiam ad hoc excitatur, ut ardeat, non autem concitatusmorte deperit extintiva. Sic per locum a simili, amicorum unio de facili sol-vitur, que non est ex rebus intrinsecis excitata. Ideoque de bonis tuis, detua tuorumque continentia expectantis non obmittas desideria recreare»1.

In questo modo vengono descritti i caratteri dell’amicizia in una lette-ra di autore ignoto contenuta in una collezione di dictamina provenientedall’Italia centro-meridionale e conservata in un manoscritto parigino2. Sitratta di una delle tante epistole che – lungi dall’essere fittizie o puri eser-cizi stilistici – avevano funzione esemplare e venivano inserite in quelle rac-colte che fungevano da “manuali” di bello stile per notai, maestri e studen-ti di retorica3. In questo caso, le riflessioni sul significato dell’amicizia sono

1 Una silloge epistolare della seconda metà del XIII secolo, ed. F. Delle Donne, Firenze2007 (Edizione nazionale dei testi mediolatini, 19), n. 212, p. 252. Traduzione: «poichél’amicizia che non si eleva subito si consuma e si raffredda, si sa che è necessario che tra gliamici ci si prevenga l’un l’altro con il proprio affetto. Infatti il campo incolto, se non vienesolcato molte volte dal vomere appuntito, nega i frutti attesi. Anche il fuoco è attizzato perquesto, perché arda, e se non è ravvivato si spegne e si estingue definitivamente. Così, simil-mente, si scioglie facilmente l’unione degli amici che non è tenuta viva da sentimenti inti-mi. Perciò non omettere di far rivivere i desideri di chi attende di conoscere le tue buonecose e come ve la passate tu e i tuoi».

2 Si tratta del ms. conservato a Parigi, Bibl. Nat., Lat. 8567: sul codice cfr. la descrizio-ne contenuta nell’introduzione a Una silloge epistolare cit., pp. LXI-LXII; e a Nicola daRocca, Epistolae, ed. F. Delle Donne, Firenze 2003 (Edizione nazionale dei testi mediolati-ni, 9), pp. LVII s.

3 Sulla questione dell’organizzazione di questi cfr. F. Delle Donne, Autori, redazioni,trasmissioni, ricezione. I problemi editoriali delle raccolte di dictamina di epoca sveva, in

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ispirate dal desiderio di avere notizie relative alle vicende dell’interlocuto-re. Insomma, non hanno finalità concrete e contingenti, ma sono dettatesolo dall’affetto, così come in quest’altra lettera, sempre contenuta nellostesso manoscritto, in cui il cardinale Giordano di Terracina, il più altoufficiale della cancelleria pontificia, scrive al notaio imperiale Nicola daRocca4: «totum quidem se tribuit affluentia caritatis amicus, sed illum for-titer corde tenet, cui se totaliter corde prebet. Plene utique possidetur, sedet plene suum possidet intra precordia possessorem. Hoc enim habet veradilectio, ut quem amplexa fuerit, a suis amplexibus non relaxet, nec diu-turnitate lentescat, sed succedente tempore vegetetur, antiquitate non lan-guescat, sed vigeat, senio vetustatis refloreat, adolescat annosa, cana pube-scat»5. Queste affermazioni sui legami che uniscono gli amici sono caratte-rizzate dai preziosismi retorici che caratterizzano la prosa di chi, comeGiordano di Terracina, fu tra i più raffinati dictatores dell’epoca6, ma ser-vono concretamente a rassicurare l’interlocutore sulla benevolenza dellasua protezione, che sarebbe rimasta invariata anche se la situazione contin-gente – forse caratterizzata dalla disfatta di Manfredi del 1266 – apparivacomplessa e pericolosa: insomma, al di là dell’artificiosa ricchezza stilisti-ca, rivelano comunque sincerità e profondità di sentimento.

Le dichiarazioni di amicizia e le riflessioni sul suo valore, tuttavia, pos-sono essere variamente declinate, a seconda della situazione, e divenire piùdirette, come in questo caso: «habet hoc proprium amicabilis sinceritatis

Archivio normanno-svevo. Testi e studi sul mondo euromediterraneo dei secoli XI-XIII, II,Ariano Irpino 2009, pp. 7-33.

4 Sui personaggi cfr. P. Sambin, Un certame dettatorio tra due notai pontifici, Roma1955; nonché l’introduzione di Nicola da Rocca, Epistolae cit., pp. XII-XVIII e passim.

5 Ivi, n. 56, pp. 76-77: «certamente l’amico offre tutto se stesso con abbondanza di cari-tà, ma tiene fortemente in cuore colui a cui si offre col cuore totalmente. E certamente èposseduto pienamente, ma mantiene interamente nel petto colui che lo possiede. Infatti, ilvero affetto ha questo, che colui che avrà abbracciato, non lo scioglie dai suoi abbracci, néli allenta nella lunga durata, ma si rafforza col passare del tempo, non languisce ma rinvi-gorisce negli anni, rifiorisce col declino della senilità, ringiovanisce se anziano, torna fan-ciullo se vecchio».

6 È probabile che Giordano di Terracina, influente vice-cancelliere pontificio, sia statol’organizzatore di due degli epistolari più importanti dell’epoca: quello di Tommaso diCapua e quello di Pier della Vigna. Cfr. E. Heller, Die Ars dictandi des Thomas von Capua,«Sitzungsberichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil.-hist. Kl.» (1929),pp. 7 s.; H.M. Schaller, Studien zur Briefsammlung des Kardinals Thomas von Capua,«Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters», 21 (1965), pp. 407 ss.; Nicola daRocca, Epistolae cit., pp. LXXX ss.

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integritas, ut amicorum alter alterius onera subeat, nec reclamet si aliquan-do pungitur, sed cogitet inferre que patitur et pati penset moderate quodinfert. Sed habet aliud adiacens pura dilectio, ut, si plus debito tangitur ob-viet, et si plus concepto recipit, illata nullo modo patiatur»7. In questa let-tera di Nicola da Rocca, la considerazione sul giusto equilibrio che deveregolare il rapporto amichevole funge da rimprovero per i destinatari dellalettera, ovvero i rettori di Monte Cassino, i quali vengono avvertiti chesono stati superati i limiti e sono chiamati a porre rimedio a una indebitasottrazione di censo.

Dunque, le dichiarazioni di amicizia, nelle raccolte esemplari di dictami-na, non riguardano solo l’eterea sfera affettiva, ma anche la contingentematerialità. Anzi, sono frequentissime le lettere con cui l’amico si rivolgeall’amico per chiedergli favori o cose, o lo ringrazia per averlo accontentato.Così, ci sono stati trasmessi biglietti e lettere con cui si accompagna l’inviodi pesci, di vasi o di libri8; oppure in cui si ringrazia per il dono di fichi o diun cane da caccia9; oppure si chiede il prestito di un cavallo o di una sem-plice cote10. E non si tratta di lettere contenute solo nella raccolta di Nicolada Rocca o del suo gruppo, legato a Pier della Vigna: molte sono conserva-te anche nell’epistolario di Tommaso di Capua, dove sono in numero cosìcospicuo che Emmy Heller dedicò ad esse anche un lungo saggio11.

