a. j. heschel - il canto della libertà

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Nella stessa collana SPIRITUALITÀ E B R A I C A

Detti di rabbini. Pirgè Avot Un mondo di grazia. Midrash Tehillim. Letture dal Midrash sui Salmi Rashi di Troyes, Commento al Cantico dei Cantici A. C. Avril, P. Lenhardt, La lettura ebraica della Scrittura J . Heinemann, La preghiera ebraica A. J . Heschel, L'uomo alla ricerca di Dìo M. Buber, Il cammino dell'uomo A. Kacyzne, Le perle malate P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà J . Elichaj, Ebrei e cristiani. Dal pregiudizio al dialogo R. Fabris, "Uno nella mia mano"

Invieremo gratuitamente il nostro Catalogo generale e i successivi aggiornamenti a quanti ce ne faranno richiesta.

AUTORE:

TITOLO:

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COLLANA:

FORMATO:

PAGINE:

TITOLI ORIG.:

TRADUZIONE:

IN COPERTINA:

Abraham Joshua Heschel Il canto della libertà La vita interiore e la liberazione dell'uomo Spiritualità ebraica 18 cm

f } 6

"Depth Theology", "Religion in a Free Society", "Idols in the Temples", "Prayer as Discipline", "The Vocation of the Cantor", saggi tratti da A. J . Heschel, The Insecurity of Freedom, Schocken Books, New York 1966, pp. 1 1 5 - 1 2 6 , 3-23, 52-69, 254-261 , 242-253 a cura di Enzo Gatti R. Rubin, I musicisti di Safad

© 1966 Abraham Joshua Heschel © 1999 E D I Z I O N I Q I Q A J O N COMUNITÀ DI BOSE 13887 MAGNANO (BI) Tel. 015.679.264 • Fax 015.679.290 ISBN 88-8227-066-1

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ABRAHAM JOSHUA HESCHEL

IL CANTO DELLA LIBERTÀ

La vita interiore e la liberazione dell'uomo

EDIZIONI QIQAJON C O M U N I T À D I B O S E

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P R E S E N T A Z I O N E

Scriveva Cristina Campo nella sua prefazione al-l'edizione italiana del libro L'uomo non è solo di Abraham Joshua Heschel:

Vorrei consigliare ai lettori di questo libro due pic-coli diamanti dell'opera di Heschel: un volumet-to sulla festa, The Sabbath, e il saggio "La voca-zione del cantore" nella raccolta The Insecurity of Freedom. Come ogni mistico, Heschel e, fin nell'intima vena dell'anima, homo liturgicus. E forse non una pagina di quest'opera augusta, che da un capo all'altro accende e disseta, come le acque spirituali "attinte nel cuore del fuoco ", va-le per me la pagina non scritta di un lungo collo-quio con Heschel intomo all'apostasia liturgica del secolo, alla morte del culto sacro del suono e della parola; sui terrificanti, estremi pericoli di un mondo divenuto aliturgico e sul suo possibile se pur già quasi insperabile, riscatto. Nella "Vo-cazione del cantore " Heschel riassume, in certo modo simbolico, il senso di quel colloquio1.

1 C. Campo, "Introduzione", in A. J . Heschel, L'uomo non e solo. Una filosofia della religione, Rusconi, Milano 1970, pp. 8-9.

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Incuriositi da un 'indicazione così preziosa cer-cammo già all'inizio degli anni '70 la traduzione italiana del piccolo saggio citato dalla Campo, im-battendoci in una sorpresa: The Insecurity of Freedom era uno dei pochissimi testi hescheliani che non erano ancora apparsi nella nostra lìngua. A una prima lettura ciò poteva essere in parte capi-to; si trattava infatti dì una raccolta assai eteroge-nea dì saggi, alcuni dedicati ad aspetti molto parti-colari della vita dell'ebreo americano negli anni '60. Eppure, letto e riletto quel vero e proprio inno alla libertà e all'interiorità, non potemmo fare a meno di concordare pienamente con il giudizio di una scrittrice come Cristina Campo, poetessa e tra-duttrice, a cui la nostra comunità avrebbe dedica-to negli anni a venire addirittura un convegno di studi.

Accadde poi che Abraham Heschel venne a To-rino per un'affollatissima conferenza. Nacque su-bito tra lui e i fratelli della nostra comunità accor-si a sentirlo una conversazione amabile e aperta. A quel primo contatto con Heschel seguì l'accordo di far conoscere almeno parzialmente in Italia due inediti del grande pensatore ebraico: Man's Quest for God e The Insecurity of Freedom.

Non sempre le migliori intenzioni producono frutti immediati, ma dopo anni di pazienza, sia-mo molto felici di portare a termine, con il presen-te volume, l'impegno assuntoci con Heschel più di venticinque anni or sono. Ecco allora proposta la traduzione italiana del saggio tanto amato dalla

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Campo: "La vocazione del cantore". Ma per com-prendere la portata della riflessione sintetizzata at-torno alla figura del cantore sinagogale e necessa-rio essere guidati, poiché di una sintesi si tratta. L'itinerario proposto da questo nostro libro, com-posto da cinque saggi tratti da The Insecurity of Freedom, vorrebbe condurre il lettore a scoprire la radicale importanza della vita interiore ai fini di una piena liberazione e realizzazione dell'uomo anzitutto, e quindi anche del credente. Vita inte-riore fatta, come amava ricordare Heschel, di pa-role assunte, comprese, conservate nel cuore-, fatta però anche di silenzi nei quali le parole possono attingere alle profondità dell'indicibile.

Ma al di là della parola e del silenzio, emer-ge dalle pagine che seguono una realtà che per il nostro autore ha una forza e una capacità veritati-va ed espressiva incomparabili: il canto. La litur-gia ha bisogno del canto. Essa ha bisogno, soprat-tutto, del cantore, di quel chazzan che attraver-so la piena adesione di tutta la sua persona alla tradizione che incarna pub divenire trasmettitore, guida, ba'al tefillà, "signore e maestro della pre-ghiera ".

In una società nella quale rari si fanno i promo-tori di una riscoperta di quella libertà che nasce dall'interiorità, il canto liturgico diviene per He-schel la cifra, il compendio simbolico di tutta la portata del messaggio religioso dell'ebraismo.

In ascolto della voce di quel grande cantore che fu Abraham Joshua Heschel, auguriamo a tutti i

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nostri lettori di essere introdotti dalle sue parole in quella liberta dei figli di Dio a cui ogni uomo è chiamato ad accedere, attraverso una vita interiore che si lasci pervadere dalla parola armonica e crea-trice della preghiera.

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LA T E O L O G I A D E L PROFONDO

Dove si può trovare la religione? Che genere di realtà è? Qual è il suo modo di essere?

L'amante dell'arte trova l'oggetto dei suoi desideri, ad esempio, in opere conservate nelle collezioni d'arte. Chi ama la letteratura la trova nei libri delle biblioteche. Ma qual è il luogo della religione? Si può dire che i simboli visibili custoditi nei templi, le dottrine e i dogmi con-servati in libri, contengano la totalità della reli-gione?

Non è ragionevole considerare la religione un'entità isolata, autosussistente, una realtà a sé stante, un Dìng an sich. In verità la religione dà segno di debolezza profonda quando non si sen-te offesa dinanzi alla segregazione di Dio, quan-do dimentica che il vero santuario non ha pare-ti. Non di rado la religione è stata vittima della tendenza a diventare fine a se stessa, a isolare il sacro, a vivere in modo parrocchiale, autoindul-gente, tutta incentrata su se stessa; come se il suo compito fosse non di nobilitare la natura umana, bensì di aumentare il potere e la magni-

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ficenza delle sue istituzioni o di ampliare il cor-po delle sue dottrine. Spesso ha fatto di più per canonizzare pregiudizi che non per lottare in di-fesa della verità; per pietrificare il sacro che non per santificare il secolare. Il compito della reli-gione è invece di essere una sfida alla stabilizza-zione dei valori.

La religione è stata ridotta a istituzione, a simbolo, a teologia. Non incide sulla situazione preteologica, sulla profondità presimbolica del-l'esistenza. Per invertire la tendenza dobbiamo dire con chiarezza che cosa implica l'esistenza religiosa; dobbiamo ricuperare le situazioni che precedono le formulazioni teologiche e che, al-lo stesso tempo, sono in rapporto con esse; dob-biamo richiamare alla mente le questioni alle quali le dottrine religiose cercano di dare una risposta, gli antecedenti dell'impegno religioso, i presupposti della fede. Uno dei compiti più im-portanti della religione consiste - come s'è det-to - nel riscoprire gli interrogativi ai quali la re-ligione è risposta. L'indagine deve procedere scavando sia nella coscienza dell'uomo che negli insegnamenti e atteggiamenti della tradizione religiosa.

Il problema urgente non è solo la verità della religione. E anche la capacità dell'uomo di av-vertire la verità della religione, l'autenticità del-l'interesse religioso. La verità religiosa non ri-splende nel vuoto. Certamente, non è compren-sibile quando gli antecedenti della comprensio-

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ne religiosa e dell'impegno religioso vengono buttati al vento; quando la mente è abbagliata da ideologie religiose che o oscurano le questio-ni ultime dell'uomo o le fraintendono; quando la vita è vissuta in un modo che tende a fare cat-tivo uso dei talenti d'oro e a dilapidarli, essi che sono le risorse in grado di sfidare l'esistenza umana. L'istanza primaria della teologia è pre-teologica-, è la situazione dell'uomo e il suo at-teggiamento verso la vita. Partendo da questa prospettiva, dobbiamo tenere ben presente che nella religione ci sono quattro dimensioni.

Quali sono le quattro dimensioni dell'esisten-za religiosa? Agli occhi dell'osservatore ester-no la religione sembra constare esclusivamente di due componenti: il rito e il mito, il sacra-mento e il dogma, l'azione e la scrittura. L'im-portanza di questi elementi è fuori discussione. L'accento posto in differenti sistemi sull'uno o l'altro di questi due aspetti non fa che indica-re l'indispensabilità di entrambi. Per alcuni la verità della religione consiste nel suo rituale1; per altri l'essenza della religione sta nel suo dogma2.

1 Durkheim e Robertson Smith sottolineano la priorità del rituale rispetto alla fede.

2 "Dall'età di quindici anni, il dogma è stato il principio fondamen-tale della mia religione; non conosco altra religione, né riesco a capire come potrebbe essere; una religione di puro sentimento è per me un so-gno ed una beffa" (J. H. Newman, Apologia prò vita sua II, in Opere, a cura di A. Bosi, Utet, Torino 1988, p. 185).

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Esiste invece un'altra componente che va considerata un ingrediente vitale e che tuttavia, data la sua natura imponderabile, sfugge spesso all'occhio dell'osservatore. E quella componen-te che si realizza all'interno della persona: l'in-teriorità della religione. Impercettibile e spesso indescrivibile, essa è il cuore dell'esistenza reli-giosa. Il rituale e il mito, il dogma e l'azione re-stano esteriorità, se non c'è una risposta che scaturisce dall'intimo della persona, un momen-to di identificazione e penetrazione che li inte-riorizza.

Dobbiamo distinguere quattro dimensioni del-l'esistenza religiosa, quattro componenti neces-sarie del rapporto dell'uomo con Dio: a) la dot-trina, i cui elementi essenziali sono sintetizzati nella forma di un credo. Il credo, che contiene le norme e i principi relativi alle questioni sacre ed eterne, è la dimensione dottrinale; b) la fede, l'interiorità, l'orientazione del cuore, l'intimità della religione, la sua dimensione di privatezza; c) la legge, o il gesto sacro da compiere nel san-tuario, in pubblico o in famiglia, la dimensione dell'azione; d) il contesto in cui il credo, la fede e il rituale si realizzano, come la comunità o il patto, la storia, la tradizione, la dimensione del-la trascendenza. Queste dimensioni sono sem-pre presenti? Vi sono situazioni nelle quali la di-mensione della profondità è assente: la parola è proclamata, il gesto è compiuto, ma l'anima è si-lenziosa. D'altra parte, vi sono situazioni in cui

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nulla accade di sensibile, ma tutta l'anima è in-fiammata. Alcuni ritengono che la celebrazione concreta sia talmente sacra ed efficace in sé, che la componente interiore finisce con l'apparire di poco conto. Quale valore può avere l'evanescen-te risposta del singolo, confrontata con la mae-stà della parola rivelata, con la preziosità del ri-tuale? Per altri, il momento interiore è il princi-pio vitale o il culmine dell'esistenza. Lo studio del rito è come la fonetica, la scienza dei suoni; lo studio del dogma è come la grammatica, la scienza delle inflessioni del linguaggio; mentre lo studio dei moti e atteggiamenti interiori è la semantica, la scienza del significato3.

Non disponiamo di un termine adeguato per esprimere il significato di questi momenti, il senso degli eventi che costituiscono la storia se-greta della religione, né di registrazioni in cui questi istanti sono catturati. La teologia è la dot-trina di Dio, ma questi momenti non sono dot-trina, né sono esclusivamente divini. Sono sia umani che divini. I salmi non sono documenti di teologia. I salmi sono le doglie della teologia; le loro parole sono fili a piombo che penetrano nelle profondità della situazione umano-divina dalla quale scaturisce la teologia autentica.

Non di rado la teologia è vittima della preoc-cupazione per il dogma, per il contenuto del cre-

1 Vedi A. J . Heschel, L'uomo non e solo, Rusconi, Milano 1970, pp. 173 ss.

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do. L'atto del credere invece, gli interrogativi su "che cosa accade all'interno della persona quan-do nasce la fede? Che cosa induce l'uomo a cre-dere?", tutto questo costituisce l'interesse di un tipo speciale di indagine, che potrebbe essere detta "teologia del profondo".

L'argomento della teologia è il contenuto del-la fede. L'argomento della teologia del profondo è l'atto del credere. Il suo obiettivo è esplorare le profondità della fede, il substrato dal quale nasce la fede. Essa prende in considerazione quel-le opzioni interiori che precedono l'articolazio-ne e si sottrae a ogni tentativo di definizione.

Numerose problematiche dell'esistenza reli-giosa dunque possono essere analizzate in due modi: partendo dalla prospettiva della teologia del profondo e partendo dalla prospettiva della teologia.

Il principio della paternità letteraria mosaica del Pentateuco si basa su due premesse. La pri-ma è che Mosè era un profeta, ispirato da Dio, destinatario della rivelazione divina; la seconda è che Mosè scrisse il Pentateuco. Il primo pre-supposto si riferisce al mistero che non può es-sere immaginato e nemmeno definito. Il secon-do concerne un atto che può essere descritto nelle categorie del tempo e dello spazio. La teo-logia tende a sottolineare la seconda premessa; la teologia del profondo vuole rimarcare la prima.

I miracoli accadono simultaneamente in due ambiti: nell'ambito del tempo e dello spazio, nel-

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l'ambito dell'anima. Si dovrà considerare real-tà stupefacente soltanto l'evento che accade nel mondo fisico, mentre lo stupore dell'uomo dinanzi al miracolo, l'illuminazione dell'anima, andrà considerata inferiore per importanza?

Quando il popolo d'Israele attraversò il Mar Rosso, accaddero due cose: le acque si divisero, e tra l'uomo e Dio ogni distanza sparì. Non c'e-ra velo, non c'era indeterminatezza. C'era sol-tanto la sua presenza: "Ecco, è questo il mio Dio", esclamò l'israelita. La stragrande maggio-ranza dei miracoli che accadono nello spazio, il cuore li perde. Il miracolo del Mar Rosso è di-ventato un cantico, "il cantico del Mar Rosso".

La teologia formula; la teologia del profondo evoca. La teologia chiede fede e ubbidienza; la teologia del profondo auspica risposte e apprez-zamento personali.

La teologia tratta dati di fatto permanenti; la teologia del profondo sonda momenti. Il dogma e il rituale sono possedimenti permanenti della religione; i momenti vanno e vengono. La teolo-gia astrae e generalizza. Essa sussiste indipen-dente da tutto quello che accade nel mondo. E suo intento serbare l'eredità del passato; perpe-tuare la tradizione. Ma senza la spontaneità del-la persona, se mancano la risposta e il coinvol-gimento interiori, senza la simpatia della com-prensione, il corpo della tradizione si sbriciola tra le dita. Qual è la natura ultima delle parole sacre che la tradizione conserva? Queste parole

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non sono fatte di carta ma di vita. Il compito non consiste nel riprodurre in suoni quello che i segni grafici custodiscono. Il compito consiste nel ridare vita a questa tradizione, nel tastarne il polso, affinché la vita che scorre nelle parole si riproduca all'interno delle nostre vite. Esiste certamente un'eredità di prospettive, così come esiste una tradizione di parole e di riti. E si trat-ta di un'eredità che facilmente buttiamo al ven-to, che facilmente viene dimenticata.

Ci teniamo lontani dalla teologia del profon-do perché non è agevole coglierne le tematiche con le parole, e noi abbiamo paura dell'indeter-minatezza. Nella vita interiore non c'è casistica. Non è possibile codificare l'interiorità. D'al-tronde, una vita tutta esplicitata, un'anima arti-colata efficientemente, sarebbe derubata delle sue risorse.

La teologia parla per il popolo; la teologia del profondo parla al singolo. La teologia cerca la comunicazione, l'universalità; la teologia del profondo cerca la comprensione, l'unicità.

La teologia è come la scultura, la teologia del profondo è come la musica. La teologia si trova nei libri; la teologia del profondo nei cuori. La prima è dottrina, la seconda evento. Le teologie ci dividono; la teologia del profondo ci unisce.

La teologia del profondo vuole incontrare la persona in momenti nei quali questa è coinvolta nella sua totalità, in momenti sui quali incide tutto quello che una persona pensa, sente e fa.

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Essa attinge a ciò che accade all'uomo nei mo-menti di confronto con la realtà ultima. E in sif-fatti momenti che nascono le intuizioni decisi-ve. Alcune di queste intuizioni si prestano alla concettualizzazione, mentre altre sembrano tra-boccare dai vasi delle nostre potenzialità con-cettuali.

Per dare espressione a queste intuizioni dob-biamo far ricorso a un linguaggio che sia compa-tibile con il senso dell'ineffabile, le cui parole non pretendano di descrivere, ma di indicare; di segnalare, piuttosto che di catturare. Tali vo-caboli non sempre sono portatori di immagini; spesso sono paradossali, radicali, o negativi. Il pericolo maggiore della filosofia della religione sta nella tentazione di generalizzare ciò che è es-senzialmente unico, nello spiegare realtà intrin-secamente inspiegabili, nell'adattare il non co-mune al nostro senso comune.

La teologia del profondo ci mette in guardia dall'autogiustificazione intellettuale, dalla sicu-rezza di sé, dalla vanità sciocca. Insiste sull'ina-deguatezza della nostra fede, sulla incongruenza tra dogma e mistero. La profondità della com-prensione non è mai scandagliata, non è mai espressa. Possiamo essere certi della nostra fe-de? Ovvero, chi può trovare Lui nello specchio delle proprie idee?

Si racconta di un chassid che stava in ascolto di quanto andava dicendo un esperto di scolasti-ca medievale giudaica, il quale insisteva sugli at-

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tributi di Dio, esponendo con logica precisione tutte le qualità che possono essere predicate di Dio. Al termine del discorso, il cbassid osservò: "Se Dio fosse come tu lo hai descritto, io non crederei in lui".

La teologia speculativa, interessata com'è a raggiungere formulazioni definitive delle idee concernenti la fede, corre continuamente il ri-schio di prendersi troppo sul serio, di credere di aver trovato espressioni adeguate in un ambito in cui nessuna parola sarà mai adeguata.

Secondo i criteri della teologia speculativa, l'immagine e il linguaggio del Salmo 19 appaio-no criticabili. Certamente, termini come "re", "creatore", "signore" sono più accettabili, poi-ché comunicano l'idea della sovranità e maestà di Dio, oltre a quella della dipendenza dell'uo-mo da lui. Invece, il termine "pastore" implica non solo la dipendenza dell'uomo da Dio, ma an-che il bisogno che Dio ha dell'uomo. Le pecore cercano il pastore perché le custodisca, le nutra e le protegga. Allo stesso tempo, il benessere del pastore è legato a quello delle pecore. Per lui es-se sono latte, carne, vestiti e ricchezza materiale.

Come s'è detto sopra, l'argomento della teo-logia è il contenuto della fede, mentre l'argo-mento della teologia del profondo è l'atto del credere. Nel primo caso parliamo di credo o di dogma, nel secondo di fede. Il credo e la fede, la teologia e la teologia del profondo sono in un rapporto di reciproca dipendenza.

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Perché i dogmi sono necessari? Non possiamo rapportarci personalmente alla realtà divina se non in momenti rari, sfuggenti. Com'è possibile registrare nella memoria questi momenti per le lunghe ore del vivere funzionale, quando i pen-sieri che come api si nutrono dell'imperscruta-bile ci abbandonano, e noi perdiamo di vista sia la meta che il desiderio di raggiungerla? I dogmi sono come l'ambra nella quale le api, un tempo vive, sono imbalsamate; quando le nostre menti vengono esposte al potere dell'ineffabile, posso-no essere elettrizzate. Poiché i problemi che sia-mo chiamati ad affrontare continuamente sono: in quale modo comunicare questi momenti rari di comprensione a tutte le ore della nostra vita? Come affidare l'intuizione ai concetti, l'ineffa-bile alle parole, la comunione alla comprensione razionale? In quale maniera comunicare le no-stre visioni interiori ad altri e unirci nella comu-

\ nione della fede? E il credo che cerca di dare una risposta a questi problemi.

