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Di rientro da una festa Iris ha un incidente in cui inizialmente sembra rimasto coinvolto un ragazzo, di cui però Iris perde le tracce immediatamente nonostante le fosse sembrato stesse morendo. Qualche settimana dopo Iris reincontrerà il ragazzo dell'incidente e la sua vita cambierà radicalmente: scoprirà che sulla terra girano inosservati demoni, angeli e angeli ribelli...

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CASSIDY McCORMACK

TEMPTATION

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A Mario Ferrelli

Il più caro degli Angeli.

Ti vogliamo tutti un mondo di bene. Ci manchi!

E non ci indurre in tentazione…

Dal Vangelo secondo Matteo (cap. 6)

Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Dal Vangelo secondo Giovanni (8.1-11)

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1

Maledetto il giorno che mi sono lasciata convincere a

partecipare a quella stupida festa! Pessima musica, pessimo cibo e ancor più sgradevoli gli

invitati. Non mi piace la musica assordante che ti costringe ad

urlare per scambiare due parole con qualcuno a un centimetro dalla faccia. La ricerca di quel contatto forzato

mi infastidisce. - Avevi detto che non era stata invitata.- gridai

nell’orecchio di Daniela. - Serena mi ha detto così.-

Benché non creda più nell’amicizia, posso affermare che Daniela è la persona più vicina a un’amica che mi sia

rimasta. Gli altri? sono già fortunati se li ritengo piacevoli conoscenti.

- Io me ne vado.- - No, aspetta.- mi afferrò l’avambraccio per trattenermi,

ma mollò subito la presa appena la fulminai con lo sguardo - Non è detto che l’abbia portato con sé.-

- Può darsi che sia come dici, ma non resterò qui a sincerarmene.- mi feci largo a spintoni fra la calca di corpi

ammassati in frenetico movimento disarmonico. Non c’è niente di peggio della vista di un individuo che balla senza

possedere il minimo senso del ritmo. Dovrebbero impedire di muoversi a gente così. Ti fanno perdere amore per

l’armonia della musica. Daniela mi rincorse lungo la diagonale del salone della

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villa di Teresa - E dai, Iris… non fare così.-

Mi fermai all’improvviso lasciando che mi investisse con la sua corsa. Mi voltai a guardarla. Devo esserle sembrata

una furia, perché indietreggiò di alcuni passi - Fare cosa?- gridai per sovrastare la musica.

- La melodrammatica!- Io… melodrammatica?

- È questo che pensi di me?-

- Sì!- confessò, incoraggiata dalla presenza della folla intorno a noi - È finita da mesi. Quand’è che ricomincerai a

vivere? Lui ha voltato pagina. È finita davvero stavolta, Iris!-

Si può contestare la verità? Non direi, ma si può fuggire da essa e io volevo scappare da quelle parole. Mi voltai

senza risponderle. La discussione era finita. Mi separavano dall’uscita all’incirca dieci passi. Li feci di

corsa, perché quella vipera di Carmen era lungo la mia

traiettoria e starle accanto più di mezzo secondo per me era già troppo pericoloso. Solo vederla mi faceva venire voglia

di strapparle quella cascata di extension bionde dalla testa. Mi viene ancora la nausea al pensiero che un tempo ero

stata così stupida da considerarla la mia migliore amica. Abbiamo condiviso quasi tutto per dieci anni - cinque di

liceo e i cinque che ho trascorso all’accademia d’arte mentre lei frequentava l’università. - l’undicesimo poi, ha deciso di

condividere proprio tutto, compreso il mio ragazzo. Non ne ho mai fatto una colpa a lui - nonostante l’abbia

lasciato - , e non perché abbia tentato per mesi di farsi perdonare. È un uomo e in quanto tale gli riconosco una

debolezza innata per una ripassata senza coinvolgimenti sentimentali. Lei però… lei non la perdonerò mai per quello

che mi ha fatto. Erano trascorsi sei mesi dall’ultima volta che avevo

parlato con lui. Abbiamo litigato quella sera e insieme alla

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sua roba gli avevo gettato addosso anche l’anello che mi

aveva regalato tre settimane prima del misfatto. L’anello della discordia!

Lo chiamo così perché sono convinta che se non mi

avesse mai chiesto di sposarlo non si sarebbe sentito tanto soffocato dalle responsabilità di una famiglia che forse non

desiderava davvero e non sarebbe caduto nella trappola di quella serpe che me l’ha portato via.

Anche se non lo direbbe mai, sono convinta che Daniela pensi che sia colpa mia. Lei, al mio posto, il bambino non

l’avrebbe mai tenuto. Sarebbe stato solo un intralcio alla carriera sua e del suo ragazzo. “I figli non sono errori che

possono capitare. È un impegno per tutta la vita e non si

dovrebbe mettere al mondo una creatura senza la certezza di potergli garantire una vita normale. Il lavoro prima di

tutto, c’è tempo per pensare al resto.” Diceva sempre così quando si affrontava l’argomento, aveva smesso di dirlo

solo quando scoprì che ne aspettavo uno io, che, dopotutto,

era capitato a me. Quando lo confessai a Michele mi

aspettavo almeno un attacco di panico e invece… il solo

ricordo del suo sorriso mi scalda ancora il cuore quando il

gelo che mi avvolge si fa troppo intenso. Non aveva ancora avuto il coraggio di dirlo ai suoi,

questo è vero, però neanche io l’avevo fatto e, conoscendomi, probabilmente mi sarei presentata a casa

solo col bambino in braccio e un compagno accanto. Quando ci tornai invece, sei mesi dopo, non c’era nessun

compagno, non c’era nessun bambino. Il mio cucciolo se n’è andato la notte del mio

ventiquattresimo compleanno. Stress, pressione alta, è stata la diagnosi del mio medico.

La verità è che avrei dovuto dare retta a Michele e pensare a nostro figlio prima che a quella insignificante

scappatella.

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Facile a dirsi!

So che è passato in ospedale la mattina dopo il

raschiamento, perché sul tavolo ho trovato un mazzo di fiori col suo biglietto. Io stavo dormendo, ma forse è meglio

così. Non ero nelle condizioni di tollerare il suo guardo di accusa, anche se non potei sfuggirgli in futuro, anche se non

potrò mai smettere di leggere in quegli occhi verdi l’insostenibile accusa di aver ucciso il nostro bambino.

Rimaledetto il giorno che mi sono lasciata convincere a partecipare a quella stupida festa!

Avrebbe dovuto tirarmi su di morale e invece in un attimo era stata capace di riportarmi, tutti insieme, alla

memoria solo brutti ricordi. Afferrai con forza la maniglia del portone per uscire da lì.

Daniela era dietro di me, col suo elegante tubino nero e i sandali Guess col tacco alto. Avevamo usato la sua

macchina perché la mia era dal meccanico.

Spalancai la porta come se avessi voluto scardinarla dalla parete, ma non mi piacque affatto quello che vidi.

Michele teneva ancora il braccio teso in avanti per afferrare la maniglia che gli avevo sottratto. La tirò subito

via appena mi vide. Si mise le mani in tasca e rimase a fissarmi immobile per un po’.

Se non fosse stato per la musica sono certa che avrebbe potuto sentire il battere frenetico del mio cuore.

Volevo fuggire da lì. Subito. Ma non riuscivo a muovermi. Rincontrare quegli occhi - i miei occhi, quelli

che concedeva soltanto a me -, dopo tanto tempo, mi aveva svuotato la mente, paralizzandomi.

Allora è vero che è finita! Svanita la rabbia, il rancore, non resta più niente che lo leghi a me.

Nonostante la musica assordante, calò un silenzio di

tomba fra noi, accompagnato da un gelo più freddo degli altri. Il freddo dell’indifferenza.

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- Iris!- esclamò in un sussurro.

Non lo sentii. Vidi solo le sue labbra, quelle che avevo posseduto per più di sei anni, muoversi a ritmo del mio

nome. Non riuscivo a respirare, mi faceva male riempire i

polmoni di veleno. Per fortuna ci pensò Carmen a fare quello che avrebbe dovuto fare Daniela fin dall’inizio:

intromettersi. Appena udii alle mie spalle la sua voce chiamare

Michele, mi risvegliai dall’intorpidimento in cui ero caduta e infilai la porta senza dire una sola parola. Fu tutto così

veloce che non pensai a trattenere il respiro. Lui non si mosse di un millimetro e quando gli passai accanto,

sfiorandolo, mi impregnò abiti e cervello del suo inconfondibile profumo.

Poteva andare peggio di così? Mentre mi affrettavo a raggiungere la macchina

parcheggiata lungo il marciapiede, incespicando con i tacchi che rimanevano incastrati nel terreno del giardino, cercavo

di non ascoltare Daniela dietro di me. - Non sono venuti insieme!-

- Quello che fa della sua vita non mi interessa.- risposi collerica, mentre avrei dovuto almeno tentare di fingere

indifferenza se volevo sembrare un po’ credibile. - È andata meglio dell’ultima volta, però. Non è volato

neanche un piccolo insulto.- Per il nervoso e per affrettare la fuga, mi sfilai i sandali e

proseguii a piedi nudi sull’erba - Avevi ragione tu. Ha voltato pagina.-

- Non stanno insieme, Iris. Non mentiva. Questo devi riconoscerglielo.-

Mi fermai dal lato del guidatore tendendo il braccio verso di lei per farmi passare le chiavi - Credi che faccia differenza

per me, che sia Carmen o qualcun’altra?-

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Sfilò le chiavi dalla borsetta che aveva recuperato insieme

alla mia prima di uscire - Sei stata tu a lasciarlo, Iris.- mi ricordò con freddezza.

- Perché, tu con Paolo che avresti fatto?- gridavo anche se non ce n’era più bisogno. La musica era lontana.

Daniela abbassò lo sguardo. - Proprio tu mi fai la morale, Daniela?-

Fine del secondo round. Due a zero per me. - Dai, sali in macchina. Voglio tornare a casa.- dissi

spalancando lo sportello. La villa di Teresa era nella frazione di un piccolo comune

a circa trenta chilometri dal centro della città, a seicentocinquanta metri d’altezza, fra boschi, uliveti e curve

che mi davano la nausea tutte le volte che andavamo a trovarla se non mi lasciavano guidare.

La strada è larga e ben tenuta, ma assolutamente priva di illuminazione artificiale, anche se c’è un cartello di pericolo

ogni due o trecento metri a ricordare di tenere gli occhi ben aperti.

Daniela non parlava più. Si stava ancora riprendendo dall’ultimo colpo.

- Mi dispiace.- dissi scalando di una marcia - Lo sai che sono intrattabile quando si tratta di Michele.-

- Non ti preoccupare. Darei di matto anch’io se fosse successo a me.-

Mi voltai verso di lei per concederle il migliore dei miei sorrisi, e fu allora che vidi sbucare qualcosa dal folto del

bosco alla nostra destra. Un cinghiale. Attraversò la strada di corsa e per evitarlo

sterzai a destra, ma al suo posto urtai qualcos’altro. Per lo spavento persi il controllo dell’auto e andammo a

sbattere contro un albero lungo il ciglio della strada. Per fortuna non correvo e avevo già rallentato per evitare il

cinghiale o ci saremmo ammazzate entrambe.

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Con l’urto mi ero fatta male a una gamba e avevo una

piccola lacerazione alla mano, ma il resto sembrava ancora tutto al proprio posto.

Daniela aveva battuto la testa contro il parabrezza invece, e si lamentava tenendo la testa poggiata al finestrino

e una mano sulla fronte sanguinante. - Ce la fai ad uscire?- fu la prima cosa che balbettai.

- Ma che cosa era?- - Un animale.-

Aprii lo sportello per trascinarmi fuori. Avevo il ginocchio in fiamme.

La macchina era distrutta sul davanti. - Vieni fuori, Daniela. È più prudente se ci allontaniamo

un po’. Non si sa mai…- Per fortuna avevo scelto di gettarmi sulla destra, perché a

sinistra c’era solo lo strapiombo che apriva alla vista l’intera vallata in cui era raccolta la città. Un accozzaglia di luci

gialle e rosse nell’oscurità più totale di una notte senza luna. - E adesso?- chiese Daniela.

Per i cellulari non c’era campo per un raggio di almeno cinque chilometri, lo sapevo perché avevo fatto quella

strada fin troppe volte nel corso degli ultimi tre anni - Adesso aspettiamo che passi qualcuno e ci facciamo

accompagnare al pronto soccorso.- - Mi fa male la testa.- si lamentò.

- Lo so, tesoro, ma vedrai che non dovremo aspettare molto. Scusa per la macchina, ti aiuterò a pagare i danni.-

La aiutai a mettersi seduta sull’erba, con la schiena contro una quercia.

- Non si vede niente qui.- Mi afferrò l’avambraccio - C’è una torcia nel cruscotto.

Ma non so se le batterie sono ancora cariche. Non l’ho usata mai.-

Mi sfilai i sandali che avevo rimesso per guidare e

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saltellai di nuovo fino alla macchina. Senza entrare

completamente nell’abitacolo, mi allungai ad afferrare la torcia. La tastai per cercare il pulsante di accensione.

Funzionava. Il fascio di luce non era molto potente, ma andava comunque benissimo per noi.

Raggiunsi Daniela per controllare la lacerazione sulla fronte. perdeva sangue, ma non era una ferita profonda.

Riuscii a sedermi accanto a lei senza farmi troppo male. - Dobbiamo trovare un modo per passare il tempo. Non

puoi assolutamente addormentarti.- dissi giocherellando con la torcia.

Rivolsi la luce tutt’intorno, per capire dov’eravamo di preciso - Te l’avevo detto che non ci volevo venire…-

Rise - Vuoi tenermi sveglia iniziando a litigare?- Risi anch’io - Certo che no! Era solo per dire.-

- Dannato cinghiale!- puntai la luce nella direzione in cui era sbucato e solo allora mi accorsi del corpo ancora

immobile sull’asfalto a circa cinquanta metri da noi. Dimenticando il dolore al ginocchio, feci per alzarmi di

scatto. Fui costretta a fermarmi e ripetere il movimento con più attenzione.

- Che c’è?- chiese Daniela. - Mi sa che abbiamo fatto un bel casino.-

- Perché?- Senza risponderle mi avvicinai al corpo a terra.

- Iris?- Respirava.

- È ancora vivo.- gridai - Ma dobbiamo portarlo subito in ospedale, è ferito.-

- Conosco un veterinario bravissimo, riceve anche di notte se c’è un’emergenza.-

- Temo che non basti, Daniela. È un uomo.- lo voltai supino per controllare che non perdesse sangue dalla bocca.

A una prima analisi non gli avrei dato neanche trent’anni.

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- Hai investito un uomo?- strillò isterica.

- Grazie per la solidarietà. Ricordamelo quando ti daranno il conto dell’auto.-

Si alzò a fatica e mi raggiunse barcollando - Dio mio! È un ragazzo.-

- Si può andare in giro a quest’ora di notte, dico io?- - Sarà un cacciatore!-

- Sì, detective, e il fucile?- Il ragazzo si mosse facendosi sfuggire un lamento.

- Dobbiamo toglierlo dalla strada prima che qualcuno lo investa di nuovo.- lo scrollai un po’ per fargli riprendere i

sensi - Ehi!- dissi piano - Mi senti? Ce la fai a muoverti?- io davvero non ce l’avrei fatta col ginocchio in quelle

condizioni. Un altro lamento.

- Guarda la maglia.- mi fece notare Daniela - È strappata. Sembrano graffi. E se c’è qualche animale pericoloso nei

dintorni? - si stava agitando - Iris, ho paura! Voglio tornare a casa.-

Il fiato del ragazzo si faceva sempre più corto. Posai una mano sulla fronte sudata del ragazzo e tentai

di ripulirla del sangue che stava gocciolando sull’asfalto - Sta malissimo!-

- Dobbiamo chiamare subito un’ambulanza.- - Qui non c’è campo.-

- Vuoi lasciarlo morire così?- strillò. - Che cosa posso fare? Non sono un medico.-

- Se dovesse morire…- - Perché? Perché pensi sempre subito al peggio?-

- Che diremo alla polizia? Nessuno crederà alla storia del cinghiale. Ci hanno viste alla festa, e quando si saprà in giro

quello che è successo...- La afferrai per le spalle per farla tacere - Smettila! Non

morirà nessuno, chiaro? È stato un incidente, l’hai visto

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anche tu.-

- Io… non ho visto neanche il cinghiale.- - Daniela!-

Un rantolo attirò di nuovo la mia attenzione sul ragazzo. Un rivolo di sangue gli imbrattava il mento.

- Ha un’emorragia interna.- disse. - Non è detto.-

- È così!- si portò le mani alla testa, esasperata - Se la polizia ordina gli esami del sangue siamo sfottute.-

- Erano solo un paio di drink!- replicai. Si chinò su di me, ancora a terra accanto al ragazzo -

Quanto basta a mandarci dritte in galera.- - Chi è la melodrammatica adesso?-

Un profondo sospiro mi investì il viso. Abbassai lo sguardo sul ragazzo. Aveva un’espressione così rilassata,

tranquilla. Il torace però non si muoveva più. Non respirava più. Era morto!

- Oh mio Dio!- gridò Daniela. Io la sentivo gridare, ma ero talmente stravolta da non

riuscire a generare neanche il più banale dei pensieri. - E adesso? Che facciamo adesso? Oh, Signore, perché

proprio a me? Che cosa ho fatto di male? Io non c’entro niente. Non c’entro niente.-

Mi alzai per strattonarla - La smetti o no?- urlai - Questo ragazzo è morto. Morto, Daniela. E tu ti preoccupi di quello

che succederà? Ho investito e ammazzato un uomo, io non

tu, sono stata io, e tu ti preoccupi di quello che faranno a te?-

Sembrò recuperare la calma per un momento - È stato un incidente! Non l’avremmo neanche visto se non fosse stato

per la torcia.- improvvisamente me la strappò dalle mani e la lanciò nel vuoto del baratro, oltre il paracarri.