Insomma, le lettere tra amici, qualunque argomento abbiano, costitui-scono una parte notevole degli epistolari del XIII secolo. Anzi, evidente-mente, esse erano così frequenti che risultava importante anche formaliz-zare le norme che ne regolavano la parte più delicata, quella che richiede-va maggiore attenzione e diplomazia, ovvero la salutatio12. Poiché, infatti,

7 Ivi, n. 111, p. 130. La prima frase della lettera-modello si trova, in forma simile, anchein Das Baumgartenberger Formelbuch, ed. H. Baerwald, Wien 1866 (Fontes RerumAustriacarum, Diplomata et acta, XXV), p. 102, dist. XXI, col titolo «de colenda amicicia».Traduzione: «l’integrità dell’amicizia sincera ha questo carattere proprio, che, tra gli amici,l’uno si assume agli oneri dell’altro, né si lamenta se viene talvolta disturbato, ma pensa asopportare ciò che subisce e si preoccupa di subire con equilibrio ciò che sopporta. Ma ilpuro affetto ha anche un’altra caratteristica, che, se si dà più del dovuto, e si riceve più delconsentito, non accetta in alcun modo ciò che viene imposto».

8 Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae cit., rispettivamente nn. 130, 133, 136.9 Cfr., rispettivamente, ivi, n. 134; e Una silloge cit., n. 215.10 Cfr. ivi, rispettivamente nn. 218, 220.11 Cfr. E. Heller, Der kuriale Geschäftsgang in den Briefen des Thomas von Capua,

«Archiv für Urkundenforschung», 13 (1935), pp. 198-318.12 Sulla tradizione retorica relativa alla definizione della salutatio come una delle prin-

cipali parti dell’epistola cfr. le note di commento di Gian Carlo Alessio alla sua edizione di

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è dalla salutatio che comincia a dipendere la disponibilità o l’attenzione deldestinatario dell’epistola, è già in essa che il mittente – con l’adeguata scel-ta dei titoli con cui appellare il destinatario, o con quella dei termini fina-lizzati a dichiarare il proprio affetto o il proprio rispetto – deve propiziar-si il favore dell’interlocutore. Per questo, la costruzione di una buona salu-tatio diventa una tecnica, una scienza che non può ammettere errori: sba-gliare la formula di saluto può equivalere a rendere fragili le fondamentasu cui deve appoggiare l’intera costruzione epistolare. Chi scrive, dunque,deve sapersi guadagnare la simpatia e la benevolenza dell’interlocutore,rivolgendosi a lui in modi precisi e ben studiati e deve essere in grado didistinguere tra i diversi destinatari e adattare al loro livello culturale e alloro rango le forme e i modi della prosa da adottare. In questo contesto,naturalmente, particolare attenzione ricevono le esemplificazioni relativealle comunicazioni ufficiali e istituzionali, ma, nelle trattazioni specifiche,non mancano neppure quelle, per dir così, di tipo più informale. Così, soloper fare qualche esempio, in una Summa salutationum di età sveva si pre-scrive: «amicus amico hoc modo: “Predilecto amico suo I.”; vel “intimo etprecordiali”; vel “speciali amico suo et quam plurimum diligendo R. votasalutis et gaudii”; vel “salutem et quam sibi desiderat sospitatem”; vel“salutem quam sibi”; vel “quicquid Lelius Scipioni”; vel “salutem etomnem bonum”; vel “gaudium cum salute”; vel “salutem et hominis inte-rioris affectum”; vel “se sibi”; vel “se et sua pro se et suis”; vel “salutem etintimi amoris constantiam”; vel “salutem cum videndi desiderio”; vel“salutem et prosperos ad vota successus”; vel “salutem et indissolubileamoris vinculum”»13. Tali formule sono di tipo, per dir così, generico, per-ché, parlando del modo in cui salutano e vengono salutati alcuni partico-lari rappresentanti del potere o membri di determinati gruppi sociali, sifanno esemplificazioni più specifiche. E così come si riscontra nelle V

Bene Florentinus, Candelabrum, Padova 1983. Per una trattazione più ampia e dettagliatacfr., però, C.D. Lanham, Salutatio Formulas in Latin Letters to 1200. Syntax, Style, andTheory, München 1975.

13 F. Delle Donne, Le formule di saluto nella pratica epistolare medievale. La Summasalutationum di Milano e Parigi, «Filologia Mediolatina», 9 (2002), pp. 251-279: 278. Laredazione della Summa che è stata citata è quella offerta dal ms. di Milano, Bibl. Ambro-siana, E 59 sup., c. 68r-v, che sembra essere stata prodotta in Italia centro-meridionaleintorno al 1227. Traduzione: «l’amico scrive all’amico in questo modo: “Al suo predilettoamico I.”; oppure “intimo e profondo”; o “al suo speciale e amatissimo amico R. con i votidi salute e felicità”; o “augurando la salute e il benessere che desidera”; o “la stessa saluteche augura a se stesso”; o “tutto quello che augura Lelio a Scipione”; o “salute e ogni

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Tabulae salutationum di Boncompagno da Signa, nella Summa di GuidoFaba, nell’Ars di Tommaso di Capua, o nel Candelabrum di Bene Fioren-tino14, si propone una variegata casistica in cui si esplicitano i modi in cuiun amico viene salutato dall’imperatore, dal papa, dai duchi, dai milites odai rustici.

Insomma, possono essere vari i modi di rivolgersi agli amici, e variepossono essere anche le caratterizzazioni dell’amicizia, diversificate soprat-tutto nell’uso dei termini usati a suo corredo. Così, ad esempio, nelle lette-re del cosiddetto epistolario di Pier della Vigna, rimanendo nel campodelle relazioni affettive, si parla di amicitiae foedus, di amicorum affectio, diconstantia amicitiae purae, di amicitia florigera15; ma, passando in quello deirapporti politici, si incontrano anche espressioni come pacis amicus, amicusDei e philosophiae amicus, o, al contrario, amicus erroris, amicus caedis e re-bellionis amicus16. Ovvero, a seconda della situazione o del messaggio chesi vuole trasmettere, si attribuiscono all’amicizia non solo i tratti distintivipositivi, ma anche quelli negativi; questi ultimi aggravati ulteriormente dalsubdolo stravolgimento di un atteggiamento virtuoso in un’applicazioneviziosa ed empia.

Tuttavia, in questi ultimi casi abbiamo a che fare con giochi di variazio-ne semantica di un termine, che riguardano più il suo aspetto denotativoche quello connotativo. E, in questo contesto, non si è inteso procedere a

bene”; o “felicità e salute”; o “salute e affetto profondo”; o “con tutto se stesso”; o “contutto se stesso e le sue cose per lui e i suoi”; o “salute e costanza di amore profondo”; o“salute, con la speranza di incontrarsi”; o “salute e prosperi successi desiderati”; o “salutee indissolubile vincolo d’amore”». La Summa, però, è tràdita anche in un’altra redazione,che sembra risalire al 1265-1268, conservata nel ms. Paris, Bibl. Nat., Lat. 8630, cc. 1r-4r,in cui il testo citato viene reso così: «sic scribit amicus amico: “Predilecto amico suo”; velaliter “intimo et precordiali etc.”; vel aliter “speciali amico suo quam plurimum diligendo,S. salutem et vota salutis et gaudii”; vel aliter “quam sibi”; vel aliter “salutem et omnembonum”; vel aliter “gaudium cum salute”; vel aliter “se et sua”; vel aliter “intimi amorisconstantiam”; vel aliter “cum desiderio revidendi”; vel aliter “prosperos ad vota succes-sus”» (Delle Donne, Le formule di saluto cit., p. 279).