Le intuizioni della teologia del profondo sono imprecisabili. Spesso si sottraggono a ogni for-mulazione ed espressione. E compito della teo-logia fissare le dottrine, evidenziare la coerenza e trovare parole compatibili con le intuizioni. D'altro canto, le dottrine teologiche tendono a muoversi per impulso proprio, a sostituirsi alla comprensione profonda, a informare piuttosto che evocare. Dobbiamo prendere atto che cia-scuna ha uno status indipendente, un potere e

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un'efficacia tutta sua, che le consente di appor-tare un contributo proprio.

E invece non di rado l'uomo ha fatto del dogma un dio, un'immagine scolpita che egli ha adorato, al quale ha rivolto le sue preghiere. Ha preferito credere nei dogmi piuttosto che in Dio, porsi al loro servizio non per amore del cie-lo, ma per amore di un credo, che è il diminuti-vo della fede.

I dogmi sono la partecipazione della povera mente umana alla realtà divina. Il credo è quasi tutto quello che può permettersi l'uomo nella sua povertà. La pelle per la pelle. Egli darà la sua vita per tutto quello che ha. Anzi, sarà forse disposto persino a prendere la vita degli altri, qualora si rifiutassero di condividere i suoi pun-ti fissi.

La teologia del profondo da sola può diventa-re un ostacolo, la catacomba del soggettivismo. Perché sia un passaggio che conduce da uomo a uomo, da generazione a generazione, dev'essere cristallizzata e assumere la forma di una dottri-na o di un principio. La teologia è la cristallizza-zione delle intuizioni della teologia del profondo.

D'altro canto, la cristallizzazione può diven-tare pietrificazione. In effetti, la stabilità del dogma o dell'istituzione hanno preteso spesso di averla vinta sulla spontaneità della persona.

La vitalità della religione dipende dalla possi-bilità di mantenere viva la polarità fra dottrina e intuizione, tra dogma e fede, fra rituale e ri-

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sposta, fra istituzione e individuo. La religione degenera quando lo spettacolo si sostituisce alla spontaneità, quando la dimostrazione prende il posto della penetrazione.

L'interiorità non è autonoma. Qualunque co-sa accada all'interno della persona, è condizio-nata da pensieri e fatti che provengono dall'e-sterno. Senza il contenuto della teologia, l'inte-riorità è vuota o si trasforma in narcisismo spiri-tuale.

I due ambiti sono in rapporto reciproco. La teologia deve insegnarci, ad esempio, se il mon-do è fatto di Dio, è un'emanazione del suo esse-re, o se il mondo è da Dio, una creazione della sua volontà. Se c'è un rapporto disgiuntivo tra Dio e l'uomo, o se c'è una dimensione in cui Dio e l'uomo s'incontrano; e soprattutto: che cosa chiede Dio all'uomo? La teologia del pro-fondo deve guidarci lungo il cammino che con-duce a fare esperienza sia del nostro io che del mondo alla luce dell'insegnamento che ricevia-mo, traducendo il pensiero in preghiera, la dot-trina in risposta personale, per cogliere il miste-ro come sfida, un problema come appello rivolto al nostro io profondo.

L'azione esterna può essere compiuta isolata-mente. L'atto interiore non accade mai isolata-mente. Nella vita interiore non esistono muri divisori. Tutte le energie e le motivazioni intera-giscono; la giustizia e la malvagità si riflettono a vicenda.

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Il Salmo 23, il salmo del pastore, non aggiun-ge quasi nulla alla teologia concettuale, ma è una delle espressioni più significanti della teolo-gia del profondo.

Gli accadimenti veramente grandi non sono mai registrati. Sono state conservate le date del-la guerra tra la Turchia e la Grecia e della batta-glia di Jena. Ma del momento in cui è nato il versetto: "Il Signore è il mio pastore; non man-co di nulla" non si parla negli annali della sto-ria. Eppure questo momento non ha mai smesso di esistere.

Quali sono i precedenti dell'impegno religio-so? Quali gli atti, almeno alcuni di essi, che ac-cadono nelle profondità di una persona, i mo-menti che sospingono a cercare a tastoni la fede nel Dio vivente?

Non la speculazione, ma il senso del mistero ha fatto precipitare il problema di tutti i proble-mi. Non ciò che appare alla vista, ma la realtà nascosta dentro a quello che appare; non il dise-gno dell'universo, bensì il mistero del disegno dell'universo; non le problematiche definibili, ma gli enigmi inafferrabili, gli interrogativi ai quali non sappiamo dare una risposta, hanno sempre versato combustile sulle fiamme dell'an-sietà umana. La religione inizia col senso dell'i-neffabile, con la consapevolezza di una realtà che scredita il nostro orgoglio.

Il mondo sembra avere due volti. Vivendo in un ambito ci sembra che il volto del mondo si

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offra tutto al nostro sguardo; vivendo in un al-tro ambito è come se il mondo ci volgesse le spalle. Cittadini di due regni, dobbiamo tutti mantenere una doppia fedeltà: avvertiamo l'i-neffabile da un lato; diamo un nome alla realtà e la sfruttiamo dall'altro. Conservare il giusto equilibrio tra mistero e significato, tra quiete e forme di espressione, tra rispetto sacro e azione, sembra costituire l'obiettivo dell'esistenza reli-giosa. A liberarci dalla frivolezza mentale non è solo la visione della sbiadita popolazione del cielo, ma anche l'ammasso dei fili d'erba. La nostra sapienza diventa una tela di ragno, la no-stra comprensione obsoleta. L'esperienza del su-blime è umiliazione e insieme esaltazione.

Il delicato equilibrio tra mistero e significato, tra rispetto sacro e azione, è stato pericolosa-mente infranto. La nostra conoscenza è stata ap-piattita. Vediamo il mondo a una dimensione e trattiamo tutti i problemi allo stesso livello. Dal fatto che abbiamo imparato a sostituire la lam-pada a cherosene abbiamo dedotto che siamo in grado di rimpiazzare il mistero dell'esistenza. Possiamo essere capaci di fare i nostri esperi-menti con i topi e tuttavia restare incapaci di vi-vere una vera esperienza di preghiera.

Quando parlo di mistero non mi riferisco al fatto che il mondo in cui viviamo non è compre-so nella sua totalità da quelle proprietà che pos-sono essere misurate, aggiunte, sottratte, molti-plicate. Per mistero intendo un'altra dimensio-

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ne di tutti gli esseri, inclusi gli aspetti misurabili della realtà e l'atto stesso del misurare. Il miste-ro è dato con l'esperienza e all'interno dell'espe-rienza.

Il mistero non riguarda le cose non ancora co-nosciute, bensì quella realtà che non sarà mai conosciuta. E una realtà in cui c'imbattiamo, ma alla quale non siamo in grado di rapportarci. Stiamo alla sua presenza, ma siamo incapaci di coglierne l'essenza. Siamo sordi, quasi vedessi-mo i suoni ma senza la possibilità di sentirli.

Il senso del mistero conferisce grandezza alla mente e fertilità all'anima. Paralizziamo la per-sonalità dell'uomo, feriamo la sua anima, fin-gendo che non vi siano profondità nella realtà e non esistano abissi nel pensiero umano.

La sensibilità al mistero della vita è l'essenza della dignità umana. E il terreno nel quale la no-stra consapevolezza affonda le radici e dal quale scaturisce la sensibilità al senso. Non si vive di spiegazioni soltanto, ma del senso di stupore e mistero. Senza questo senso non c'è né religione né moralità, non c'è né sacrificio né creatività.

Non entrerai nei recinti della religione pas-sando per la porta del discorso. La via di Dio passa attraverso le profondità dell'io. L'anima è la chiave; la profondità è la porta. Nella profon-dità dell'anima c'è preghiera, invocazione, im-plorazione di significato, ansia di giustificazione.

Esiste una sola forma legittima di espressione religiosa: la preghiera. Tutte le altre forme sono

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commentari: le descrizioni, i discorsi, tendono a diventare diversivi.

Gli elementi della teologia del profondo sono quelle situazioni nelle quali la porta che condu-ce alla significazione definitiva non è sbarrata, nelle quali il mistero non è oscurato. Questi ele-menti sono atti di stupore e di riverente timore, un senso di indebitamento, momenti di imba-razzo e istanti di esistenza pregni di significato, atti di desiderio spasmodico e luminosi momen-ti di intuizione.

L'obiettivo della teologia del profondo, ab-biamo detto, non è di fissare una dottrina, bensì di mettere a nudo alcune delle radici del nostro essere, agitato dalla Questione Ultima. Il suo ar-gomento è la fede in statu nascendi, le doglie del-la comprensione.

Uno dei doni più preziosi che l'umanità ha ricevuto dalla Bibbia è la cattiva coscienza. La Bibbia esige il massimo: "Siate santi"; "amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze"; "amerai il prossi-mo tuo come te stesso". Chi potrà essere mai soddisfatto delle proprie azioni? Non c'è voce più autentica del rimprovero mosso dal profeta a chi si compiace di se stesso, del suo appello alla penitenza: "Sto dinanzi a te come un vaso pieno di vergogna".

Ci rendiamo conto della nostra vera condizio-ne quando scopriamo che ci preoccupiamo mol-to poco del nostro simile, o di Dio. Ciò che è di

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importanza ultima non costituisce il nostro inte-resse fondamentale.

Alle radici del nostro senso di imbarazzo e di indebitamento4 c'è il senso dell'apprezzamen-to. Non c'è confusione definitiva senza l'intui-zione della grandezza, senza la consapevolez-za della grandezza e del mistero del significato ultimo.

Il senso di indebitamento è un segno di digni-tà, è la consapevolezza di essere destinatari di qualcosa di prezioso che si è decisi a custodire gelosamente. Il nostro sconcerto radicale è un segno del fatto che siamo coinvolti in un dise-gno misterioso. L'uomo è intimidito perché il suo destino è quello di riflettere l'immagine di-vina e non una sua caricatura. Esistere da essere umano significa collaborare con la realtà divina. Perché la realtà divina si compia, la componente umana dev'essere presente.

Nessuno è sterile. Ogni anima è gravida di un seme di comprensione. E un seme vago e nasco-sto. Nessuna madre ha mai visto la vita che por-ta sotto il suo cuore. In alcune persone il seme cresce, in altre si decompone. Alcune fanno na-scere la vita. Altre abortiscono. Alcune sanno come partorire, nutrire e allevare l'intuizione nascente. Altre non sono in grado di sorreggere con tenerezza il peso della creatura, e altre anco-

4 Vedi A. J . Heschel, Chi è l'uomo?, Rusconi, Milano 19894.

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ra non vedono il figlio che mettono al mondo; il bambino può morire, o essere portato via.

Tale gravidanza è il senso della pienezza del tempo, dell'essere con significato. Le cose sono meraviglie, i momenti sono pegni della grazia. C'è abbondanza d'amore nel nascondimento di Dio. Nessuna ombra può ingannare un cuore ubriaco di gioia. La quiete è il suo testimone. Ogni rumore è sparito.

C'è potenza nel seme. A volte ci solleva in al-to, ed è come se balzassimo da una cima all'altra dei monti. Altre volte vorresti nasconderti in un

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angolo, scomparire per la vergogna. E un canto del cuore, e insieme è angoscia. Riconosci le anime gravide dal segno che trova espressione nel canto.

Siamo ingravidati di un pensiero per il quale non disponiamo di immagini. Ci è dato un canto che non possiamo esprimere, ci è concessa una parola che non sappiamo pronunciare. Allora apriamo un salmo e lì troviamo il canto e la pa-rola. Soltanto, che il canto cresca dentro di noi. Lo riversiamo in un'azione; lo plasmiamo in pa-role, ma il canto non si esaurisce mai.

Il nostro compito è di nutrire il canto nei re-cessi dell'anima.

Al di là e al di sopra di tutte le frustrazioni, c'è la certezza che non siamo mai soli a fare il bene. Amiamo con Colui che ama il mondo.

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LA R E L I G I O N E IN UNA S O C I E T À L I B E R A

La religione contemporanea chiede poco al-l'uomo. E pronta a offrire conforto; non ha il coraggio di provocare. E disposta a fornire edifi-cazione; non ha l'ardire di spezzare gli idoli, di mandare in frantumi la dura insensibilità. Il guaio è che la religione è diventata "religione", istituzione, dogma, rituale. Non è più evento. La sua accettazione non comporta né rischio né tensione. La religione ha acquistato rispettabili-tà per benevola concessione della società e i suoi rappresentanti stampano in prima pagina il nihil obstat controfirmato dagli scienziati del sociale.

Nulla può sostituire la fede, non c'è alterna-tiva alla rivelazione, non esiste un surrogato dell'impegno. Dobbiamo ricordarlo bene, se vo-gliamo salvare il nostro pensiero dalla confusio-ne. E la confusione non è una malattia rara. Sia-mo colpevoli di perpetrare l'inganno della sfasa-tura. Definiamo la nostra tendenza a fidarci di noi stessi e la chiamiamo fede, la scaltrezza e la chiamiamo sapienza, l'antropologia e la chia-

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miamo etica, la letteratura e la chiamiamo Bib-bia, la certezza interiore e la chiamiamo religio-ne, la coscienza e la chiamiamo Dio. Ma nulla di contraffatto può durare per sempre. Le teorie potranno anche aumentare la nostra tendenza a dimenticare, ma dentro alla storia c'è uno spiri-to che risveglia la memoria.

Si è soliti accusare la scienza secolare e la filo-sofia antireligiosa dell'eclissi della religione nel-la società moderna. Sarebbe più onesto rimpro-verare la religione delle proprie deficienze. Da tempo la religione è in declino non perché sia stata rifiutata, ma perché è diventata irrilevan-te, ottusa, oppressiva, insipida. Quando la fede è totalmente rimpiazzata dal credo, il culto dal-la disciplina, l'amore dall'abitudine; quando la crisi di oggi è ignorata a motivo dello splendo-re del passato; quando la fede diventa cimelio piuttosto che fondamento vivo; quando la reli-gione parla soltanto in nome dell'autorità anzi-ché con la voce della compassione, il suo mes-saggio diventa insignificante.

La religione e risposta alle questioni ultime. Nel momento in cui dimentichiamo le questioni ultime, la religione diventa irrilevante, e la sua crisi è messa in moto. Il compito primario del pensiero religioso consiste nel riscoprire le que-stioni alle quali la religione è risposta, nello svi-luppare un grado di sensibilità alle domande ul-time alle quali le sue idee e i suoi atti cercano di rispondere.

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Il pensare religioso è un impegno intellettua-le che scaturisce dalle profondità della ragione. E fonte di penetrazione cognitiva delle istan-ze ultime dell'esistenza umana. La religione è più dell'umore e del sentimento. L'ebraismo, ad esempio, è un modo di pensare e un modo di vi-vere. Se non cogliamo in profondità le sue cate-gorie, le sue modalità di comprensione e valuta-zione, le sue dottrine restano incomprensibili.

Non basta invitare ad avere buona volontà. Abbiamo un bisogno disperato di pensiero buo-no. Il nostro argomento è la religione e il suo rapporto con una società libera. Questo rappor-to può essere stabilito soltanto se riusciamo a scoprire la rilevanza che ha la Bibbia per nutrire la nostra mente e la nostra cultura.

L'ostacolo più serio che incontra l'uomo mo-derno nell'entrare in dibattito sulle idee della Bibbia è l'assenza dalla sua coscienza delle pro-blematiche alle quali la stessa Scrittura fa riferi-mento. E questa, effettivamente, la condizione in cui si trova la Bibbia nella società moderna. La Bibbia è risposta sublime, ma noi non cono-sciamo più la domanda alla quale essa risponde. Se non riscopriamo questa domanda non abbia-mo speranza di capire la Scrittura.

La Bibbia è risposta all'interrogativo: che co-sa vuole Dio dall'uomo? Per l'uomo moderno però questa domanda è sostituita da quest'altra: che cosa chiede l'uomo a Dio? L'uomo moderno continua a riflettere: che cosa riuscirò a otte-

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nere dalla vita? Sfugge alla sua attenzione l'in-terrogativo fondamentale e invece dimenticato: che cosa otterrà da me la vita?

Assorbiti nella lotta per l'emancipazione del-l'individuo, abbiamo concentrato la nostra at-tenzione sull'idea dei diritti umani e abbiamo trascurato l'importanza degli obblighi dell'uo-mo. Il senso dell'impegno, che è una compo-nente essenziale dell'esistenza umana, è andato sempre più smarrendosi nel crogiolo della pre-sunzione e della sofisticazione. Dimentico del fatto che riceve infinitamente più di quanto sia in grado di ricambiare, l'uomo ha cominciato a considerarsi il fine unico. Preoccupandosi solo delle proprie necessità, piuttosto che del fatto che c'è bisogno di lui, l'essere umano è pressoché incapace di capire che i diritti sono più che non interessi legalizzati. Oggi si guarda alle necessi-tà come se fossero sacre, quasi contenessero la totalità dell'esistenza. Le necessità sono i nostri dèi e noi ci affanniamo e non risparmiamo fati-che per gratificarli. La soppressione di un desi-derio è considerata un sacrilegio che deve inevi-tabilmente vendicarsi nella forma di un qualche disordine mentale. Adoriamo non uno, ma un intero pantheon di bisogni e siamo arrivati a considerare le norme morali e spirituali come niente più che desideri personali mascherati1.

1 Parti di questo paragrafo sono basate su A. J. Heschel, L'uomo non e solo.

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Volendo precisare, il bisogno denota l'assenza o carenza di qualcosa di indispensabile al benes-sere della persona e suscita il desiderio urgente di soddisfazione. In genere il termine "biso-gno" è usato in due modi. Da un lato esso indica una carenza reale, una condizione oggettiva. Dall'altro indica la consapevolezza di tale caren-za. Il termine è usato qui in questa seconda ac-cezione, vale a dire nel senso di "una potenziali-tà insoddisfatta, corrispondente a una condizio-ne non realizzata".

Ogni essere umano è un ammasso di bisogni, ma questi bisogni non sono gli stessi in tutti gli uomini, né sono inalterabili nella medesima persona. C'è un numero minimo di necessità che concerne tutti gli esseri umani, ma ciascuna persona umana resta aperta a un numero diffe-rente di necessità. Diversamente dagli animali, l'uomo è un campo sul quale nascono e si molti-plicano un numero imprevedibile di bisogni e di interessi, alcuni dei quali sono insiti nella sua natura, mentre altri sono prodotti dalla pubbli-cità, dalla moda, dall'invidia, o emergono come aborti di necessità autentiche. Di solito non riu-sciamo a discernere tra bisogni autentici e bi-sogni artificiali e scambiamo un capriccio per aspirazione, e veniamo in tal modo gettati in una penosa situazione di tensione. La stragran-de maggioranza delle ossessioni sono la per-petuazione di simili fraintendimenti. Di fatto muoiono più persone per l'epidemia dei bisogni

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che per l'epidemia della malattia. Arginare l'e-spandersi dei bisogni umani, che a sua volta è prodotto dal progresso tecnologico e sociale, vorrebbe dire arrestare il flusso sul quale galop-pa la civiltà. D'altro canto tale flusso, se sfugge al controllo, può spazzar via la stessa vitalità umana, poiché la pressione dei bisogni trasfor-mati in interessi aggressivi è la causa continua di guerre e aumenta in proporzione diretta al pro-gresso tecnologico.

Non possiamo far dipendere i nostri giudizi, le nostre decisioni e i nostri orientamenti per l'azione, dai nostri bisogni. Il fatto è che l'uo-mo, che ha realizzato tante scoperte riguardanti innumerevoli realtà, non conosce né il proprio cuore né la propria voce. Molti degli interessi e bisogni che coltiviamo con cura ci sono imposti dalle convenzioni della società; non sono conna-turali. Se alcuni di essi sono necessità reali, altri - come ho già fatto notare in antecedenza - so-no inventati e adottati come il risultato della convenzione, della pubblicità o semplicemente della stupida invidia.

L'uomo contemporaneo è convinto di aver trovato la pietra filosofale nel concetto di biso-gno. Ma chi sa quali sono le sue necessità reali? In quale modo riusciremo a discernere i bisogni autentici da quelli fittizi, le necessità da bisogni fasulli?

Avendo assimilato una quantità enorme di bi-sogni e dopo che ci è stato insegnato a tenere in

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gran conto valori elevati come la giustizia, la li-bertà, la fede, come interessi privati o naziona-li, iniziamo a chiederci se sia proprio il caso di puntare tutto sui bisogni e sugli interessi. Se è vero che esistono interessi condivisi da tutti gli esseri umani, la stragrande maggioranza dei no-stri interessi privati e nazionali, così come sono affermati nella vita quotidiana, ci dividono e creano tra noi antagonismi, anziché unirci.