- Ma sei impazzita?- la aggredii - Perché l’hai fatto?- - Il cinghiale ha attraversato la strada di corsa, per la

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paura abbiamo perso il controllo dell’auto andando a

sbattere contro l’albero. Siamo uscite dall’abitacolo e ci siamo trascinate fino lì.- indicò al buio la zolla di terra dove

eravamo sedute prima di vedere il corpo - Era buio. Non abbiamo visto altro. Non ricordiamo altro.-

Scossi al testa. - Ormai è morto, Iris. Non possiamo fare più niente per

lui. Non è omissione di soccorso.- - Sai anche tu che non è andata così.-

- E com’è andata?- Già! Com’è andata?

- Io non ci finisco in galera per te. Capito? Se vuoi

continuare a flagellarti per quello che è successo con Michele fallo pure, ma non mi trascinerai in questo inferno

con te.- aggiunse gelida. Era troppo buio per vederla, ma sentii i suoi passi lenti

allontanarsi da me.

Rimasi lì immobile per alcuni minuti. A forza di pensarci mi convinsi che, dopotutto, aveva ragione. Era stato un

incidente. Gli avevamo prestato soccorso. Non potevo accollarmi colpe per la sua morte.

Mi trascinai piano piano fino all’albero dove si era accucciata. Piangeva, tremava. La abbracciai forte per

calmarla e non ci muovemmo da lì fino all’arrivo di un uomo e una donna che risalivano al paese dopo una cena a

casa dei genitori di lei. Appena si accorsero della macchina incidentata si

fermarono. Scorsero noi due poco più avanti. - State bene?- chiese lui.

- Potete accompagnarci al pronto soccorso per favore?- chiese Daniela mostrando la ferita alla testa.

- Certo, venite.- Mi aiutò ad alzarmi e a raggiungere la sua auto. Il

ginocchio faceva sempre più male. Mentre salivo in

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macchina però, tornò a tormentarmi il pensiero del ragazzo. Ma se non fosse morto davvero? Se fosse ancora vivo? Se

potessimo ancora salvarlo?

- Aspettate!- dissi.

Daniela mi rivolse un’occhiataccia. Mi sciolsi dalla morsa dell’uomo e saltellai fino al punto

dell’incidente, illuminato dai fari dell’auto. Per un momento mi si fermò il cuore in petto. Non c’era

più nessuno lì. Solo qualche macchia si sangue sull’asfalto. Ma com’è possibile? Dov’è andato? Cosa…

- Tutto bene?- disse la voce dell’uomo alle mie spalle.

Avrei dovuto dirgli la verità. Avrei dovuto farlo cercare. Era evidente che era ancora vivo. Forse si era spostato dalla

strada e aveva bisogno di aiuto.

- Hai dimenticato qualcosa?- Mi guardai un po’ intorno. Disorientata.

Mi mise un braccio attorno alle spalle - Tranquilla, cara. Va tutto bene. Adesso andiamo in ospedale.-

Scossi la testa, ma non ebbi al forza, il coraggio, di dire niente. Lasciai che mi credesse confusa per l’incidente e mi

lasciai condurre alla macchina, dove mi stavano aspettando Daniela e sua moglie.

- C’era qualcun altro con voi?- chiese mentre il marito metteva in moto.

Daniela mi guardò. Scossi la testa.

- Nessuno, signora.- rispose anche per me.

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Per fortuna il ginocchio non aveva niente di grave. In

ospedale mi misero un tutore per precauzione e mi consigliarono di tenerlo a riposo almeno una settimana.

Anche Daniela stava bene, sei punti di sutura e una tac avevano scongiurato ogni pericolo.

Passammo il resto della notte in osservazione al pronto soccorso e la mattina venne a prenderci Raffaele, il fratello

di Daniela. La mia famiglia vive in Sicilia, non mi sembrò neanche il caso di avvisarli visto che stavo bene, li avrei fatti

solo preoccupare inutilmente. - Ho visto la macchina.- disse Raffaele - Il motore è

andato.- Raffaele aveva ventinove anni da almeno quattro, un

ingegnere informatico impiegato in una importante azienda di componenti elettronici. Cinico e stravagante quanto basta

per risultarmi simpatico. L’avevo conosciuto quattro anni prima a una mostra d’arte rinascimentale e tramite lui avevo

conosciuto anche Daniela. Mi passò un paio di scarpe da ginnastica di sua sorella,

che aveva portato anche per me - Sicura di non voler venire a casa da noi per qualche giorno, tesoro?-

Annuii in silenzio. Non ero dell’umore adatto per avere gente intorno che mi riempiva di attenzioni. Adoro i suoi

genitori, ma sono troppo soffocanti. - Hai avvertito i tuoi?-

Mi accigliai - Non ce n’è bisogno.- Dopo una scrollata di spalle si voltò per occuparsi di

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Daniela, che non riusciva a tenere la testa abbassata per

infilare le scarpe. - Il jeans di Daniela mi andava un po’ largo, ma lo strinsi

appuntando una spilla da balia sul fianco. Non volevo certo rischiare che mi cascasse fra un saltello e l’altro mentre

raggiungevamo il parcheggio. L’ospedale mi fornì in prestito delle stampelle che avrei

dovuto riconsegnare la settimana dopo, quando sarei tornata per una radiografia di controllo. Erano vecchie,

leggermente curvate sulla sinistra e i gommini consumati da un lato, ma non rimasero così logore a lungo, perché a casa,

per passare il tempo le raddrizzai, coprendo i segni lasciati dalla morsa con una gomma apposita e restaurai i gommini

con un rivestimento in gomma e nastro per manico da racchetta da tennis. Dipinsi l’alluminio con uno smalto

argento e le parti in plastica di nero. Sembravano appena uscite dal negozio.

Le fissai per un po’ a lavoro finito, complimentandomi di me stessa e lodandomi da sola per le mie doti artistiche.

Non sono patetica, è solo che era da tanto che non mi concentravo su un progetto e quelle stampelle

rappresentavano il mattone che aveva fatto crollare la prigione di vuoto emotivo che mi stava uccidendo piano

piano. Appena rimisi piede nel mio appartamento mi sentii

subito molto meglio. Finsi con garbo di desiderare che Daniela e Tommaso entrassero con me a prendere qualcosa

per ringraziarli del disturbo. Avevo il frigo quasi vuoto come sempre, ma un caffè e qualche biscotto non lo nego

mai a nessuno. Per fortuna il capogiro di Daniela fece rifiutare l’invito.

Ero via da poche ore e ancora si sentiva l’odore pungente di solvente dell’ultima tela torturata solo il mattino prima.

Ce la stavo mettendo tutta per cancellare gli ultimi sei

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anni dalla faccia della terra. Gettavo e distruggevo tutto ciò

che avesse potuto rievocare anche il più inutile ricordo di allora.

Il mio periodo migliore, artisticamente parlando, gocciolava sul pavimento rivestito di teli di plastica

semitrasparente nel mio laboratorio. Mi ero detta che avevo tutta la vita per farne degli altri,

molto più belli di quelli. Frottole! L’arte, quella vera, è inreplicabile.

Il soggiorno era avvolto nella penombra. La serranda

chiusa e le tende pesanti della larga porta finestra

impedivano al mattino di raggiungere l’interno

dell’appartamento. Chiusi il portone con una stampella e mi spostai nella

cucina alla mia destra. Non è un grande appartamento: un piccolo soggiorno

all’ingresso, una cucina minuscola sulla destra, un corto corridoio con due strette camere, una di fronte all’altra, e un

bagno appena abitabile. Una tana fin troppo costosa per le mie tasche vuote, ma

non ero riuscita a trovare di meglio e, dopo l’accademia, dopo Carmen, avevo giurato a me stessa che non avrei più

condiviso casa con nessuno. Presi una vaschetta del ghiaccio dal congelatore sul frigo

e feci cadere i cubetti in una busta di plastica. Avevo tutte le intenzioni di trascorrere il resto della giornata a letto o sul

divano a guardare la TV. Il ghiaccio me l’aveva ordinato il medico per ridurre il gonfiore e il mio povero ginocchio

sembrava un palloncino pieno d’acqua, pronto ad esplodere. Il divano è vecchio, ma per niente scomodo. L’ha

lasciato il vecchio proprietario perché nella casa nuova aveva rifatto l’arredamento per intero e non sapeva che

farsene di tutta quella robaccia che aveva prima. Per renderlo più di mio gusto l’avevo rivestito tutto di tela, e poi

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dipinto a motivi astratti nei toni del blu e sfumature di

azzurro. per non far rovinare la tela poi, dopo un lucido per proteggere il colore, l’avevo ricoperto di nuovo con plastica

per rivestimenti. Sotto casa c’è un tappezziere, e per racimolare qualche centesimo ho lavorato per lui quasi un

anno, aiutandolo con il restauro di mobili e quadri antichi che gli portavano di tanto in tanto. Mi ha insegnato molto, e

nonostante la paga fosse davvero misera, quello che ho imparato da lui non ha prezzo.

Rimasi al buio ancora per un po’. Il soggiorno è rivolto a est e di mattina, il sole estivo infuoca la casa. Di solito mi

limito ad aprire la finestra per far passare l’aria, ma lascio la serranda chiusa.

Avevo bisogno di fare una doccia e togliermi le croste di sangue dalla pelle e il lezzo di disinfettante del pronto

soccorso, ma avevo ancora addosso le prove del mio assassinio e non ero ancora convinta di volerle cancellare

via. Non avevo ancora neanche deciso se andare o meno alla polizia per confessare l’accaduto. Avrei potuto dire di

essere da sola e tenere Daniela fuori da tutta questa storia, dopotutto lei non c’entrava davvero niente.

Provai ad immaginare come sarebbe stata la mia vita sballottata da una cella a un’aula di tribunale. Pensai alle

facce dei miei genitori di fronte agli sguardi inquisitori dei vicini di casa. Probabilmente avrebbero dovuto cambiare

città per la vergogna. Avrebbero dovuto ricominciare da capo in un altro posto e sperare che i pettegolezzi sulla loro

figlia assassina non avessero perseguitati ovunque. Riflettevo su questo e contemporaneamente andavo a

caccia di telegiornali fra un canale e l’altro per sapere se era già giunta la notizia dell’incidente alle autorità.

Erano le dieci e mezzo del mattino e il corpo di quel povero disgraziato non era ancora stato trovato.

Abbandonai i propositi della giornata davanti alla TV e

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me ne andai a letto. Sfilai i jeans e la maglietta di Daniela e

mi gettai direttamente sul copriletto fresco e provai a dormire.

Il rimorso sarebbe anche sopportabile se non fosse per gli incubi che continuano a ricordarti quello che hai fatto.

Mi svegliai di soprassalto disturbata dal suono del cellulare che a forza di vibrare stava per cadere dal

comodino. Lo afferrai al volo prima che toccasse terra - Pronto…-

- Iris sono Gianpiero. Volevo chiederti se sei libera per stasera. Ho un tavolo per quindici prenotato per le nove.

Una cena di compleanno.- Lavoravo nella pizzeria di Giampiero da quasi due mesi.

A nero naturalmente. Mi chiamava quando aveva bisogno e, siccome io avevo più bisogno di lui, accettavo chiamate

come quelle: all’ultimo momento. Gianpiero lavora all’americana. Nel suo locale si lascia la

mancia del 10% sul fatturato o niente cameriere personale. Di solito il fatturato su qualche pizza è talmente misero che

nessuno si lamenta di questa legge d’oltreoceano. Una cena per quindici persone però era una bella

occasione per arrotondare. Maledetto il giorno che mi sono fatta convincere a

partecipare a quella stupida festa! L’ho già detto?

Pazienza. - Mi dispiace tanto, Gian. Verrei volentieri, ma ho avuto

un incidente d’auto stanotte e ho un ginocchio fuori uso.- - Oh, non lo sapevo, scusa. Ma tu come stai?-

- Niente di grave, fra una settimana sarò come nuova.- - Ok, tesoro, allora fai conto che non ti ho chiesto niente.

Pensa a riposare intanto. Ci sentiamo domani per vedere come va, ok?-

- Sì, grazie.-

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- Stammi bene allora.-

- Contaci.- Quando riattaccò spensi il cellulare. Non volevo sentire

nessuno e, se possibile, volevo smettere per un attimo di pensare al corpo di quel povero ragazzo abbandonato chissà

dove. Mi girai e rigirai nel letto fino a non poterne più. Mi

aspettavo che il ginocchio prima o poi iniziasse ad urlarmi contro gli insulti peggiori che conoscesse.

Sbuffai irritata, maledicendo Giampiero che mi aveva svegliata, poi afferrai con rabbia la sveglia sul comodino.

Mezzogiorno e trentacinque. Era ora di pranzo. Avevo fame? Boh!

Mi misi a sedere sul letto con le tempie strette fra le mani. Speravo stupidamente di riuscire a far schizzare via

quel ragazzo dalla testa come un brufolo indesiderato sul viso.

Vi do un consiglio: mai desiderare qualcosa con troppa decisione. Rischia di avverarsi.

Sentivo le vene sulle tempie pulsare contro i palmi delle mani. Ero caduta in una specie di trance fisico. Ero

cosciente di essere perfettamente immobile. Lo sguardo fisso su un tratto di cucitura del copriletto. Quella posizione

mi sembrava perfino comoda. L’unica parte del mio corpo che riuscivo a percepire come mio era la porzione di palmi

contro cui pulsava il sangue, il resto non mi apparteneva. Nonostante ciò, la mente era perfettamente vigile e

continuava a proiettare ancora e ancora il momento dell’impatto, mostrando sempre la stessa cosa: un cinghiale

e… un’ombra. Com’era possibile che avessi visto un cinghiale e non un

uomo? Anche se fosse sbucato fuori all’improvviso, sarebbe stato

troppo alto per non notarlo.

Page 22: 2-Temptation - Cassidy McCormack

Cercavo con avidità un dettaglio fra i ricordi che mi desse

delle risposte, ma continuavo a vedere solo quel dannato cinghiale.

Se non l’avessi schivato, probabilmente il ragazzo sarebbe stato ancora vivo e questo pensiero mi mandava

fuori di testa. Tutti quei “se” mi suscitavano sensazioni che avevo

vissuto troppo di recente. Per fortuna o per sfortuna - dipende da come si vuole

giudicare l’evento -, il campanello alla porta mi risvegliò da quell’incubo ad occhi aperti.

Afferrai l’accappatoio sul bordo della vasca da bagno e lo infilai prima di andare ad aprire quel tanto che permetteva

la catena alla porta. Appena vidi chi era, il mio primo istinto fu quello di

chiudere subito e fingere di stare ancora sognando, ma quando provai a farlo, Michele infilò un piede all’interno

per impedire che gli sbattessi la porta in faccia per l’ennesima volta.

Orami ero diventata troppo prevedibile con lui. - Non ci provare neanche.- disse serio.

- Vattene subito da casa mia o chiamo la polizia.- Bellissima come prima frase dopo mesi di assoluto silenzio.

Mi aspettavo uno spintone alla porta che mandasse in pezzi la sottile catenella della serratura e invece la sua

espressione si fece quasi supplichevole. - Che cosa vuoi da me?- domandai sentendo la collera

risalire la spina dorsale come una scossa elettrica. - Mi fai entrare o dobbiamo parlare qui fuori davanti a

tutti come l’ultima volta? Mi sembra che abbiamo già dato abbastanza spettacolo noi due, ti pare?- era serio, ma affatto

arrabbiato. Restò a fissarmi in silenzio, con una punta di impazienza

nello sguardo.

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Lo lasciai fare per un po’, dopo mi stancai di aspettare

che ci arrivasse da solo e dissi - Se non togli il piede come faccio ad aprirti?-

Lo sfilò lentamente, smettendo perfino di spingere la porta verso l’interno. Aspettò in piedi, con i pollici nelle

tasche posteriori del jeans, mostrando i bicipiti scolpiti strizzati nelle maniche corte della t-shirt.

Richiusi la porta senza fretta, quasi mi ferisse sottrarre con violenza quel corpo ai miei occhi.

Sentivo il cuore in gola, mentre con la fronte al portone cercavo di riprendere il controllo delle mie facoltà mentali.

Mi scostai piano piano, arretrando un passo per volta. - Iris, non fare scherzi.- disse Michele, dall’altra parte -

Apri per favore.- Vattene via!

Mi era molto più facile evitarlo quando non lo vedevo,

anche se la sua voce aveva ancora l’effetto di mille lame sul

mio cuore a brandelli. Prese a bussare - Iris!- il tono stava cambiando.

- Lasciami in pace!- strillai. Un colpo più forte percosse la porta - Adesso basta, Iris.-

gridò - Lasciami entrare.- - No!- stringevo con forza i pugni attorno ai manici delle

stampelle. - Quant’è vero Dio, se non apri subito la sfondo a calci.-

- Allora sto tranquilla. Perché tanto non esiste nessun Dio.-

- Apri!- tuonò. - Chiamo la polizia se non te ne vai subito.-

Un calcio fece tremare la porta - Cristo Santo, Iris. Voglio solo sapere come stai.-

Aveva saputo dell’incidente. Ma certo! Per quale altro motivo sarebbe venuto a casa mia altrimenti?