14 Cfr. G. Voltolina, Un trattato medievale di ars dictandi. Le V tabule salutationum diBoncompagno da Signa, Casamari 1990, pp. 18, 21, 30, 33, 35, 37; Guido Faba, Summa dic-taminis, ed. A. Gaudenzi, «Il propugnatore», n. ser., 3 (1890), pp. 300-309: 307 (par. 26);Heller, Die Ars dictandi cit., p. 30 (par. 20); Bene Florentinus, Candelabrum cit., III 44, 4.

15 Per l’edizione a stampa dell’epistolario di Pier della Vigna si fa riferimento a quellacurata da Johann Rudolf Iselin (Iselius), Basilea nel 1740. Le espressioni citate si trovano,rispettivamente, alle pp. 133 e 187; 150; 419; 438.

16 Cfr. ivi, rispettivamente alle pp. 113 e 458; 199; 494; 152; 249, 525.

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uno spoglio dell’uso dei lessemi amicus e amicitia, e dei suoi campi appli-cativi, che pure, forse, potrebbe condurre a risultati interessanti. Piuttosto,si è preferito procedere a un’indagine sulle epistole dichiaratamente indi-rizzate da amico ad amico, esaminandole non solo nell’aspetto dei conte-nuti e delle finalità più o meno concrete, ma anche in quello, per così dire,autoreferenziale. Già in precedenza si è fatto riferimento a lettere in cui ilmittente scrive a un amico riflettendo sul significato della vera amicizia; maqualche ulteriore elemento di analisi si può trovare nelle considerazioniindirizzate dall’abate di Montecassino Bernardo Ayglerii17 a Nicola daRocca iunior, nipote omonimo del notaio imperiale di cui abbiamo già par-lato, e che fu attivo nelle cancellerie di alcuni rappresentanti della gerar-chia ecclesiastica18. «Evangelicus dum pulsat amicus ad amici ostiumimportune, propter suam importunitatem et amicum surgere ac ostiumaperire necnon et compellit concedere postulata, ostendens surdum adinstantes preces amici, vel accidiosis occupationibus torpere, vel se deverorum non esse numero amicorum. Obsequitur enim amicitia semperlibens, nec, herens in obsequiis, tarditate procrastinat prestare sibi possibi-le, illi utile ad presens vel aliquando profuturum. Amor enim quaslibetrumpit moras et difficultates non invenit, facile reputat quod est grave,pondera non librat, distancias non metitur, penurias non allegat, impossi-bile ut necessarium adgreditur, atque fit contingens quod non contingerecredebatur. Qualiter igitur dilectus diligere se ostendit, qui vocationibusnon respondet, pulsatus non aperit, rogatus non audit et sibi facillimatacendo denegat, cum sine sui penuria ditare possit amicum?»19. Con ilriferimento esplicito al Vangelo di Luca (11, 6-7), l’abate Bernardo rimpro-verava Nicola perché era costretto a insistere con lui, mentre le regole della

17 Fu abate di Monte Cassino dal 1266 al 1282: cfr. N. Kamp, Kirche und Monarchieim staufischen Königreich Sizilien, I, München 1973, pp. 329 ss.

18 Sul personaggio cfr. l’introduzione di Nicola da Rocca, Epistolae cit., pp. XIX s. epassim.

19 Nicola da Rocca, Epistolae cit., n. 101, p. 120: «quando l’evangelico amico bussaimportunamente alla porta dell’amico, e con la sua importunità spinge l’amico ad alzarsi,ad aprire la porta e a dare ciò che viene chiesto, se ci si mostra sordi alle preghiere pressan-ti dell’amico, o si è intorpiditi dall’accidia o non si può essere annoverati tra i veri amici.Infatti, l’amicizia fa rispondere sempre con piacere, e non si attarda in atti di deferenzarimandando ciò che per sé è possibile, e per l’altro è utile al momento o lo sarà in futuro.L’amore, infatti, rompe qualsiasi indugio e non trova difficoltà, reputa facile ciò che è dif-ficile, non valuta i pesi, non misura le distanze, non si scusa con la penuria, va incontroall’impossibile come fosse necessario, e rende fattibile ciò che si pensava non lo fosse.

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sincera amicizia dovrebbero rendere superflua ogni richiesta. Per che cosalo sollecitasse non è possibile saperlo. Può darsi che gli servisse un ogget-to o un favore; ma non è da escludere che lo stesse semplicemente invitan-do a scrivergli. E non tanto per ricevere notizie sulla salute o sui successidel corrispondente, quanto per iniziare con lui un certame dettatorio, con-sistente in uno scambio di epistole retoricamente ornate che non avevanoalcun’altra funzione pratica, se non quella di mettere alla prova l’elabora-zione della propria e dell’altrui prosa.

È questo, forse, uno degli aspetti più singolari della produzione episto-lare di questo periodo. Infatti, i certami dettatorî dovevano costituire unodegli svaghi preferiti dai dictatores, che raramente perdevano l’occasione disfidare gli amici, e raramente, se chiamati in causa, si tiravano indietro, dalmomento che ce ne sono stati tramandati diversi20. L’impulso a confrontidi questo tipo era dato, probabilmente, dal desiderio di sfuggire alla routi-ne di un lavoro faticoso, che non permetteva di dare libero sfogo alla fan-tasia creativa, troppo vincolata dai rigidi impegni formali e professionali diuna cancelleria21.

Per comprendere meglio la situazione, è opportuno seguire uno scam-bio epistolare – ovvero una controversia, come si dice nel codice che loconserva22 – intervenuto, intorno al 1246, tra Nicola da Rocca e Pier dellaVigna, che, senza essere generato da un’esigenza concreta di comunicarequalcosa di preciso, prosegue per ben 8 lettere23. Si tratta di una vera e pro-pria occasione di svago, proposta dal più anziano e influente dictatorcapuano, Pier della Vigna, che spiega chiaramente i motivi che lo spingo-no a rivolgersi al corrispondente: «credo quod labores asperos homo faci-

Dunque, in che modo l’amato dimostra di amare, se non risponde quando lo si chiama, senon apre quando gli si bussa, se non ascolta ciò che gli viene chiesto e, tacendo, nega coseper lui facilissime, potendo arricchire l’amico senza impoverirsi?».

20 Per agoni di questo tipo cfr. Sambin, Un certame cit., nonché i vari contenuti inNicola da Rocca, Epistolae cit., e in Una silloge cit.