L'interesse è un principio soggettivo, che pro-voca divisione. E l'eccitazione del sentimen-to, cui s'accompagna l'attenzione prestata a un qualche oggetto particolare. Ma possiamo dire di prestare sufficiente attenzione alle esigenze della giustizia universale? Di fatto l'interesse per il benessere di tutti è bloccato di solito dal-l'interesse per il benessere personale, in partico-lare quando il bene di tutti contrasta con i pro-pri interessi consolidati. Proprio perché il pote-re degli interessi tiranneggia le nostre esistenze, determinando le nostre prospettive e i nostri comportamenti, noi perdiamo di vista i valori che contano più di ogni altra cosa.

Il passo dal bisogno all'avidità è breve. Le condizioni cattive fanno fermentare in noi biso-gni cattivi. Possiamo permetterci di perseguire la realizzazione di tutti i nostri bisogni innati, persino della nostra volontà di potere?

Nella tragica confusione di interessi in cui è irretito ciascuno di noi, non sembra vi sia una distinzione più importante di quella tra interessi

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giusti e sbagliati. D'altro canto, i concetti di giusto e sbagliato, se debbono essere criteri del nostro confrontarci con gli interessi, non posso-no essere essi stessi degli interessi. Essendo de-terminati dal temperamento, dalle tendenze, dal retroterra e dall'ambiente in cui vive ciascun in-dividuo e gruppo, i bisogni sono i nostri proble-mi piuttosto che le nostre norme. Necessitano di criteri, anziché fungere essi stessi da criteri.

Chi decide di usare le realtà della vita come strumenti per soddisfare i propri desideri, pre-sto svenderà la propria libertà e si vedrà egli stesso ridotto a semplice strumento. Acquistan-do cose, diventa schiavo di esse. Sottomettendo altri, perde la propria anima. E come se l'avidità incontrollata avesse un doppio volto, un ghigno vendicativo e sottile dietro a un sorriso accatti-vante. Non possiamo certo permetterci di eleva-re i bisogni - che restano un fattore incontrolla-bile, variabile, vacillante e alla fin fine degra-dante - a criterio universale, a norma o modello supremo, costante, della vita.

Ci sentiamo imprigionati nel recinto dei biso-gni personali. Più indulgiamo a soddisfazioni, più profondo diventa il nostro sentimento di frustrazione. Se vogliamo essere iconoclasti dei bisogni trasformati in idoli, se vogliamo sottrar-ci ai nostri propri interessi immorali, benché sembrino vitali e siano stati tenuti in gran conto per lungo tempo, dobbiamo essere in grado di dire "no" a noi stessi nel nome di un "sì" supe-

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riore. Ma le nostre menti sono ottuse, grevi e stravaganti. Che cosa potrà infondere in noi la forza necessaria per correggere la nostra devo-zione incondizionata a falsi bisogni, per scopri-re le vacuità spirituali, per allontanare ideali sbagliati e per lottare contro la disattenzione verso la realtà santa e non appariscente?

E questo, in verità, l'obiettivo delle nostre tradizioni religiose: mantenere vivo il "sì" alla realtà superiore, la capacità dell'uomo di dire "eccomi"; insegnare alle nostre menti a capire la vera domanda e insegnare alla nostra coscienza a essere presente. Troppo spesso fraintendiamo la domanda; troppo spesso l'appello viene pro-clamato e la storia registra l'assenza della nostra coscienza.

La religione si è adattata all'umore moderno autodichiarandosi soddisfacimento di un biso-gno. Questa concezione, che - non c'è il mini-mo dubbio - è diametralmente opposta all'at-teggiamento profetico, ha contribuito in grande misura al fraintendimento e alla sterilizzazione del pensiero religioso. Definire la religione anzi-tutto come ricerca di gratificazione personale, come soddisfazione di un bisogno umano, signi-fica farne una specie di magia. La voce tonante al Sinai ha forse proclamato le dieci Parole per soddisfare un bisogno? Il popolo sentiva la ne-cessità di un'immagine incisa, ma tale necessità è stata sconfessata. Il popolo sentiva la nostalgia delle ciotole di carne dell'Egitto. Diceva: "Dac-

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ci della carne". E il Signore diede loro spirito, non solo carne.

La Bibbia non inizia con l'uomo, o con la sto-ria della religione, o con il bisogno di Dio da parte dell'uomo. "In principio Dio creò il cielo e la terra". Partire dai bisogni umani è un segno della prospettiva miserevole dell'uomo.

La religione è impudenza spirituale. La sua radice è nel nostro amaro senso di inadeguatez-za, in una sete che può essere placata soltanto da una sete più grande, nel senso di confusione su-scitato dalla percezione che in realtà noi non ci preoccupiamo di Dio, nella scoperta che il no-stro bisogno religioso è estremamente debole, che non sentiamo alcun bisogno di Dio.

Dobbiamo stare attenti a non trasformare i bisogni in obiettivi, gli interessi in norme. Oc-corre fare esattamente il contrario. Si tratta di trasformare gli obiettivi in bisogni, di tramuta-re il comandamento divino in preoccupazione umana.

La religione non è un modo di soddisfare i bi-sogni. E la risposta all'interrogativo: chi ha bi-sogno dell'uomo? E la consapevolezza del fatto che qualcuno ha bisogno di noi, del fatto che l'uomo è un bisogno di Dio. E la via che con-duce alla santificazione della soddisfazione dei bisogni autentici.

E una debolezza intrinseca della religione non offendersi quando Dio viene segregato, di-menticare che il santuario reale non ha pareti.

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Spesso la religione è stata vittima della tenden-za a diventare fine a se stessa, a isolare il sacro, a diventare parrocchiale, autoindulgente, ricerca-trice di se stessa; come se il suo compito non fosse quello di nobilitare la natura umana, bensì di aumentare il potere e la magnificenza delle sue istituzioni o di ampliare il corpo delle sue dottrine. Non di rado ha fatto più per canoniz-zare pregiudizi che non per lottare in favore del-la verità, per pietrificare il sacro che non per santificare il secolare. Invece, il compito della religione è di essere una sfida alla stabilizzazio-ne dei valori.

La religione non è per se stessa, ma per Dio, il quale è "compassionevole e misericordioso ... buono verso tutti, compassionevole con tutte le creature" (Sai 145,8-9).

La mente dei profeti non era incentrata sulla religione. Essi prestavano più attenzione alle faccende del palazzo reale, ai modi di operare delle corti di giustizia e alle prospettive in base alle quali esse agivano, che non ai problemi con-cernenti i riti celebrati dai sacerdoti nel Tempio di Gerusalemme2.

2 Parti di questo paragrafo sono basate sul primo capitolo di A. J . Heschel, ¡1 messaggio dei profeti, Boria, Roma 1981 .

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Oggi restiamo traumatizzati di fronte alle ci-fre sull'incremento della delinquenza giovanile, sull'incremento del numero dei crimini commes-si nelle nostre città. La normalità della delin-quenza giovanile, il numero normale dei crimini non ci lascia sgomenti. In questo stesso momen-to in una qualche parte della nostra nazione vengono commessi dei crimini.

Il tipo di crimini e anche la quantità di delin-quenza che riempiono di sgomento i profeti d'I-sraele non va oltre quello che noi consideriamo normale, che riteniamo ingrediente inevitabile del dinamismo sociale. Un gesto singolo di in-giustizia per noi è poca cosa, per il profeta è un disastro.

Quando si passa dai discorsi dei grandi meta-fisici agli oracoli dei profeti, si può avere l'im-pressione di scendere dal regno del sublime a quello delle banalità. Anziché confrontarsi con le istanze atemporali dell'essere e del divenire, della materia e della forma, delle definizioni e delle dimostrazioni, ci si vede messi di fronte a discorsi sulle vedove e sugli orfani, sulla corru-zione dei giudici e sugli affari che si concludono al mercato. I profeti, si direbbe, danno tanta im-portanza a povere realtà quotidiane, fanno uso di un linguaggio estremo per parlare di argo-menti frivoli. Ad esempio, che importanza ha se da qualche parte nella Palestina antica i poveri non erano trattati bene dai ricchi? Che importa se qualche anziana donna si compiaceva di ado-

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rare la "Regina del cielo"? Perché tanta scompo-sta agitazione? Perché un'indignazione così in-tensa?

L'impazienza estrema dei profeti di fronte al-l'ingiustizia forse ci impressiona come una for-ma di isteria. Noi stessi siamo continuamente testimoni di atti di ingiustizia, di manifestazio-ni di ipocrisia, di falsità, di oltraggio, di mise-ria, ma raramente ci indigniamo o inquietiamo oltre misura. Per i profeti un tipo di ingiustizia poco appariscente, ricorrente, assume propor-zioni quasi cosmiche:

Stupitene, o cieli; inorridite come non mai. Oracolo del Signore. Perché il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l'acqua (Ger 2,12-13).

Parlano e agiscono come se il cielo stesse per crollare perché Israele è diventato infedele a Dio.

La misura della loro indignazione, la misura dell'ira di Dio, non è sproporzionata alla loro causa? Come spiegare tanta irascibilità morale e religiosa, una tale esagerata impetuosità?

Le parole del profeta sono eruzioni violente di emozioni. Il suo rimprovero è aspro e impla-cabile. Ma se questa abissale sensibilità al male

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dev'essere detta isterica, quale nome dovremo dare alla profonda insensibilità al male che il profeta vede e lamenta intorno a sé? "Bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguen-ti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano" (Am 6,6).

La grettezza del nostro orizzonte morale, l'in-capacità di avvertire la profondità della miseria causata dalle nostre stesse mancanze, è un fatto che nessun sotterfugio può eludere. I nostri oc-chi sono testimoni della insensibilità e crudeltà dell'uomo, ma il nostro cuore cerca di cancellare le memorie, di calmare i nervi e di tacitare la coscienza.

Il profeta è un uomo di una sensibilità feroce. Dio ha gettato un peso sulla sua anima ed egli è piegato e stordito davanti alla feroce avari-zia dell'uomo. Spaventosa è l'agonia dell'uomo. Nessuna voce umana ne può esprimere tutto il terrore. La profezia è la voce che Dio ha presta-to all'agonia afona, una voce per i poveri disere-dati, per le ricchezze profanate del mondo. E una forma di vita, un punto d'incrocio tra Dio e l'uomo. Nelle parole dei profeti Dio dà sfogo al-la sua rabbia.

I profeti provavano disgusto verso coloro per i quali Dio era conforto e sicurezza. Per i profeti Dio è sfida, domanda incessante. Egli è compas-sione ma non compromesso; giustizia ma non inclemenza. L'anima del profeta non sa cos'è la tranquillità. Le miserie del mondo non gli dan-

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no requie. Mentre altri sono insensibili, refrat-tari persino alla loro insensibilità e inconsapevo-li della propria durezza, i profeti restano esempi di impazienza suprema di fronte al male, non distratti né dal potere né dall'applauso, né dal successo né dalla magnificenza. La loro ipersen-sibilità al giusto e all'ingiusto è dovuta alla loro ipersensibilità all'interesse che Dio nutre verso ciò che è giusto e ingiusto. Nutrono una sensibi-lità feroce perché ascoltano in profondità.

La debolezza dei sistemi umani di filosofia morale sta nella loro tendenza a isolarsi. L'isola-mento della moralità è dovuto al presupposto che il bene non sia rapportato a valori moral-mente neutrali. Esiste invece un rapporto fra la morale e gli altri comportamenti umani, sia nel-l'ambito della teoria che nell'ambito dell'appli-cazione estetica o tecnica, e non si deve pensare alla persona morale come a un mago di profes-sione, morale in alcune situazioni e immorale in altre.

Di conseguenza il problema morale non può essere risolto come problema morale. Occorre affrontarlo come parte dell'istanza globale del-l'uomo. Il problema più importante è la vita nel-la sua globalità, non il bene e il male. Non pos-siamo trattare della moralità se non trattiamo dell'uomo tutto, della natura dell'esistenza, del fare umano, del significato.

I profeti hanno cercato di vincere la tendenza a isolarsi che inficia la religione. Sono i profeti a

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insegnarci che il problema della vita non insorge con l'interrogativo su come prendersi cura dei mascalzoni, sul come prevenire la delinquenza o crimini orrendi. Il problema della vita inizia con la comprensione del fatto che noi tutti commet-tiamo errori grossolani quando trattiamo con i nostri simili. Le atrocità silenziose, gli scandali segreti, che nessuna legge è in grado di preveni-re, sono il vero luogo dell'infezione morale. Il problema del vivere inizia, di fatto, in relazione a noi stessi, nel trattamento delle nostre funzio-ni emotive, nel modo in cui ciascuno di noi si comporta con l'invidia, l'avidità e l'orgoglio. Nella vita dell'uomo la questione cruciale non è anzitutto il fatto del peccato, di ciò che è sba-gliato e corrotto, ma sono i comportamenti in sé neutrali, i bisogni. Le qualità e i beni che posse-diamo sollevano problemi non meno delle no-stre passioni. Il compito primario perciò non è come rapportarsi al male, ma è come rapportarsi alla realtà neutrale e come rapportarsi ai bisogni.

Il comandamento centrale è in relazione con la persona. Ma oggi la religione si propone co-me realtà impersonale, una fedeltà istituzionale. Sopravvive a livello delle iniziative pubbliche, piuttosto che nella discrezione dell'impegno. E caduta vittima della credenza che è reale soltan-to ciò che può essere registrato da panoramiche documentarie.

Per religione s'intende l'atto pubblico piutto-sto che il gesto compiuto in privato. La virtù

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principale è l'affiliazione sociale anziché la con-vinzione.

L'interiorità è ignorata. Lo spirito è diventato un mito. L'uomo si ritiene fatto a somiglianza di una macchina e non a somiglianza di Dio. Il corpo è dio e le sue necessità sono i suoi profeti. Avendo perso la consapevolezza della sua imma-gine sacra, l'uomo è diventato sordo al senso: vi-vere in un modo che sia compatibile con la sua immagine.

La religione senz'anima è tanto vitale quanto lo può essere un uomo senza cuore. Il dinami-smo sociale non sostituisce il significato. E in-vece l'incomprensione della falsità di tale sosti-tuzione sembra essere comune ai nostri giorni.

Forse è questo il compito più urgente: salvare l'uomo interiore dalla tendenza a dimenticare, ricordare a noi stessi che siamo una dualità di misteriosa grandezza e di polvere pomposa. Il nostro futuro dipende dalla nostra capacità di apprezzare la realtà della vita interiore, la lumi-nosità del pensare, la dignità di chi è ancora ca-pace di stupirsi, di nutrire sacro rispetto. E que-sto il pensiero più importante: Dio ha interesse alla vita dell'uomo, di ogni uomo. Ma questa ve-rità non può essere imposta dall'esterno; dev'es-sere scoperta da ciascuno; non può essere predi-cata, dev'essere sperimentata.

Parlando al Sinai, la voce di Dio non inco-minciò dicendo: "Io sono il Signore tuo Dio che ha creato il cielo e la terra". Iniziò dicendo: "Io

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sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese dell'Egitto, dalla casa di schiavitù". L'ebraismo non è soltanto liberazione dalla schiavitù esterna; è anche liberazione dalle false paure e dalle false glorie, dalla moda, dalle chi-mere e dagli sfizi intellettuali. Nelle nostre ani-me siamo soggetti a cause esterne; nei nostri spiriti siamo liberi, capaci di guardare l'incondi-zionabile.

L'idea più grandiosa che l'ebraismo osa for-mulare è che la causa di ogni essere è la libertà, non la necessità. L'universo non è stato causato, ma creato. Dietro alla mente e alla materia, al-l'ordine e alle relazioni, la libertà di Dio si af-ferma. L'inevitabile non è eterno. Ogni costri-zione è il risultato di una scelta. Una porzione di questa esenzione dalla necessità si cela nelle pieghe dello spirito umano.

Non ci viene insegnato a sentirci accusati, a portare un senso di colpa illimitato. Ci si chiede di nutrire baldanza, di sentirci fatti per affron-tare problemi che non finiscono mai.

Ogni bambino è un principe; ogni uomo è te-nuto a sentire che il mondo è stato creato per amore suo. L'uomo non è la misura di tutte le cose, ma il significato in base al quale realizzare tutti gli impegni.

Come essere umano l'ebreo deve assumersi una responsabilità enorme. La prima cosa., che viene detta a un ebreo è: non puoi lasciarti an-dare; affronta le asperità, porta il giogo del re-

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gno dei cieli. Gli viene detto di portare pesi di responsabilità. Gli viene detto di aborrire l'au-tocompiacimento, di godere della libertà di scel-ta. Gli sono stati dati bene e male, vita e morte, ed è indotto a scegliere, a discriminare. Ma la li-bertà non è soltanto capacità di scegliere e di agire. E anche capacità di volere, di amare. Il tratto predominante della dottrina ebraica attra-verso i tempi è un senso di obbligo costante.

Ci viene insegnato a preferire la verità alla si-curezza, a restare fedeli anche a costo di rimane-

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re una minoranza. E la libertà interiore a dare la forza di rinunciare alla sicurezza, il coraggio di restare soli tra la moltitudine.

L'ebraismo è impegnato da sempre in una battaglia aspra contro la credenza nel fatalismo profondamente radicata nell'uomo e l'inerzia che ne scaturisce di fronte alle condizioni socia-li, morali e spirituali. Abramo ha cominciato ri-bellandosi a suo padre e agli dèi del suo tempo. A distinguerlo soprattutto non è stata la sua fe-deltà e capacità di conformarsi, ma la capacità di sfida e di ricominciare tutto da capo. E stato amato dal Signore non perché adoratore ance-strale, ma perché ha insegnato ai suoi discen-denti a "osservare la via del Signore facendo quello che è giusto e retto" (Gen 18,19).

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Nutriamo tutti indistintamente una devozio-ne senza limiti per le libertà che il popolo ame-ricano ha saputo conquistarsi a caro prezzo. Ma per essere degni di conservare le nostre libertà non dobbiamo smarrire la nostra comprensione della natura essenziale della stessa libertà. Li-bertà significa più della semplice emancipazio-ne. Essa è anzitutto libertà di coscienza, legata alla fedeltà interiore. Il rischio inizia là dove si insegna che la libertà consiste nel fatto che "posso agire come mi pare e piace". Questa de-finizione non soltanto ignora gli impulsi che spesso stanno dietro ai nostri desideri. Essa ri-vela la tragica verità secondo cui la libertà può sviluppare in se stessa il seme della sua propria distruzione. La volontà non è un'entità ultima e a sé stante, ma è determinata da motivi che so-no al di là del nostro controllo. Essere ciò che si vuole essere dunque non è libertà, poiché i de-sideri dell'io sono ampiamente determinati da fattori esterni.

La libertà non è un principio di insicurezza, non è la possibilità di agire senza motivazioni. Tale comportamento sarebbe caotico e subrazio-nale, non libero.

Benché la libertà politica e sociale debba in-cludere tutto questo, compresa la libertà di sba-gliare, la vera essenza della libertà è la capacità dell'uomo di andare oltre se stesso, persino di agire contro le sue inclinazioni e sfidando biso-gni e desideri, di sacrificare pregiudizi anche se

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ciò è doloroso, di rinunciare alla superstizione anche quand'essa pretende di essere dottrina.

La libertà è la liberazione dalla tirannia del-l'io incentrato su se stesso. Essa si realizza nei momenti in cui la persona trascende se stessa con un atto di estasi spirituale, oltrepassa la cor-nice delimitante delle preoccupazioni che na-scono dalla routine riflessiva. La libertà presup-pone la capacità del sacrificio.

Benché tutti gli uomini siano potenzialmente liberi, è nostro dovere sacrosanto salvaguardare tutte quelle condizioni politiche, sociali e intel-lettuali che consentono a ciascuna persona uma-na di realizzare in concreto quelle forme di li-bertà che formano i prerequisiti essenziali per la creatività e le sue espressioni.

Lo shock provocato dalla capacità di stupore radicale, l'umiltà che nasce nel timore e nella ri-verenza, la disciplina austera dell'indagine assi-dua e dell'autocritica, sono atti che liberano l'uomo dal modo abitudinario di prestare atten-zione soltanto a quegli aspetti dell'esperienza sempre uguali e ricorrenti e di aprire la sua ani-ma all'unico e al trascendente. Questa sensibili-tà alla novità e a ciò che non ha precedenti è il fondamento della consapevolezza di Dio e del-la consapevolezza della preziosità di tutti gli es-seri. Essa conduce dall'interesse riflessivo e dal-l'isolamento morale e spirituale che è il risulta-to dell'egocentrismo a una modalità di risposta a ciascuna esperienza nuova e unica in termini

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di considerazioni più ampie, di interessi più va-sti, di apprezzamento più profondo e nuovo, di apertura a valori non ancora realizzati.

In quanto oggetto dell'interesse transitivo di-vino, l'uomo e. Sapendo di essere oggetto del-l'interesse divino e rispondendo con atti che a loro volta sono frutto del suo interesse transiti-vo, l'uomo e libero.

Il significato della libertà non si esaurisce nel-la deliberazione, nella decisione, nella responsa-bilità, pur dovendo includere tutto questo. Il si-gnificato della libertà presuppone un'apertura alla trascendenza, e l'uomo deve saper risponde-re, prima di poter essere responsabile.