- Mi hai vista. Sto bene. Adesso vattene.-

Page 24: 2-Temptation - Cassidy McCormack

Dopo questa mi aspettavo davvero di veder volare la

porta contro di me, invece smise di percuoterla e seguì un lungo, interminabile silenzio.

Che fosse andato via? Mi avvicinai alla porta per controllare, ma quando

afferrai la maniglia gli sentii sussurrare esausto - Iris! Per favore, piccola.-

Piccola!

Quante volte mi aveva chiamata così? Con quante altre l’aveva fatto dopo di me?

Con un misto di nostalgia e risentimento, mi convinsi ad aprire.

C’era ancora un po’ di rabbia sul suo viso, ma svanì subito, appena si accorse che gli stavo permettendo di

entrare. Senza una parola, lasciandomi totalmente spiazzata, mi

abbracciò con forza sollevandomi da terra.

Rigida come un pezzo di ghiaccio, non riuscivo a dare ordini alle mie braccia. Volevo scollarmelo di dosso tanto

quanto volevo stringerlo a me come un tempo, ma non ottenni altro che immobile rigidità.

- Mi sono spaventato da morire quando ho saputo dell’incidente.- sussurrò - È colpa mia. Sei non fossi venuto

da Teresa…tu non…- era così agitato che non riusciva a parlare.

Ma che sta succedendo?

Senza un ordine apparente, le mie braccia si strinsero attorno al suo collo e iniziai a piangere. Un pianto dirotto

che si portò via i brutti ricordi delle ultime ore.

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3

- Bevi qualcosa?-

Michele sedeva sul divano con lo sguardo attento alla pubblicità in televisione. Era a disagio, ma si sforzava di

non farlo notare. Dopotutto, l’ultima volta che era stato a casa mia ce n’eravamo dette di tutti i colori. Io gli avevo

perfino lanciato un vaso addosso, schivandolo grazie alla mia pessima mira.

Dopo essere riuscita a riprendere il controllo, per scusarmi dello spettacolo patetico che gli avevo offerto un

attimo prima, l’avevo invitato ad accomodarsi. Non so neanche adesso dove avessi trovato il coraggio di

farlo. - Un caffè?- chiesi ancora, nonostante sappia

perfettamente che lui detesta il caffè, ma almeno riuscii ad attirare la sua attenzione.

Voltatosi a guardarmi, scosse leggermente la testa. Non riuscendo a trattenere un sorriso mi voltai verso la

cucina e mi mossi per prendergli della Coca Cola. Per quanto ne sapevo, era ancora un astemio convinto.

Mi sollevai sulla punta dell’unico piede d’appoggio disponibile per afferrare il bicchiere in alto nello scolapiatti,

ma mi anticipò comparendomi alle spalle, silenzioso come uno spettro.

- Stai lavorando a qualcosa?- chiese, sorreggendomi prima che cadessi dopo aver perso l’equilibrio per lo

spavento. Il solvente impregnava ancora l’aria - Non direi.-

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Si muoveva in casa con la stessa disinvoltura di quando

stavamo ancora insieme. Aprì il frigorifero e afferrò una birra.

- E questa che novità è?- Mi guardò stranito.

- Da quant’è che bevi?- - E tu?-

Colpita e affondata. Ben ti sta, Iris, così impari a farti gli affari tuoi.

- Io non bevo.- mentii - Le tengo lì per quando viene a trovarmi qualche amico.-

Me la sventolò davanti - È un amico in particolare o posso prenderne una?-

Volevo fortemente spiattellargli in faccia che mi vedevo con qualcuno, ma mi conosce troppo bene, non mi avrebbe

creduto neanche se quel qualcuno fosse sbucato all’improvviso, vestito solo di un asciugamani, dalla mia

camera da letto. Mi accigliai - Prendi quello che vuoi. E già che ci sei

continua a servirti da solo visto che sai ancora come muoverti.-

Non riuscii a decifrare l’espressione enigmatica del suo viso, ma se fossi stata costretta a darne una lettura avrei

optato per l’opzione “soddisfatto”. Rimise la bottiglia in frigo facendola tintinnare con le

altre e afferrò una lattina di Coca Cola. Oltre, l’acqua, non c’era altro.

- Che fai?- chiesi stizzita - Mi metti alla prova?- Sciacquò la lattina sotto il getto di acqua fresca del

rubinetto del lavandino della cucina. È sempre stato un nemico delle linguette di latta che rientrano nella bibita

insieme ai germi di tutti quelli che l’hanno toccata. - Voglio solo essere sicuro che stai bene davvero.-

- Non mi sono data all’alcool se è questo che intendi.-

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- Forse all’alcool no, ma ho saputo che ultimamente

frequenti gente poco raccomandabile.- - Sei venuto fin qui per farmi la predica?- l’apostrofai.

- Non cominciare, Iris. Sono solo preoccupato per te.- - Non è più un tuo diritto farlo.-

Senza dare troppo peso alle mie accuse, versò l’intero contenuto della lattina nel bicchiere.

- I tuoi lo sanno che fai uso di quella robaccia?- Detesto quando mettono in mezzo i miei genitori in

questioni che riguardano solo me - Non mi sembra che i tuoi sappiano tutto quello che fai, o sbaglio?-

L’allusione alla gravidanza era talmente evidente da non poter essere ignorata. Non volevo offenderlo o turbarlo di

proposito rinvangando vecchi rancori, mi era scappato davvero questa volta.

- L’avevamo deciso insieme.- si sbrigò a ricordarmi. È vero! Non potevo certo affermare il contrario.

Diede appena un sorso alla Coca. Gli tremava la mano. Si vedeva benissimo che stava tentando di digerire la cosa,

ma non gli riuscì, infatti rovesciò la bibita nel lavandino, sciacquò il bicchiere, lo ripose e tornò in salotto senza dire

una parola. Sapevo perfettamente che se non avessi ripreso a parlare

io per prima, la sua visita non si sarebbe protratta oltre. Non lo feci, di proposito, e lui se ne andò, salutandomi con un

freddo bacio sulla fronte. Aspettai di sentire la porta dell’ascensore prima di

tornare a chiudere la porta a chiave. Sarebbe stato troppo crudele fargli notare quanto fossi contenta che stesse

andando via. Prima di tornare a letto, perché era lì che avevo

intenzione di passare il resto della giornata, mi decisi a spalancare tutte le finestre per far uscire la puzza di

solvente.

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Rimasi un momento sul balcone ad osservare Michele

attraversare la strada per raggiungere la macchina. Mi aspettavo che si voltasse a cercarmi? Perché mai avrebbe

dovuto? Però sì, me lo aspettavo eccome, ma non lo fece. Rientrai in casa più stizzita che mai.

Ma che cosa mi aspettavo? Era stata odiosa come al solito, mentre lui si era solo preoccupato per me.

La porta del laboratorio era socchiusa e ancora al buio. Sollevai l’avvolgibile lasciando entrare la luce che sembrò

concentrarsi sul blocco d’argilla sul tornio a pavimento che avevo ricavato da una ruota di bicicletta e qualche pezzo di

compensato. Lo usavo per poter ruotare il blocco senza fatica mentre ero intenta a modellare, in modo da non

dovermi muovere in continuazione perdendo la luce giusta. La tela imbrattata di solvente era ormai asciutta. Dovevo

solo togliere i residui di colore dal pavimento e per farlo mi bastò accartocciare i teli di plastica e buttarli nella

spazzatura. Avevo lasciato quel dipinto per ultimo perché non avevo

mai trovato il coraggio di farlo prima. L’avevo realizzato in due mesi e mezzo. Ispirata da una discussione con Michele

sul romanzo di Oscar Wilde “ Il ritratto di Dorian Gray”. Era il suo romanzo preferito, e non era mai riuscito a capire

come facesse a non piacermi. - È troppo noioso.- dicevo io.

- Beh, noioso proprio no.- - Punti di vista.-

- No no.- rincarò - Il ritratto di Dorian Gray è un capolavoro oggettivo.-

- Non direi, visto che per me è uno dei romanzi più noiosi che abbia mai letto. Io preferisco l’azione,

l’avventura, il mistero, il sangue perfino.- - E non c’è mistero in Wilde?-

- Dorian Gray non ha niente di misterioso, è solo un

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ragazzino viziato ed egocentrico.-

Spalancò la bocca come se avessi appena detto che la terra è piatta e resta immobile mentre il sole le gira intorno,

o come un bambino a cui hanno appena detto che Babbo Natale non esiste. Scegliete voi.

Risi di quella sua espressione così innocente. - Tu leggi troppo, Iris, ma leggi male.-

- Stai criticando i miei gusti letterari?- lo stuzzicai. - Ti concentri su cavalieri, guerre, killer, spettri, mostri

d’ogni sorta e perdi la capacità di scorgere il fascino dei classici.-

- Li leggo i classici.- - Ma non sai apprezzarli.-

- Ti sbagli. È Dorian Gray che non mi piace.- - Perché non lo vedi per quello che è. Un testo letterario

di grande valore.- - Se considerassi ciò che leggo solo un Testo non toccherei

più un libro in vita mia. Per te è più semplice, fai il critico di

professione. Osservi la metrica, lo stile e tutte quelle assurde caratteristiche che demoliscono anche i romanzi migliori.

Per voi un classico è perfetto a prescindere, solo perché chi l’ha scritto è morto e incenerito da secoli. Non sareste

capaci di gustarvi un libro neanche se voleste davvero.- Continuammo a parlottare di questo per tutto il

pomeriggio, ma senza venire a capo di niente, perché io sono troppo cocciuta e lui troppo dispettoso per darmela

vinta pur di farmi stare zitta. Risultato? Due mesi e mezzo dopo, per il suo

compleanno gli regalai un suo ritratto. Proprio come quello del suo caro Dorian Grey.

- Spero solo che non abbia i medesimi effetti.- scherzai mentre mi godevo il suo bacio di ringraziamento.

Per questo motivo non ero mai riuscita a disfarmene. Temevo che potesse nuocergli come era accaduto a Dorian.

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Forse ha ragione Michele, devo smetterla di leggere certe

cose. Ho notato che iniziano a condizionarmi. Tolsi la tela dal cavalletto e la poggia sul pavimento,

contro la parete. Il blocco di argilla alto 160 cm e spesso e largo 60,

avvolto nella pellicola per mantenere l’umidità e non farlo seccare, sembrò guardarmi.

Fu una piacevole sensazione, perché erano passati mesi dall’ultima volta che l’aveva fatto.

Non sono una pazza visionaria, e chi vive l’arte come la vivo io sa di cosa sto parlando.

Oscurai la stanza con la tenda per non mandare troppa luce diretta sull’argilla. Mi fremevano le mani. Desideravo

davvero affondarle in quella massa compatta e sentirla ammorbidirsi piano piano sotto le dita, ma l’impulso svanì

così come era comparso quando suonò di nuovo il campanello. Basta una piccola distrazione a farlo volare via.

Il campanello continuava a suonare con insistenza. Lanciai una stampella contro la tela poggiata alla parete

e con l’altra mi aiutai ad arrivare all’ingresso. - Ti si è incastrato il dito sul pulsante?- strillai mentre mi

avvicinavo. Spalancai la porta di scatto e Michele si fiondò in casa.

- Hai dimenticato qualcosa?- chiesi per nascondere la sorpresa.

Era agitato almeno quanto me. - Allora?-

- Perché fai così, Iris?- - Faccio cosa?-

Liberò un profondo sospiro prima di continuare - Smetterai mai di odiarmi?-

- Guarda che… Io non ti odio affatto.- - Ti sforzi molto per dimostrare il contrario allora.-

Fece per avvicinarsi, ma si fermò.

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- Non volevo ferirti, prima.-

- Lo hai fatto. Sai bene quanto ci tenessi a quel bambino.- - Io no invece, vero?-

- Non sono qui per litigare di nuovo, Iris. Non lo capisci?-

Mi irrigidii - E che cosa vuoi allora?- Con una falcata fu a un centimetro da me - Non voglio

niente.- sussurrò - Ma smettila di odiarmi. Non lo sopporto.-

Col cuore in accelerazione e il fiato corto tentai di fare un passo indietro per prendere le distanze, ma mi trattenne

avvolgendomi un braccio attorno alla vita. La sua fronte sulla mia - Mi dispiace tanto.-

- Lo so.- sussurrai trattenendo il tremore che invadeva il mio corpo per intero.

Lentamente mi lasciò andare, accertandosi che riuscissi a rimanere in piedi senza aiuto.

- Devo andare.- mormorò carezzandomi una guancia - Sta attenta e non fare sciocchezze, ok?- il bacio sulla fronte

che mi diede prima di uscire non aveva niente a che vedere con quell’orrore che mi aveva dato quando era andato via

poco prima. Io intanto rimasi impietrita a guardarlo mentre varcava la

soglia e si richiudeva la porta alle spalle. Il cervello doveva essersi inceppato, perché non riuscivo

a realizzare cosa fosse successo. Tornai in camera e mi lasciai cadere sul letto. Non riuscii

a prendere sonno e non riuscii a muovermi per ore. Rielaboravo all’infinito quell’innocuo gesto, ma mi era

così familiare che non sapevo come interpretarlo. Mi aveva stretta a quel modo troppe volte. Avrei potuto facilmente

fraintendere e farlo non avrebbe affatto giovato al mio istinto di conservazione difettoso.

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4

Andai a far controllare il ginocchio e i punti alla mano

insieme a Daniela. Dalla notte dell’incidente non avevamo più accennato al ragazzo e nessuna delle due sembrava

volerlo fare per prima. Era trascorsa una settimana e non era stato trovato nessun cadavere abbandonato, non era

stato portato nessun ferito grave in ospedale. Il ginocchio era quasi guarito. Zoppicavo appena e non

usavo le stampelle già da un paio di giorni. Eravamo sedute nel corridoio fuori il reparto di ortopedia

insieme a una donna non giovanissima che cullava una bimba di un paio di anni nel passeggino e un ragazzo col

braccio ingessato. L’aria condizionata attutiva il bruciore del sole che

filtrava al secondo piano dalla grande vetrata chiusa. Le sedute erano di fronte i due ascensori per il personale

medico e di tanto in tanto si apriva una porta con all’interno un’infermiera dietro un paziente seduto sulla sedia a rotelle

del reparto. Avevo appuntamento con l’ortopedico alle undici, ma

erano le undici e mezzo e il reparto era ancora chiuso. Daniela sfogliava una rivista di gossip trovata lì e non mi

prestava la minima attenzione. Meno male che l’avevo portata con me per farmi compagnia.

- Credi che dovrei chiamarlo?- dissi senza togliere lo sguardo da un corvo sul ramo della magnolia secolare nel

giardinetto dell’ospedale. - Michele?-

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- Chi se no?-

- Dipende.- Se è impegnata con altro, bisogna tirargli via le parole

con le pinze, ma quella mattina non ne avevo voglia, perché di solito finivo con l’arrabbiarmi.

Mi bruciava un po’ la ferita alla mano. La massaggiai senza successo.

- Vado un momento in bagno.- dissi piano. Daniela annuì senza alzare lo sguardo dall’articolo che

stava leggendo. I bagni pubblici sono al piano terra, vicino l’accettazione,

quindi ripresi l’ascensore per non fare le scale. Schiacciai il pulsante con lo zero, ma si fermò al primo

per far salire qualcuno. Di solito tengo lo sguardo basso in ascensore quando ci sono degli estranei. Non mi piace dare

confidenza in un posto così ristretto. Quella mattina invece, attirata dal profumo che invase il gabbiotto quando entrò,

sollevai la testa. Mi prese un tonfo al cuore quando mi sembrò di

riconoscere il viso del ragazzo che avevo investito. Non potevo essere sicura che fosse lui, perché era buio e

non mi ero soffermata molto sul suo volto, e poi questo mi sembrava più alto.

Era almeno venti centimetri più alto di me. Indossava una t-shirt arancio chiaro con cappuccio, bermuda neri e

scarpe da ginnastica. Gli occhiali da sole all’interno del casco che teneva appeso all’avambraccio escoriato. Un

cerotto sulla fronte. Mi sorprese a fissarlo e abbassai subito lo sguardo, che si

posò sul torace scolpito che si intravedeva sotto la maglietta abbastanza aderente.

Non può essere lui.

La discesa durò meno di una manciata di secondi.

Quando la porta dell’ascensore si aprì non mi mossi, in

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attesa che uscisse per primo. Lui fece lo stesso e la porta si

richiuse. Imbranata!

Con un dito affusolato schiacciò di nuovo il pulsante di

apertura e stavolta mi fece capire con un cenno di accompagnamento del braccio che voleva che lo precedessi.

Uscii biascicando un confuso - Grazie!- poi mi avviai verso l’androne semideserto dell’accettazione.

Sentivo i suoi passi dietro di me, ma non avevo il coraggio di voltarmi a guardarlo meglio. Lo feci solo

quando imboccai il corridoio che conduceva ai bagni, ma stava già varcando l’uscita.

Senza pensare più di tanto a quello che stavo facendo, lo seguii. La sua falcata valeva almeno due delle mie, senza

dimenticare che avevo il ginocchio fuori uso. Lo seguii a distanza fino al parcheggio.

La mano riprese a bruciare, ricordandomi che ero scesa

per infilarla sotto l’acqua per alleviare il fastidio. Il parcheggio era pieno di macchine, a occhio ne saranno

state almeno cento. C’era una piccola calca di persone vicino una Nissan

Micra bordeaux. Dalle braccia che si agitavano intuii che si trattava di una disputa. Il ragazzo, che nel frattempo aveva

inforcato occhiali da sole e berretto, si fermò poco distante ad osservare la scena. Mi avvicinai anch’io.