21 Sulla questione cfr. l’introduzione a Nicola da Rocca, Epistolae cit., pp. XXXI-LVI,da cui si riprendono qui alcune considerazioni; nonché B. Grévin, Rhétorique du pouvoirmédiéval. Les Lettres de Pierre de la Vigne et la formation du langage politique européenXIIIe-XIVe siècle, Rome 2008, pp. 341-357; e Grévin, Regole ed implicazioni di un gioco dichierici: le giostre retoriche (certamina) del personale delle cancellerie imperiale e papale nelsecondo terzo del tredicesimo secolo (circa 1235-circa 1280), «Ludica. Annali di storia e civil-tà del gioco», 13-14 (2007-2008), pp. 145-158.

22 «Controversia habita inter Petrum de Vinea et Nicolaum de Rocca» viene intitolatol’intero scambio nel ms. conservato a Parigi, Parigi, Bibl. Nat., Lat. 8567, c. 100v.

23 Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae cit., lettere nn. 16-23, pp. 34-42.

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lius tolerat quos mollire potest colloquiis amicorum. Propter quod ego[…] te, carissime, deprecor […] ut litterarum tuarum solaciis penas measfrequenter allevies, sciturus quod tibi etiam verborum lenimenta profi-ciunt qui laborum similia pateris detrimenta»24. L’avvio si presenta comel’occasione per offrire a se stesso e all’amico interlocutore un diversivo, undivertimento che renda più sopportabili i gravosi, quotidiani impegni lavo-rativi. Tuttavia, non si tratta solo di un invito a intraprendere uno scambioepistolare in cui si possa reciprocamente godere dell’inventiva retorica del-l’altro. Si tratta di una vera e propria provocazione, che, implicitamente,delimita anche nel gioco e nello scherzo il campo di quello che subito siprofila come un agone. Lo testimonia già il fatto che il mittente di quellaprima lettera, Pier della Vigna, volontariamente non rivela il proprio nome,spiegando, poi, nella lettera successiva, la ragione della sua decisione:«quod informis epistola nomen non signavit opificis, quod querendumexpressius non notavit amicum, causa fuit ne, in scriptione domini, pom-posa procederet et quesitum socium, intitulationis ope, cognosceret, quemexperti ducis indicio facilius poterat invenire»25.

Nello scambio epistolare viene rispettato un preciso gioco delle parti:da un lato c’è il più giovane dictator che si difende senza attaccare, dichia-rando continuamente la propria inferiorità; dall’altro c’è il più anziano epiù influente logoteta e protonotario imperiale, che, trasformato l’amico inun avversario, lo esorta a gareggiare senza timore. Così Piero, nella primalettera di invito, si rivolge al suo interlocutore come a un pari grado nelladottrina del dictamen, mentre Nicola, nella lettera di risposta, si dichiarainferiore per capacità e ruolo. Ciascuno, però, riutilizza e varia gli argo-menti e le figure retoriche usate dall’altro, in un gioco di rimandi attraver-so il quale ognuno dimostra la propria inventiva e creatività metaforica.

Nella sua prima lettera, Nicola esordisce: «primis nudatus interulisoccurrit oratorius scribentis affectibus, hiis diebus, sub dubietate libellus,qui, nec personam expressim mittentis intitulans, nec receptoris essentiam

24 Cfr. ibid., n. 16, p. 34: «credo che l’uomo tollera più facilmente le aspre fatiche, chepuò addolcire grazie alle conversazioni con gli amici. Perciò [...] ti prego, carissimo, [...] dialleviare spesso le mie pene con le gioie delle tue lettere, sapendo che i lenimenti delle paro-le giovano anche a te, che sopporti i danni di simili fatiche».

25 Cfr. ivi la lettera 18, p. 36: «il fatto che l’epistola priva di perfetta struttura non hadichiarato il nome del suo autore, e che non ha indicato in maniera esplicita quello dell’ami-co che cercava, ha la sua causa nel fatto che, nella composizione del suo signore, non inten-deva procedere pomposa e riconoscere, grazie all’intitolazione, l’amico cercato, che potevatrovare piuttosto facilmente con l’indizio dell’esperta guida».

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subfigurans, iudiciarii ritus ornamenta redoluit, dum labores iudiciariossuasione molliri dictaminis exquisivit. Errasse siquidem videbatur ille suc-cinctus interpres in invium, dum, ad me dyametrum dirigens, lactis indiciade petre soliditate mungebat»26. Il divertito gioco evocativo comincia im-mediatamente con la stigmatizzazione della nudità della lettera di Piero,priva dell’intitulatio e dell’inscriptio, rivelando immediatamente il caratte-re tipico dello stile di quella scuola retorica, generalmente definita capua-na27, che tende all’astrazione dei concetti. Quello stile trasforma le azioni ei termini della contingenza in un sottile arcano verbale, quasi come se aves-se il timore di far rapprendere nella concretezza di un’immagine troppovivida i propri pensieri. I concetti, così, vengono espressi con parole cheappartengono al sermo quotidiano, ma che vengono svuotate di tutte leloro connotazioni più comuni e riempite di nuovi e impensati significati,acquistando una leggerezza che sfiora la vacuità, per costruire trame tantosottili da risultare spesso impalpabili. Così, i giochi metaforici vengono, inogni momento e in ogni modo, esaltati e impreziositi dal parallelismo dellecostruzioni sintattiche e dai giochi verbali, che rischiano quasi di passareinosservati in tanto complesse elaborazioni retoriche. Il dum della primafrase viene parallelisticamente ripreso nella seconda, dove il tema dellanudità e della mancanza viene ripreso in maniera concreta con l’aggettivosuccinctus, ma poi, in maniera più ricercata con l’inconsueto dyametrum, einfine, in maniera figurata, con l’immagine del latte munto dalla pietra,nella quale si nasconde anche un gioco verbale sul nome del corrisponden-te. Una gradatio sottilmente costruita che mira a negare, nel momento stes-so in cui viene formulata, l’affermazione di inadeguatezza a competere conla prosa di chi lo ha sfidato.

26 Cfr. ivi la lettera 17, p. 35: «spogliato dei primi indumenti si è volto, in questi gior-ni, agli affetti di chi scrive dubbioso un libello oratorio, che, né indicando espressamentenell’intitolazione la persona del mittente, né delineando la figura del destinatario, recavaancora l’odore degli ornamenti delle pratiche giudiziarie, mentre cercava di alleviare quel-le fatiche con l’invito a scrivere. Certamente, quel succinto interprete sembrava aver sba-gliato trovando un ostacolo sulla strada, dal momento che, dirigendosi a me che stavo inmezzo, cercava di mungere parvenze di latte dalla durezza della pietra».

27 La definizione di “scuola capuana” risale a K. Hampe, Über eine Ausgabe derCapuaner Briefsammlung des Cod. lat. 11867 der Pariser Nationalbibliothek, «Sitzungs-berichte der Heidelberger Akademie der Wissenschaften. Phil. - hist. Kl.», (1910, 8). Tut-tavia, quella tradizione retorica sembra comune a tutta la zona della Terra di Lavoro, e forsefaceva capo a Montecassino: per una rettifica e una puntualizzazione della questione cfr. F.