La libertà non è un concetto vuoto. L'uomo è libero di essere libero. Non è libero quando sce-glie di essere schiavo. E libero facendo il bene. Non è libero quando fa il male. Scegliere il male vuol dire rinunciare a essere libero. Scegliendo il male l'uomo non è libero ma determinato da

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forze che sono estranee allo spirito. E libero chi decide di operare in sintonia con lo spirito, che va oltre tutte le necessità.

La libertà è una sfida e un peso al quale l'uo-mo spesso si ribella. L'uomo è pronto ad abban-donarla, essendo piena di contraddizioni e con-tinuamente esposta ad attacchi. La libertà può perdurare soltanto come visione, e la fedeltà a essa è un atto di fede.

Non c'è libertà senza timore reverenziale. Dobbiamo coltivare molti momenti di silenzio

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per far sì che nasca un momento di espressione. Dobbiamo portare molti pesi per trovare la for-za di produrre un atto di libertà.

L'uomo non può conseguire la sua realizza-zione completa restando individuo isolato. Il suo vero bene dipende dalla comunione con la realtà che lo trascende e dalla partecipazione a essa. Ogni sfida portata alla persona dal suo esterno è unica, e ciascuna risposta dev'essere nuova e creativa. La libertà è un atto d'impegno dell'io per lo spirito, un accadimento spirituale.

Fedeltà alla libertà significa fedeltà alla so-stanza della libertà. Ma tale fedeltà dev'essere continuamente concretizzata. Su questo punto dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere: dobbiamo aprire gli occhi per contemplare gli orizzonti sublimi entro i quali viviamo.

Il rifiuto di delegare il potere di prendere decisioni ultime a una qualsivoglia istituzione umana trae vigore o dalla consapevolezza della propria misteriosa dignità o dalla consapevolez-za della propria responsabilità ultima. Ma tale forza viene meno quando si scopre la propria in-capacità di prendere una decisione significativa. La volgarizzazione progressiva della società può arrivare a privare l'uomo della sua capacità di apprezzare il peso sublime della libertà. Al pari di Esaù, egli può correre il rischio di vendere la propria primogenitura per un piatto di lenticchie.

Una delle radici più importanti della libertà affonda nella convinzione che l'uomo, ciascuna

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persona, vale troppo per essere schiava di un al-tro uomo. D'altro canto, il dinamismo della no-stra società, la svalorizzazione e la banalizzazio-ne dell'esistenza, continuano a corrodere tale convinzione. L'unicità e la preziosità sacra del-l'uomo viene rinnegata con una pervicacia quasi crudele. Non intendo riferirmi al problema an-tropologico se discendiamo o meno dalle scim-mie. Penso al fatto che siamo trattati come se ci fosse poca differenza tra l'uomo e la scimmia. Molto di quanto viene fatto, ad esempio, in no-me del divertimento, è un insulto all'anima. A essere chiamata in causa non è l'offesa a valori morali. Molte cose possono essere neutrali. A essere chiamata in causa è la disumanizzazione. Molti aspetti di queste profferte di divertimen-to si traducono in un processo continuo di im-poverimento intellettuale. Tra le molte cose che vanno perdute in questo processo, una è la sen-sibilità alle parole.

Le parole sono diventate un pretesto nella tecnica dell'evasione dalla necessità che l'uomo si esprima in modo onesto e genuino. A vol-te sembra che tutti noi siamo impegnati nel processo di liquidazione della nostra lingua. Le parole invece sono contenitori dello spirito. E quando i contenitori vengono infranti, il nostro rapporto con lo spirito diventa precario.

Per essere liberi occorre raggiungere un deter-minato grado di indipendenza. Ma le complessi-tà della società hanno avviluppato l'uomo con-

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temporaneo in una rete di rapporti che rende estremamente precaria la sua indipendenza.

E insito nell'uomo il desiderio di essere in sintonia con gli altri. Oggi invece, di fronte alla quantità enorme di associazioni eterogenee, e di stimoli senza precedenti, è compito arduo dirsi d'accordo con tutti e mantenere l'equilibrio del-l'integrità.

Sotto il peso di interessi la cui vulnerabilità sfugge alla sua capacità di protezione, morendo dalla paura di essere schiacciato dalla moltepli-cità dei compiti e delle responsabilità, l'uomo moderno si sente troppo insicuro per restare in-tegro.

Il bene e il male hanno sempre avuto la ten-denza a vivere promiscuamente, ma in società più integrate all'uomo - a quanto pare - riusciva più facile distinguere tra i due, mentre nei no-stri tempi turbolenti le circostanze spesso stor-discono la nostra capacità di discernimento. E come se nell'epidemia dei bisogni molti di noi fossero diventati ciechi di fronte ai valori.

La gloria di una società libera sta non solo nella consapevolezza del mio diritto di essere li-bero, della mia capacità di essere libero, ma an-che nella comprensione del diritto del mio pros-simo di essere libero, e della sua capacità di esse-re libero. Il problema che ci troviamo ad affron-tare è come salvaguardare la fede dell'uomo nel-la sua capacità di essere libero. La nostra epoca può essere caratterizzata come l'epoca del sospet-

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to. E diventato un assioma l'affermazione che la via più breve per capire l'uomo è di sospettarne i motivi per cui agisce. Sembra essere questa la versione contemporanea della regola aurea: so-spetta il prossimo tuo come te stesso. Il sospetto produce sospetto. Esso crea una reazione a cate-na. L'onestà non è necessariamente un anacro-nismo.

L'uomo giusto vivrà per la sua fede. Può vi-vere in base al suo sospetto ed essere giusto? E pericoloso dare per scontata la libertà umana, considerarla una prerogativa piuttosto che un obbligo, un dato di fatto ultimo piuttosto che un obiettivo legittimo. E inizio della sapienza essere sorpresi del fatto di essere liberi.

La libertà è un dono che può esserci sottrat-to. Non è un possesso assoluto, ma relativo. E un'opportunità. Siamo liberi soltanto se vivia-mo aderendo allo spirito3. Le benedizioni e op-portunità di vivere in una società libera non de-vono renderci ciechi di fronte a quegli aspetti della società che minacciano la nostra libertà: la tirannia dei bisogni, la volgarizzazione dello spirito sono una sfida particolare.

L'insicurezza della libertà è un fatto amaro di cui si fa esperienza continua nella storia. In

3 " E detto: 'Le tavole erano opera di Dio, e la Scrittura scrittura di Dio scolpita (charut) sulle tavole' (Es 32,16). Non leggere charut, ma cherut-, 'libertà sulle tavole', perché nessun uomo è libero, se non colui che si dedica allo studio della Torà" (Avot VI, 2, in Detti di rabbini, a cu-ra di A. Mello, Qiqajon, Bose 1993, p. 187).

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tempi di disoccupazione demagoghi vociferanti sono capaci di condurre il popolo a una condi-zione mentale nella quale esso è disposto a ba-rattare la propria libertà. In tempi di prosperità persuasori occulti sono capaci di indurre la stes-sa popolazione a vendere la propria coscienza per il successo. Se non s'impara a elevarsi quo-tidianamente a un superiore livello di vita, a preoccuparsi di ciò che va oltre i bisogni imme-diati, come si potrà restare fedeli alla libertà in momenti di crisi?

La minaccia alla libertà è insita nel processo di riduzione dei rapporti umani a stereotipo. La vita umana non è più un dramma, è routine. L'unicità viene soppressa, a prevalere è la ripeti-tività. Insegniamo ai nostri studenti a ricono-scere etichette, non a sviluppare il gusto. La standardizzazione corrode il senso del significa-to ultimo. L'uomo diventa sempre più scipito, deprezzato, insignificante ai suoi stessi occhi. Invece, senza il senso della significazione ulti-ma e della preziosità ultima della nostra esisten-za, la libertà diventa un'espressione vuota.

Stiamo perdendo la nostra capacità di libertà. Sono emerse nuove forze che regolano le nostre azioni. L'uomo moderno non è più motivato; è sospinto; non s'affatica più a scegliere, è guida-to dall'esterno.

Il principio della decisione presa in base alla maggioranza dei consensi, la forza vincolante del-la maggioranza, dipende dal presupposto secon-

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do cui gli individui che costituiscono tale mag-gioranza sono in grado di discernere tra quello che è giusto e quello che è sbagliato. Noi invece siamo indotti un po' alla volta a ritenere che l'uomo è incapace di produrre un giudizio mora-le significativo.

Abbiamo apportato grandi contributi alla dif-famazione spirituale dell'uomo. Lungi dall'eli-minare il timore dell'uomo, i nostri romanzi e le nostre teorie dipingono l'uomo come inaffida-bile, passionale, che cerca solo se stesso, e disin-cantato.

Il rispetto per l'uomo è stato strenuamente rifiutato come collirio sentimentale. Tutti noi scorrazziamo lungo le autostrade del ridimen-sionamento. Sembra che le nostre menti non nutrano dubbi di sorta sul fatto che non c'è pro-fondità per la virtù, non c'è realtà per l'integri-tà; che tutto quello che possiamo fare è innesta-re la bontà sull'egoismo, usare la verità come un pretesto pragmatico e condire di autoindulgenza tutti i valori.

Allo stesso tempo, all'uomo viene detto che le sue credenze religiose altro non sono che ten-tativi di soddisfare i desideri del subconscio, che la sua concezione di Dio è semplicemen-te una proiezione di emozioni egocentriche, un'oggettivazione di bisogni soggettivi. Dio è l'io camuffato. Non abbiamo soltanto svenduto la fede; abbiamo anche perso fiducia nel si-gnificato della fede. Questa tendenza a mette-

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re in questione la genuinità dell'interesse del-l'uomo per Dio è una sfida più seria della ten-denza a mettere in questione l'esistenza stessa di Dio.

Uno dei problemi principali dell'uomo con-temporaneo è il seguente: che fare con il tempo? Per la maggior parte della nostra esistenza pas-siamo il tempo ad acquistare spazio, vale a dire cose appartenenti allo spazio. Ma quando arriva la situazione in cui nessuna cosa appartenente allo spazio può essere comprata, l'uomo norma-le si sente perduto per quanto concerne la que-stione di cosa fare con il tempo.

Con lo sviluppo dell'automazione il numero delle ore che dobbiamo dedicare al lavoro sarà considerevolmente ridotto. La settimana lavora-tiva di quattro giorni può diventare una realtà entro questa generazione. Sorgerà il problema: che fare con tanto tempo libero a disposizione? Il problema sarà il troppo tempo, anziché il trop-po poco tempo. Ma il troppo tempo è humus fertile per il crimine.

L'uomo moderno non solo ha dimenticato co-me stare da solo. Trova difficoltà anche a stare con i suoi simili. Non solo fugge da se stesso. Scappa persino dalla sua famiglia. Per i figli, "onora tuo padre e tua madre" è un'ingiunzione irrazionale. Il rapporto normale è di ottusità; il gusto sta nella deviazione.

L'uomo moderno non sa come stare tranquil-lo, come apprezzare anche solo un istante, o un

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evento, per quello che sono. Di fronte a un acca-dimento importante o a un bel panorama, tut-to quello che sa fare è scattare una foto. Forse è questo che le tradizioni religiose devono in-segnare all'uomo contemporaneo: imparare ad amare la quiete e a contemplare, a starsene tran-quilli e ad ascoltare.

L'ebraismo sostiene che il cammino che con-duce alla nobiltà dell'anima è la capacità di san-tificare il tempo. Gli impegni morali, gli atti di culto, le iniziative intellettuali, sono strumenti nell'arte della santificazione del tempo. L'inte-resse personale per la giustizia negli affari, l'in-tegrità negli impegni sociali e nei rapporti pub-blici sono un prerequisito per il nostro diritto a pregare. Gli atti di culto mirano a contrastare la banalizzazione dell'esistenza. Entrambi coin-volgono la persona e le danno la sensazione di vivere entro rapporti ultimativi. Entrambi sono modi di insegnare all'uomo come starsene da so-lo e non sentirsi solo, di insegnare all'uomo che Dio è un rifugio, non una sicurezza.

Ma il culto scaturisce dalla sapienza, dall'in-tuizione profonda. Non è uno sguardo panora-mico. Anche l'apprendimento è un imperativo religioso. Non intendo qui l'appropriazione di nozioni, l'erudizione. Mi riferisco all'impegno nello studio approfondito, al coinvolgimento per-sonale nella sapienza, all'essere sopraffatti dal-lo stupore e dal mistero dinanzi alla creazione di Dio.

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Lo sforzo più grande della religione dev'esse-re quello di contrastare la deflazione dell'uomo, la banalizzazione dell'esistenza umana. Le no-stre tradizioni religiose sostengono che l'uomo è capace di sacrificio, di disciplina, di esaltazione morale e spirituale, che ogni uomo è capace di impegno radicale.

L'impegno radicale include la consapevolezza di essere chiamati a rendere conto delle azioni che compiamo nella libertà; la coscienza chiara del fatto che tutto ciò che possediamo lo dob-biamo; la capacità del pentimento; la convinzio-ne che la vita senza il servizio reso a Dio è uno scandalo occulto.

Non si può costringere l'uomo a credere in Dio. La questione non riguarda solo l'assenza di fede, ma anche la volgarizzazione della fede, il fraintendimento e l'abuso della libertà. Il no-stro sforzo deve comportare anche un radica-le riorientamento delle prospettive sulla natura dell'uomo e del mondo. E la nostra speranza sta nella certezza che tutti gli uomini sono ca-paci di cogliere il prodigio e il mistero dell'esi-stenza, che tutti gli uomini hanno la capacità del rispetto.

Il timore riverente precede la fede; è la radi-ce della fede. Dobbiamo crescere nel timore se vogliamo arrivare alla fede. Occorre che ci la-sciamo guidare dal sacro timore se vogliamo di-ventare degni di credere. Questo timore sacro è "il principio e la porta della fede, il primo tra

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tutti i precetti, e su di esso è stabilito il mondo intero".

La grandezza e il mistero del mondo che ci circonda non è qualcosa di percepibile solo agli eletti. A tutti è data la capacità di stupirsi, la sensibilità al mistero. Ma il nostro sistema edu-cativo non sviluppa tale capacità e il clima an-ti-intellettuale della nostra civiltà fa non poco per sopprimerla. L'umanità non perirà per man-canza di informazione; forse arriverà al tracollo per mancanza di apprezzamento.

L'educazione al rispetto, lo sviluppo del senso del timore riverente e del mistero, è il prerequi-sito per la conservazione della libertà.

Dobbiamo imparare a porre un freno alla pre-sunzione oltraggiosa dell'uomo moderno, a col-tivare il senso dello stupore e della riverenza, a sviluppare la consapevolezza che all'uomo è ri-chiesto di fare qualcosa. La libertà è un peso che Dio ha posto sull'uomo. La libertà è un bene di cui siamo responsabili. Se riusciamo, diamo il nostro contributo alla redenzione del mondo. Se falliamo, rischiamo di essere schiacciati dal suo abuso. La libertà come sovranità illimitata dell'uomo è il culmine dell'assurdità; e il proble-ma centrale che dobbiamo affrontare è un errato senso di sovranità.

Il ruolo della religione nella società contem-poranea è tragico. Il mondo aspetta di ascoltare la Voce, e coloro che dovrebbero pronunciare la parola sono essi stessi confusi e deboli nella fe-

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de: "La voce del Signore è forte, la voce del Si-gnore è maestosa" (Sai 29,4). Dov'è la sua po-tenza? Dov'è la sua maestà?

Si racconta di una comunità dove un uomo venne accusato di aver trasgredito il settimo co-mandamento. I capi della comunità si recarono dal rabbi e, esprimendo la loro forte indignazio-ne morale, chiesero una severa punizione per il peccatore. Il rabbi reagì voltandosi verso il muro e pregando: "O Signore, la tua gloria è in cielo, la tua presenza sulla terra è invisibile, impercet-tibile. Contrariamente alla tua invisibilità, l'og-getto della passione di quest'uomo stava dinanzi ai suoi occhi, pieno di bellezza e tale da amma-liare il suo corpo e la sua anima. Come potrei punirlo?".

Rabbi Shim on disse:

Quando per il Santo, sia Egli benedetto, giun-se il momento di creare Adamo, gli angeli mi-nistranti formarono vari gruppi e partiti. Alcu-ni di essi dicevano: "Sia creato"; mentre altri insistevano: "Non sia creato". Così sta scritto: "L'Amore e la Verità combatterono insieme, la Giustizia e la Pace lottarono l'una contro l'al-tra" (Sai 85,11); l'Amore disse: "Non sia crea-to, perché sarà costretto alla falsità"; la Giusti-zia disse: "Sia creato, perché compirà opere giuste". La Pace disse: "Non sia creato, perché sarà pieno di litigio". Che cosa fece il Signore? Prese la Verità e la gettò a terra. Dissero gli an-geli ministranti dinanzi al Santo, sia Egli bene-

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detto: "Sovrano dell'Universo, perché disprez-zi il tuo sigillo? Fa' che la Verità sorga dalla terra". Perciò sta scritto: "Che la Verità sgor-ghi dalla terra" (Sal85,i2)4.

Dio dovette seppellire la verità per creare l'uomo.

Come si potrà mai incontrare la verità? La ve-rità è sottoterra, nascosta ai nostri occhi. La sua natura e la condizione dell'uomo sono tali, che egli non può né produrla né inventarla. Ma c'è una via d'uscita. Se seppellisci menzogne, la ve-rità scaturirà. Sulla tomba dell'appariscente noi incontriamo il reale. Occorre molto lavoro di scavo. La trappola fatale in cui può cadere il pensiero religioso è l'equazione tra fede e op-portunismo. Il vero compito delle nostre tradi-zioni è di educare a capire bene cos'è la conve-nienza opportunistica da un lato, e a percepire quello che Dio vuole veramente dall'altro.

Forse dobbiamo incominciare a scoprire l'in-gannevolezza della convenienza ricercata come va-lore assoluto. Può accadere che la voce di Dio ar-rivi debolmente alla nostra coscienza. Eppure c'è un'astuzia divina nella storia che sembra provare che la retribuzione della convenienza ri-cercata come valore assoluto è il disastro. Non dobbiamo stancarci di ricordare al mondo che

4 " I l sigillo di Dio è la verità" (Shabbat 55b).

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all'uomo viene richiesto qualcosa, a ogni uomo; che il valore della carità non va misurato in ter-mini di relazioni pubbliche. L'aiuto alle altre nazioni, se offerto a paesi sottosviluppati allo scopo di farseli amici e influenzare la popolazio-ne, si risolve in un boomerang. Non è forse il caso di imparare a distinguere la convenienza dalla carità? Se la politica americana sbaglia di grosso, non è tanto nelle relazioni pubbliche. La politica americana sbaglia molto nelle relazioni private.

Lo spirito continua a essere una voce esile, e i maestri della volgarità usano altoparlanti. La voce è stata soffocata, e molti di noi hanno per-so la fiducia nella possibilità che insorga una nuova capacità percettiva.

La fede dell'uomo è screditata. L'uomo è messo in dubbio nella sua stessa integrità. Met-tiamo in questione la capacità dell'uomo di av-vertire un qualche significato ultimo. Mettiamo in questione la credenza nella compatibilità del-l'esistenza con lo spirito.

Ma l'uomo è destinato a rompere le catene della disperazione, a sollevarsi contro coloro che gli negano il diritto e la forza di credere con tut-to il cuore. La verità ultima può restare nascosta all'uomo, ma la capacità di discernere tra ciò che è valido e ciò che è specioso non ci è stata sottratta.

Certamente Dio avrà sempre la sorpresa di una manciata di folli, che non mancano. Rimar -

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rà sempre un sottosuolo spirituale dove poche menti coraggiose continuano a combattere. Ma il nostro interesse non è come adorare nelle ca-tacombe, bensì come restare umani nei gratta-cieli.

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IDOLI N E I T E M P L I

Che cosa c'è di religioso nell'educazione reli-giosa?

Soltanto i mascalzoni sono modesti. A una cosa noi ebrei non dovremmo mai essere dispo-sti a rinunciare: i nostri livelli elevati di forma-zione. Nessuno di noi su questo punto potrà mai dirsi soddisfatto della propria condizione di vita intellettuale, morale o spirituale.

L'educazione religiosa contemporanea si po-ne in aspro contrasto con l'educazione generale. Alla formazione contemporanea nei vari cam-pi del sapere, nonostante tutte le limitazioni, dobbiamo dare atto di realizzazioni notevoli, sia nell'insegnamento della scienza che in altri set-tori. A confronto, occorre dire che l'educazione religiosa non ha saputo raggiungere i suoi obiet-tivi. Sarebbe da irresponsabili sottacere quello che la maggior parte di noi sanno bene.

E possibile trovare la Bibbia negli hotel, ma non la si trova nelle case, o nelle menti. Pochi tra i nostri contemporanei hanno mai fatto pro-pria la sfida dei profeti o colto la grandezza

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del libro della Genesi, pur avendo frequentato la scuola domenicale o essendosi entusiasmati durante i riti di confermazione1. Nel campo della religione prevale l'analfabetismo, sia intel-lettuale che spirituale, l'ignoranza oltre che l'i-dolatria, l'adorazione di falsi valori. Siamo una generazione priva sia di istruzione che di sensi-bilità.