La donna con la Micra, uscendo maldestramente dal parcheggio aveva urtato una Golf grigia apparentemente

nuova e il proprietario, un omone di cento chili o più, istigato da quello che sembrava un suo amico, inveiva

minaccioso contro di lei. I presenti, passanti casuali, si tenevano a debita distanza

parlottando fra loro senza intervenire in favore della donna in lacrime.

Mi avvicinai un altro po’ lasciandomi alle spalle il

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ragazzo, che si era fermato ad osservare tutta la scena.

Come se non bastasse, il bruciore alla mano mutò in un seccante prurito.

Il compagno mingherlino dell’energumeno, con la sua faccia arcigna tutt’altro che raccomandabile, continuava a

istigarlo alla lite. Non gli importava che la donna continuasse a scusarsi. Tremava come una foglia poverina

e, nonostante continuasse a guardarsi intorno in attesa che qualcuno si prendesse la briga di ostacolare quei due

delinquenti, nessuno si fece avanti. - Guarda che ha combinato questa stronza.- diceva il più

magrolino - Ti ha sfasciato la fiancata. Sfondagli la sua a calci, così impara ad aprire gli occhi la prossima volta.-

Senza neanche guardarlo, ma senza smettere di insultare la donna, il proprietario della Golf aprì il cofano della

macchina e ne tirò fuori un tubo d’acciaio lungo quasi un metro e dal diametro di almeno quattro centimetri. Si

avvicinò agitandolo in faccia alla donna. - Sì, spaccagli la faccia.- gridava l’altro.

Si fecero tutti indietro appena videro che la disputa stava degenerando in qualcosa di serio.

La donna era talmente spaventata che non riuscì neanche a fuggire, si coprì solo il volto con le braccia.

- Ehi!- gridò il ragazzo alle mie spalle. Mi voltai. Aveva anche tolto gli occhiali. Non stava

guardando l’uomo armato, ma l’altro. Si fece avanti verso di lui e questi indietreggiò,

aggirandolo poi per raggiungere il compagno. - Andiamocene.- disse bloccandogli l’arma con la mano -

Lascia stare, non ne vale la pena.- L’energumeno abbassò il braccio e per stizza sputò sulla

macchina della donna inginocchiata a terra terrorizzata. Guardò un momento il ragazzo che teneva fissi gli occhi nei

suoi, rimontò in auto col suo compare e andò via.

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Mentre aiutavo la donna a rialzarsi vidi il ragazzo tirare

fuori dalla tasca un piccolo taccuino su cui appuntò qualcosa.

La targa? Voleva denunciare l’accaduto? Si avvicinò a noi dopo aver riinforcato gli occhiali. Si

chinò ad accarezzare i capelli della donna - Va tutto bene adesso. È andato via.- non disse altro. Mi scrutò un

momento, poi si rialzò e raggiunse la moto nera che aveva parcheggiato poco distante. Infilò il casco, mise in moto e

sfrecciò via chissà dove. Il prurito e il bruciore alla mano erano passati e dato che

la donna aveva assicurato di essersi ripresa abbastanza da riuscire a guidare, tornai direttamente da Daniela.

- Ma dov’eri finita?- mormorò allarmata appena sbucai dall’ascensore. Era in piedi davanti la vetrata e mi venne in

contro - Sono usciti a chiamarti mezz’ora fa.- La presi per un braccio e la tirai in disparte per non farmi

sentire dagli altri pazienti in attesa - Non crederai mai a quello che ho visto?-

Sbuffò - Cosa?- - Il ragazzo dell’incidente.- sussurrai.

Daniela si voltò a guardarsi intono con ansia, poi mi afferrò un braccio e sottovoce disse - Dove?-

- Ha preso il mio stesso ascensore quando stavo andando in bagno.-

- Sei sicura che fosse proprio lui?- - Non posso esserlo al cento per cento, ma…-

Mi interruppe - Avrai visto male.- Scossi la testa con decisione - Ti dico che era lui. Aveva

anche la stessa ferita alla testa.- - Ti ha riconosciuta? Credi che potrebbe farlo e

identificarci alla polizia?- Le diedi una scrollata - Ma non capisci? Che ti importa

della polizia? Se è davvero lui, vuol dire che sta bene e che

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non ho ammazzato nessuno. Quel pensiero mi stava

facendo impazzire.- Si avvicinò con le labbra al mio orecchio per sussurrare -

L’hai detto, Iris. Se! Non ne abbiamo la certezza.- La allontanai da me con una spinta poco amichevole -

Sembra quasi che ci provi piacere a demolire ogni mia speranza. In tutti i casi.- e con “Tutti i casi” mi riferivo a

Michele.

Daniela stava per rispondere qualcosa, ma un infermiere si affacciò dal portone del reparto e chiamò il mio nome.

- Non serve che aspetti.- le dissi brusca - Prenderò un

taxi.-

- Come ti pare.- rispose lei, più scontrosa che mai. Andò a recuperare la sua borsa e si avviò alle scale mentre io

venivo inghiottita dal chiacchiericcio confuso del reparto di ortopedia.

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5

Invece di tornare direttamene a casa avevo chiesto al

tassista di accompagnarmi dal mio meccanico. Per via del ginocchio non ero ancora andata a ritirare la macchina.

Conoscevo Osvaldo perché suo figlio Filippo ha frequentato l’accademia con me. Fu proprio Filippo a

rispondermi al telefono dell’officina. Ero sempre contenta di sentirlo, e non solo perché rientrava nella cerchia dei miei

conoscenti più stretti, ma perché era un ragazzo eccezionale.

Dall’alto del suo metro e sessantacinque e aiutato dal viso fanciullesco e il sorriso perennemente stampato in faccia,

era di una dolcezza che mi era capitata raramente di scorgere in qualcuno.

- Michele mi ha detto dell’incidente.- disse salutandomi con una specie di abbraccio. Stava aiutando Osvaldo ed era

sporco di grasso. - Come stai?- - Adesso sto molto meglio. Niente di preoccupante,

credimi, lo spavento è stato maggiore del danno.- - Ma com’è successo?-

- Un cinghiale mi ha tagliato la strada.- Spalancò gli occhi - L’hai preso?-

- No, ma ho preso una quercia.- - Miseria!-

Non mi andava di pensare di nuovo a quella notte e glielo feci notare cambiando discorso - La mia auto è a

posto?- - Certo. Era quello che sospettavo. Non conveniva

riparare la cappa dell’olio, era ridotta proprio male, così ne

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abbiamo ordinata una nuova e l’ho sostituita. Ho provato a

cercarne una usata, ma allo sfascio erano finite, mi dispiace. Mi hanno chiesto di aspettare un paio di settimane, ma in

questi casi, non si ha mai la certezza che rispettino i tempi, così l’ho ordinata direttamente alla Volswagen e già che

c’ero ti ho anche riequilibrato la convergenza e dato un’occhiata ai freni.- si strofinò le mani sporche sulla tuta

da lavoro per prendere un fazzoletto di carta dalla tasca è asciugarsi il sudore dal viso - Ah, dimenticavo! Le gomme

davanti andrebbero sostituite. Rischiano ad essere pericolose sul bagnato. Sono troppo lisce.- Si avvicinò alla

mia Lupo per chinarsi a farmi notare il cattivo stato dei pneumatici anteriori. Sorrise - Ha ancora un motore da

paura, Iris. Ma me la tratti male questa cucciolotta.- - Altro che cucciolotta, è una sanguisuga! Mi costa un

occhio della testa cambiarci anche solo un bullone. Anzi… a proposito di salassi… quanto ti devo?-

- Devo chiedere a mio padre.- - Credi che possa pagarvi un po’ per volta. Al momento

sono un po’…- - Ehi! Non dirlo neanche per scherzo. Non c’è nessuna

fretta, ok?- - Grazie. Dovrei farcela a saldare tutto per la fine di

questo mese comunque, e una parte te la porto in giornata, devo solo passare a ritirare qualcosa al bancomat.-

Osvaldo uscì dall’officina e vedendomi venne a salutarmi.

- Eccoti, finalmente.- disse - Come stai? Filippo mi ha detto dell’incidente.-

C’è qualcuno che non lo sa?

- Sto bene, grazie.-

- La tua macchina è pronta. Se la porti via adesso vado a prenderti le chiavi e la fattura in ufficio.-

Alla parola fattura sentii il viso avvampare. Speravo che

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gli parlasse prima Filippo, ma Osvaldo ci aveva anticipato.

- Ecco…vedi, io…- Filippo si intromise gentilmente per togliermi

dall’imbarazzo - Ci ho già pensato io alla fattura, papà.- Avrei preferito scavare una fossa nel cemento con le

unghie piuttosto che costringerlo a coprirmi in quel modo. Col suo solito sorriso, Filippo passò una mano sul

pneumatico anteriore come se lo stesse accarezzando - Mentre vado a prendere le chiavi in ufficio, perché non le

sostituisci le gomme posteriori con queste? Sto più tranquillo.-

Così era davvero troppo però - Non ce ne’è bisogno, Osvaldo. Non ti disturbare.-

- Dieci minuti.- rispose - Dopo quello che ti è successo starei più tranquillo anch’io.-

Filippo intanto stava già tornando con le chiavi. - Non ci andrai avanti ancora molto con queste. Nel

frattempo se vuoi posso ordinartene della nuove.- - Grazie mille per la premura, Osvaldo, ma…-

- Papà?- Filippo gli passò le chiavi e Osvaldo portò l’auto all’interno dell’officina per sollevarla con la pedana

automatica. Rimasta da sola con Filippo ne approfittai per dargli un

amichevole scappellotto alla nuca - Ma come ti è venuto in mente?-

Rise - Dov’è il problema? Non è mica la prima volta che lo faccio.-

- Non mi va che passi dei guai con tuo padre a causa mia.- a ben dire, visto che suo padre è un omone alto più di

un metro e ottanta. Somigliava più a un camionista che a un meccanico.

Con aria colpevole, Filippo mi passò la ricevuta attento a non farsi notare da Osvaldo.

- Settecentocinquanta euro!- esclamai incredula. Lo fissai

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- Per una coppa dell’olio?-

- La coppa dell’olio, il lavoro sulla fiancata, la vernice, una revisione completa... Mi sono fatto prendere la mano,

mi dispiace.- La bocca mi si aprì involontariamente. Stentavo a

crederci. - Ci ho lavorato io perché avevo già deciso di non farti

pagare la manodopera, per questo mi sono permesso di dare una sistemata qua e là, ma quello spilorcio ha compilato al

fattura prima che me ne accorgessi. Mi dispiace.- Provai a riprendermi - Non ti preoccupare. Non fa

niente. Però vedi di non fargli ordinare nient’altro.- - Facciamo così: per farmi perdonare, le gomme te le

offro io.- Scossi la testa.

- È il minimo che possa fare, dopo quello che ho combinato.- Mi guardò con i suoi occhini imploranti e lui

sapeva bene che non ero mai riuscita a dire di no a quello sguardo.

- D’accordo.- Il suo viso si illuminò di un tenero sorriso - Appena

arrivano vengo a montartele a casa, ok?- Annuii ringraziandolo con un bacio sulla guancia - Ti

chiamo nel pomeriggio, così ti do la prima parte del conto.- - Va bene! -

Come promesso Osvaldo mi riconsegnò la macchina dopo pochi minuti.

Salita a bordo aprii il finestrino per salutarli. - Fa attenzione, ok? E attenta a dove ci passi. Non è un

fuoristrada.- disse Filippo. - Con quello che mi costa ci starò più attenta che mai.-

Osvaldo si strinse nelle spalle - Le macchine sono così. Sono come i bambini: delicate e costose.-

Alla parola “bambino”, Filippo sbiancò - Papà!- lo

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ammonì.

Osvaldo, abbassò lo sguardo, mortificato - Oh! Mi dispiace, tesoro. Mi è scappato.-

Mi sforzai di sorridere per non metterlo in difficoltà - Nessun problema, Osvaldo. Davvero!-

Ormai il danno era fatto. Accennò un saluto e andò a “nascondersi” in officina, lasciandomi con Filippo.

- Scusa.- disse. - Non è niente. C’è rimasto più male lui che io.- mentii -

Adesso però devo proprio scappare. Ho una serata da Gianpiero e voglio mettere un po’ in ordine a casa prima di

uscire.- - Lavori ancora lì?-

- Solo quando ha bisogno.- - Stai lavorando a qualcosa ultimamente?-

Scossi la testa. - Non ti preoccupare, anche io ho periodi morti più o

meno lunghi. Passerà!- - Lo spero anch’io.- mormorai.

Un nuovo cliente si fermò con l’auto proprio accanto a noi. Il finestrino si aprì e Filippo si chinò per indicare un

posto libero nel parcheggio fuori dall’officina - Sono da lei fra un minuto.-

- Ti lascio al tuo lavoro, allora.- dissi mettendo in moto. Annuì con un sorriso e corse dal cliente che lo aspettava

già sotto il sole, fuori dall’auto. Con la scusa di passare a ritirare i soldi per Filippo, ne

approfittai per prelevare qualcosa in più per fare un po’ di spesa prima che il mio frigorifero, per protesta, iniziasse a

prendermi a bottigliate in faccia. Era pomeriggio inoltrato quando feci finalmente ritorno

a casa. Posai le buste a terra sul pianerottolo per cercare le chiavi di casa nascoste chissà dove in borsa. Quando le

cerchi non le trovi mai quelle maledette.

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Non so come erano finite nella tasca interna per i

documenti. Erano ancora sospese al portachiavi che mi aveva regalato Michele per il nostro ultimo anniversario.

Una svista imperdonabile a cui avrei rimediato a breve. Spalancai la porta con una gomitata mentre mi chinavo a

raccogliere le buste. Mentre le sollevavo però, sentii la mano strusciare contro qualcosa di morbido e peloso. La ritrassi si

scatto lasciando ricadere la busta. - E tu chi sei?- dissi ad alta voce.

Un micione, un certosino per essere precisi, mi osservava col suo musetto paffuto.

Sorrisi - Come sei arrivato qui?- mi guardai intorno in cerca di un portone aperto sul mio piano.

Mi chinai per prenderlo in braccio e si lasciò tirare su senza difficoltà.

- Da dove sei scappato, furfante?- sembrava piacergli farsi accarezzare sotto il mento.

Suonai il campanello dei vicini per restituirlo, ma risposero tutti con la stessa espressione indifferente e

un’alzata di spalle, aggiungendo, per non essere fraintesi - Non è mio.-

Intanto il birbante, si preoccupava di massaggiare con i suoi artigli la mia camicetta nuova, tra un eccesso di fusa e

una gocciolina di saliva. Non disdegno i felini, ma quelli che sbavano proprio non li digerisco, anche se lo fanno solo

quando sono particolarmente contenti. Lo misi a terra per esaminare i danni alla camicia - E

adesso che ci faccio con te?- In risposta si infilò oltre la porta prima ancora che

entrassi io. Avevo forse preso un gatto in casa? No no, non credo

proprio. - Non ci siamo, signorino.- dissi, posando le buste della

spesa sul tavolo della cucina. Iniziai a svuotarle. - Non ho

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proprio tempo per prendermi cura anche di te.- versai un po’

di latte in un piatto di plastica, di quelli usa e getta che adopero quando vado di fretta.

Mi chinai ad osservarlo mentre si riempiva il facciotto di schizzi di latte.

Era troppo paffuto e troppo di razza per essere un trovatello. Di sicuro lo stava cercando qualcuno e prima o

poi sarebbe saltato fuori il proprietario a reclamarlo. Buttarlo per strada sarebbe, d'altronde, stata una crudeltà, e

in qualche giorno non avrebbe potuto crearmi gravi problemi. O no?

Sul terrazzo c’era un vaso in cui era rimasta solo la terra perché il Ficus Bejamin che mi avevano regalato era bello

che deceduto, così, versai la terra su un quotidiano aperto al centro e posato in un angolo sul pavimento del terrazzo.

- Ascoltami bene.- dissi al micione che mi aveva seguito all’esterno - Al primo ricordino che trovo fuori dal

perimetro di questo giornale te ne torni in strada. Sono stata chiara?-

Lo sfacciato mi scrutò inclinando la testolina su un lato. - Che hai da guardare? Queste sono le regole. Prendere o

lasciare.- Era rimasto seduto tutto il tempo, ma si alzò per

strusciarsi contro la mia gamba. - Ruffiano!-

Mentre rimettevo il vaso a posto sentii suonare il campanello.

- Resta qui.- ordinai, ma al vento, perché era già rientrato in casa.

Dovevo trovargli subito un nome se volevo mettere in chiaro chi era a comandare. Non si può rimproverare

qualcuno che non puoi chiamare per nome. Per questo si usano gli epiteti offensivi con gli sconosciuti. È un po’

ridicolo dire - Ehi, Tu! Lasciami in pace. Ehi Tu, c’ero

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prima io. Ehi Tu, guarda che hai fatto.- e via andando.

Vuoi mettere un bel - Ehi, pezzo di idiota, guarda cosa hai fatto.-

È tutta un’altra musica, no? - Chi è?- chiesi dal soggiorno.

- Sono io!- Daniela.

Aprii la porta e la vidi con le braccia protese in avanti a sorreggere una scatola di cioccolatini.

- Offerta di pace!- spiegò. Sorrisi accettando il regalo - Dai, entra.-

Si diresse direttamente in soggiorno. Il gatto era sul divano. Il sacco di pulci iniziava col piede sbagliato.