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Ma le mirabolanti invenzioni retoriche non sono ancora terminate:«sane, si verum fateor, nec sit mihi missor incognitus: unde dominus invi-tari debuerat, inde famulus redditur invitatus; unde lenta precurrisse cre-debat epistola, inde preventa claudicans nomen induit responsalis»28. Sullaripetizione del nesso unde-inde si viene a innestare il gioco di parole, concostruzione chiastica, basato sui concetti della velocità e della lentezza, delcorrere e dello zoppicare. Ma neanche in questa nuova immagine si perdeil filo conduttore della metafora della nudità, perché essa viene richiamataattraverso l’uso del verbo induo, rivelando un complesso studio elaborati-vo, frutto sì di attenta meditazione, ma anche di fervida e immediata inven-tiva: non bisogna dimenticare, infatti, che i certami dettatorî di questo tipovenivano svolti parallelamente al lavoro ufficiale di cancelleria, che di certonon doveva essere né poco impegnativo, né doveva lasciare molto tempolibero.

L’inventiva, tuttavia, non appare del tutto espressa nella seconda lette-ra di Pier della Vigna, forse ancora non stuzzicato abbastanza dal conten-dente. Così, il Capuano incoraggia il corrispondente, ancora troppo schi-vo: «non videor, ut dixisti, in te lac de lapide stolide mungere, sed de phi-losophie plenis uberibus lactea pocula prudenter haurire. Scio enim quod,qui cotidie tanta exhibes, qui talia indesinenter effundis, nisi scientie opi-bus affluenter afflueres, iam tua liberalitas defecisset. Eya ergo, frater, scri-bas assidue, nec te tedeat de thesauro isto tales margaritas educere, cumaperte connicias quod tua opulentia opulentior redditur largitate»29. Piero

Delle Donne, Le consolationes del IV libro dell’epistolario di Pier della Vigna, «Vichiana»,ser. III, 4 (1993), pp. 268-290: 287-290; F. Delle Donne, La cultura e gli insegnamenti retori-ci latini nell’Alta Terra di Lavoro, in ‘Suavis terra, inexpugnabile castrum’. L’Alta Terra diLavoro dal dominio svevo alla conquista angioina, cur. F. Delle Donne, Arce 2007, pp. 133-157; S. Tuczek, introduzione a Die Kampanische Briefsammlung (Paris lat. 11867), Hannover2010 (M.G.H., Briefe des späteren Mittelalters, 2), pp. 37-42. Sulla diffusione della tradizio-ne retorica campana cfr. da ultimo B. Grévin, Les mystères rhéthoriques de l’État médiéval.L’écriture du pouvoir en Europe occidentale (XIIIe-XVe siècle), «Annales. Histoire, SciencesSociales», 63 (2008), pp. 271-300: 278-281; inoltre, Grévin, Rhétorique du pouvoir cit., pp.267-270.

28 Nicola da Rocca, Epistolae cit., n. 17, p. 35: «certamente, a dire il vero, non è che misia ignoto il mittente: laddove era il signore a dover essere invitato, lì il servo viene invita-to; laddove la lenta epistola credeva di aver corso veloce, lì, anticipata perché zoppicava, sivestì col nome di chi risponde».

29 Cfr. ivi la lettera 18, p. 36: «non credo, come hai detto, di mungere stolidamente illatte dalla pietra, ma di abbeverarmi prudentemente alle coppe del latte munto dalle gon-fie mammelle della filosofia. So, infatti, che se tu, che mostri tanta abilità ogni giorno e che

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riprende, arricchendolo e variandolo, il tema del latte munto dalla pietra30,che diventa latte attinto dalle mammelle della filosofia, a cui si abbeveraNicola. E se Nicola, nella lettera precedente, aveva dimostrato la propriaperizia nell’elaborare giochi di parole, Piero non vuole apparire inferiore,e si diverte a variare il tema del verbo affluere e quello del sostantivo opu-lentia, che a loro volta sono inseriti in un contesto dominato dalle immagi-ni contrastive dell’abbondanza e della privazione, suggerite soprattutto daiverbi effundere e deficere, e dai sostantivi liberalitas e largitas.

I giochi costruiti sulla variazione tematiche delle parole, comunque,costituiscono una caratteristica comune dell’epistolografia dell’epoca31 evengono abbondantemente utilizzati ancora nel prosieguo del certame. Mapiù interessante, forse, è il modo in cui viene caratterizzato il certame, cheappare quasi come uno scontro fisico, combattuto con la lama della lingua,paragonata a quella di spade e pugnali. Sin dall’esordio della sua terza let-tera, infatti, Pier della Vigna dice: «quoscumque triumphos de duello dic-taminis strenuus prestoleris athleta, ego tamen, et si fortuna consentiat,nullam quero de amicabili dimicatione victoriam, ex qua certando solum-modo redditur pugil lingua fecundior, ex qua pugnatoris audacia vincen-do succumberet, quia dum deficeret hostis obstaculum, virtus exercitiovalida otioso tripudio perderetur. Sequitur ergo ut adversario tuo, noncedendo sed confligendo, complaceas, qui tunc succubuisse se crederet,cum obicem non haberet»32. Lo scontro verbale viene raffigurato comeuna contrapposizione di due lottatori che si fronteggiano per trionfare

tali capacità effondi senza requie, non le facessi sgorgare abbondantemente dalle risorsedella scienza, sarebbe già venuta meno la tua liberalità. Orsù, dunque, fratello, scrivimi assi-duamente, e non ti stancare di trarre tali perle fuori da questo tesoro, dimostrando chiara-mente che la tua opulenza è resa ancora più opulenta dalla generosità».

30 Nella lettera di Nicola da Rocca si legge «petre soliditate», mentre nella lettera diPier della Vigna si legge «lapide stolide»: probabilmente la differenza è da imputare a ungioco verbale variativo, piuttosto che a un errore nella tradizione manoscritta.

31 Cfr., ad es., F. Delle Donne, Le consolationes, cit., p. 281; e Delle Donne, La fonda-zione dello Studium di Napoli, «Atti della Accademia Pontaniana», n. ser. 42 (1993), p. 183.

32 Nicola da Rocca, Epistolae cit., n. 20, pp. 37-38: «per tutti i trionfi ottenuti dal duel-lo oratorio che tu, strenuo atleta, puoi attenderti, io, certamente, se solo la fortuna lo con-sente, non cerco nessuna vittoria ottenuta con uno scontro amichevole, perché solo lottan-do è resa più feconda la pugile lingua, per la quale, pur vincendo, soccomberebbe l’auda-cia del lottatore, giacché, venendo meno l’ostacolo del nemico, la virtù, resa valida dall’eser-cizio, si perderebbe nell’ozioso tripudio. Ne consegue, dunque, che non ritirandoti, macombattendo tu debba compiacere il tuo avversario, che allora può credere di aver perso,quando non riesce a trovare opposizione».