Perché nella maggioranza dei casi la frequen-tazione della scuola di religione non ha plasmato il carattere e gli atteggiamenti dei nostri figli? Quali sono le cause di questa inefficacia? Senza voler minimizzare l'influenza corruttrice del cli-ma sociale generale, insisto nel dire che la causa di questo fallimento è la scipitezza e banalità del-l'istruzione religiosa.

Sono numerose le forze che neutralizzano l'ef-fetto dell'istruzione religiosa. Per quanto nel nostro insegnamento esaltiamo il valore dell'ap-prendimento, della compassione, della fede, il ragazzo però vive per la maggior parte del tem-po in un'atmosfera ossessionata dall'affarismo, dalla millanteria e dal cinismo. L'ambiente non è mai stato particolarmente favorevole ai tenta-tivi compiuti nella storia di servire la volontà di Dio. Dobbiamo imparare a sopravvivere nono-

1 Le confirmation ceremonies cui Heschel si riferisce sono riti reli-giosi ebraici nei quali i ragazzi e le ragazze dai quattordici ai sedici anni, dopo aver studiato la tradizione e la storia dell'ebraismo, vengono con-fermati nella fede ebraica [N.d.T.].

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stante le condizioni spirituali avverse e a causa di esse. Sarebbe un suicidio vivere secondo la massima che se il clima non favorisce i nostri principi, tanto vale rinunciarvi.

Negli altri campi di studio l'insegnamento è svolto ad alto livello, mentre l'educazione reli-giosa si accontenta di cliché spalmati di senti-mentalismi. Il risultato è che l'educazione reli-giosa ricevuta durante l'infanzia e la fanciullez-za svanisce non appena è esposta alla sfida e al fascino di altre potenze intellettuali nell'epoca dei trionfi scientifici.

Per molti la scuola domenicale si è risolta più in un impedimento che in un aiuto allo sforzo di acquisire una più profonda comprensione di Dio.

I giovani non hanno bisogno di tranquillanti religiosi, della religione come diversivo, della reli-gione come intrattenimento, ma di audacia spiri-tuale, di succo intellettuale, di potenzialità di sfida.

Un'altra malattia è l'irrilevanza intellettuale della tradizione per la persona, il crollo della co-municazione tra i problemi personali del singolo e il messaggio della nostra eredità.

Quella forma di educazione che continua a trascurare i problemi intellettuali o che ignora i limiti dell'emotività è destinata a fallire.

Allo studente diciamo molte cose, ma che co-sa ha a che fare il nostro insegnamento con i suoi problemi interiori, con il modo in cui si comporterà o penserà al di fuori dell'aula scola-stica?

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Nella nostra scuola abbiamo paura di affron-tare le problematiche fondamentali. Come trat-tare il male? Qual è il nostro rapporto con il ne-mico? Che fare dell'invidia? Qual è il senso del-l'onestà? Come affrontare il problema della soli-tudine? Che ha da dire la religione sulla guerra e la violenza? Sull'indifferenza al male?

Certamente, l'educazione religiosa è vitale e non è difficile trovare motivi convincenti per indurre a studiare. Ma la tragedia è che la nostra generazione non sa come studiare, come rappor-tarsi alle fonti classiche della nostra tradizione. Sicché il problema principale dell'educazione religiosa non è soltanto che cosa fare con i ragaz-zi che non frequentano le scuole di religione, ma che cosa fare con quelli che le frequentano. Il segreto dell'educazione religiosa è l'apprendi-mento, la passione e la convinzione. Insegnare significa impartire informazione oltre che indur-re lo studente a condividere il proprio apprez-zamento. Il problema non è semplicemente più ore, più conoscenza, ma anche più rilevanza, più comprensione.

Il racconto di come Abramo ha infranto gli idoli di suo padre è tale da imprimersi profon-damente nelle menti dei nostri bambini. Molti di loro, tuttavia, non arrivano mai al capitolo 32 del libro dell'Esodo, dove si narra l'episodio del vitello d'oro.

"Ama il prossimo tuo come te stesso" è - se-condo Rabbi Aqiva' - l'essenza o sintesi della

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Torà. Invece, secondo Rabbi Jishma'el, il com-pendio e il progetto globale della Torà consiste nel tener lontano il nostro popolo dall'idolatria. La prospettiva di Rabbi 'Aqiva' è nota a noi tut-ti. Quella di Rabbi Jishmael viene dimenticata.

Manasse - ci viene detto - ha collocato un idolo nel tempio. Ci sono idoli nelle nostre case, nelle nostre menti, nei nostri templi?

La religione si trova in continua lotta con l'i-dolatria. E costretta a respingere come volgari e distruttivi certi valori che il nostro popolo ama e coltiva.

Un altro nostro guaio è il monopolio dell'e-ducazione. Di fatto l'educazione spetta anzitut-to ai genitori, al padre. Secondo la tradizione ebraica il maestro non è che un rappresentante del padre. E vostro dovere invece insegnare con diligenza, non sentirvi sostituti2. Oggi i genito-ri si comportano con grande superficialità, l'in-vadente senso degli affari e la volgarità squilla-no dai megafoni, e noi pretendiamo che piccole creature ascoltino la voce dello spirito. L'istru-zione religiosa, come la carità, incomincia da casa propria.

La spersonalizzazione dell'insegnamento è un'altra carenza macroscopica. Mi riferisco al tipo d'istruzione in cui l'argomento si frappone

2 II presente capitolo è la trascrizione di una conferenza letta da He-schel al 62' incontro annuale dell'Assemblea dei rabbini d'America, svoltasi a Chicago dal 18 al 20 novembre del 1962 [N.d.T.].

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come una cortina di ferro tra il ragazzo e l'inse-gnante. Il compito dell'insegnante è, anzitutto, quello di trasmettere il patrimonio culturale del nostro popolo. E perché tale patrimonio cultu-rale sia espresso adeguatamente e accolto, il tra-sferimento dev'essere un accadimento signifi-cante. L'idea, se resta sganciata dal tempo, non tocca la mente e il cuore dell'uomo. L'uomo vi-ve nel tempo, in una situazione particolare, e solo l'idea che accade può essere comunicata. Perché un'idea accada l'insegnante deve metter-ne in rilievo l'importanza, deve diventare una sola cosa con quello che dice. Solo la profondità evoca profondità.

L'insegnante dev'essere come la levatrice per lo studente e la levatrice per la nostra tradizio-ne. Nelle mani di un medico maldestro le idee nasceranno morte, ne può venir fuori un mo-stro. Nelle mani di un maestro nascerà nuova vita.

Il segreto dell'insegnamento efficace sta nel fare del ragazzo un contemporaneo del momen-to vivo dell'insegnamento. L'obiettivo non è so-lo l'apprendimento del contenuto dell'insegna-mento, ma anche il momento stesso dell'inse-gnare. Non basta che il ragazzo impari la mate-ria. Il ragazzo e il maestro insieme devono vive-re momenti significativi, condividere prospetti-ve e apprezzamenti.

So che non è facile. Sono consapevole delle difficoltà. So quant'è difficile insegnare. Il pri-

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mo momento in ogni classe è come l'ora in cui gli ebrei si trovarono al Mar Rosso. Ma quando arriva la ricompensa, è un canto. Ciascuno nella propria vita affronta la prova e la fuga dalla schiavitù e dalle ciotole di carne dell'Egitto e l'inseguimento del faraone.

Il guaio è che la Bibbia stessa è diventata per il nostro popolo come il Mar Rosso, e noi siamo chiamati a compiere il miracolo della separazio-ne delle acque per guidarlo attraverso di esse. Ma i miracoli accadono e noi siamo chiamati a fare questa esperienza, e ringraziamo Dio tre volte al giorno per i miracoli che ci accadono quotidianamente.

Il fallimento dell'educazione religiosa ha le sue radici nel declino della fede nell'educazione religiosa, e in ultima analisi nella mancanza di fede nel valore dell'educazione.

Il presupposto da cui partiamo è la certezza di essere in grado di educare l'uomo interiore, di formare la personalità, oltre che di informare; di sviluppare non solo la memoria ma anche la capacità di visione; non solo l'informazione ma anche l'intuizione; non solo competenze ma an-che riverenza; non solo l'apprendimento ma an-che la fede; non solo le doti e le qualità ma an-che gli atteggiamenti interiori.

Astenersi dal coltivare gli atteggiamenti inte-riori significa abdicare alla responsabilità. Si-gnifica orientare il ragazzo verso altre agenzie della nostra cultura di massa che incidono po-

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tentemente sui sentimenti e sui giudizi di valo-re, come la televisione e i fumetti, Hollywood e Madison Avenue, il cui impatto costituisce una minaccia enorme all'indipendenza, alla sensibi-lità, all'equilibrio interiore e alla libertà dell'in-dividuo.

Il pericolo costante esige una vigilanza co-stante, una guida costante. Ciò che occorre è la difesa in profondità, nella profondità di ciascu-na persona. Ma la tragedia della nostra civiltà sta nella liquidazione dell'uomo interiore. Fac-ciamo del nostro meglio per appiattire l'uomo. Le risorse spirituali sono svuotate di contenuto.

L'ebraismo è fermamente convinto che l'edu-cazione può e deve raggiungere l'uomo interio-re, che il suo obiettivo è affinare ed esaltare la natura dell'uomo.

Dotati di una capacità eccezionale di cogliere la malvagità dell'uomo e profondamente consa-pevoli della sua cocciutaggine e insensibilità, i profeti insistono però anche sulla capacità del-l'uomo di mutare, di pentirsi, di tornare a Dio e di vivere nella giustizia e nella compassione. La profezia può essere definita lo sforzo formidabi-le di mutare tutti gli status quo, una protesta perdurante contro qualsiasi concezione fatalisti-ca della vita, contro coloro che insegnano che la natura umana non cambierà mai. La fede nella possibilità di incidere sugli esseri umani e di ele-varli è la roccia sulla quale è costruito l'ebrai-smo. Negare questa fede equivarrebbe a rendere

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innocuo tutto della Torà. La Torà non è descri-zione ma guida; non è accettazione ma sfida; non è reminiscenza ma comandamento. Non è descrizione di ciò che è soltanto visione, è anti-cipazione di quello che dovrebbe essere.

Il valore essenziale dell'esperienza intellet-tuale è l'esperienza stessa. Il suo valore non va ricercato nel guadagno esterno che potrebbe e dovrebbe derivarne, ma nell'intellezione pro-fonda che resterà. Lo studio della Torà è una sfi-da alla mente oltre che un atto di coinvolgimen-to nel dialogo tra Dio e l'uomo, un atto di santi-ficazione del tempo. Il vero apprendimento è un modo di rapportarsi a una realtà che è sacra e in-sieme universale.

Imparare, studiare, è più che una preparazio-ne dei giovani a diventare buoni cittadini. Lo studio è una forma di culto, un atto di purifica-zione interiore.

Il banco di prova per l'insegnante è la sua ca-pacità di far sì che un'idea accada. L'insegna-mento è comunicazione di eventi. Accade che un pensiero nasce nell'insegnante e passa nel-lo studente. Un'idea insorge nell'insegnante e continua la propria esistenza nello studente. Il fallimento dell'insegnamento è garantito quan-do insegnante e studente sono come linee paral-lele che s'incontrano solo all'infinito.

Nessuna idea nasce nel vuoto. Perché una pa-rola della Scrittura accada essa deve permeare l'anima, rapportarsi ai problemi della persona,

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ai suoi sogni e alle sue emozioni. Distaccato dal-le problematiche vitali della situazione umana, il nostro impegno diventa confuso, vacuo. In altre parole, insegnare religione significa inse-gnare un modo di affrontare i problemi reali dell'esistenza umana, i problemi dello studente che siede dinanzi a noi. Altrimenti, resta bana-le. E la religione non può sopravvivere come banalità.

Sovrapponiamo credenze ed esigenze deriva-te da esperienze e prospettive profetiche a men-ti condizionate da un insieme di presupposti e opinioni per le quali queste prospettive profeti-che sono estranee e irrilevanti. Se non apriamo le menti alla dimensione della realtà alla quale anche i profeti erano sensibili, alla sfida, ai pro-blemi, e agli interrogativi che noi e i profeti ab-biamo in comune, le loro convinzioni ed esigen-ze busseranno alla porta di orecchi incapaci di sentire.

L'educazione religiosa implica non soltanto argomenti, ma anche un modo unico di pensare, una prospettiva sull'uomo e il suo destino, sulla natura e la storia. Insegnato in un vuoto intellet-tuale, il nostro curriculum non ha senso. Inse-gnato nel contesto di una filosofia derivata da presupposti non biblici, esso è destinato o a rimanere inefficace o a fallire. Ogni iniziativa educativa implica un atteggiamento di fronte ai valori. Perciò alla base dell'educazione c'è la percezione dei valori.

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Non è il caso di sottovalutare le difficoltà del-la vita morale. Occorre grande coraggio, saggez-za, capacità di sfida e profondità di fede per conservare atteggiamenti e comportamenti mo-rali. Siamo colpevoli di semplificazione eccessi-va. Continuiamo a pensare che la virtù paghi, dimentichiamo che il vizio paga ancor più. In molti dei nostri testi di scuola i termini "pecca-to" o "inclinazione cattiva" non ricorrono. Si potrebbe avere l'impressione che l'inclinazione cattiva non esista più o se ne sia andata sulla luna.

Prepariamo davvero gli studenti per gli anni nei quali dovranno vivere tensioni, affrontare prove e tribolazioni?

L'uomo è nato per far fronte a tentazioni e prendere decisioni. E nato per insistere, oltre che per resistere. Non c'è né fede né integri-tà senza la consapevolezza della difficoltà della fede e delle asperità dell'integrità. Si tratta di sviluppare convinzioni insieme all'audacia spiri-tuale. v

E inutile insegnare valori morali. Tra tutte le discipline nel settore della filosofia, l'etica è la meno avanzata, la più insicura.

L'educazione al carattere non può essere inse-gnata soltanto come educazione al carattere. Né si può affrontare il problema morale in modo di-staccato dal problema globale dell'essere umano.

L'impegno verso i valori morali dipende dì fatto da ciò che lo precede, da quegli atti che accadono

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nella profondità della persona, da quei momenti che producono l'attaccamento alla fede.

Puoi incidere su una persona soltanto se pe-netri nella sua vita interiore, a quel livello in cui l'essere umano è insicuro e avverte la propria incompiutezza, a quel livello di consapevolezza che sta oltre ogni forma di espressione articolata.

L'educazione al carattere può essere realizza-ta soltanto in profondità, come coltivazione del-la sensibilità globale. Non c'è compassione senza il senso di stupore e di riverente rispetto per il mistero dell'essere. L'educazione della perso-nalità deve iniziare chiamando in causa il senso innato dell'uomo per il miracolo e proseguire coltivando la capacità dell'uomo di stupefazio-ne radicale, suscitando problematiche alle quali l'individuo è chiamato a dare una risposta nel suo interno, personalmente.

Educare significa coltivare l'anima, non solo la mente.

Tu coltivi l'anima coltivando l'empatia e il rispetto reverenziale per gli altri, incentrando l'attenzione sulla grandezza, sul mistero di tutti gli esseri, sulla dimensione sacra dell'esistenza umana, insegnando come rapportare la realtà quotidiana alla realtà spirituale. L'anima viene scoperta nella risposta, nei gesti coi quali si va oltre l'io, nella consapevolezza degli obiettivi che superano i propri interessi e bisogni.

Ciascuno di noi presto o tardi si trova con-frontato con i problemi ultimi. In che modo

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posso rapportare la mia vita alla fonte del senso ultimo? Perché esisto e qual è lo scopo ultimo della mia esistenza? Posso dire che considero la mia vita estremamente preziosa? Oppure questa mia vita non è altro che una cifra statistica? Un dato di fatto scientifico? O la vita è simbolo di Dio, è opportunità drammatica?

Abbiamo scoperto, in questi nostri giorni, la serietà terrificante della storia umana, la gravità enorme della storia umana. Il problema dell'uo-mo è più serio di quanto fossero in grado di ca-pire le generazioni passate.

La mente religiosa non ha avuto bisogno di aspettare la bomba atomica per imparare che la vita è una faccenda di estrema serietà.

A parole si direbbe che siamo convinti dell'i-dea che l'uomo è creato a somiglianza di Dio. Ma ci crediamo davvero nel profondo della no-stra mente? Se la somiglianza con Dio è il pre-supposto da cui partiamo, sorge allora l'interro-gativo: in che modo un essere creato a somi-glianza di Dio deve agire, pensare, sentire? Co-me dovremmo vivere, secondo modalità compa-tibili con il nostro essere a somiglianza di Dio?

Che cosa vedo quando guardo un essere uma-no? Che cosa vedo quando mi trovo di fronte ai miei uditori? In quale modo è possibile conser-vare la sensibilità al miracolo e al mistero pro-prio in momenti simili? Come non profanare il gesto di attenzione che devo a ciascuno degli es-seri umani che mi stanno dinanzi?

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In America la religione tende a seguire piut-tosto che a sfidare le tendenze generali dell'opi-nione pubblica, come se il compito della religio-ne fosse di servire, quasi un'ancella della civiltà. La religione inizia là dove la filosofia ha esaurito il suo compito. Senza educazione religiosa l'e-ducazione generale può finire con la banalizza-zione dell'uomo.

Le nostre scuole devono impegnarsi a porre l'educazione religiosa entro un sistema di riferi-mento ai problemi fondamentali dell'esistenza. Come fare luce nel caos interiore? Come sempli-ficare l'io? Noi tutti siamo chiamati a vivere in due ambiti, quello sociale e quello privato. Per sopravvivere nella società dobbiamo crescere ro-busti nel privato.

La fede in Dio presuppone la consapevolezza della presenza di Dio. Implica non solo un at-teggiamento verso il santo, ma anche un modo di rapportarsi alla quotidianità.

Il tempio di Dio è un santuario senza pareti. Se il santuario è ovunque, allora da qualche par-te possiamo avvertire la presenza dell'arca o del-l'altare.

Le nostre scuole devono riuscire a fare quello che le scuole non religiose non sono in grado di realizzare: comunicare allo studente il senso del-lo stupore e del mistero di essere vivo, il senso della gratitudine oltre che la consapevolezza di essere significante, la consapevolezza della san-tità nel tempo, la capacità della celebrazione, la

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capacità di contenere Dio e l'uomo in un unico pensiero e allo stesso tempo, di pensare a Dio e al-l'uomo insieme.

Nel nostro impegno educativo dobbiamo sa-per affrontare i problemi fondamentali dell'esi-stenza: come far luce nel caos interiore? Come semplificare l'io?

La maggior parte delle persone sono afflitte da problemi illusori. Non si rendono conto di ciò che veramente le affligge, né di ciò che in ul-tima analisi è in gioco nella vita umana. Le no-stre prospettive più profonde originano dall'in-contro con una realtà che è più grande di noi. L'educazione religiosa aggiunge una dimensione nuova all'individuo, una dimensione in cui egli è esposto e risponde al significato divino, alla verità e alla sapienza divina.

Quello che l'uomo pensa di se stesso, della so-cietà, dell'umanità, determina il suo modo di pren-dere decisioni.

Senza la consapevolezza ultima della dignità della vita, della gloria trascendente della giusti-zia e della compassione, della serietà e significa-zione ultima della libertà e della responsabilità, noi falliremo.

La vita, nella sua totalità, nei suoi giorni, set-timane, anni, l'intera vita deve avere una forma, una compaginazione, un suo colore e una sua qualità. Occorre imparare a vedere la vita non come esistenza spezzettata, ma nel suo insieme. Per ciascun individuo la sua vita non ha prece-

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denti, è incomparabile, infinitamente preziosa. Ciascuna esistenza è intrisa di bene e ha biso-gno di trovare una forma adeguata nella quale esprimersi.

Il nostro interesse centrale dovrebbe esse-re l'immortalità dell'anima. Intendo con questa espressione l'immortalità dell'anima mentre il corpo è ancora vivo. Alcuni esseri umani muoio-no molto prima dei loro corpi. Il compito prima-rio della religione consiste nel ricordare che l'uomo ha un'anima, che la comunità ha un'ani-ma. Non siamo forse testimoni di come intere nazioni abbiano perso l'anima? Il modo miglio-re per svendere l'anima è ignorare lo spirito.

Bisogna guadagnarsi la vita anche spiritual-mente, non solo materialmente. Una buona co-scienza è invenzione del diavolo. L'uomo sa più di quanto capisca. Avverte più di quanto sia ca-pace di dire. Ridurre la conoscenza alla capacità di comprensione vuol dire ridicolizzare la nostra intelligenza. Sostenere che siamo in grado di ca-pire tutto quello di cui veniamo a conoscenza, che siamo in grado di esprimere tutto quello che sentiamo, è da idioti. La perplessità intellettuale, la consapevolezza della nostra incapacità di dire quello che sentiamo, è il prerequisito dell'intel-ligenza.

Favorire la profondità della consapevolezza, una vera apertura della mente e dei sensi al dato di fatto, è per noi vitale come l'iniziazione al-l'arte della spiegazione e dell'espressione.