- Uuuuuuuu!- esclamò Daniela - E lui chi è?- - Una palla di pelo di passaggio.-

Fece per prenderlo, ma prima che potesse sfiorarlo, saltò giù dal divano ringhiando.

- Simpatico!- constatò guardandolo sgambettare verso la camera da letto, agitando nervosamente la coda.

- Non sai quanto.- Daniela si mise a sedere e spense la TV col telecomando

incastrato fra i cuscini - Torniamo a noi.- disse quasi euforica - Indovina chi è appena entrata a far parte del team

dello studio Baldini & Sarconi?- - Mmm…non saprei. Un indizio?-

Spalancò le braccia regalandomi un sorriso che avrebbe abbagliato perfino un cieco.

Ricambiai il sorriso - Sono davvero contenta per te. Congratulazioni, cara.- la abbracciai con affetto.

- Dopo tanto lavoro e sacrificio finalmente riesco a vedere i frutti dei miei studi.-

- Te lo sei meritato, Daniela.- mi alzai - Dobbiamo brindare come si deve all’evento.-

- Non ora, Iris. Ora devo scappare. Sono passata solo per

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darti la bella notizia. Sei la prima a cui l’ho detto. Lo so che

sono stata una pessima amica queste ultime settimane, ma ero in ansia per la risposta. Prometto che mi farò

perdonare.- - Ci puoi scommettere.- scherzai - Come minimo mi devi

una causa gratis.- - Preferirei che non ti mettessi nei guai, ma se mai

dovessi averne bisogno sarò a tua disposizione.- Mi abbracciò elettrizzata un’ultima volta e scappò via.

Di bene in meglio. Mentre io perdevo tempo a struggermi per Michele, il mondo andava avanti senza di

me. Se solo avesse smesso di correre per un paio di giorni avrei potuto provare a raggiungerlo. Può un comune

mortale raggiungere Hermes? No! Non avevo speranze. A proposito di Hermes. Non era male come nome per

quel maleducato peloso. Corto quanto basta per impedirgli di combinare guai al solo richiamo.

- Ehi, sacco di pulci.- dissi cercandolo in giro per casa - Vieni un po’ qui che dobbiamo fare un discorsetto noi due.-

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6

Una settimana di riposo dal lavoro aveva fatto bene alla

mia testa più che al fisico. Lavorare di notte non è mai stato fra le prime scelte segnalate sul mio curriculum. D’altra

parte però, non potevo permettermi di contare sul solo stipendio da operaio di mio padre, non se volevo vivere così

lontano da casa. Le mie ambizioni artistiche per fortuna mi permettevano

di svolgere la professione in qualunque posto, almeno finché non fossi riuscita a farmi notare abbastanza per i miei lavori

da essere assunta in qualche azienda seria e, in quel caso, non avrei avuto difficoltà a spostarmi ovunque avessero

voluto. Fra circa otto mesi avrei avuto un colloquio con i

responsabili del museo delle cere di Madame Tussaud a Londra. Mi avevano chiesto di presentarmi con un’opera

mia dal soggetto a scelta. Non potendo ricreare in argilla un personaggio noto per mancanza di studio sull’originale,

avrei dovuto scegliere qualcuno a mio piacimento che avrei portato con me a Londra per il riscontro degli esperti sul

lavoro in argilla. Sarebbe stata sufficiente la riproduzione della sola testa, la capacità di realizzare il resto sarebbe stato

esaminato durante i due mesi di prova. Il mio sogno è sempre stato quello di lavorare alle

scenografie e agli effetti speciali per il cinema, soprattutto americano, e una lettera di referenza del museo delle cere di

Madame Tussaud era un influente biglietto da visita. Se c’era anche una sola possibilità di riuscita, io la

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dovevo prendere al volo e provarci.

Quando avevo saputo del bambino avevo abbandonato definitivamente tutti i miei sogni per il futuro. Saltai il

colloquio al Museo e rifiutai un incontro a Los Angeles che mi aveva procurato Paolo con un pezzo grosso del mestiere.

Mi sembrava la cosa giusta da fare. Capita di sbagliarsi, no? La notizia dell’assunzione di Daniela quel pomeriggio mi

aveva risvegliata da una sorta di torpore psicologico in cui ero crollata.

Ero finalmente pronta a riprendere in mano la mia vita e ricominciare ad andare avanti. Non mi importava più che il

mondo avesse preso le distanze. Ero certa che prima o poi un qualche ostacolo l’avrebbe rallentato, ed io sarei stata

pronta a scattare per raggiungerlo e magari, perché no, superarlo.

Alle sette e mezza di sera ero già pronta per uscire. Jeans neri, camicetta bordeaux e scarpe da ginnastica. Era questa

la divisa delle cameriere del locale di Giampiero. Hermes sonnecchiava acciambellato al centro del mio

letto. Lo svegliai scompigliandoli in pelo. Mi guardò accigliato e gli sorrisi massaggiandogli il collo

- Io vado a lavoro. Tu non combinare guai mentre non ci sono. Hai la pappa in cucina. L’avvolgibile del terrazzo è

aperto un pochino, puoi uscire quando vuoi, quindi non fare scherzi.-

Stavo messa proprio male se perdevo tempo a fare raccomandazioni a un gatto, e lui sembrava pensarla come

me, perché mi guardava come se fossi pazza, e ne aveva tutte le ragioni, perché per parlare con lui rischiavo perfino

di arrivare tardi a lavoro. La pizzeria di Giampiero è un locale da cinquanta

coperti. L’arredo, di un rustico più che studiato, lo rende molto elegante nel suo insieme. Giampiero è riuscito ad

aggiudicarsi all’asta il locale più ambito della città,

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pagandolo quasi una miseria, e non perché non si fossero

fatti avanti offerenti più facoltosi di lui, ma perché durante i suoi trent’anni trascorsi in America come cuoco alla Casa

Bianca, ha avuto l’occasione, di tanto in tanto, di conoscere qualche personaggio di estrema utilità per i suoi affari futuri

in Italia. Avrebbe potuto aprire un ristorante di lusso e guadagnare

dieci volte tanto quanto guadagna con la rosticceria, ma quando gli chiesi il perché di quella scelta mi rispose che

aveva avuto a che fare con figli di puttana quasi tutta la vita e ora voleva godersi il meritato riposo continuando a

coltivare la sua passione più grande: la Pizza. Da un napoletano verace, emigrato solo per necessità,

non mi sarei aspettato risposte diverse da quella. Il locale occupa l’intero piano terra di una palazzina. 120

m2 di ampie vetrate ad arco. che percorrono il perimetro della pizzeria quasi per intero.

I tavoli rettangolari, in legno massiccio come le sedie, sono sistemati vicino le finestre. Solo negli angoli privi di

vista sono sistemati ad arte quattro separé per garantire riservatezza ai tavoli quadrati da due posti per le cene più

intime a lume di candela. Ogni vetrata è ornata con pesanti tende di tela Bordeaux

come le tovaglie e i tovaglioli. Vengono chiuse solo di giorno, quando il locale è chiuso e lo staff è a lavoro per i

preparativi dell’apertura esclusivamente serale. A mio parere, l’idea più riuscita dell’intera struttura è la

cucina posizionata a vista al centro dell’area di lavoro. Il cliente se vuole, può sedersi sugli sgabelli attorno al

bancone che percorre circolare attorno alla cucina e scambiare quattro chiacchiere con i cuochi e camerieri,

mentre si gusta la preparazione delle proprie portate. Non capita spesso che si ordini qualcosa di diverso da

pizze e patatine fritte, ma Giampiero non disdegna affatto

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di preparare anche cene complete per chiunque gliene faccia

richiesta. È il suo lavoro, dopotutto. Il suo risotto alla pescatora è il più delizioso che abbia

mai assaggiato, per non parlare del pollo arrosto, la parmigiana di melanzane, lo sformato di patate, le lasagne e

via dicendo. La verità è che Giampiero è un artista in cucina. Lo

spiega anche il fatto che non ha menu in pizzeria. È disponibile anche alla richiesta del più esigente, purché non

gli si chiedano pietanze orientali. Sono un’offesa per le sue radici partenopee. Almeno così dice lui.

Mi ha accettata come collaboratrice solo perché sono Siciliana e conosco una ricetta segreta per preparare degli

arancini di riso inimitabili. Mi ha tampinata un anno e mezzo per avere la ricetta del nettare degli dèi. Così li ha

chiamati. Lo testimonia la targhetta davanti al piatto nel banco delle rosticceria.

Io vivrei solo delle prelibatezze di quel banco. Ci sono le sette meraviglie del mondo – otto tipi diversi di polpette -, i

dodici apostoli – dodici gusti di crocchette -, i piaceri di Atlantide – sei tipi di finger food con ingredienti di mare –,

il giardino dell’Eden – ventidue stuzzichini di verdure – e in ultimo, ma non ultime, le delizie degli dèi – dieci gusti

diversi di arancini di riso, tra i quali spiccavano i miei alla sommità della struttura a piramide che conteneva i vari

vassoi. Il bancone è riscaldato in modo da assicurare pietanze

sempre calde a sufficienza. Primi piatti, secondi e contorni, invece, sono sempre preparati al momento davanti agli

occhi di tutti per garantire la freschezza del prodotto e l’alta qualità del servizio che ne giustifichi il prezzo proibitivo.

Giampiero è l’unico locale di un certo livello in cui puoi gustare una pizza al piatto a meno di cinque euro senza

neanche pagare il coperto, ma, allo stesso tempo, è l’unico

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capace di farti pagare centoventi euro per un piatto di pasta.

Nonostante ciò, da quando ha aperto, ha sempre avuto il tutto esaurito cinque sere su sette.

Riuscite ad immaginare a quanto ammonti il 10% di mancia per una intera serata? Sì? Allora riuscirete anche a

capire perché mi sono arresa alle suppliche e ceduto la ricetta degli arancini in cambio di un lavoro.

Quando arrivai a lavoro le tende erano ancora chiuse. Giampiero e gli altri due cuochi erano occupati in

cucina. - Serve una mano?- chiesi mentre gettavo a caso la borsa

sul tavolo del magazzino per i dipendenti. - Iris!- esclamò con gioia Giampiero - Abbiamo un

ritardo mostruoso stasera. Federica ha avvertito che non sarebbe venuta all’ultimo momento.-

- Tranquillo, adesso ci penso io.- - Grazie cara. Ti occupi tu delle tende e dei tavoli,

allora?- - Certo.-

Le tende vengono aperte solo dopo che i tavoli sono tutti perfettamente apparecchiati.

- Pienone anche stasera?- chiesi a Massimiliano, il braccio destro di Giampiero, mentre mi passava accanto per

andare un momento in bagno prima dell’apertura. Annuì con una smorfia - Ci sono tre cene in programma.

Hanno chiamato ieri per stabilire il menu.- - Tre tavoli diversi?-

- Sì.- sbuffò - E Federica ha visto bene di ammalarsi proprio oggi.-

Lo lasciai scappare in bagno, intanto raggiunsi Giampiero intento a sistemare il banco della rosticceria -

Dovrei servire tre tavoli da sola?- chiesi preoccupata. - Ma certo che no, tesoro.- mi diede un buffetto sulla

spalla - Ho preso un altro cameriere per aiutarci finché

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Federica non starà meglio. Anzi, dov’è finito quel furfante

di Manuel, doveva essere già qui.- Meno male.

- Ah, eccoti finalmente, credevo mi dessi buca anche tu stasera.- borbottò Gian.

- Scusi il ritardo, ho avuto un contrattempo.- rispose l’altro.

Mi voltai quasi meccanicamente, e faticai a credere ai miei occhi quando vidi Manuel in fondo alla sala che si

avvicinava. - Tu?- esclamai involontariamente.

Gian mi guardò - Vi conoscete?- - No.- rispose Manuel, poi si soffermò un momento a

guardarmi meglio - Aspetta… tu…sei la ragazza dell’ascensore? In ospedale, vero?-

Annuii in silenzio. - Il mondo è piccolo!- intervenne Gian - adesso bando

alle ciance però. Mettiamoci a lavoro.- afferrò una camicia bordeaux dal mucchio di quelle impilate con ordine sullo

sgabello lì accanto e la lanciò a Manuel, che l’afferrò al volo.

- Tesoro,- mi disse - Fagli vedere dov’è il magazzino, così può cambiarsi.-

Mentre io seguivo con gli occhi Gian che tornava a farsi imprigionare dai ritmi frenetici della cucina, Manuel si era

sfilato la maglietta e quando mi voltai per indicargli la porta del magazzino lui stava già chiudendo i primi bottoni della

camicia, lasciando intravedere un torace tonico, privo di peluria e dalla lucentezza quasi marmorea. I capelli non

troppo corti, biondo scuro, creavano un fantastico contrasto con la sua carnagione chiara, ma non affatto pallida o

rosata. Se dovessi dipingerla opterei per un avorio dai toni scuri. Mi chiesi quanto tempo impiegasse davanti allo

specchio per acconciarsi i capelli in quel modo. Sembravano

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spettinati al punto giusto, quasi come se al mattino si

svegliasse e ci passasse un paio di volte le dita in mezzo per tirarli indietro al posto del pettine.

Usava le lenti a contatto, ne ero certa, perché le iridi erano di un fascinoso viola.

Mentre indossava la camicia notai che aveva una spalla sinistra bendata con una fascia elastica color carne che, sulla

sua pelle, sembrava quasi arancione. Mi scoprii a fissarlo e distolsi subito lo sguardo prima che

se ne accorgesse anche lui. Mi schiarii la voce per parlare, ma notai che non mi stava prestando la minima attenzione.

Intento a sbottonare con disinvoltura cinta e jeans per infilare la camicia all’interno.

Avrei voluto voltarmi per dargli un po’ di privacy, ma… se ne avesse voluta sarebbe andato a cambiarsi in

magazzino, no? - Iris?- mi chiamò Gian - Le tende.-

I tavoli erano pronti, in cucina erano riusciti a recuperare il ritardo, non mancava che aprire le tende e dare inizio alla

serata. - Sei a posto?- chiesi a Manuel.

- Certo, vado solo a lavarmi le mani in bagno e sono tutto vostro.-

Gli indicai la ringhiera in legno che delimitava il perimetro aperto della scala a chiocciola che scendeva al

piano interrato in cui c’erano i bagni e i magazzini per la rimessa delle provviste del locale - Il bagno è di sotto.-

Non ringraziò neanche. Sarà anche stato un gran bel ragazzo, ma le buone

maniere non erano il suo forte. Mi stupiva che Gian l’avesse preso con sé. Ma probabilmente era stata una decisione

dettata solo dal disperato bisogno di rimpiazzare Federica all’ultimo momento.

Il profumo dell’infallibile risotto alla pescatora di

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Gianpiero copriva deliziosamente quello più intenso e delle

fritture di mare, che in compenso aleggiavano palpabili nell’aria. Per fortuna, molto presto la potente cappa a tutto

tondo sulla cucina avrebbe spazzato via anche i fumi e gli odori più persistenti, per lasciare l’intero locale come

avvolto in un ovatta fatta di delicata fragranza di pizza al forno.

L’ultima tenda che spalancai fu quella vicino all’ingresso. La calca di clienti era ormai in attesa e qualche ritardatario

si vedeva già giungere frettoloso dal fondo dell’ampio parcheggio pubblico dall’altra parte della strada.

Mentre Manuel parlava con Gian per le ultime disposizioni sul lavoro, Massimiliano mi fece l’occhiolino

complice da davanti i fornelli indicandomi Manuel con un leggerissimo cenno del capo, accompagnandolo a una

smorfietta burlesca. Ricambiai la complicità con un sorriso.

Mi auguravo vivamente che Manuel non ci cogliesse in flagrante mente sorridevamo dei suoi modi un po’ snob, ma

Massimiliano scoppiò in una risata così fragorosa che nessuno poté fare a meno di notarlo.

Manuel si accigliò guardando prima me, poi lui. Io spostai lo sguardo da un’altra parte, imbarazzata.

Quando tornai a concentrarmi su Gian che apriva le porte per accogliere personalmente ognuno dei clienti, mi

accorsi che Manuel era al mio fianco. Trasalii visibilmente.

- Ti ho spaventata?- chiese con una punta di astio nella voce.

- Non ti ho sentito arrivare.- - Forse perché non sono rumoroso come certa gente.-

Per un breve momento, molto, molto breve, avevo sperato che ci avesse ignorati - Guarda che non ridevamo di

te.- precisai.

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- Ma certo.-

Io non sopporto le persone che quando ti parlano ti guardano dritto negli occhi. Mi sento osservata e mi

mettono in imbarazzo. Infatti, evito quando posso, di incrociare gli sguardi con qualcuno che conosco da poco.

Manuel, invece, quando parlava, sembrava volerti spogliare con gli occhi. Quando ero con lui mi sentivo sempre come

se fossi completamente nuda sul palcoscenico di un teatro per guardoni in una serata col tutto esaurito.

Quando mi guardava in quel modo sembrava quasi una violenza, tanto che distogliere lo sguardo diventata una

costrizione più che un sollievo, perché la sensazione di imbarazzo non svaniva come in altre circostanze.

La sua voce era quanto di più simile a una carezza però. Nonostante il tono marcatamente insolente, il suono della

sua voce sarebbe riuscito a far sembrare un complimento perfino il peggiore degli insulti. Il ritmo era così calmo e

pacato da cullare fisicamente la mente più turbata. Eppure bastava solo riaprire gli occhi e guardare il suo sguardo

gelido e accusatorio per rompere l’incanto. Passai il resto della sera a correre da un tavolo all’altro

come un palloncino bucato che svolazza per aria come impazzito.