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onorevolmente. Per questo il duellum deve essere leale: l’avversario è unostrenuus athleta33 che non può ritirarsi e che non può contendere con ami-cabilis dimicatio, altrimenti il vincitore non può trarne onore. E se Nicolada Rocca, nella lettera di risposta, sembra timidamente spostare il campodella contesa dalla palestra all’aula tribunalizia o alla sala conviviale, purcontinuando ad usare immagini belliche, Pier della Vigna, nella sua succes-siva lettera, ribadisce perentoriamente quale debba essere il terreno delloscontro: «etsi non sit de more pugnantium indefessos humeros congresso-ris appetere, ego tamen in hac palestra dictaminis optavi semper hostisaudaciam et colluctatoris instantiam inflexibilem requisivi, quoniam, utopinor, quicumque fugientis terga persequitur aut non rebellantem percu-tit inimicum, turpia bella congreditur et ignominiosa victoria gloriatur»34.L’avversario è divenuto un nemico in fuga, che sarebbe disonorevole col-pire alle spalle. L’etica cavalleresca, dunque, impone ad entrambi di conti-nuare a combattersi: «restat igitur in expertum militem insilire». Ognunodeve affilare sulla propria cote sicae et gladii, così come impongono i belli-ca iura, perché, a questo punto, lo scontro deve proseguire fino a quandouno dei due sarà costretto a soccombere. Ma, ormai, lo scontro, evidente-mente, è durato troppo a lungo: la fantasia dei due dictatores è scemata, ele metafore si fanno sempre più ripetitive e sottili. Così, Nicola da Rocca siritira: «sed lingue loquacitas, utilis in enigmate, iurgium quod orationisblande suasio reddit audacius, tamquam ferrum, quod ferri polituris acui-tur, quanto perdignius purgari se cogitat, tanto pignoris emolumenta fe-cundioris acquirit. Ne igitur obvius reddar et displicens, unde placere cre-didi, forsan insipidus, illa repetita petitio sub silentii clave recluditur, obla-te penne vestre mysterio tanto recipiendo solennius, quanto, que sinecythara luderet, discordiam lire modificans, gratiorem efficiet melo-diam»35. Nicola da Rocca, con una dichiarazione di falsa modestia, affer-ma di non essere più in grado di affrontare il suo contendente sul camposcelto da lui, e perché la sua prosa non appaia obvia, displicens e insipida,

33 Per un’immagine simile cfr. ivi l’inizio della lettera 70, p. 89.34 Ivi, n. 22, p. 40: «anche se non appartiene al costume dei lottatori avventarsi sulle

instancabili spalle dell’avversario, io, tuttavia, in questa palestra oratoria, ho sempre desi-derato l’audacia del nemico e ho sempre cercato l’inflessibile veemenza del contendente,poiché, come credo, chiunque insegue il fuggitivo che volge le spalle o colpisce il nemicoche non oppone resistenza, ingaggia turpi battaglie e si gloria di una vittoria ignominiosa».

35 Ivi, n. 23, p. 42: «la loquacità della lingua, utile nell’escogitare enigmi, lo scontro chela persuasione della blanda orazione rende più audace, come il ferro che è acuito dalle levi-

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la rinchiude sub clave silentii, così che la melodia prodotta dalla cetra diPier della Vigna non venga guastata dalla sua discorde lira. In questo modosi conclude il certame dettatorio tra Nicola da Rocca e Pier della Vigna.Una conclusione, tuttavia, resa piuttosto oscura dall’ultima, non facilmen-te comprensibile, metafora musicale. Un’oscurità, che, tra l’altro, costitui-sce una caratteristica tipica della prosa dell’ambiente federiciano, se è veroche già i contemporanei dichiaravano la propria difficoltà a comprender-la36. E che Nicola da Rocca e gli altri dictatores si compiacessero del pro-prio modo di scrivere volutamente poco chiaro ci viene confermato pro-prio dal finale di quella lettera con cui viene posto termine al certame: lalingue loquacitas è utilis in enigmate, e mysterium viene definito il prodot-to della penna-plettro di Pier della Vigna. Un’affermazione che rimandaalla concezione ieratica del ruolo svolto dai notai nella cancelleria imperia-le, ovvero in un ambiente in cui – mentre lo stesso Federico II proponevala comparazione tra imperatore e sacerdote37 – i giudici e i giuristi dellaMagna Curia ritenevano di amministrare la giustizia come una cosa sacra38,

gature del ferro, quanto più pensa di pulirsi meglio, tanto più acquista i vantaggi del fecon-do pegno. Dunque, per non diventare cedevole e spiacevole, mentre cercavo di piacere, eforse anche insipido, viene da me chiusa con la chiave del silenzio quella ripetuta istanza,ricevendola tanto più solennemente, quanto più gradita, col mistero del plettro usato, rendela melodia, che può suonare senza cetra, correggendo la discordanza della mia lira».

36 Cfr. H.U. Kantorowicz, Über die dem Petrus de Vineis zugeschriebenen Arenge,«Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung», 30 (1909), p. 653nota 1, in cui si riporta la frase del giurista Odofredo: «volentes obscure loqui et in supre-mo stilo, ut faciunt summi doctores et sicut faciebat Petrus de Vineis…»; «volendo parlarein maniera oscura e in stile supremo, come fanno i sommi dottori e come faceva Pier dellaVigna...». Ma si veda anche l’inizio della lettera in Nicola da Rocca, Epistolae cit., n. 86, p.106, in cui, ironicamente, l’arcivescovo di Salerno Matteo de Porta ribatte a Nicola deSanctis che «legibus amica simplicitas epistule, quam misisti, amica non fuit, que novis mul-tiplicata decoribus et enigmaticis profunda misteriis, rusticani sermonis inscia simplicitateperscripta, novum ac nobile genus stili comptis ac floridis vernabat eloquiis, et maiestateminaccessibili magnitudine preferebat»; «la semplicità, amica delle leggi, non fu amica del-l’epistola che hai mandato, che, resa maggiore dagli insoliti abbellimenti e resa profondadagli enigmatici misteri, stabilito che la semplicità inconsapevole è propria della linguarustica, faceva lussureggiare il nuovo e nobile genere di scrittura con gli acconci e fioriti elo-qui, e portava innanzi la maestà con inaccessibile grandezza». Matteo, poi, dichiarata la suainabilità, comunica che a rispondergli per le rime sarà il più giovane Nicola da Rocca, il cuistile, evidentemente, era considerato altrettanto involuto.

37 Cfr. soprattutto E. Kantorowicz, I due corpi del re, Torino 1989 (ed. or. Princeton1957), pp. 84-93.

38 Cfr. Petrus de Vinea, Epistolae, III 68, p. 495 e III 69, p. 501 della citata ed. Iselius(cfr. anche P. Zinsmaier, Die Regesten des Kaiserreichs unter Philipp, Otto IV., Friedrich II.,

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quasi fossero sacerdoti di una religio iuris, il cui cerimoniale era un iusti-tiae sacratissimum ministerium ovvero – con una variazione da non impu-tare solo a guasti o a incertezze della tradizione manoscritta – mysterium39.

Come si è detto, tali certami dettatorî erano evidentemente generati daldesiderio di sfuggire alla routine dell’impegnativo e faticoso lavoro di can-celleria, che proprio in quell’epoca si andava regolamentando in manierasempre più complessa e precisa40. I contendenti, tuttavia, potevano, allostesso tempo, tenere in esercizio gli strumenti più utili della loro professio-ne, ovvero l’inventiva retorica, che rischiava di intorpidirsi per la ripetitivi-tà di una scrittura basata soprattutto sulla riproduzione stereotipata di for-mule, che sole potevano garantire sulla precisione e sulla validità giuridicadegli atti ufficiali. Queste circostanze possono spiegare perché due notai,che lavoravano nello stesso ufficio, probabilmente a pochi metri l’uno dal-l’altro, abbiano deciso di comunicare tra loro in forma scritta.