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È importante per le nostre vite spiegare le esperienze; ma è altrettanto importante per noi sapere che le esperienze spiegano le nostre esi-stenze.

Possiamo fare esperienza dei valori spirituali in atti di amore e di compassione, in gesti voluti dal rito, nella ricerca della verità, in momenti di percezione del mistero della vita.

Ovviamente, i valori spirituali sono delicati, preziosi e intangibili. Non possono essere né misurati né descritti con chiarezza e precisione. E tuttavia gli atteggiamenti spirituali possono essere evocati e favoriti, la personalità può esse-re positivamente condizionata, la generosità e il rispetto reverenziale possono essere coltivati.

Noi cerchiamo di esprimere la realtà in ter-mini di cifre matematiche e di generalizzazioni concettuali. L'artista sa che il volto di una per-sona, ad esempio, rappresenta un'immagine la cui complessità e unicità non possono essere catturate dal linguaggio della scienza. Ciò che l'artista comunica nel linguaggio del colore, del-la plasticità, della luce, della forma, del suono, va oltre la capacità di generalizzazione e di con-cettualizzazione.

Il linguaggio dell'ebraismo è il linguaggio dei gesti concreti. Cerchiamo di esprimere con atti concreti ciò che non può essere catturato con le parole.

Nella tradizione ebraica è di estrema impor-tanza la centralità spirituale della parola.

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Le prospettive profonde e il potere spirituale di oltre trenta secoli non sono contenuti nel co-lore o nella forma plastica, ma nella parola. Tali depositi resteranno sotto chiave, i pensieri che essi contengono rimarranno al di fuori della no-stra portata, se non ci accostiamo a essi con l'a-nima e il cuore, con l'intelligenza e l'immagina-zione. Le grandi parole contenute nella Bibbia e nel Libro di preghiera sono gioielli che non devo-no essere barattati solo per la nostra incapacità di valutarli adeguatamente. Le parole sono ri-cettacoli dello spirito. Solo dopo che abbiamo acceso la luce nelle parole siamo in grado di guardare ai tesori che esse contengono. Solo do-po che siamo penetrati dentro a una parola di-ventiamo consapevoli delle ricchezze contenute nelle nostre anime.

La filosofia dell'educazione dell'uomo è de-terminata dalla filosofia della natura dell'uomo. La filosofia dell'educazione oggi prevalente par-te dal presupposto che l'uomo e il suo desti-no debbono essere pensati in termini di interessi e bisogni. Personalmente sostengo che se conti-nuiamo a nutrire tale prospettiva, l'educazione è destinata a fallire.

Questa posizione è un aspetto di un modo di pensare che tende ad appiattire le cose. Trattia-mo gli essere umani come se non avessero pro-fondità, come se il mondo avesse solo due di-mensioni. Abbiamo sviluppato un senso delle potenzialità insite nel mondo, abbiamo svilup-

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pato un senso delia sua bellezza; sappiamo come usare le energie della materia, sappiamo che l'u-niverso non è qui per noi; non esiste per com-piacere il nostro io. In pratica però ci compor-tiamo come se lo scopo dell'universo fosse di soddisfare i nostri interessi e bisogni.

Ma una vita senza esigenze poste alla mente, al cuore, al corpo e all'anima, una vita senza il continuo sforzo intellettuale, non fa che espri-mere la rovina della cultura. Non dobbiamo re-stare fattorini delle mode di ieri; non è nostro compito imbalsamare cliché conclamati e ricor-renti.

Un'adeguata filosofia dell'educazione deve cercare di capirne gli obiettivi sia in termini di mete che in termini di bisogni, sia in termini di valori che in termini di interessi e desideri. La nostra tradizione insiste sul fatto che non dob-biamo né resistere a priori ai desideri né svilirli. Ben lungi dall'opporsi ai bisogni legittimi, essa considera i bisogni legittimi come opportunità spirituali. Cerca di insegnarci non solo a soddi-sfare i desideri, ma anche ad andare oltre a essi. L'errore o l'idolatria consistono nell'idolatrare i bisogni, nel trasformare le necessità in fini. Co-me ho avuto modo di dire altrove, l'obiettivo è di trasformare i fini in bisogni. Sviluppare il biso-gno di ciò di cui potremmo anche non sentire il bisogno, desiderare quello che è comandato.

Soddisfare un bisogno fa parte del normale e ritmico comportarsi della psiche, servire a un

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obiettivo, soddisfare una mizwà, è una conqui-sta. In ogni caso, l'obiettivo resta quello di inte-grare il fine nella struttura psicologica dei biso-gni, se si vuole che l'azione generi motivazione.

I fini ultimi, così come sono visti dalla nostra tradizione, sono valori atemporali, realtà meta-fisiche, valori assoluti consolidati. I fini ultimi sono mizwot, esigenze.

Tutti i bisogni sono unilaterali. Quando siamo affamati abbiamo bisogno di cibo, ma il cibo non ha bisogno di essere consumato. Le cose belle attirano le nostre menti, sentiamo il biso-gno di percepirle, ma esse non sentono il biso-gno di percepire noi. In questa unilateralità si trova imprigionata la maggior parte della nostra esistenza. Provate ad analizzare la mente di una persona normale e troverete che essa è dominata dallo sforzo di ritagliare la realtà a misura del-l'io, come se il mondo esistesse allo scopo di soddisfare l'io di una persona. La religione ini-zia con la certezza che a noi è richiesto qualco-sa, che ci sono obiettivi che hanno bisogno di noi. Diversamente da altri valori, i fini morali e religiosi suscitano in noi un senso di obbligo. Si presentano come compiti piuttosto che come oggetti di percezione. Così l'esistenza religiosa consiste nel servire fini o "valori" che hanno bi-sogno di noi.

Per generazioni i filosofi si sono confrontati con il problema dei valori. Nel nostro tempo è stata raggiunta la conclusione che non siamo in

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grado di formulare in linguaggio corretto la que-stione: "Che cos'è un valore?".

Quelli tra di noi che pensano all'esistenza umana nella prospettiva della tradizione biblica staranno attenti a non separare il concetto dei valori dal concetto delle azioni. I valori presi in se stessi sono atemporali, disincarnati, staccati sia da Dio che dall'uomo. Tuttavia i valori non vagano nel vuoto. Possono essere pensati soltan-to in termini di qualcosa che accade o che si sta facendo, che si sta mettendo in pratica; non so-no oggetto della riflessione, ma sfida alla quale dobbiamo rispondere.

Non c'è mai stato un tempo in cui il bisogno di esprimere se stessi sia stato tanto sottolinea-to. D'altro canto non c'è mai stato un tempo in cui la capacità di esprimersi sia stata rara co-me oggi. Se l'autoespressione è l'obiettivo uni-co, esso non sarà mai raggiunto. L'io ci guada-gna perdendosi nella contemplazione della real-tà al di fuori di lui, nella contemplazione del mondo, ad esempio. L'autoespressione dipende dall'attaccamento dell'io a quanto è più grande di lui.

Senza una serena preparazione interiore non c'è né libertà né autentica espressione di sé. Dobbiamo coltivare momenti di silenzio se vo-gliamo produrre anche solo un momento di espressione genuina. Dobbiamo portare molti pesi per aver la forza di realizzare anche un solo atto di libertà.

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Qual è l'ideale della formazione religiosa? Uno dei suoi obiettivi è fornire norme, scopo, significato, orientamento e profondità a quello che potrebbe essere considerato uno degli ideali dell'educazione in generale: lo sviluppo ottima-le dell'individuo.

Questo ideale del massimo sviluppo possibi-le dell'individuo va posto entro il contesto dei valori religiosi. L'individuo non è visto isolata-mente bensì in rapporto a Dio ed è soggetto alle norme che tale rapporto implica.

E nostra convinzione che come è importante per una persona scegliere un obiettivo partico-lare per la sua esistenza, quale può essere la rea-lizzazione professionale, così è importante per lei vivere nella consapevolezza di un significato che trascende tutti gli obiettivi particolari, la fedeltà al quale in definitiva è ancor più rilevan-te che non il successo o il fallimento nel perse-guire questo obiettivo particolare.

Considerare l'ideale dello sviluppo della per-sonalità come il fine esclusivo dell'educazione è da un lato una semplificazione eccessiva e dal-l'altro una distorsione. Ogni individuo ha più personalità, come ha fatto notare William James.

L'individuo è figlio nel rapporto con sua ma-dre, studente nel rapporto con il suo insegnan-te, amante nel rapporto con la moglie, impiega-to con il suo datore di lavoro, ed è capo per colo-ro che lavorano per lui. Resta il problema se lo sviluppo pieno della personalità sia auspicabile

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o possibile. Ci possono essere aspetti della per-sonalità di un individuo che non meritano di es-sere sviluppati pienamente.

Come uno degli obiettivi principali dell'a(j. destramente scientifico e professionale è di ga-rantire il controllo sulla natura e fornire una competenza adeguata nella professione, così uno degli obiettivi principali dell'iniziazione religio-sa è di inculcare l'importanza dell'autocontrollo e di far capire la portata del fatto che ciascuno ha una sua vocazione personale.

Aiutare il singolo a soddisfare le esigenze e gli impulsi dello sviluppo personale vuol dire ope-rare secondo la legge della vita. Ma tale aiuto non può essere dato alla cieca. Occorrerà piutto-sto tenere in massima considerazione un orien-tamento di fondo e un senso superiore.

Il significato di una persona è irrilevante se non è rapportato a un significato transpersonale. Così l'educazione religiosa presume che vi sia-no altri obiettivi oltre a quello dello sviluppo dell'individuo, alcuni dei quali sono personali mentre altri vanno al di là dell'esistenza della persona.

L'educazione religiosa deve riconoscere la dialettica delle situazioni umane concrete, p r e . stare attenzione sia all'individuo che al popolo sia alla disciplina che alla spontaneità, sia ai principi che agli esempi concreti, sia all'interio-rità che alla realtà esterna, sia agli ideali che agli accadimenti.

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Non c'è conoscenza senza rispetto reveren-ziale. Non c'è comprensione senza amore. Pen-sata senza un interesse, un'idea che non passa attraverso la verifica della vita resta una mezza verità.

La verità è coltivare la pietà intellettuale ol-tre che l'osservanza rituale, la quiete insieme al-la disciplina, l'importanza della pazienza come modalità di ascolto, il rifiuto della compiacenza e della presunzione, la necessità vitale della cre-scita interiore, la costruzione di responsabilità, il coinvolgimento attivo nell'aiutare il prossimo, il senso di autenticità.

Nutro seri dubbi che ciascuno di noi soffra del complesso di Edipo. Sono portato piuttosto a credere che molti di noi siano afflitti da un com-plesso di Abramo. Di Abramo il Signore dice: "Io l'ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore facendo ciò che è giusto e retto" (Gen 18,19).

E e resta nostra responsabilità mantenere vi-vo nei nostri figli il complesso di Abramo. Te-mere che manchiamo di sensibilità di fronte alla situazione di una persona povera - e ogni perso-na umana è povera - è il banco di prova più im-portante per capire se abbiamo il timore di Dio. Il rispetto reverenziale per Dio implica un ri-spetto reverenziale per l'uomo.

Stiamo attraversando una delle grandi ore della storia. I falsi dèi stanno sgretolandosi e i

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cuori sono affamati della voce di Dio. Ma la vo-ce è stata soffocata. Per ricatturarne l'eco dob-biamo essere onesti nella nostra disponibilità ad ascoltare, liberi da pregiudizi nella nostra pron-tezza a capire.

La fede nella consapevolezza di essere coin-volti nel mistero di Dio e dell'uomo non è la stessa cosa dell'accettazione di formulazioni de-finitive di articoli del credo. Anche colui che si sforza semplicemente di raggiungere la fede nel Dio vivente è sulla soglia di essa. Il banco di prova è l'onestà e la quiete.

Il nostro errore consiste nel non riuscire a ca-pire che il credo senza la fede è come un corpo senza cuore. Come la fede può diventare cieca, crudele e feroce, così il credo può diventare gretto, sterile e sordo. Lasciatemi insistere nel dire che l'allontanamento dal credo non signifi-ca necessariamente la perdita della fede.

La fede ebraica, ripeto, non è una formula. E un atteggiamento interiore, la gioia di vivere una vita alla quale Dio è cointeressato, di essere coinvolti in Dio. Tale fede non è una conquista facile, e non è nemmeno una conquista certa. Né è un atteggiamento che si acquisisce una volta per tutte. Basta un momento per generare un gesto di fiducia in un idolo. Occorrono anni e anni per raggiungere l'attaccamento a Dio. Occorre sforzo, vitalità, tensione, preparazio-ne. Tale attaccamento cresce nella consapevolez-za del mistero, nella preghiera, in azioni che tra-

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scendono i bisogno egoistici. Cresce lungo tutta l'esistenza per esplodere in momenti singoli. La fede implica la lotta per la fede. Non è mai una meta raggiunta; è un essere continuamente in cammino, è lo sforzo dell'uomo per uscire dalla propria insensibilità. La fede s'accompagna alla scoperta di essere necessari, di avere una voca-zione, di essere richiesti.

La fede non nasce alla maniera di una succes-sione di ragionamenti che ubbidiscono alla logi-ca: primo l'idea di Dio; secondo la proposizione che egli è; e terzo l'assenso a tale proposizione. Né è vero che dobbiamo risolvere tutti i nostri dubbi prima di poter conseguire la fede. Abra-mo, Mosè, i profeti, lo scriba Esdra, lo stesso Giobbe, si sono trovati ad affrontare perplessità implacabili. La fede inizia dal senso di sconcer-to, nell'essere sopraffatti, nell'essere tacitati.

Ecco quello che dobbiamo fare: scavare a fati-ca momenti di intellezione nelle tenebrose cata-combe della routine quotidiana.

Chi cerca Dio perché s'adatti alla sua astuzia, perché plachi la sua vanità, perché soddisfi le sue curiosità, alla fine troverà un fantasma pro-dotto dalla sua immaginazione. Chi esce a cer-care Dio su un ponte di dimostrazioni astratte, arriverà a un castello costruito nell'aria. Solo un ponte fatto di vita, di gesti di compassione, di momenti di stupore, di momenti di rispetto re-verenziale, ci condurrà a una comprensione di che cosa ha da dire la fede.

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Il grande problema nella vita dell'uomo è se confidare in Dio, se avere fiducia in lui. Il gran-de problema della vita di Dio è se confidare nel-l'uomo, se avere fiducia in lui.

La questione centrale non è la decisione del-l'uomo di esprimere un riconoscimento formale dell'esistenza di Dio, ma la comprensione della nostra importanza nel disegno di Dio; non pro-vare che Dio esiste, ma provare che l'uomo non è morto; non mettere alla prova Dio, ma mette-re alla prova noi stessi.

Lo scopo della fede non è di soddisfare la cu-riosità o riempire un vuoto umano, ma di con-frontare l'uomo con una sfida sublime, quella di gratificare un bisogno divino.

Che cosa ci renderà degni della fede? Che cosa ci darà la forza di pregare? Ecco come ini-zia la religione di Abramo: "Il Signore disse ad Abram: 'Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò'" (Gen 12 , 1 ) . La religione inizia con un gesto di rottura, con una partenza. E prose-gue in scelte di non conformità all'idolatria.

C'è un altro aspetto della fede ebraica. L'e-breo non crede da solo. Crede con la comunità di Israele. Condivide una prospettiva di tremila anni di storia santa ebraica. La vita religiosa non è solo una faccenda privata. La nostra vita è un movimento nella sinfonia delle epoche. Ci vie-ne insegnato a pregare e anche a vivere alla pri-ma persona plurale, a fare il bene "nel nome di

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tutto Israele". Tutte le generazioni sono presen-ti in ciascuna generazione. Ogni ebreo, ciascun ebreo singolo, può sopravvivere soltanto grazie a un attaccamento intenso alla comunità, che im-plica il coinvolgimento nella sua vita.

Si potrebbe e dovrebbe fare qualcosa di fon-damentale per lo sviluppo della sensibilità spi-rituale. Vi sono determinati prerequisiti dell'e-sistenza spirituale, determinate prospettive, at-teggiamenti ed emozioni, dalle quali l'esistenza spirituale dipende e che sono contrassegni tipici della dignità umana.

Semplificando si potrebbe dire che gli obiet-tivi dell'educazione religiosa ebraica sono due: l'apprendimento e la sensibilità. Chi è privo di sensibilità è incapace di negazione di sé; chi non sa dedicarsi all'apprendimento è incapace di pietà.

La fede non nasce dal nulla. Vi sono elementi che precedono l'impegno religioso, atti che ac-cadono nelle profondità della persona, momenti che sospingono a cercare la fede a tastoni: il sen-so del miracolo e del mistero, del rispetto sacro e dello stupore radicale, la fallacia della con-venienza elevata a criterio assoluto, la natura demoniaca dell'idea errata di sovranità nutrita dall'uomo, l'apertura alla storia, l'interesse per il significato ultimo dell'esistenza, l'importanza vitale dell'interiorità, la consapevolezza del fat-to che alla fine l'uomo deve rendere conto di sé dinanzi a Dio.

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Qual è l'aspetto religioso dell'educazione reli-giosa? Lo spirito con cui la parola viene insegna-ta, la consapevolezza dell'imparare come atto con cui si plasma la mente a immagine della pa-rola di Dio.

Lasciatemi concludere con un racconto ripor-tato in un libro ebraico del xv i i i secolo. C'era un giovane che voleva diventare fabbro. Si fece apprendista di un fabbro e imparò tutte le tecni-che del mestiere: come impugnare le tenaglie, come sollevare la mazza, come battere sull'incu-dine, come ravvivare il fuoco con il mantice. Terminato il periodo di apprendistato, fu chia-mato a lavorare in una fucina del palazzo rea-le. Ma la soddisfazione del giovane finì presto quando si accorse che non era riuscito ad impa-rare come far scoccare la scintilla. Tutte le sue capacità e abilità nel maneggiare gli strumenti non gli furono di alcun giovamento.

Personalmente, non di rado provo confusione nel vedere che - proprio come quell'apprendi-sta - conosco i fatti e conosco le tecniche, ma non ho imparato a far scoccare la scintilla. Con-cludo perciò esprimendo l'auspicio che ciascuno di voi, che lavorate nella fucina reale dell'edu-cazione ebraica, sia in grado di far scoccare la scintilla.

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LA P R E G H I E R A C O M E DISCIPLINA

L'universo sarebbe un inferno se Dio non se ne prendesse cura. Non c'è eco nel mondo del-l'agonia e del pianto dell'umanità. Dio soltanto è lì che ascolta.

Considerate la sproporzione tra miseria e com-passione. La profondità dell'angoscia è abissale, i suoi percorsi sono un vero labirinto, e la nostra capacità di capirla potrebbe essere confrontata con la capacità di rilevamento di una farfalla che vola sopra il Grand Canyon. La durezza insensi-bile, lo spaventoso rapporto di incongruenza fra esistenza e reazione, sono indizi del macrosco-pico fallimento dell'uomo. Per il peccato che ab-biamo commesso non rendendoci conto di quan-to pecchiamo, noi imploriamo misericordia. Buio è il mondo per me, nonostante tutte le sue cit-tà e stelle. Se non ci fosse la certezza che Dio ascolta il nostro pianto, chi potrebbe resistere a tanta miseria, a così grande insensibilità?

Il mistero e la grandezza della premura del Dio infinito per l'uomo finito è la prospettiva fondamentale della tradizione biblica. Questo

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mistero è accresciuto dall'aspetto dell'immedia-tezza. Dio è premuroso direttamente. Non s'in-teressa tramite agenti intermedi. Egli si prende cura personalmente.

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La preghiera è più di un'implorazione della misericordia di Dio. E più di un'improvvisazio-ne spirituale. La preghiera è la condensazione dell'anima. E tutta l'anima in un solo momento, la quintessenza di tutti i nostri atti, il punto cul-minante di tutti i nostri pensieri. Perché la pre-ghiera possa vivere nell'uomo, l'uomo deve vi-vere nella preghiera. In un certo senso la pre-ghiera è componente di una situazione più am-pia. Essa dipende dalla condizione morale e spi-rituale dell'uomo nel suo insieme, dipende dalla mente entro la quale Dio è di casa. Ovviamen-te, ci sono esistenze che sono troppo aride in ra-dice per produrre un'idea della presenza di Dio. Se tutti i pensieri e le ansietà di persone siffat-te non contengono sufficiente sostanza spiritua-le da distillare in preghiera, una trasformazione interiore s'impone con urgenza estrema.

L'unico modo in cui possiamo trattare della preghiera è sulla base dell'autoriflessione, è cer-care di descrivere che cosa ci è capitato nei rari e preziosi momenti di preghiera. La difficoltà dell'autoriflessione consiste nel fatto che a noi è possibile soltanto un recupero nella memoria.