Manuel non tradiva la minima preoccupazione invece. Per quanto i suoi movimenti, i suoi passi, fossero più lenti

dei miei, e riusciva inspiegabilmente ad anticiparmi di almeno due ordinazioni.

Le clienti naturalmente lo adoravano. Sembravano sciogliersi in orgasmi multipli se solo gli capitava

disgraziatamente di sfiorarle. Massimiliano si stava divertendo come mai prima

d’allora - Prima che finisca la serata, quel bestione gli fa saltare i denti se non la smette di stuzzicare la sua ragazza.-

osservò infilando una mano nella ciotola dei carciofini

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sott’olio che sistemò ad arte sulla pizza che aveva sotto

mano. - È solo un esibizionista.- sentenziai, prendendomi un

momento di pausa in attesa dell’ordinazione successiva. Sorrise - C’è da dire, però che non fa nulla per

nasconderlo. Sa di piacere e ne approfitta a proprio vantaggio. Sono sicuro che stasera le mance saranno più

generose del solito. Dovresti darci dentro anche tu, non fa mai male qualche soldo in più.-

Lo guardai un po’ innervosita - C’è una bella differenza, Max. Se lo faccio io, nella migliore delle ipotesi, finisco col

ritrovarmi una reputazione da zoccola incallita.- - Nella peggiore?-

Scossi la testa - Finisco nel vicolo della spazzatura a fine turno con qualche maniaco addosso.-

Annuì con un sospirone. Gli era passata la voglia di scherzare.

Gian mi chiamò sollevando un braccio e lo raggiunsi dall’altro lato della cucina.

- Sono pronti i dessert per il 4.- - Li porto subito.-

- Porta con te il conto e digli che il caffè e il liquore lo passa la casa.-

- Ok!- Il tavolo quattro era stato sistemato in modo da poter

accogliere comodamente sette persone. Una cena di lavoro per un gruppo di avvocati che festeggiavano la fine di una

causa da cinquecentomila euro. Con la vincita avevano intascato il 20% del compenso che erano riusciti a far

aggiudicare alla vittima, che vittima non era, perché si trattava del furfante più infido della città. La vera vittima

non aveva avuto né il denaro né le conoscenze per assumere un avvocato all’altezza della situazione e la causa si era

conclusa con un verdetto di innocenza per l’imprenditore

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furfante e una condanna per diffamazione, falsa

testimonianza e chissà che altro per il povero disgraziato, che oltre al danno si era trovato fra capo e collo la beffa di

dover pagare cinquecentomila euro di danni morali. Che squallore.

Ho sempre creduto che bisogna nascere con un gene in meno per diventare un avvocato affermato. È il gene dello

scrupolo. Gli avvocati veri non ce l’hanno. Chi ce l’ha non fa carriera e prima o poi è costretto a darsi a qualcos’altro.

Daniela è una di quelle che lo scrupolo non sa neanche dove stia di casa, e proprio per questo, ve l’assicuro, è un

grande avvocato. Se non fosse così, non sarebbe mai entrata a far parte del team dello studio più rinomato della regione,

forse d’Italia. Ero stata costretta a servire i suoi futuri colleghi tutta la

sera e, per il disturbo, come minimo mi aspettavo una mancia con i fiocchi, o quantomeno gli avrei sputato nel

caffè. E che diamine!

A mezzanotte e mezza, come, d’uso, Gian accompagnò all’uscita gli ultimi clienti e serrò le porte.

Massimiliano era distrutto - Un’altra giornata come questa e cambio lavoro.- si lagnò - Sono in piedi dalle

cinque di stamattina e non metto il culo su una sedia da almeno sei ore.-

- E allora siediti in po’.- suggerii - Ci pensiamo noi a rimettere in ordine.- e guardai Manuel in cerca di assenso,

ma mi guardò come se avessi appena bestemmiato e lui fosse un rigido cattolico praticante.

- Se mi fermo adesso, non mi rialzo più.- rispose Max stiracchiandosi la schiena.

Gianpiero contava l’incasso senza badare a noi - E anche stasera è andata.- diceva fra sé.

Il momento più piacevole della serata, almeno per me, è

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quando sono andati tutti via. Il silenzio sembra quasi

cullarti le membra stanche. - Dammi retta, Max.- insistetti - Vai pure a casa a

riposare, qui ci penso io. Tu domani mattina sei di nuovo qui, io, invece, posso dormire se voglio.-

Sparecchiare i tavoli e dare una ripulita al pavimento non era un grande sforzo. E farlo senza uno zombie che si

lamenta di continuo è perfino rilassante. Come uno stretching dopo un duro allenamento.

Per fortuna si convinse che avevo ragione e si mosse lentamente per uscire dalla cucina che lo aveva risucchiato

tutta la sera. Si trascinò fino al magazzino per afferrare quasi a tastoni

il suo borsone. Stava dormendo in piedi. - Non vorrai guidare in queste condizioni?- domandai

preoccupata, ma a vuoto, perché Massimiliano non percepiva neanche più la mia voce - Gianpiero? Si

ammazzerà se prende la macchina adesso.- Sollevano gli occhi dai soldi, Giampiero si soffermò a

dare un’occhiata a Massimiliano, che non riusciva ad imboccare la porta e borbottava qualcosa di

incomprensibile. Rise di lui, ma solo perché era davvero buffo vederlo in quello stato - Ma dove va?- mi chiese

divertito. - A casa. Voleva restare a dare una mano per pulire,

ma… guardalo. È esausto. Gli ho detto di tornarsene a casa però non mi ero accorta che stesse così.-

Rise ancora, più forte di prima - Oh, tesoro. Non avresti dovuto. Dopo serate così lo riaccompagno sempre io a casa.

Non ha neanche la sua macchina, sono passato a prenderlo stamattina. Non potrebbe andarsene neanche se volesse.-

sistemò le banconote nel suo borsello, senza riuscire a smettere di sorridere - E adesso chi lo ferma?-

Manuel si mosse per recuperare Massimiliano che aveva

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trovato il modo di aprire la porta ed era uscito.

Gian lo fermò - Vado io, non ti preoccupare. È meglio se porto subito a letto quel dormiglione o domani non lo

alzano neanche le cannonate.- - Lo fai lavorare un po’ troppo.- obiettai.

- Credi che non mi piacerebbe farlo riposare di più?- sembrava dispiaciuto - È una scelta sua non rispettare le

otto ore. Io non gli ho mai imposto gli straordinari.- lanciò un’occhiata a Max per assicurarsi che non attraversasse la

strada, ma lo vide poggiato alla vetrata e si tranquillizzò. - Mi dispiace, Gian. Non intendevo dire che…-

- Tranquilla, micetta. Ho capito. Ti prometto che proverò a convincerlo a prendersi qualche ora di riposo in più prima

che crolli definitivamente, d’accordo?- Annuii soddisfatta.

- Ci pensi tu a chiudere qui?- chiese mentre cercava le chiavi dell’auto in tasca - Se vuoi puoi anche andare, ci

penso io domani mattina a rimettere a posto.- - Non c’è problema, Gian, posso restare, non sono

stanca.- Mi diede un bacetto affettuoso sulla guancia - Portati le

chiavi a casa, io userò quelle di riserva per domani.- - D’accordo.-

- Sta attenta quando esci, ok? Non mi piace la gente che va in giro a certe ore.-

- Ho la macchina qui fuori.- - Ok, perfetto. A domani allora. Sei libera vero?-

- Sì sì.- Si voltò a guardare fuori. Manuel stava intrattenendo

Massimiliano. Rise - È meglio che vada o quel dormiglione mi stramazza sul marciapiede.-

Lo salutai con un cenno del capo e presi a sparecchiare il tavolo più vicino.

Appena fui certa che Max fosse al sicuro, chiusi le ultime

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tende che erano rimaste aperte.

Manuel rientrò con noncuranza. Non sembrava neanche tanto stanco - La mia roba?- chiese guardandosi intorno

nella speranza di scorgerla in quel caos. - Magazzino.-

Ma aveva davvero intenzione di andarsene e lasciarmi lì da sola a fare tutto? Non riuscivo a crederci, ma non gli

avrei neanche dato la soddisfazione di farglielo notare. La sua maglietta era piegata sul casco della moto sul

tavolo del magazzino. Avevo posato tutto lì quando era andato in bagno a lavarsi le mani.

Uscì dallo stanzino dopo qualche minuto, con il casco in una mano e la camicia nell’altra. La sventolò per farsi

indicare dove lasciarla. - Poggiala dove ti pare.- risposi un po’ brusca.

Mi fissò divertito. - Ti faccio ridere?- chiesi stizzita.

- Un po’.- Ah! Perché mi stupivo? La sincerità è una conseguenza

diretta dell’arroganza. - Ma tu dici sempre quello che pensi? Non ti poni mai il

problema di poter ferire qualcuno?- Scosse la testa - La sincerità non dovrebbe fare male.-

Beh! - A volte ferisce.- Si avvicinò per lasciare la camicia sulla sedia del tavolo

che stavo sparecchiando - Perché?- chiese cercando i miei occhi con i suoi.

Non mi piaceva la sensazione di disagio che sentivo quando lo avevo così vicino.

Indietreggiai con la scusa di occuparmi di un altro tavolo - Ti farebbe piacere se ti dicessero che sembri un

presuntuoso esibizionista?- Ci pensò un po’ su, o almeno finse di farlo -

Probabilmente no, ma non me ne farei una malattia.

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Ognuno è libero di pensare ciò che preferisce, io al massimo

potrei impegnarmi per fargli cambiare idea sul mio conto.- Risposta studiata - Ci hai messo troppo a rispondere.-

Inarcò un sopracciglio in modo adorabile, quasi innocente, attirando però la mia attenzione sulla sottile

cicatrice sulla fronte. - Come te la sei fatta?- chiesi d’un fiato accennando al

segmento rosato sulla sua pelle d’avorio. - Ho preso male una curva con la moto.- rispose subito.

Questo avrebbe potuto spiegare anche la ferita alla spalla? Assolutamente no. Era solo un gran bugiardo!

- Non portavi il casco?- - No.-

- E come hai fatto a non strusciare il viso a terra?- rispondi a questa?

- Perché quando sono caduto ho sbattuto contro un muro.-

- E ti sei fatto solo quel taglietto?- - Ti interessa tanto al mia salute?-

- No, affatto.- Si infastidì e questa volta oltre al viso lo rivelò anche il

tono della sua voce fino ad allora tranquilla - E allora perché quest’interrogatorio?-

- Non mi piace essere presa in giro, tutto qui.- - E io sono il presuntuoso? Che mi importa di prenderti

in giro? Chi ti conosce!- Stronzo!

- Mi spieghi come fai a sbattere la fronte a destra e ferirti la spalla sinistra?-

- Perché ho sbattuto tanto forte da rimbalzare dall’altra parte, lussandomi la spalla.-

Ma perché stavo infierendo così, non sarebbe stato più semplice chiedergli se era lui il ragazzo dell’incidente di una

settimana prima? - Allora come minimo avresti avuto un

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trauma cranico.-

- E chi ti dice che non l’ho avuto?- - Non ti credo.-

Si avvicinò fino a porre il suo viso a un centimetro dal mio, poi sussurrò risoluto - Non è affar mio.-

Il cuore mi sembrava impazzito. Non so se fosse per la rabbia di non riuscire a farlo confessare o per il terrore che il

mio incubo fosse tutt’altro che finito. E se Daniela avesse avuto ragione? Se davvero non era lui il ragazzo

dell’incidente? Eppure io, più lo vedevo, più continuavo ad essere certa di non sbagliarmi.

Prese un po’ le distanze per darsi una sistemata prima di uscire - È stato un vero piacere.- disse ironico. Non c’era più

traccia di astio nella sua voce. Non gli risposi neanche. Afferrai il vassoio con le

stoviglie del tavolo 11 e mi incamminai verso la cucina. Naturalmente, Manuel non si sognò minimamente di

insistere e spalancò la porta per andarsene. Avevo quasi raggiunto il bancone principale quando una

violenta scossa alla mano mi fece mollare meccanicamente la presa, rovesciando tutto a terra.

Manuel aveva ancora la mano sulla maniglia. Si fermò a guardarmi.

Mi stringevo il pungo al petto per far passare il tremito che mi scorreva ancora nel braccio.

Rientrò chiudendo di nuovo la porta - Tutto bene?- Che domanda stupida.

Si avvicinò cauto e prese a raccogliere i cocci dal pavimento.

- Lascia stare.- dissi incattivita dall’imbarazzo - Faccio io.-

- Non ho poi tutta questa fretta di andarmene.- Mi inginocchiai per aiutarlo a mettere le prove del danno

nel vassoio. Posai la mano su una tazzina da caffè rimasta

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illesa e lui me l’afferrò.

- Posso vedere?- chiese, guidando la mia mano verso di sé.

Del taglio rimaneva solo un linea sottile sul palmo, un po’ arrossata.

- Quando te la sei fatta?- domandò serio. - Perché ti interessa saperlo?- balbettai.

Era calmo. Anche troppo per non spaventarmi - Rispondi per favore.-

- Circa una settimana fa?- - Puoi essere più precisa?-

- Perché?- Mi fissò negli occhi e, come una cretina, mi sciolsi alla

sua muta supplica. - Sabato scorso.-

Annuì liberando un sospiro angosciato, poi si rimise in piedi lentamente. Era visibilmente turbato. Cercava l’uscita

con lo sguardo come se il suo primo pensiero istintivo fosse quello di uscire da lì il più in fretta possibile.

- Che c’è?- chiesi alzandomi a mia volta - Qualcosa non va?-

Scosse la testa senza perdere di vista la porta. - Sicuro? Non è che hai qualcosa da dirmi per caso?

Qualcosa che riguardi sabato notte ad esempio.- Mi guardò cercando, senza successo, di non far trapelare

l’ansia che gli stava scuotendo le membra in un tremito quasi percettibile.

- Devo andare.- riuscì a dire. Dovevo approfittare del momento e scoprire la verità

prima che fosse troppo tardi - Eri tu, quella notte, vero?- - Non so di cosa stai parlando.- rispose subito.

- Sabato notte. L’incidente.- - No!-

- E invece sì. Ti ho riconosciuto subito quando ti ho visto

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in ospedale.-

- Mi confondi con qualcun altro.- - No!-

- E invece sì.- - Ti dico di no. E non capisco perché continuare a fingere

che non sia mai successo. Non voglio mica farti causa e chiederti i danni per avermi tagliato la strada

all’improvviso.- Per un momento sembrò rianimarsi - Tu… chiedere i

danni a me?- - Non voglio farlo infatti.-

Sorrise - Non potresti neanche se volessi.- - Perché no?-

- Perché, fino a prova contraria, sei tu che mi sei venuta addoss...- si fermò troppo tardi.

- Allora è vero! Eri tu!- non riuscii a trattenere un sospiro di sollievo - Non sai quanto sia sollevata adesso. Avevo

creduto il peggio.- - Sì, ho notato.- rispose indispettito.

- Ma che fine avevi fatto? Sei sparito.- - Sparito? Non mi sembra che ti sia preoccupata di

cercarmi però.- Vero! Tanto vero da fare male.

Non sapevo proprio cosa rispondere e preferii tacere per non peggiorare la mia situazione.

Si vedeva lontano un miglio che voleva andare via, ma allora perché continuava a stare lì con me?

- Puoi andare se vuoi.- dissi. - Non ancora. Anzi, se non ti dispiace, preferirei

aspettare che tu finisca.- - Ne avrò ancora per un po’, non so quanto ti convenga

aspettare.- - Non è un problema.-

Perché era così serio d’improvviso? Quasi in allerta.

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- Visto che resti, dammi almeno una mano, così finiamo

prima.- Annuì posando il casco su uno dei tavoli già sparecchiati,

ma più che darmi una mano mi mandò i nervi al manicomio a forza di andare a controllare fuori oltre la

tenda ogni dieci minuti. - Aspetti qualcuno?- sbottai quando non ne potei più di

quel rito snervante - Mi metti ansia.- - Oh, scusa. Non volevo.-

La lavastoviglie era carica, l’avrebbe avviata Gianpiero in mattinata. I tavoli erano sgombri e lucidati. Il pavimento

lavato. I bagni puliti. Diedi un’occhiata all’orologio alla parete. Le due e

trenta. - Sembra proprio che possiamo andarcene.- annunciai.

- Bene!- Aspettò che prendessi le mie cose in magazzino e tenne

la porta aperta in attesa che uscissi. - Grazie per avermi fatto compagnia.- dissi girando la

chiave nella serratura. - Sei libero adesso.- - Vuoi che ti accompagni a casa?- chiese guardandosi

intorno di continuo. - Non ce n’è bisogno, ho la macchina qui davanti.- e

gliela indicai. Si mordicchiò il labbro inferiore, affatto convinto - Ti

darebbe fastidio se ti seguissi fino a casa con la moto? Giusto per stare più tranquilli che non succeda niente.-

- Che cosa dovrebbe succedere?- Si avvicinò, prendendomi la mano ferita fra le sue. Erano

di un caldo rassicurante - Per favore.- - Mi stai spaventando, Manuel.-

Lasciò la presa, rimettendo le mani in tasca - Ho uno strano presentimento. Tutto qui. Sono sicuro che è una

sciocchezza, però vorrei stare tranquillo.- spiegò - Tanto ti

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seguirei comunque, quindi preferisco farlo col tuo

consenso.- - Ma lo sai che sei strano?-

Sorrise - L’ho sentito dire.- rimase immobile in attesa di una mia risposta positiva.