Tuttavia, in questo contesto, assume un peculiare rilievo anche il rap-porto che viene a instaurarsi tra i due interlocutori, ovvero contendenti.L’esempio del certamen tra Pier della Vigna e Nicola da Rocca, infatti, cimostra due personaggi lontani tra loro per età e per posizione gerarchica:Piero era di qualche decennio più vecchio e si trovava al vertice dell’ammi-

Heinrich VII., Conrad IV., Heinrich Raspe, Wilhelm und Richard, 1198-1272. Nachträge undErgänzungen, Reg. Imp., V 4, Köln-Wien 1983, n. 605); Constitutiones Friderici II, ed. W.Stürner, Hannover 1996 (M.G.H., Const., II suppl.), I 62, pp. 227 ss.; inoltre, ivi, I 32 e I95, pp. 186 ss. e 275 ss. Cfr. anche Grévin, Rhétorique du pouvoir cit., pp. 319-330.

39 Cfr. Kantorowicz, Due corpi, cit., pp. 88 e 103 ss. Per l’uso interscambiabile di mini-sterium e mysterium si veda F. Blatt, Ministerium-Mysterium, «Archivum Latinitatis mediiaevi», 4 (1928), pp. 80 ss., e E. Kantorowicz, Misteries of State. An absolutist concept and itslate medieval origins, in Kantorowicz, Selected Studies, Locust Valley-New York 1965, p.385 nota 22 (il saggio è apparso per la prima volta in «Harvard Theological Review», 58[1955], pp. 65-91). Anche nella tradizione manoscritta dei documenti svevi è possibileriscontrare una simile ambiguità nell’uso dei due termini: cfr. Constitutiones et acta publicaimperatorum et regum, II, ed. L. Weiland, Hannoverae 1896 (M.G.H., Legum sectio, IV, 2),n. 200, p. 267 r. 12 ed apparato critico; Petrus de Vinea, Epistolae, III 68 e III 69; Nicolada Rocca, Epistolae cit., nn. 69, 73, 118, pp. 88, 92, 139. Per il “mistero retorico” cfr. ancheE. Kantorowicz, Anonymi Aurea gemma, in Kantorowicz, Selected Studies, cit., p. 254 (ilsaggio è apparso per la prima volta in «Medievalia et Humanistica», 1 [1943], pp. 41-57).

40 Il funzionamento della cancelleria sveva venne precisamente regolamentato già neglianni Quaranta del Duecento, quando furono emanate da Federico specifiche Ordinanze,che permettono di conoscere, sia pure non nei più minuti dettagli, l’iter che le praticheavrebbero dovuto compiere: cfr. E. Winkelmann, Acta imperii inedita, I, Innsbruck 1880,n. 988, pp. 733-737. Del resto, l’accresciuto impegno della cancelleria è attestato anche dal

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nistrazione imperiale; oltre a ciò, era stato, probabilmente, proprio lui adammettere al servizio cancelleresco Nicola, dopo averne messo alla provale capacità41. Ma, nonostante questo, almeno per la durata di quello svagooratorio, ogni distanza viene annullata nella pratica di un gioco che nonconosce differenze di età o di posizione gerarchica.

Insomma, non è l’amicizia a far sì che si stimi la capacità oratoria del-l’altro, ma al contrario, è l’abilità dimostrata nella perfetta elaborazionedella prosa retorica a creare i presupposti per il legame affettivo che uni-sce i due illustri dictatores. Sono le virtù personali a essere apprezzate e apreparare il campo in cui coltivare l’amicizia. E se, come affermava giàCicerone, l’amicizia non può nascere «nisi in bonis»42, e come, intorno al1205, ripeteva Boncompagno da Signa, uno dei maestri che più influenzòl’ars dictaminis di quel periodo, «amicitia [...] in solis virtuosis habitaculumpreelegit», è la virtù posseduta e costantemente dimostrata a rendere degnidi ciò che sempre Cicerone definiva «divinarum humanarumque rerumcum benevolentia et caritate consensio»43, e che Boncompagno ribadivaessere «effectus divine potentie, quo summa natura in angelis et hominibusoperatur»44. La virtù, dunque, elemento essenziale dell’amicizia, eleva chisi trova più in basso, mettendolo alla pari col più alto, così come venivaampiamente dichiarato in una Contentio de nobilitate generis et probitate

superstite frammento di cancelleria edito da C. Carbonetti Vendittelli, Il registro della can-celleria di Federico II del 1239-1240, 2 voll., Roma 2002. È probabile che l’organizzazionedella cancelleria sveva fosse improntata a quella della cancelleria papale, su cui cfr. soprat-tutto E. von Ottenthal, Regulae cancellariae apostolicae. Die päpstlichen Kanzleiregeln vonJohannes XXII. bis Nicolaus V., Innsbruck 1888. Sulla prassi cancelleresca cfr. ancheGrévin, Rhétorique du pouvoir cit., pp. 300 ss., nonché S. Gleixner, Sprachrohr kaiserlichenWillens. Die Kanzlei Kaiser Friedrichs II. (1226-1236), Köln-Wien-Weimar 2006.

41 Cfr. Nicola da Rocca, Epistolae cit., nn. 2-3, pp. 7-12; inoltre, pp. XXXV-XXXVI.42 CIC., Lael., 18.43 CIC., Lael., 20.44 Boncompagno da Signa, Amicitia, ed. S. Nathan, Roma 1909, cap. 9, p. 52: «effetto

della potenza divina, con cui la somma natura opera negli angeli e negli uomini». Il testo èstato edito anche con introduzione di M. Baldini e traduzione e note di C. Conti, Greve inChianti 1999. Sull’opera, oltre alle introduzioni alle citate edizioni e al contributo di EnricoArtifoni in questo volume, cfr. anche M. Dunne, Good Friends and Bad Friends? TheAmicitia of Boncompagno da Signa, in Amor amicitiae: On the Love that is Friendship, cur..T.A.F. Kelly - P.W. Rosemann, Leuven 2004, pp. 147-166; nonché P. Gasparini, L’amitiécomme fondement de la “concordia civium”: le Favolello de Brunetto Latini [et une nouvellesource du Tresor], in Écritures et pratiques de l’amitié dans l’Italie médiévale, cur. A. FontesBaratto, Paris 2010, pp. 55-107.

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animi, proposta a Pier della Vigna e a Taddeo da Sessa dai maestri, forse,dello Studium di Napoli negli anni Quaranta del Duecento, che cercavanodi capire se la vera nobiltà è quella di sangue o quella d’animo45.