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Ovviamente, non è possibile analizzare l'atto della preghiera mentre si sta pregando. Adora-re Dio significa dimenticare se stessi, un atto estremamente difficile, per quanto non impossi-bile. Quello che avviene in un momento di pre-ghiera può essere descritto come lo spostamen-to del centro dell'esistenza: dalla coscienza di sé alla resa di sé. Ciò implica, credo, un'indi-cazione importante della natura dell'uomo. La preghiera inizia come un rapporto "esso-Egli". Non sono disposto ad accettare l'idea tradizio-nale della preghiera come dialogo. Chi siamo noi per entrare in dialogo con Dio? La metafo-ra migliore consisterebbe nel descrivere la pre-ghiera come un atto di immersione, confronta-bile con l'antica usanza ebraica dell'immersione completa di una persona nelle acque come mo-dalità di autopurificazione da ripetersi di quan-do in quando. L'immersione nelle acque! Ci si sente circondati, abbracciati dalle acque, spro-fondati nelle acque della misericordia. Nella preghiera "l 'io" diventa "esso". E questa la sco-perta: quello che per me è un "io", anzitutto ed essenzialmente, per Dio è un "esso". Se è la mi-sericordia di Dio che conferisce eternità a quel briciolo di essere che siamo soliti descrivere co-me un io, allora la preghiera incomincia come un momento in cui viviamo come un "esso" alla presenza di Dio. Quanto più intensa è la prossi-mità a Dio, tanto più ovvia diventa l'assurdità dell'"io". L ' " io" è polvere e cenere. "Io sono

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polvere e cenere", dice Abramo. Dopo prosegue in dialogo con Dio a discutere con lui sulla sal-vezza delle città di Sodoma e Gomorra. In qua-le modo Mosè, al roveto ardente, risponde al-l'invito a recarsi dal popolo di Israele per por-targli il messaggio della redenzione? "Chi sono 10 per andare dal faraone e portare i figli d'I-sraele fuori dall'Egitto?". Solo Dio dice "Io". Così iniziano i dieci comandamenti: "Io sono il Signore".

La preghiera è il momento in cui l'umiltà di-venta realtà. L'umiltà non è una virtù. L'umiltà è verità. Tutto il resto è illusione. In altre paro-le, non è come "io" che noi accostiamo Dio, ma piuttosto comprendendo che c'è un solo "Io". E 11 nostro essere preziosi per lui che ci separa dal-l'essere semplicemente un prodotto secondario e accidentale del processo cosmico. Ecco perché nella liturgia ebraica il primato è riservato alla preghiera di lode. Non si deve mai incomincia-re con la supplica. S'inizia con la lode, perché la lode è il prerequisito e l'essenza della preghie-ra. Lodare vuol dire rendere Lui presente, ren-dere presente non soltanto la sua potenza e il suo splendore, ma anche la sua misericordia. La sua misericordia e la sua potenza sono una sola cosa.

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In quale modo si diventa una persona, un "io"? Diventando un pensiero di Dio. Si vive sulla terra come uno dei tanti esseri umani, ma anche come un oggetto personale della premura divina. Questa scoperta è la ricompensa della preghiera. Capirlo vuol dire trovare la spinta de-terminante alla pietà. E questo l'obiettivo del-l'uomo pio: diventare degno di essere ricordato da Dio.

L'obiettivo della preghiera è di essere portati all'attenzione di Dio: essere da lui ascoltati, es-sere da lui compresi. In altre parole il vero com-pito dell'uomo non è di conoscere Dio, ma di essere da lui conosciuto. Qui sta il significato dell'esistenza vissuta secondo la disciplina reli-giosa: rendere la nostra vita degna di essere co-nosciuta da Dio. Può darsi che non sia questa l'essenza della grazia, ma è la porta attraverso la quale si arriva alla grazia.

Siamo degni di entrare nella sua misericordia, di essere oggetto del suo interesse? La risposta è data nella preghiera. La preghiera è l'afferma-zione della preziosità dell'uomo. La preghiera può non salvarci, ma ci rende degni di essere salvati.

Non c'è miseria umana più profondamente sofferta della condizione di essere abbandonati da Dio. Nulla è più spaventevole del sentirsi ri-fiutati da lui. La reiezione, l'essere abbandona-ti, il vivere una vita disertata da Dio, è possibi-le. Ma è il timore di essere dimenticati a costi-

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tuire per la persona un indizio potente che è giunto il momento di entrare nella preghiera, di portare se stessa all'attenzione di Dio. Nella preghiera possiamo imparare che è meglio essere colpiti dalla sua punizione che essere abbando-nati a noi stessi. Forse la preghiera nel suo insie-me può essere sintetizzata in questa espressione: "Signore, non abbandonarmi".

La preghiera non è semplice riflessione. Nel-la riflessione Dio è oggetto. Per la persona che prega Dio è il soggetto. Quando ci risvegliamo alla presenza di Dio non cerchiamo di acquisire una conoscenza oggettiva, bensì di approfondi-re una reciproca fedeltà. In simili momenti ciò che desideriamo ardentemente non è di cono-scere lui ma di essere conosciuti da lui; non di formulare giudizi su di lui ma di essere giudica-ti da lui; non di fare del mondo un oggetto del-la nostra mente, bensì di accrescere la sua co-noscenza, piuttosto che la nostra. Ci impegnia-mo a dischiudere noi stessi al Sostentatore di tutto, piuttosto che a rinchiudere il mondo in noi stessi.

Per dischiudere l'io dobbiamo imparare a liberarci del guscio dell'ambizione, della vani-tà, dell'infatuazione per il successo. Siamo tut-ti molto poveri, molto nudi, e piuttosto assur-di nella nostra miseria e nel nostro successo. Siamo di fatto dei viventi sempre in punto di morte. Nell'ottica della temporalità, siamo tut-ti morti eccetto per un istante. Un solo ponte

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è stato gettato sull'abisso della disperazione, la preghiera.

La presenza di Dio è assenza di disperazione. Nella quiete in cui avvertiamo la sua presenza la miseria si trasforma in gioia, la disperazio-ne in preghiera. Ripeto, la preghiera è più di un grido d'angoscia. E piuttosto un momento di percezione della sua misericordia. Lasciatemi chiarire che cosa intendo dire. Un atto di sup-plica è espressione di ciò di cui abbiamo bi-sogno sul momento. Una persona può insistere a riflettere profondamente e con emozione in-tensa sulle proprie necessità, sul bisogno del momento. Questa non è ancora preghiera. Non basta aggiungere "nel Nome di Dio" per tra-sformare un tale atteggiamento interiore in pre-ghiera. A costituire la preghiera è il grido d'an-goscia che diventa percezione della misericordia di Dio. E il momento di una persona angosciata che dimentica la propria angoscia e pensa a Dio e alla sua misericordia. Questa è preghiera. Non la riflessione su di sé, ma l'orientazione di tutta la persona a Dio. Si tratta di una situazione dif-ficile ma non impossibile. Può durare un mo-mento ma è l'essenza di una vita intera.

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Come s'è detto, la vera motivazione della pre-ghiera non è la sensazione di trovarsi come a ca-sa propria nell'universo, ma piuttosto la sensa-

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zione di non trovarsi a proprio agio nell'univer-so. Esiste un cuore sensibile che possa restare indifferente e sentirsi a proprio agio alla vista di tanto male e di tanta sofferenza, di fronte alle innumerevoli incapacità di vivere secondo la vo-lontà di Dio? Al contrario, è l'esperienza di non sentirsi a casa propria nel mondo la motivazio-ne della preghiera. Questa esperienza acquista intensità nella stupefatta consapevolezza che nemmeno Dio si sente a proprio agio nell'uni-verso. Non è a suo agio nell'universo dove la sua volontà è contrastata e dove la sua sovranità è negata. Dio è in esilio. Il mondo è corrotto. Lo stesso universo non è a posto. Pregare significa riportare Dio nel mondo, stabilire la sua sovra-nità almeno per un istante. Pregare significa estendere la sua presenza. Nel momento più importante della liturgia ebraica gridiamo dalla profondità delle nostre anime sconcertate una preghiera di redenzione: "Signore, nostro Dio, infondi il timore di te in tutti coloro che hai fat-to, il tremore alla tua presenza in coloro che hai creato, affinché tutte le tue opere possano ado-rare te, e tutti costituiscano una cosa sola per compiere la tua volontà di tutto cuore". Adorare significa perciò rendere Dio immanente, render-lo presente. Il suo essere immanente nel mondo dipende da noi. Quando diciamo "Sia egli be-nedetto", noi estendiamo la sua gloria, noi di-stendiamo il suo spirito sul mondo. In altre parole, alla base di tutto questo non c'è l'espe-

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rienza mistica del nostro essere vicini a lui, ben-sì la certezza del suo essere vicino a noi e della necessità che egli s'avvicini ancor più a noi.

Lasciate che vi metta in guardia dal rischio di equiparare la preghiera all'emozione. L'emozio-ne è una componente importante della preghie-ra, ma il presupposto primario è la convinzione. Se manca la convinzione, se la presenza di Dio è solo fantasia, allora la preghiera a Dio è un inganno. Se pensiamo che Dio sia incapace di ascoltarci, siamo dei dementi a cercare di parlar-gli. Tutto questo presuppone convinzione. La fonte della preghiera dunque è la comprensione profonda, non l'emozione. E la comprensione profonda del mistero della realtà. A renderci in grado di pregare è, anzitutto, il senso dell'inef-fabile. Finché rifiutiamo di prendere atto di ciò che è al di là della nostra capacità di vedere, al di là della nostra ragione, finché siamo ciechi dinanzi al mistero dell'essere, per noi la via alla preghiera resta sbarrata. Se il sorgere del sole non è che una quotidiana routine della natura, non c'è motivo per noi di esaltare il Signore per il sole e per la vita che viviamo. La via della pre-ghiera ci conduce ad atti di meraviglia e di stu-pore radicale. L'illusione dell'intelligibilità tota-le, l'indifferenza al mistero che ci circonda, la pazzia di chi alla fin fine si fida solo di^se stesso, sono ostacoli seri lungo questa via. E nel mo-mento in cui siamo confrontati col mistero della vita e della morte, della conoscenza e della non

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conoscenza, dell'amore e dell'incapacità di ama-re, che noi preghiamo, che ci rivolgiamo a Colui che è al di là del mistero.

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Vorrei menzionare infine un problema impor-tante al quale, ritengo, non è stata prestata suf-ficiente attenzione. E il problema del rapporto tra parole e preghiera. Uno dei sintomi più evi-denti della crisi generale che domina oggi nel nostro mondo è la nostra mancanza di sensibili-tà alle parole. Noi usiamo le parole come giocat-toli. Dimentichiamo che le parole sono ricetta-colo dello spirito. La tragedia dei nostri tempi è che i vasi contenitori dello spirito sono infranti. Non possiamo accostare lo spirito se non ripa-riamo i contenitori.

Il rispetto reverenziale per le parole - la con-sapevolezza del miracolo delle parole, del miste-ro delle parole - è un prerequisito essenziale per la preghiera. Il mondo è creato tramite la parola di Dio. Senza sensibilità alle parole non ci può essere rapporto con la Bibbia e nessuna preghie-ra che si ponga nella tradizione della Bibbia. Abbiamo perso il rispetto reverenziale per le pa-role. Abbiamo scherzato col Nome di Dio. Ab-biamo preso alla leggera i suoi comandamenti. La purificazione del linguaggio resta perciò uno dei compiti principali della disciplina teologica. Essa deve iniziare con il sottolineare fortemente

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la sensibilità alle parole e porsi l'obiettivo di santificare il discorso umano.

Perché la preghiera si realizzi occorrono due cose: la persona e la parola. La preghiera implica il rapporto fra queste due realtà. Ma noi abbia-mo smarrito tale rapporto. Essendo coinvolti in numerosi rapporti, il nostro rapporto con la pa-rola è diventato totalmente oscuro. Non pensia-mo alle parole, benché poche cose siano così im-portanti nella vita dello spirito come il giusto rapporto con le parole. Le parole sono diventate cliché, oggetti di abuso totale. Hanno cessato di essere impegni. Dimentichiamo che molti dei nostri rapporti morali sono basati sul senso della sacralità di determinate parole. E vero che la preghiera è un'azione che si compie non soltan-to per mezzo delle parole. Esiste anche una for-ma di preghiera che va oltre l'espressione verba-le. Ma si tratta di una forma rara. Per lo più la preghiera vive di parole, e l'atto di culto si rea-lizza nel rapporto con la parola della preghiera, nella lotta con l'anima delle parole. Dobbiamo imparare ad affrontare la grandezza delle parole, e il fatto è che è molto difficile vivere all'altezza di una grande parola. Dobbiamo imparare a sta-bilire il giusto rapporto tra il cuore e la parola che stiamo per pronunciare.

Le parole della preghiera sono un'isola in que-sto mondo. Ogni volta che arriviamo alla spiag-gia, ci troviamo ad affrontare gli stessi rischi, la stessa emozione, la stessa tensione e lo stesso

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pericolo. Ogni volta l'isola dev'essere conqui-stata come se non l'avessimo mai raggiunta pri-ma, come se fossimo stranieri per lo spirito. La riva è frastagliata. Di fronte a pronunciamenti maestosi ci mettiamo in guardia, cercando una parola familiare alla quale le nostre anime possa-no aggrapparsi con presa sicura. Le parole alle quali ci troviamo di fronte sono elevate, e quel-le umili sono nascoste, per noi irraggiungibili. Non dobbiamo barcollare, dobbiamo imparare a camminare carponi se non sappiamo avanzare a grandi passi. La preghiera non si esaurisce in un istante, né si muove su una superficie piana. Procede attraverso profondità e altezze, lungo deviazioni e vie secondarie. Avanza gradual-mente da parola a parola, da pensiero a pensie-ro, da sentimento a sentimento. E una volta giunti, troviamo, a un livello in cui le parole so-no tesori, che i significati sono nascosti, anco-ra da scoprire. Prospettive contenute, emozioni sopite, la voce repressa di una conoscenza più profonda fa irruzione nella mente.

Parlare di preghiera in effetti è presuntuoso. Non ci sono espedienti, non esistono tecniche. Non esiste una forma di specializzazione della preghiera. La vita intera dev'essere allenamento alla preghiera. Preghiamo nel modo in cui vivia-mo. La preghiera dipende non solo da noi, ma anche dalla volontà e dalla grazia di Dio. A vol-te ci troviamo di fronte a un muro, un muro

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molto alto. Non siamo in grado di scalarlo. E

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difficile passare oltre, ma anche battere il capo contro il muro ha molto senso. In ultima analisi, c'è un solo modo di acquisire la certezza della realtà di qualsivoglia realtà, e questo è battere la testa contro il muro. Allora scopriamo che c'è qualcosa di reale al di fuori della mente.

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LA V O C A Z I O N E D E L C A N T O R E

Che cosa cerca la persona che mette piede nella sinagoga? Chi desidera apprendere cose nuove va in biblioteca; chi vuole arricchirsi sul piano estetico visita i musei d'arte; chi ama ascoltare musica frequenta i concerti. Qual è il motivo per cui uno si reca nella sinagoga? Sono molti gli strumenti che ci aiutano ad acquisire le virtù, le capacità e le tecniche importanti per il mondo. Ma perché dovremmo informarci sulle prospettive dello spirito? Sono molte le oppor-tunità di discorso pubblico;v dove sono le occa-sioni di silenzio interiore? E facile trovare per-sone disposte a insegnarci come diventare elo-quenti; ma chi ci educa al silenzio? Certamente è importante sviluppare il senso dell'umorismo; ma non è forse altrettanto importante avere il senso del rispetto sacro? Dove si potrà mai im-parare la perenne sapienza della compassione? La paura di essere crudeli? Il pericolo di essere insensibili? Dove si potrà imparare che la virtù più grande sta nella contrizione? Per quanto sia importante e prezioso lo sviluppo delle nostre

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facoltà intellettuali, la coltivazione di una co-scienza sensibile è altrettanto indispensabile. Corriamo tutti il rischio di sprofondare nelle te-nebre della vanità. Siamo tutti coinvolti nell'a-dorazione del nostro io. Dove potremo diventa-re sensibili ai trabocchetti dell'intelligenza, o al-la comprensione del fatto che la convenienza non è il vertice della virtù?

Abbiamo un bisogno continuo di autopurifi-cazione. Abbiamo bisogno di fare esperienza di momenti nei quali la realtà spirituale è tanto ri-levante quanto quella concreta, ad esempio quan-to quella estetica. Ciascuno di noi ha il senso del bello. Tutti sono capaci di distinguere tra il bello e il brutto. Ma dobbiamo imparare anche a nutrire la sensibilità alle realtà dello spirito. E la sinagoga il posto in cui dobbiamo cercare di acquisire questa interiorità, questa sensibilità.

Per raggiungere un certo grado di certezza spirituale non possiamo contare sulle nostre ri-sorse soltanto. C'è bisogno di un'atmosfera in cui l'interesse per lo spirito sia condiviso da una comunità. Abbiamo bisogno di studenti e stu-diosi, di insegnanti e specialisti. Ma abbiamo bisogno anche della compagnia di testimoni, di essere umani impegnati nel culto, che per un momento avvertono la verità che la vita è insi-

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gnificante senza attaccamento a Dio. E compito del cantore creare la comunità liturgica, trasfor-mare una pluralità di individui che stanno pre-gando in comunità orante.

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Se riflette sulla sua esistenza religiosa, l'ebreo si renderà conto che alcuni dei massimi accadi-menti spirituali avvengono in momenti di pre-ghiera. Il culto è la fonte dell'esperienza religio-sa, della comprensione religiosa profonda, e reli-giosamente alcuni di noi vivono per quello che ci accade nelle ore che trascorriamo nella sina-goga. Nel passato queste ore sono state le sor-genti della comprensione spirituale, le fonti del-la fede. Tali fonti sono ancora zampillanti nel nostro tempo?

Mentre partecipavo a un servizio religioso, ho sentito per casovil commento di un'anziana signora all'amica: " E stata una cerimonia molto carina". Mi è venuto da piangere. E questo il significato della preghiera per noi? Dio è auste-ro. Non è mai "molto carino". Ma noi pensia-mo che sia possibile essere sdolcinati e pregare: "Servite il Signore con timore ed esultate in lui con tremore" (Sai 2 , 1 1 ) . La preghiera è gioia e timore, fiducia e tremore insieme.

Sono cresciuto in un edificio di culto dove lo spirituale era reale. Non c'era eleganza ma c'era contrizione. Non si godeva di grande benessere, ma si respirava l'atmosfera delle grandi aspira-zioni. Era un luogo in cui vedendo un ebreo sentivo cos'era l'ebraismo. Qualcosa accadeva alle persone che entravano nel luogo santo. Oggi ogni volta che mi reco alla sinagoga la mia spe-ranza è di gustare un pizzico di tale atmosfera. Ma che cosa trovo nella sinagoga attuale? Siamo

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tutti d'accordo sull'importanza della preghiera. I cantori dedicano le loro esistenze all'arte di guidare il nostro popolo nella preghiera. In ve-rità, fra tutti i nostri atti religiosi, la preghiera è quello più ampiamente eseguito. Ogni set-te giorni centinaia di migliaia di ebrei si recano nella sinagoga. Ma che cosa accade nella mag-gior parte dei nostri incontri religiosi?

Occorre rendersi conto delle difficoltà che deve affrontare il cantore. Spesso l'invito alla preghiera finisce contro un muro di ferro. Non sempre l'assemblea è disponibile e pronta al ge-sto cultuale. Il cantore deve perforare l'armatura dell'indifferenza. Deve lottare per ottenere una risposta. Deve conquistare i presenti in modo da poter parlare loro. Spesso dev'essere prima co-lui che sveglia i sonnacchiosi, per poter dire di fungere da sheliach zibbur. E tuttavia non dob-biamo dimenticare che nelle anime del nostro popolo è custodita l'eredità di una spirituale disponibilità a rispondere. E vero peraltro che questa disponibilità a rispondere può essere fru-strata dall'assenza di nuova ispirazione, proprio come il fuoco si spegne per mancanza di combu-stibile.

La tragedia della sinagoga sta nella sperso-nalizzazione della preghiera. La chazzanut è di-ventata un'attività da specialista, un'esecuzione tecnica, un affare impersonale. Di conseguenza i suoni che escono dal chazzan non suscitano alcuna partecipazione. Arrivano alle orecchie,

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non toccano i cuori. Il termine ebraico giusto per cantore è ba'al tefillà, maestro di preghiera. Il compito del cantore è di guidare alla preghie-ra. Egli non sta dinanzi all'arca come un artista isolato. Sta davanti all'arca non come individuo, bensì con l'assemblea. Deve identificarsi con l'assemblea. Il suo compito è di rappresentare la comunità e allo stesso tempo di ispirarla. Nella sinagoga la musica non è fine a se stessa, ma strumento di esperienza religiosa. La funzione della musica è di aiutarci a vivere con intensità il momento del confronto con la presenza di Dio, ad aprirci a lui nella lode, nell'esame criti-co di noi stessi, e nella speranza.