Ci pensai un po’ su, poi visto che non mollava… - D’accordo, ma guai a te se ti fai venire in mente strane

idee.- Tese le labbra in un sorriso contagioso - Allora

andiamo?- Scossi solo la testa, rassegnata, e a lui piacque, perché

scoppiò a ridere.

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Manuel mi seguì davvero fino a casa con la sua moto.

Non capivo il perché di quella premura improvvisa, ma ammetto che mi sentii più tranquilla. Quel paranoico, con le

sue chiacchiere, era riuscito a spaventarmi. La prima cosa che feci quando entrai nell’appartamento

fu barricare la porta dall’interno con una poltrona del soggiorno. Accesi le luci in tutte le stanze. Il buio non mi

aveva mai fatto paura come in quel momento. - Accidenti a te!- gridai al nulla augurandomi come una

stupida che fosse ancora abbastanza vicino da sentirmi. Il contenuto del piatto di carta sul pavimento in cucina

era ancora intatto. Mi mancava solo un gatto viziato. Per fortuna gli avevo portato qualche avanzo dal locale.

All’improvviso mi accorsi di non averlo ancora intravisto in giro per casa.

- Hermes?- chiamai - Qui, micio micio.- Appena si sentì chiamare sbucò dal terrazzo con tutta

calma e venne a strusciarsi alle mie gambe. Lo presi in braccio e me lo strinsi al petto. Dovevo essere disperata se

cercavo coccole da un gatto. Era morbidissimo e l’avrei portato a letto con me come il

maialino di peluche che usavo da bambina quando avevo paura e non riuscivo a prendere sonno, ma Hermes non era

dello stesso avviso, infatti resistette appena qualche minuto e poi iniziò a divincolarsi per farsi mettere giù.

- Sei un ingrato, lo sai?- Ebbe perfino il coraggio di ringhiarmi quel piccolo

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sfacciato.

- Attento a te, sacco di pulci, sei vicino tanto così ad essere sfrattato.- e gli mostrai la misura del pericolo fra

pollice e indice. Mugugnò qualcosa come se mi avesse capito e se ne

andò verso la camera da letto agitando la coda. - E non rispondere, se non vuoi che ti faccia castrare

prima di ributtarti in strada.- Stavo litigando con un gatto? Avevo proprio bisogno di

cure. Scacciatolo dal mio letto per dispetto, mi spogliai per fare

una doccia prima di coricarmi fra le lenzuola pulite. Il getto fresco dell’acqua tiepida sui muscoli affaticati mi rilassò

abbastanza da farmi desiderare di dormire. Mentre ero ancora in bagno squillò il telefono di casa, ma lasciai correre

perché avevo ancora inserita la segreteria. “ Iris? Sono Michele. Volevo solo sapere come ti senti,

visto che non ci siamo più sentiti.” Appena udii la sua voce mi precipitai fuori dal bagno per

afferrare la cornetta e rispondere, ma appena fui a un passo dal telefono non trovai più il coraggio di farlo.

Tacque un momento e credevo che avesse terminato, ma poi riprese, sembrava un po’ a disagio però “ Beh, a dire il

vero ti ho chiamata anche per un altro motivo. So che non ho alcun diritto di chiedertelo, ma… mi domandavo se

saresti disposta a darmi il mio ritratto. Te lo compro se necessario. Fai tu il prezzo, non c’è problema.”

Oh, merda! Da atea, ringraziai Dio di non avermi lasciato rispondere

al telefono. Non avrei proprio saputo come spiegargli che il suo adorato ritratto era stato letteralmente lavato via dalla

tela. Ma era solo un quadro, dannazione! Perché ci teneva

tanto?

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In quel momento avrei dissepolto Oscar Wilde solo per

fargliela pagare di aver scritto quel maledetto romanzo. Hermes doveva aver fiutato il panico, perché se ne stava

seduto a terra a fissarmi con aria innocente. Lo guardai torva, ma lui di rimando mi fece le fusa più

affettuose che gli avessi mai sentito fare. Si lasciò prendere in braccio e stavolta non fece il matto, si fece portare fino in

camera e si acciambellò al centro del letto sbadigliando prima di infilare il musetto sotto la coda.

Erano le quattro passate del mattino e faceva un caldo asfissiante. Non osavo aprire le finestre perché ero ancora

scossa dai discorsi di Manuel, ma se non avessi trovato uno spiraglio d’aria al più presto sarei stata costretta a fare

un’altra doccia per togliere via il sudore dalla pelle. Di solito vado a letto con solo una t-shirt abbastanza

grande da passare per una camicia da notte lunga fino a mezza coscia. Quella mattina però sembrava asfissiarmi

perfino quella. Non so quando riuscii a prendere sonno, ma per fortuna

lo feci, anche se mi svegliai che non era ancora l’alba. La mia bella dormita si era ridotta a meno di tre ore di sonno.

Fantastico. Mi rigirai nel letto in cerca di una posizione più comoda

che mi riconciliasse il sonno, e tra una posizione e l’altra mi accorsi che avevo lasciato la luce in bagno accesa. Le altre

mi ero costretta a spegnerle prima di andare a letto, ma quella doveva essermi sfuggita.

Mi alzai stiracchiandomi. Dovevo aver esagerato un po’ a lavoro, perché non riuscivo a poggiare bene il piede a terra

senza sentire una punta di dolore al ginocchio ferito. Zoppicai fino al bagno, ancora assonnata. Il caldo alle

cinque e mezza del mattino si era attenuato, ma avevo la fronte sudata, e volevo rinfrescarmi il viso, anche se ciò

avrebbe significato dire addio al letto per quella mattina.

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Nel mentre che aprivo la porta del bagno mi accorsi che

l’acqua della doccia era aperta. Se fossi stata più sveglia mi sarei spaventata, ma intontita com’ero, i riflessi reagirono

solo quando ero già dentro. Lanciai un urlo che, sono sicura, svegliò tutto il palazzo.

Assurdo a dirsi, ma c’era Manuel sotto la doccia. E ancora più assurdo, sembrava più sorpreso di me nel

vedermi nel mio bagno, in casa mia.

Si coprì subito con un asciugamani, e ci tengo a precisare che anche quello era mio.

Istintivamente, afferrai la prima pseudo-arma che vidi, e

si trattava dell’arricciacapelli sulla mensola dello specchio del lavandino. Era ancora collegato alla presa della corrente

e lo accesi per farlo scaldare. Manuel uscì dalla doccia tenendo le mani bene in vista -

Non trarre conclusioni affrettate. Iris.- Chi, io? Quando mai! Strillavo senza neanche

rendermene conto - Per questo hai voluto seguirmi fin sotto casa?-

- Ecco, appunto!- Gli agitavo il ferro rovente pericolosamente vicino alla

faccia - Hai anche il coraggio di prendermi in giro?- Non poteva indietreggiare, perché era già spalle al muro -

Attenta a non scottarmi con quel coso.- - L’idea è proprio questa.-

- Non strillare!- - Non t’azzardare a dirmi cosa devo fare in casa mia.-

- Vuoi che chiamino al polizia?- - Lo farei io comunque.-

- Mi lasci almeno spiegare?- - No!-

Fece per farsi avanti e afferrarmi il polso della mano armata, ma lo ritrassi di scatto sfiorandogli l’avambraccio

nudo.

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Non volevo davvero ferirlo, era stato un incidente.

Nello stesso istante in cui gemette per il dolore, si dissolse in una nuvola di fumo dal profumo di muschio

bianco. E al suo posto, da sotto l’asciugamani sul pavimento comparve Hermes, che schizzò fuori dal bagno

passandomi tra le gambe. Se il primo urlo era sfuggito a qualcuno, il secondo

raggiunse anche i palazzi vicini. Tremavo tutta e nonostante ci fossero quasi trenta gradi

in casa, mi sentivo gelare. Era come se i miei incubi avessero preso forma all’improvviso. Mi capita spesso che

per via della stanchezza il mio cervello rielabori a modo suo i romanzi che leggo, e per la seconda volta in un giorno solo

mi ritrovai senza una spiegazione apparente a pregare Dio che fosse solo un perfido incubo creato dal mio cervello

impazzito. Eppure ero davvero in bagno, l’arricciacapelli era

davvero nelle mie mani e potevo percepire il calore che emanava, senza togliere che il piccolo bagno era intriso di

odore di carne bruciacchiata. Come se tre sensi non bastassero poi, dal soggiorno si sentiva il raschiare di piccole

unghie contro la porta-finestra del balcone. Di quali altre prove avevo bisogno per rendermi conto che ero sveglia?

Da atea non avrei saputo giustificare in nessun modo quello che avevo appena visto. La magia si può attribuire

solo al sovrannaturale ed è proprio il concetto che fuggono gli atei. Per questo per me i romanzi traboccanti di mostri,

demoni e quant’altro non hanno nessun effetto sulla mia psiche. Sono troppo convinta che non esistano. Ma se

esistessero? Se avessero ragione gli altri? Se esistesse davvero un Dio, un’entità superiore?

Dovevo accettare questo per accettare quello che era successo, o avrei dovuto seriamente prendere in

considerazione l’ipotesi di vedere un medico al più presto,

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perché avrei potuto spiegare il tutto con un termine soltanto:

Follia.

Ma parliamoci chiaro! Se fossi impazzita me ne sarei

accorta, no? avrei dato segni di squilibrio anche in altre

situazioni, o no? Mentre rimuginavo a vuoto in cerca di risposte, Hermes,

Manuel o qualunque cosa fosse quello scherzo della natura, miagolò. Non era il suo solito miagolio, era più inquieto.

Lasciai il ferro dov’era e uscii dal bagno per andare in soggiorno a vedere. Sembrerà strano ma non volevo correre

il rischio di ferirlo di nuovo. Non aveva mai provato a farmi

del male, dopotutto, e io lo volevo vivo perché presto o

tardi, se ci teneva alla sua incolumità, il signorino avrebbe dovuto darmi una spiegazione più che credibile.

Beh! Detta così, devo ammettere che un tantino folle potrei sembrarlo.

Strisciai contro la parete del corridoio sgusciando silenziosamente in laboratorio per afferrare la scopa che era

ancora nell’angolo dietro la porta dove l’avevo lasciata l’ultima volta.

Pazza, sì, ma scema da presentarmi a mani vuote proprio no.

Hermes raschiava il vetro agitando nervosamente la coda. L’avevo chiusa per la notte. con le orecchie tirate

indietro quasi a sparire, emetteva un sinistro brontolio senza neanche il bisogno di aprire la bocca.

- Che c’è? Non puoi scappare?- volevo sembrare coraggiosa e perfino un po’ spavalda, ma il tremore della

voce tradì ogni proposito di fare la dura. Herm…Man… insomma, quella cosa, si voltò verso di

me assumendo una posizione di attacco. Ringhiando mostrava le piccole zanne, ma che male avrebbe potuto

farmi un gatto? Quello che non capivo era perché non si ritrasformava in umano. Così com’era non poteva certo

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spaventarmi.

Mi avvicinai al divano senza perderlo di vista - Avrei dovuto immaginarlo che mi avresti portato solo guai, sacco

di pulci.- Ringhiò ancora.

Sorrisi, ma forse era la tensione - Credi davvero di poter avere la meglio piccolo e fragile come sei?-

Agitava con tanta forza la coda da fare rumore contro il vetro.

- Ti lascerei anche andare, ma non ci sto a farmi dare ordini da una palla di pelo.-

Senza neanche servirsi dell’effetto di fumo al muschio, mutò in una pantera dal manto nero e lucido come il

petrolio. Il suo ruggito e le zampe più grosse della mia mano fecero tutto un altro effetto.

Per lo spavento balzai all’indietro e persi l’equilibrio cadendo col sedere a terra.

Ecco. Adesso mi ammazza.

Avrei voluto gridare, ma il cervello, più furbo di me, se

l’era già data a gambe, lasciandomi lì immobile, in balia della belva.

Dovevo solo decidere se morire da coniglio o da leone. Non che facesse molta differenza visto che sarei morta

comunque. - Esigo delle risposte- balbettai - e quindi non si muoverà

nessuno da qui fino a quando non le avrò avute. Sbranami pure se vuoi, ma la finestra non te la apro.-

Avrebbe potuto cogliere il suggerimento, sbranarmi, riprendere sembianze umane e aprirsela da solo, ma perché

non lo faceva allora? A pensarci bene aveva avuto tutto il tempo per ritrasformarsi e aprire la finestra.

Non ci capivo più niente. Visto che non si avvicinava, ebbi il tempo per recuperare

un po’ di sangue freddo e rimettermi in piedi. Non tentai di

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minacciarlo di nuovo con la scopa neanche per sogno.

L’avevo fatto inferocire abbastanza. - Non potremmo parlare?- dissi piano. Più forte non

riuscivo proprio - Prometto che non urlerò e non proverò neanche a farti del male. Scusa per il ferro, è stato un

incidente.- Mi stavo scusando con un mostro? Bella mossa Iris. Adesso sì che ti prenderà sul serio.

- Non potresti tornare come prima?- Non ero certa che mi capisse, anche perché era ancora

sulla difensiva e non sembrava volersi rilassare. Fece per avanzare e mi scappò un gemito, allora si

fermò. - Ok, d’accordo! Facciamo così: se prometti di non

sbranarmi, io me ne torno in camera mia. Puoi andare via se vuoi. Ti lascio la finestra della cucina aperta. Se vuoi

darti una calmata e parlare, invece, puoi raggiungermi in camera, ma gradirei che non ti presentassi così. Non che

abbia qualcosa contro le pantere, ma è già tanto che non stramazzo qui adesso per un infarto, quindi…cerca di

venirmi incontro, ok?- Senza togliergli gli occhi di dosso, arretrai un passo alla

volta fino alla cucina. Come promesso spalancai la finestra dalla quale entrarono i primi bagliori dell’alba. Dopodiché,

sgusciai fuori dalla stanza e corsi in camera da letto, dove mi infilai completamente sotto le coperte nonostante il

caldo. Le lacrime mi colavano sul viso senza controllo. Per la prima volta in vita mia, scoprii cosa significa tremare per

la paura. Non udivo il minimo rumore dal soggiorno e il mio

unico desiderio in quel momento era riuscire a sopravvivere, non mi interessava altro.

La sveglia suonò alle undici come l’avevo regolata. Io ero ancora sotto le coperte e non avevo il coraggio di mettere il

naso fuori dalla mia inutile tana.

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D’un tratto sentii qualcosa saltare sul letto. Il cuore mi

balzò in gola, facendomi gemere. Riuscivo solo a pensare che stavo per morire sbranata da una belva feroce e non è

un bel pensiero prima di morire. In attesa che accadesse qualcosa mi rannicchiai in posizione fetale. Aspettai

qualche minuto, poi sentii un basso miagolio accompagnato da fusa.

A quanto pareva aveva scelto di rimanere e parlare, ma come pretendeva di farlo se era tornato ad essere un gatto?

Per quanto non riuscivo ancora a credere che fosse reale, non sarei mai e poi mai riuscita a digerire un gatto parlante.

Tirai lentamente giù la coperta per scoprire gli occhi. Il micione era seduto al centro del letto e mi guardava col suo

facciotto innocente. Che si fosse trattato davvero di un incubo?

Liberai anche il resto del viso dalle lenzuola e provai a tendere un braccio per toccarlo. Non si ritrasse, ma si

strusciò contro la mia mano. Appena il cuore smise di ostruirmi la gola, ricominciai a respirare regolarmente e

riuscii perfino a mettermi seduta, anche se non ricordavo più cosa si dovesse fare per emettere suoni.

Finito di strusciarsi, Hermes sollevò un lembo del lenzuolo col musetto e vi sparì sotto. Come al suo solito, si

acciambellò al centro del letto e prese a leccarsi la manina, che si passò poi sul musetto, prima di sbadigliare e crollare a

dormire. - Credevo che dovessimo parlare.-

Non mi diede ascolto e fra una fusa e l’altra continuò a sonnecchiare.

Assurdo!

Non avevo il coraggio di scendere dal letto, anche perché

con lo scemare della paura, sentivo il corpo sprofondare in un delicato torpore. Attenta a non sfiorarlo neanche, mi

accucciai dalla mia parte del letto e crollai fra le braccia di

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Morfeo.

Quando mi svegliai, accanto a me, c’era Manuel al posto di Hermes. L’ultima volta che l’avevo visto non aveva

niente addosso, quindi supposi facilmente che fosse altrettanto nudo sotto le mie lenzuola.

Era rivolto col viso verso la porta e mi dava le spalle. Il respiro lento regolare mi suggerì che stava ancora

dormendo. Il lenzuolo di cotone azzurro lo copriva dai fianchi alle

ginocchia, lasciando scoperto il busto e i polpacci scolpiti. Sull’avambraccio, il segno dell’ustione che gli avevo lasciato

e i segni di un’escoriazione recente. I capelli si erano arricciati a formare teneri boccoli color

miele. A quanto pare se li stirava in qualche modo per tenerli solo un po’ mossi.

Sembrava così innocuo e indifeso ora che era lì così vicino a me.

Volevo svegliarlo? Forse, dopotutto, avrei potuto anche aspettare e godermi quella quiete per un altro po’.