Così, anche il confronto che vede contrapporsi due esperti dictatores èuno scontro non vero ma scherzoso, dove le distanze tra il dominus e ilfamulus non vengono aumentate ma ridotte e dove le armi usate servononon a dividere ma a unire, in nome di un’amicizia che, per dirla ancora conBoncompagno, «fugat vitia, virtutes inserit, spernit superbiam et amplecti-tur humilitatem»46. L’amicizia che permette di avvicinare il sottoposto alsuo superiore gerarchico, ma solo se poggia le sue fondamenta sulle virtùe sulle qualità personali, soprattutto quelle acquisite con l’applicazione e lostudio approfondito. Lo studio, d’altra parte, è ciò che consente di conqui-stare la nobiltà e il prestigio socio-professionale, come affermava FedericoII nella lettera con cui annunciava l’istituzione dello Studium di Napoli del122447, dal momento che è esso «que suscitans a terra inopem et erigens destercore pauperem, cum principibus eum locat»48, così come enfaticamen-te dichiarava suo figlio Manfredi invitando, nel 1259, gli studenti a Napoli.E se questa era la concezione che – almeno secondo le affermazioni conte-nute nelle locuzioni retoriche dei dictamina – veniva sostenuta in quel-l’epoca e in quell’ambiente, non può sorprendere che il rapporto biunivo-co che caratterizza l’amicizia “virtuosa” permettesse – almeno a parole – diannullare le distanze; non solo quelle che intercorrevano tra il più alto fun-

45 Cfr. F. Delle Donne, Una disputa sulla nobiltà alla corte di Federico II di Svevia,«Medioevo Romanzo», 23 (1999), pp. 3-20.

46 Boncompagno da Signa, Amicitia cit., cap. 11, p. 53: «fuga i vizi, semina le virtù,disprezza la superbia e abbraccia l’umiltà».

47 «Cum sterilis esse non possit accessio, quam nobilitas sequitur, cui tribunalia prepa-rantur, sequuntur lucra divitiarum, favor et gratia comparantur»; «non potendo essere ste-rile l’accessibilità, che trova seguito nella nobiltà, per la quale si dispongono i tribunali, acui succedono i guadagni di ricchezze, e sono preparate il favore e la grazia», affermaFederico II nella lettera di fondazione, edita in F. Delle Donne, «Per scientiarum haustumet seminarium doctrinarum»: edizione e studio dei documenti relativi allo Studium di Napoliin età sveva, «Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo», 111 (2009), doc. 1,p. 165; saggio ripubblicato in volume, con qualche aggiunta, col titolo «Per scientiarum hau-stum et seminarium doctrinarum». Storia dello Studium di Napoli in età sveva, Bari 2010,dove la lettera è alle pp. 86-87.

48 Cfr. Delle Donne, Per scientiarum haustum cit., doc. 19, pp. 200-201 della versionein rivista, e pp. 128-129 di quella in volume, dove Manfredi, intorno al 1259, invitando gliscolari a frequentare il rinnovato Studium di Napoli, dichiara più completamente: «hec estautem illa scientia, que diligentibus eam thesauros aperit et ad divitias pontem facit. Hec

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zionario dell’amministrazione imperiale e un suo sottoposto, ma anchequelle tra il sovrano e tutti gli uomini che coltivavano le scienze e la filoso-fia. Fu lo stesso Manfredi, infatti, a ricordare ai dotti maestri dell’universi-tà di Parigi che, per loro, egli era non solo il rex, il signore degli uomini,ma anche l’amicus che fa doni utili e preziosi49, senza aspettare che sianogli amici a chiedere, così come esige la vera amicizia e così come venivaaffermato anche nelle epistole più sopra ricordate. Ma se è vero cheManfredi aveva concesso ai maestri parigini le sue inedite traduzioni dalgreco e dall’arabo di importanti trattati logici e matematici aristotelici,senza attendere la loro richiesta, nel momento stesso in cui dava, tuttavia,chiedeva anche che accettassero quelle traduzioni gratanter, con gratitudi-ne, e soprattutto che le rendessero pubbliche «ad [...] evidens fame nostrepreconium»50. Insomma, contravveniva a una regola fondamentale del-l’amicizia, che cioè essa sia desiderata in sé e per sé, come già dicevaCicerone, e che non pretenda nulla in cambio51. Forse, non era molto quel-lo che Manfredi chiedeva, rispetto a ciò che concedeva. Tuttavia, la forma-zione culturale offerta da lui e da suo padre Federico attraverso lo Studiumdi Napoli, pur promettendo i titoli della nobiltà di merito e adeguate retri-buzioni, serviva essenzialmente a procurare ai regnanti una grande dispo-nibilità di persone fornite di cultura elevata, tanto necessarie all’ammini-strazione dello stato, che si andava organizzando in maniera sempre piùcentralizzata. Insomma, anche il favore concesso ai dotti e ai filosofi nonera gratuito, ma si configurava come un utile instrumentum regni. E l’ami-

est illa scientia, que scalas erigit ad honores et gradaria construit ad fastigia dignitatum. Hecest illa scientia, que suscitans a terra inopem et erigens de stercore pauperem cum princi-pibus eum locat»; «questa, dunque, è quella scienza che disserra tesori a coloro che laamano e costruisce ponti verso le ricchezze. Questa è quella scienza che innalza scale versogli onori e costruisce gradini verso eccelse dignità. Questa è quella scienza che, alzando ilmisero da terra e sollevando il povero dallo sterco, lo pone assieme ai principi».

49 Cfr. Delle Donne, Per scientiarum haustum cit., doc. 21, pp. 202-205 della versionein rivista, e pp. 131-134 di quella in volume.

50 Cfr. Delle Donne, Per scientiarum haustum cit., doc. 21, p. 205 della versione in rivi-sta, e p. 134 di quella in volume. «Vos igitur viri docti [...] libros ipsos tamquam exenniumamici regis gratanter accipite, et ipsos [...] tum mittentis favore commoniti, tum etiam claritransmissi operis meritis persuasi, ad communem utilitatem studentium et evidens famenostre preconium publicetis»; «voi dunque, uomini dotti, accogliete con gratitudine glistessi libri come dono dell’amico re, e [...] consapevoli del favore del mittente, nonché per-suasi dei meriti dell’opera trasmessa, li pubblichiate per la comune utilità degli studenti eper l’evidente lode della nostra fama».

51 Cfr. CIC., Lael., 80: «amicitia per se et propter se expetita».

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cizia dichiarata da Manfredi sembra somigliare, in definitiva, a quelladescritta da Boncompagno nel paragrafo dedicato all’amicus dominabilis:«amicus dominabilis gradum trascendit et amicitia gradum ignorat, ergoest oppositio in adiecto. Verumtamen aliqui sunt dominabiles amici, licetraro contingat, qui cum subicibilibus familiariter conversantur; set tibi stu-diosius ab illo amico dominabili precave, qui tuum velle retinet carceratumet suum»52.

52 Boncompagno da Signa, Amicitia cit., cap. 16, p. 56: «l’amico potente trascende igradi e l’amicizia ignora i gradi, perciò è una contraddizione in termini. Tuttavia, vi sonoalcuni amici potenti che, sebbene capiti raramente, si intrattengono familiarmente con isubalterni; ma tu guardati molto attentamente da quell’amico padrone, che tiene incarcera-te la tua e la sua volontà».

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