Ci siamo abituati a credere che il mondo è un vuoto spirituale, mentre i serafini proclamano che "tutta la terra è piena della sua gloria". Sol-tanto ai serafini è dato questo senso della gloria? "I cieli proclamano la gloria di Dio". In quale modo la proclamano? In quale modo la rivela-no? "Non c'è discorso, non ci sono parole, né si ode la loro voce". I cieli non hanno voce; la glo-ria non è udibile. E compito dell'uomo rivelare ciò che è nascosto, essere la voce della gloria, cantare il suo silenzio, formulare in parole, per così dire, quello che è nel cuore di tutte le cose. La gloria è qui, invisibile e silenziosa. La voce è l'uomo. Il suo compito è essere il canto. Il co-smo è un'assemblea che ha bisogno di un canto-re. Ogni settimo giorno noi proclamiamo come un dato di fatto:

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Tutti Ti ringraziano, tutti Ti lodano, tutti dicono: nessuno è santo come il Signore.

Quali orecchie hanno mai sentito gli alberi cantare in coro a Dio? La nostra mente ha mai pensato di invitare il sole a esaltare il Signore? Eppure, il canto che l'orecchio non è capace di cogliere, la melodia che la ragione non riesce ad avvertire, la nostra preghiera la fa comprendere alle nostre anime. E una verità superiore, da re-cepire con lo spirito: "Ti celebrino tutte le tue creature, Signore" (Sai 145,10).

Non siamo soli nei nostri gesti di lode. Là dove c'è vita, c'è un culto silenzioso. Il mondo è sempre sul punto di unirsi nell'adorazione. E l'uomo il cantore dell'universo e nella sua vita si dischiude il segreto della preghiera cosmica. Cantare vuol dire avvertire e affermare che lo spirito è reale e la sua gloria è presente. Cantan-do percepiamo quella realtà che altrimenti va ol-tre la nostra capacità di percezione. Il canto, e in particolare il canto liturgico, non è solo un at-to di espressione dell'animo umano; è anche un modo di far discendere lo spirito dal cielo sulla terra. Il valore numerico delle lettere che costi-tuiscono la parola shirà, canto, è uguale al valo-re numerico della parola tefillà, preghiera1. La

1 Rabbi Bachja ben Asher, Commento a Numeri 21,19.

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preghiera è canto. Cantate a lui, inneggiate a lui, meditate su tutte le sue meraviglie (cf. iCr 16,9), sul mistero che ci circonda. Lo stupore sfida ogni descrizione. Il mistero supera i limiti dell'espressione. L'unico linguaggio che sembra compatibile con la meraviglia e il mistero del-l'essere è il linguaggio della musica. La musica è più che semplice espressività. E piuttosto un protendersi verso un ambito che è irraggiungibi-le dalle parole. L'espressione verbale corre il ri-schio di essere presa alla lettera o di sostituirsi alla comprensione profonda. Le parole diventa-no slogan, gli slogan diventano idoli. La musica invece è contestazione del limite umano. La mu-sica è un antidoto contro forme sofisticate di idolatria.

Mentre altre forze nella società concertano tra loro per ottundere la nostra mente, la musica ci dona momenti nei quali la sensazione dell'i-neffabile è viva.

L'ascolto della grande musica è esperienza che scuote, che spinge l'anima all'incontro con un aspetto della realtà al quale la mente non può mai rapportarsi in maniera adeguata. Esperien-ze del genere minano la presunzione e l'auto-compiacimento e possono anche produrre un senso di contrizione e la disponibilità al penti-mento.

Non sono né un musicista né un esperto in musica. Ma l'esperienza sconvolgente della mu-sica è stata una sfida al mio riflettere sulle que-

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stioni ultime. Ho trascorso la vita a lavorare con i pensieri. E c'è un problema che non mi dà re-quie: questi pensieri raggiungono mai le altezze alle quali arriva la musica autentica?

E stato detto che al tempo in cui chi trasgre-diva la Legge portava il suo sacrifico di ripara-zione al Tempio santo di Gerusalemme, il sacer-dote lo guardava e penetrava in tutti i suoi pen-sieri. Se intuiva che quella persona non era an-cora sinceramente pentita, il sacerdote invitava i leviti a intonare un canto per indurre il peccato-re a teshuva.

La musica ci conduce sulla soglia del penti-mento, alla percezione insopportabile della no-stra vanità e fragilità e della terribile importan-za di Dio. Mi definirei una persona che è stata tormentata dalla musica, una persona che non si è mai ripresa dai colpi della musica. E tuttavia, la musica è un vaso che può contenere qualsiasi cosa. Può esprimere volgarità; può comunicare realtà sublimi. Può dar voce a vanità; può ispira-re umiltà. Può ingenerare rabbia furiosa, può accendere compassione. Può convogliare la stu-pidità e può esprimere magnificenza. Spesso dà espressione al supremo senso di riverenza nutri-to dall'uomo, ma non di rado formula motivi di arroganza spaventevole.

La musica del cantore è anzitutto musica al servizio della parola liturgica. Il suo nucleo cen-trale è il nussach, e la sua integrità dipende dal-la coltivazione del nussach. Altrove ho sostenu-

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to2 che una delle cause principali della deca-denza della preghiera nella sinagoga è la perdita del nussach, il venir meno del canto; e certamen-te il distacco della musica del cantore dal nussa-ch è stato estremamente nocivo. Pregare senza nussach significa perdere la partecipazione atti-va della comunità. Può darsi che le persone non sappiano pregare; ma sanno cantare. Il canto conduce alla preghiera. Quello che intendo per distacco della musica del cantore dalla parola li-turgica non è il canto senza parole, ma il cantare che contraddice le parole. Si tratta di una que-stione sia spirituale che tecnica. La voce del canto-re non deve né sostituirsi alle parole, né inter-pretare malamente lo spirito delle parole. Il can-tore che preferisce far bella mostra della propria voce anziché comunicare le parole e proporre con chiarezza lo spirito del testo, non accosterà l'as-semblea alla preghiera. "Sii umile di fronte alle parole", dovrebbe essere l'imperativo del cantore.

La musica è una seria pretendente a occupare il posto della religione nel cuore dell'uomo, e per molti la sala dei concerti è un sostituto della sinagoga. In verità la separazione della musica dalla parola può favorire una spiritualità senza impegno e rendere un servizio più alla musica da concerto che non all'arricchimento del culto sinagogale.

2 Vedi A. J . Heschel, L'uomo alla ricerca dì Dio, Qiqajon, Bose 1995, pp. 86-87 e 152-153-

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Il cantore che guarda alla santità dell'arca piut-tosto che alla curiosità dell'uomo sì renderà conto che Usuo uditorio è Dio. Imparerà a capire che il suo compito non è divertire, ma rappresentare il popolo di Israele. Sarà trasportato a vivere mo-menti nei quali dimenticherà il mondo, ignorerà l'assemblea e sarà sopraffatto dalla consapevo-lezza di Colui alla cui presenza egli si trova. L'assemblea allora presterà ascolto e avvertirà che il cantore non sta recitando, ma sta adoran-do Dio, che pregare non significa ascoltare un cantore, ma identificarsi con quanto viene pro-clamato in nome dell'assemblea.

Quando entro nella sinagoga, anzitutto abban-dono tutto quello che so e cerco di ricominciare da capo. A volte le parole sono aperte, altre vol-te sono come chiuse sotto chiave. Ma anche nel-la nostra incapacità di capire, la musica è uno spazio accogliente anche per i poveri di fede. E una realtà così lontana, eppure anche a noi è da-to percepirla. L'orgoglio inizia a svanire un poco alla volta e la lode incomincia ad accadere. La voce del cantore è una porta, e spesso anche solo lo stridìo della porta che sbatte è sufficiente per ridurre a brandelli la nostra sensibilità.

L'uomo è sempre sotto prova, e l'esame incro-ciato cui è sottoposta l'anima può essere colto nella musica. Una delle realtà riflesse nella mo-derna musica del cantore è la mancanza del sen-so del mistero, che sta alla radice della consape-volezza religiosa. La musica acquista la sua di-

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mensione religiosa quando cessa di accontentar-si di comunicare ciò che è alla portata dell'emo-zione e dell'immaginazione. La musica religio-sa è un tentativo di comunicare quello che pur rientrando nelle nostre capacità di percezione, non è però alla nostra portata. La perdita di que-sta tensione fa correre a tutta la musica del can-tore il rischio di diventare una distorsione dello spirito.

La musica è l'anima del linguaggio. Una pro-posizione ben articolata è più di una serie di pa-role ammucchiate. Una frase stonata, priva di musicalità, è come un corpo senz'anima. Il se-greto di una frase armoniosa sono un ritmo e una musicalità che corrispondano al significato delle parole. Dev'esserci sintonia tra la musica e il testo. Nel testo che il cantore esegue tale sin-tonia a volte manca penosamente. Si resta trau-matizzati ascoltando pensieri stupendi espressi con accentazioni e cadenze errate: parole subli-mi combinate con musiche grossolane. Tanta parte di quello che udiamo nella sinagoga è estraneo alla nostra liturgia. Molta parte della musica che sentiamo distorce e persino contraddice le paro-le, anziché dare loro intensità ed esaltarle. Una musica di questo genere ha effetti devastanti sulla nostra ricerca di preghiera. Non di rado ci si sente offesi nel profondo ascoltando certi bra-ni musicali eseguiti nelle sinagoghe moderne.

Peraltro è vero che, come esistono speaker migliori delle parole che dicono, così si trovano

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cantori migliori della musica che cantano. An-che se qui non è questione solo della validità di una persona, il futuro della preghiera ebraica di-pende in misura considerevole dal cantore e dal-le sue capacità.

Il Siddur è un libro di cui tutti parlano ma che pochi hanno veramente letto, un libro che ha la peculiarità di essere uno degli scritti meno noti nella nostra letteratura. Non riflettiamo mai sul senso delle sue parole? Cerchiamo di adeguare la nostra vita interiore a quello che è proclamato nella nishmatì "L'anima di ogni essere vivente benedice il tuo Nome, Signore nostro Dio ..."? E tuttavia c'è chi sostiene che il Siddur non esprime le necessità, i bisogni, le aspirazioni dell'uomo contemporaneo.

Dobbiamo imparare a studiare la vita interio-re delle parole che riempiono il mondo del no-stro Libro di preghiera. Senza uno studio intenso del loro significato, ci sentiamo effettivamente sconcertati di fronte alla moltitudine di quegli essere strani, elevati, che popolano il cosmo in-teriore dello spirito ebraico. Il guaio del Libro di preghiera è che esso è troppo grande per noi, troppo elevato. Le nostre piccole anime devono anzitutto innalzarsi alla sua grandezza. Non riu-sciamo a elevare le nostre menti alla sua magni-ficenza, e le nostre anime si perdono nella sua sublime estraneità. Non è solo questione di do-ver cercare una parola nel vocabolario e di far esperienze spiacevoli con la grammatica. Cia-

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scuna parola ha un'anima e dobbiamo imparare come entrare nella sua vita con gli occhi bene aperti. Le parole sono impegni, non solo oggetto di riflessione estetica.

E questo il nostro dolore. Proferiamo parole ma non prendiamo decisioni. Non sappiamo nemmeno come analizzare una parola per sco-prirne il significato. Dimentichiamo come si trova l'accesso a una parola, come si entra in contatto intimo anche solo con alcuni brani del Libro di preghiera. Tutte le parole ci suonano fa-miliari, ma non ci sentiamo a nostro agio con nessuna. Il Siddur è diventato una lingua stra-niera, che l'anima non sa come pronunciare.

Perché la musica del cantore riacquisti la sua dignità non sarà sufficiente studiare la natura autentica della nostra tradizione musicale. E ne-cessaria una rinascita liturgica. Ciò dovrà com-portare non solo un senso nuovo di riverenza e di fede, ma anche una nuova capacità di pene-trare in profondità il senso delle parole liturgi-che, nonché di imparare a pronunciarle e ad ap-propriarsene con intensità. Il declino della chaz-zanut continuerà finché non capiremo che la riverenza e la fede sono importanti quanto il talento e la tecnica, e che la musica non deve perdere il suo rapporto con l'anima delle parole.

Per il cantore è importante studiare lo sparti-to, ma è importante studiare anche le parole del Libro di preghiera. L'educazione del cantore richie-de acquisizioni e conquiste intellettuali e non

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solo estetiche. Nell'ebraismo lo studio è una for-ma di culto, ma si può dire pure che in un certo senso il culto è una forma di studio; esso include la meditazione. Non basta fare affidamento sul-la voce di una persona. Occorre uno sforzo con-tinuo per trovare la via alla magnificenza delle parole contenute nel Libro di preghiera.

Con che cosa ci confrontiamo nell'atmosfera della sinagoga? Non ci confrontiamo né con pa-role sacre soltanto, né con accenti spirituali sol-tanto. E questa in effetti l'essenza della nostra liturgia. Essa è una combinazione di parola e mu-sica. Per quanto sia grande, la musica non è il fi-ne ultimo e nemmeno quello più elevato. Il fine ultimo è Dio, e il mezzo con il quale la sua guida ci è stata comunicata è la parola. Non abbiamo musica sacra. Riveriamo la sacra Scrittura, le parole sacre. La musica è il linguaggio del miste-ro. Ma c'è qualcosa di più grande del mistero. Dio è il significato al di là di ogni mistero. Que-sto significato è nascosto nelle parole bibliche, e le nostre preghiere sono un tentativo di spiegare a noi stessi cos'è nascosto in quelle parole.

Nonostante tutta la sua grandezza, c'è qual-cosa di ancor più grande della musica. Al Sinai abbiamo udito tuoni e lampi, ma non era la mu-sica degli elementi, bensì la Parola per amore della quale il grande evento è accaduto. La Voce viene pronunciata per sempre, e noi siamo inse-guiti da essa. Nelle nostre sinagoghe non abbia-mo né statue né icone. Non sentiamo nemmeno

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il bisogno di simboli visibili per creare in noi un interiore atteggiamento cultuale. Tutto quel-lo che abbiamo sono le parole della liturgia e la riverenza nei nostri cuori. Ma persino questi due elementi sono spesso separati l'uno dall'al-tro. E compito della musica unirli.

"Chi salirà sul monte del Signore? Chi entre-rà nel luogo del suo Santo? Chi ha mani inno-centi e cuore puro, chi non consegna alla vanità la sua vita, chi non giura con intenzioni fraudo-lente" (Sai 24,3-4). Il cantore riuscirà a guidare altri alla preghiera non con l'imponenza della voce, non grazie al suo talento soltanto, ma col senso del sacro timore e tremore, con la contri-zione e la consapevolezza di inadeguatezza. Il cantore è chiamato a imparare costantemente a lasciarsi coinvolgere da quanto dice, a capire che è suo compito anche insegnare agli altri come interiorizzare le parole della liturgia. Egli ha la missione segreta di convertire, di guidare gli al-tri fin là dove si rendono conto che l'arroganza è un abisso e il sacrificio è eternità.

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E difficile che vi siano prove dell'esistenza di Dio, ma ci sono testimoni. Tra tutti al primis-simo posto ci sono la Bibbia e la musica. La nostra liturgia è un momento in cui questi due testimoni trovano espressione. "Sulla testimo-nianza di due testimoni è appoggiata una riven-dicazione". La nostra liturgia consiste nella te-stimonianza sia della musica che della parola. Forse è questo il modo più appropriato di defi-

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nire il ba'al tefillà. E colui nel quale i due testi-moni s'incontrano. E una persona nella quale ha luogo un'equazione spirituale: l'equazione tra il canto e l'anima, tra la parola e la mente. L'io e la preghiera sono una sola cosa.

Mi piacerebbe pensare alla chazzanut come a una specie di esegesi del Siddur, una specie di interpretazione delle parole della liturgia. Le pa-role muoiono di routine. Il compito del cantore è di riportarle in vita. Il cantore è colui che co-nosce il segreto della risurrezione delle parole. Per ridare vita alle parole della nostra liturgia occorre non solo il coinvolgimento personale del cantore, ma anche la potenza contenuta nella pietà dei tempi trascorsi. La nostra liturgia con-tiene incomparabilmente più di quanto i nostri cuori siano capaci di sentire. Nei suoi testi e nella musica che li accompagna la liturgia ebrai-ca è un sommario spirituale della nostra storia. C'è una Torà scritta e una Torà non scritta, la Scrittura e la tradizione. Noi ebrei sosteniamo che l'una senza l'altra è incomprensibile. Nello stesso senso possiamo dire che c'è una liturgia scritta e una liturgia non scritta. C'è la liturgia, ma c'è anche un approccio interiore e una rispo-sta ad essa, un modo di dare vita alle parole, uno stile grazie al quale le parole diventano un pro-nunciamento personale e unico.

Il Signore ha ordinato a Noè: "Va' nella tevà, tu e tutta la tua famiglia" (Gen 7,1). Tevà signi-fica arca; significa anche parola. Nella preghiera

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una persona deve entrare nella parola con tutto quello che ha, con il cuore e con l'anima, con il pensiero e con la voce. "Fate luce per la tevà"; la parola è buia. E questo il compito di chi prega: accendere la luce nel mondo3. Dobbiamo acco-starci sia alla parola che al canto con umiltà. Non possiamo dimenticare mai che la parola è più profonda del nostro pensiero, che il canto è più sublime della nostra voce. Le parole ci fanno crescere. I rabbini sostengono che "coloro che portavano l'arca di fatto erano portati dall'ar-ca"4. E in verità chi sa come portare una parola in tutto il suo splendore è portato dalla parola. Chi riesce ad accendere la luce dentro la parola scoprirà che la parola ha acceso la luce dentro la sua anima. Dov'è la Shekìnà? Dove si può senti-re la presenza di Dio? Secondo il Tikkunè Zohar la Shekinà è nelle parole, Dio è presente nelle parole sacre. Nella preghiera scopriamo la sacra-lità nelle parole.

Il canto è l'espressione dell'intimità dell'uo-mo. In nessun altro modo l'uomo rivela se stes-so così completamente come nel suo modo di cantare. La voce di una persona infatti, partico-larmente se articolata nel canto, è l'anima nella sua nudità totale. Quando cantiamo esprimia-

' Secondo il Ba al Shem. 4 Quando i sacerdoti che portavano l'arca del patto del Signore at-

traversarono le acque del Giordano (Gs 4 , 1 1 ss.), "l'arca trasportò i suoi portatori" (Sotà 3 4a).

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mo e confessiamo tutti i nostri pensieri. In ogni senso la chazzanut è hisbtapkut ha-nefesh (ef-fusione dell'anima). C'è un episodio sul Ba'al Shem intento ad ascoltare un musicista con la massima attenzione. Ai suoi discepoli che gli chiedevano perché fosse tanto concentrato in ciò che stava ascoltando, il Ba'al Shem rispose: "Quando un musicista suona, egli riversa all'e-sterno tutto quello che ha fatto".

In effetti il cantore che sta dinanzi all'arca ri-vela tutta la sua anima, esprime tutti i suoi se-greti. Il modo di essere cantore implica la pro-fondità, la ricchezza e l'integrità dell'esistenza personale. C'è un racconto su un rabbi chassidi-co in Galizia che contava tra i suoi seguaci molti chazzanim. Essi erano abituati a radunarsi nel cortile del rabbi per il sabato che precede Rosh ha-shanà. Alla fine del loro incontro erano soliti entrare nella stanza del rabbi a chiedere la sua benedizione affinché le preghiere da loro fatte a Rosh ha-shanà fossero accolte in cielo. Una volta - prosegue il racconto - uno dei chazzanim en-trò nella stanza del rabbi subito dopo il sabato, per congedarsi da lui. Alla domanda del rabbi perché avesse tanta fretta di andarsene, il chaz-zan rispose: "Devo tornare a casa per ripassare il Machazor (la liturgia) dei 'Giorni del timore'5 e

' I "Giorni del timore", in ebraico jamìm nora'ìm, sono i dieci gior-ni dedicati alla celebrazione delle grandi festività giudaiche che com-prendono Rosh ha-shanà e ]om Kippur [N.d.T.].

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consultare gli appunti". Il rabbi replicò: "Perché dovresti ripassare il Machazor e gh appunti; so-no i medesimi dell'anno scorso. E più impor-tante per te fare un ripasso della tua vita e dare uno sguardo alle tue azioni. Poiché tu non sei lo stesso di un anno fa" . Il chazzan non aveva più fretta di partire.

Il timore reverenziale è il prerequisito della fede e una componente essenziale del cantore. La perdita di tale timore, che si deve nutrire alla presenza dell'assemblea, la non consapevolezza di quanto siamo poveri nello spirito e nelle azio-ni, è una carenza pericolosa.

Un uomo istruito aveva perso ogni sua fonte di introito e cercava un modo di guadagnarsi da vivere. I membri della sua comunità, che lo am-miravano per la sua erudizione e pietà, gli chie-sero di fare per loro il cantore nei "Giorni del ti-more". Ma egli si considerava indegno di svol-gere questa funzione di portavoce della comuni-tà con il compito di presentare le preghiere dei suoi simili all'Onnipotente. Si recò dal suo mae-stro, il Rabbi di Husiatin, e gli espose la sua tri-ste situazione, parlandogli anche dell'invito a servire come cantore nei "Giorni del timore", e della sua paura di accettare l'invito e di dover pregare a nome di tutta l'assemblea. "Abbi ti-more, e prega" fu la risposta del rabbi.

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INDICE

5 Presentazione

9 La teologia del profondo

29 La religione in una società libera

65 Idoli nei templi

95 La preghiera come disciplina 109 La vocazione del cantore