Ritrovata la calma riuscii perfino a rendermi conto che avevo un uomo completamente nudo nel mio letto, ed io

indugiavo ancora lì con lui. Michele è stato il mio primo ragazzo e l’ultimo aggiungerei. Avevo diciotto anni quando

ci siamo conosciuti, lui ne aveva solo due più di me, e decisamente molta più esperienza. Io arrivavo in una

metropoli di milioni di persone da un micro paesello siciliano. Vita vissuta? Neanche l’ombra. È vero che erano

passati sei anni da allora e che sono cambiata tanto da offuscare completamene la Iris del passato, ma in quanto a

uomini continuavo a saperne troppo poco. Non si può dire di conoscere gli uomini se ne hai frequentato solo uno,

anche se per molti anni. Potevo dire di conoscere Michele, ma gli altri? Un mondo sconosciuto per me.

Eppure ero lì, non propriamente vestita e con un ragazzo

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nudo nel mio letto. Ma che mi passava per la testa?

Mi misi a sedere cercando di non far dondolare troppo il letto. Se da quel gesto fosse dipesa la mia vita, sarei morta,

perché nel farlo un raggio di sole mi finì dritto in faccia e mi venne da starnutire. Non feci in tempo a trattenerlo.

Ma è normale essere allergici al sole? L’estate per me è sempre una tortura. Specie al mattino quando passo dalla

penombra alla luce diretta. Sentii Manuel muoversi, ma non ebbi il coraggio di

voltarmi dalla sua parte a guardare, mi coprii solo con le lenzuola. Volevo alzarmi per indossare almeno un paio di

pantaloncini, ma ero stata boicottata. Si stiracchiò.

Aspettavo che dicesse qualcosa, ma non mi è mai piaciuto molto aspettare, quindi presi una bella boccata

d’aria e mi voltai. Era voltato verso di me, le braccia incrociate al petto, e

mi fissava curioso. - Che hai da guardare?- chiesi scontrosa, osservandomi

per accertarmi di non aver dimenticato di coprire qualcosa. Nel dubbio tornai a stendermi supina con le lenzuola fino al

collo. - Sei scorbutica anche di prima mattina?- disse con la sua

voce maledettamente incantevole. - Non mi sembri nella condizione di fare prediche, sai?-

Ci provò, ma non riuscì a trattenersi dal sorridere. Un sorriso da furbetto che mi penetrò nelle carni più che negli

occhi. Eh no! Così proprio non era leale.

- Smettila!- lo ammonii. Trasalì - Di fare cosa?-

Di tentare di sedurmi - …lo sai.- - No, ti sbagli.-

- Di fare qualunque cosa tu stia facendo. Non riuscirai a

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farmi ignorare quello che è successo.-

Sorrise di nuovo, ma solo perché non voleva scoppiare a ridere. Ci avrei scommesso un braccio che se avesse potuto

mi avrebbe riso in faccia. - Mi hai fatto male, sai?- mostrò l’ustione sul braccio.

- È solo una leggera scottatura. Già si vede pochissimo.- - Solo perché guarisco in fretta.- Non ho mai sentito

nessuno parlare con così tanta calma. Avrebbe potuto chiedermi di gettarmi da un aereo senza paracadute, con

quella voce, e l’avrei assecondato. - Ma il dolore l’ho sentito tutto.-

- Non volevo, è stato …- - …un incidente. Sì, l’ho già sentita questa.- Ho un mostro nel letto. Ho un mostro nel letto. Ho un mostro

nel letto. Non riuscivo a pensare ad altro.

- Manuel?- - Dimmi.-

Ci misi un po’ troppo, ma alla fine lo chiesi - Che cosa

sei?- Finse una certa sorpresa, ma si vedeva che stava solo

giocando - In che senso?- si sollevò sull’avambraccio per sporgersi su di me - Potresti essere più precisa, per favore?-

Più precisa? L’avrei fatto volentieri se fossi riuscita a riprendere a respirare. Chiusi gli occhi per non vederlo. I

suoi occhi mi stavano spogliando di quel poco che avevo. Speravo che capisse da solo di togliersi di torno, visto che

mi era quasi addosso, ma a lui, quella vicinanza sembrava non infastidirlo affatto.

- Non volevo spaventarti stanotte. Credevo dormissi e ne ho approfittato per fare una doccia. Le altre notti non ti sei

svegliata. Forse sono stato poco attento e ho fatto troppo rumore. Mi dispiace.-

- Che cosa sei?- chiesi di nuovo. - Quello che vedi, ma con qualche sfaccettatura in più.-

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- Che cosa vuoi da me?- ricordandomi di avere ancora gli

occhi chiusi come una cretina, li riaprii. Manuel era ancora troppo vicino.

Questa volta la sorpresa nei suoi occhi fu sincera - Cosa ti

fa pensare che voglia qualcosa?- si fermò un momento a riflettere, poi aggiunse - Che cosa potrei volere, secondo te?-

A me lo chiedi? Non sapevo cosa rispondere e non lo feci.

- Rispondi a questa domanda, per favore.- rispese lui - La notte dell’incidente, per caso mi hai toccato il sangue sulla

fronte con la mano ferita?-

- Ehm… è passato tanto tempo e… non ricordo molto di

quella notte.- - Neanche io, per questo devi aiutarmi a capire cosa sia

successo. È importante.- Ci pensai su - Qualcosa ho fatto, ma non ricordo quale

mano ho usato.- - Potresti aver usato questa?- sussurrò e mi sfiorò con

l’indice le dita della mano sinistra saldamente aggrappate al lenzuolo.

- Potrei.- balbettai. Si fece un po’ serio.

- Non è che adesso torni ad essere la belva di stanotte e mi sbrani?-

Trasalì di nuovo - La belva?- - Dai, non fare finta di non capire. La pantera o

qualunque cosa fosse l’animale in cui ti sei trasformato?- Si soffermò un istante a riflettere, poi tornò il sorriso sul

suo bel viso - Che hai combinato di tanto grave?- chiese. - Io?-

Sembrava divertito - Scusami, ma la mia forma umana non trattiene molti ricordi di quello che succede quando mi

trasformo.- - Vuoi dire che avresti potuto sbranarmi?-

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- No, tranquilla. Sono perfettamente cosciente di essere

quello che sono anche se non sono in forma umana, però quando mi ritrasformo ho difficoltà a ricordare quello che è

successo.- Ne parlava come se mi stesse rivelando un comunissimo

difettuccio da niente. - E vuoi saperlo da me?-

- Se ho ritenuto necessario ricorrere a qualcosa di più feroce di un gatto, evidentemente hai fatto o detto qualcosa

che mi ha spinto a farlo.- Che insolenza - Ah! Quindi è colpa mia?- lo spinsi via e

lui si mise a sedere sul letto, coprendosi con quel po’ di lenzuolo che gli concedevo.

Sbuffò. - Lo sai vero, che questo piccolo particolare porterà

qualche cambiamento fra noi?- osservai. - Che tipo di cambiamenti?-

- Non crederai di poter continuare a vivere qui?- mi misi a sedere anch’io - Anzi… non ho neanche capito che cosa ci

fai qui.- - Sinceramente?- chiese.

- Certo.- - Ho dovuto farmi curare per l’incidente, e siccome uso

pochissimo la forma umana, non mi sono mai preoccupato di cercarmi una casa mia. Quindi mi serviva un alloggio per

la convalescenza.- - E dato che ti ho investito io, hai visto bene di trasferirti

qui.- - No, affatto.-

- Quando ci siamo visti in ospedale, non ho capito subito chi fossi. Non ti conoscevo perché non ti avevo vista quella

notte. Nel parcheggio poi ho capito tutto.- - Capito cosa?-

- D’averti contagiata in qualche modo. Ieri sera poi, ho

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visto la mano e…-

Il telefono squillò facendomi sobbalzare dalla paura - Porca put…-

C’era ancora la segreteria inserita. “ Iris, sono Roberta.

Giulio ha un compito in classe di matematica domani mattina, ce l’avresti un oretta per dare un’occhiata ai suoi esercizi? Sarò in ufficio fino alle quattro, chiamami lì per farmi sapere. Ciao.”

Roberta era la madre del ragazzetto della palazzina

accanto a cui a volte facevo ripetizione di matematica e chimica.

Avevo la schiena impregnata di sudore gelido.

Manuel mi fissava ancora.

- Di che contagio stai parlando? Sei malato?- Scoppiò a ridere senza neanche provare a trattenersi

stavolta. - Ti sembra divertente tutto questo?-

- Un pochino.-

- Avrei dovuto farti più male!- S’incupì all’improvviso e un mezzo ruggito gli risalì dalla

gola. - Si può sapere che cosa mi hai fatto?- strillai.

- Se ricominci a strillare torno com’ero e tanti saluti alle spiegazioni.-

Arrogante! È troppo facile fare il duro se si ha il coltello dalla parte del manico.

Mi si riempirono gli occhi di lacrime, ma per il nervosismo - Voglio solo che mi spieghi che cosa sta

succedendo.- Annusò l’aria come a voler percepire qualche odore in

particolare, poi disse senza scomporsi più di tanto - Ho fame! Tu no?-

- Vaffanculo, Manuel.- - Ehi! Che cosa ho detto di tanto grave?-

Stanca di essere presa in giro, sgusciai fuori dalle

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lenzuola e mi infilai la prima cosa a portata di mano: il

pantalone della tuta che uso per la palestra. Era piegato sulla sedia accanto al cassettone.

- Ho da fare.- bofonchiai indispettita - Ma l’hai sentito anche tu. Rientrerò in serata, e mi aspetto di non trovare ne

tè né palle di pelo in generale al mio ritorno.- - E dove dovrei andare?-

- Ovunque tu sia stato fino a qualche giorno fa. Non è che me ne importi molto.-

- Ma ti sei offesa per qualcosa che ho detto?- sembrava sinceramente dispiaciuto.

Non gli risposi! Andai in cucina senza neanche voltarmi a guardare cosa faceva. Ma, conoscendolo, di sicuro mi

stava fissando.

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8

Il sole di agosto è troppo torrido per me, che sento caldo

perfino a gennaio. Detesto sudare, soprattutto se sto uscendo per recarmi a casa di qualcuno.

Avevo avvertito Roberta che sarei passata da lei attorno alle cinque e mezzo del pomeriggio. Preferivo che fosse

tornata dal lavoro, perché Giulio con sua madre nei dintorni diventava quasi uno studente modello.

Avevo lasciato Manuel a sonnecchiare un altro po’ nel mio letto, con la promessa che sarebbe uscito quando me ne

fossi andata. Stavo attraversando la strada quando mi squillò il

cellulare nella borsa. Lo recuperai senza distogliere lo sguardo dal semaforo e dalle auto pronte a ripartire a razzo

appena fosse scattato il verde. - Pronto?-

- Iris, sono io.-

- Ciao, Filippo. Sarei passata in officina da te in serata per il saldo della fattura.-

- Mi trovi qui, ma non ti ho cercata per questo.-

- Ah, no?- - Lo sai che puoi prenderti tutto il tempo che vuoi.-

Mi fermai davanti al portone della palazzina di Roberta -

Non mi chiami mai, Filippo. È forse successo qualcosa?- - Ricordi il mio amico Eugenio?-

- Il barbiere?-

- No, l’altro. Il direttore del Giordana.-

- L’hotel!-

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- Sì.-

- Certo che me lo ricordo. È da una vita che non lo incontro. Sta bene?-

- Benone. Ha acquistato una nuova ala del palazzo, accanto

all’Hotel per ampliare la struttura con un centro benessere.-

- Sto messa così male, Filippo?- Lo sentii ridere anche se aveva scansato la cornetta dal

viso - Ma no, tontolona. Te lo dico perché mi ha chiesto se conosco

qualche artista di valore che sarebbe disposto ad esporre i propri

lavori per l’inaugurazione.-

- E hai pensato a me?-

- Mi sembrava una buona idea. Hai sempre voluto uno spazio

tutto tuo.-

- E perché non ne approfitti per esporre i tuoi?- - Perché non so quanto sia interessato al genere di arte che tratto

io.-

- Sono degli ottimi lavori, Filippo. E non smetterò mai di

dirti che ti sottovaluti troppo.- - Beh, allora diciamo che non me la sento di mettermi ancora in

mostra.-

Scossi la testa, rassegnata a non convincerlo - Ti sarei

d’aiuto volentieri, caro, ma al momento le mie creature non sono esibibili al pubblico.-

Il suo tono cambiò da euforico a sospettoso - Lo dici solo

per persuadermi ad esporre i miei lavori.-

Un corvo si fermò sul balcone del primo piano, proprio sopra di me. sgambettava avanti e indietro sul corrimano

della ringhiera, guardando di sotto. - Ti giuro che non ti farei mai uno sgambetto del genere.

Adesso però devo lasciarti, sono già in ritardo per un appuntamento. Ti spiegherò tutto quando verrò in officina.

Promesso.- - Fai sul serio allora?-

- Purtroppo sì. Sarebbe stata un’ottima occasione per me,

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ma non posso proprio accettare.-

- E va bene. A più tardi allora.-

- A più tardi.- risposi, ma aveva già riagganciato.

Sollevai la testa a guardare il Corvo che sii era fermato

per fissarmi meglio. Era quasi due volte più grande di una comune cornacchia e il piumaggio nero era così lucido da

farlo sembrare di vetro. Ci avrei scommesso la vita che si trattasse di Manuel -

Che fai, mi segui adesso? Toglitelo dalla testa.- sventolai le braccia come a scacciare un calabrone - Vai via.-

Se mi aveva visto qualcuno dovevo essergli sembrata

fuori di testa.

Ignorando totalmente le mie inutili minacce, il corvo riprese a passeggiare sul corrimano.

Improvvisamente una scossa alla mano mi fece ritrarre il braccio. Il corvo gracchiò, sembrava nervoso mentre fissava

un uomo attraversare la strada diretto sul mio marciapiede. Emetteva un verso minaccioso, come quello che si sente in

alcuni film dell’orrore e agitava le ali velocemente. Non era la prima volta che vedevo un gesto simile. È il tipico segnale

di allarme degli uccelli. L’uomo che lo innervosiva era di statura media, sui

cinquant’anni o poco più, una pancetta accennata, vestito con una tuta blue da operaio e scarponi antinfortunistici.

Non aveva molti capelli e quelli che si vedevano erano grigi come i baffi e la corta barba sul mento. All’apparenza non

aveva proprio niente di minaccioso, eppure Manuel non la pensava allo stesso modo.

Con un salto spiccò il volo e sparì nel vicolo accanto. Se voleva mettermi paura c’era riuscito. Un’altra volta.

Suonai al citofono di Roberta e nel frattempo tenevo d’occhio l’uomo che si faceva sempre più vicino col suo

passo assolutamente tranquillo. - Chi è?- chiese Roberta.

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- Iris.-

Forse era suggestione, ma la fitta alla mano si accentuava propagandosi lungo i braccio man mano che quell’uomo si

avvicinava. Aspettavo che il portone si aprisse col comando

automatico da un momento all’altro e invece non succedeva niente e quel tipo, sembrava puntare proprio verso di me.

Iniziai a sentire nitide le pulsazioni accelerare attraverso il sangue che pulsava contro le pareti della carotide.

Suonai di nuovo il citofono e mi accorsi che mi tremava la mano.

L’uomo ormai era a pochi metri da me. Chiunque, sano di mente, se la sarebbe data a gambe, io

invece avevo il piccolo difetto di rimanere paralizzata davanti al pericolo. Sono una di quelle che si vede arrivare

una macchina addosso e invece di buttarsi dall’altra parte, si copre gli occhi per non assistere allo schianto.

- Iris?- era Roberta - Dev’esserci un problema col comando a

distanza, scendo io ad aprirti.-

Impalata com’ero, non risposi neanche, anzi, quando l’uomo fu a un passo da me, chiusi gli occhi.

Mi sentii afferrare la gola e solo allora trovai il coraggio di riaprirli. Piuttosto che vedere quello che vidi avrei

preferito rimanere cieca per sempre. Ammesso che fossi sopravvissuta a quell’orrore.

La… cosa che mi era venuta addosso, mi teneva la gola con una mano sola e non sembrava fare il minimo sforzo,

neanche quando mi sollevo da terra per avere i miei occhi all’altezza dei suoi.

Io, mi sentivo già svenire per la mancanza di ossigeno già ridotta al minimo dalla paura e come se non bastasse

incrociando il suo sguardo mi sentii sprofondare in un baratro senza fondo. I suoi occhi, rossi come le fiamme

dell’inferno, proiettarono nella mia mente come in un film,

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in quello che fu un minuto infinito, tutti i mali del mondo,

tra i quali: miseria, violenza, morte, crudeltà, odio, disprezzo.

Sentivo la sua malvagità scorrermi fin dentro le ossa e non riuscivo a fare niente, se non stare a guardare ciò che

mi mostrava. D’un tratto poi, mi sentii scaraventare a terra. Nel farlo

battei la nuca contro il portone blindato del palazzo, ma almeno le visioni erano svanite e riuscii a vedere l’uomo

contorcersi per liberare il braccio col quale mi aveva afferrato dalle zanne di una pantera che mi sembrò perfino

più grande di quella che avevo visto nel mio soggiorno. Un fluido scuro sgorgava dalle ferite infertegli dalla fiera e

quando cadde a terra sulla schiena e la pantera gli strappò un pezzo di carne prima di azzannarlo alla gola, l’uomo

emise un verso che non avevo mai udito prima. Qualcosa di assolutamente disumano. L’animale gli lacerò la gola fino a

mostrare la spina dorsale e parte della clavicola, che scricchiolò sotto i suoi denti aguzzi.

Disgustata dalla scena, per non vomitare, porsi l’attenzione su qualcos’altro e fu allora che mi accorsi che il

mondo intorno a noi si era fermato. Come se la vita intera, in tutte le sue forme, fosse stata messa in pausa per

permettere quell’orribile scontro fra mostri. Ma perché io non ero stata inclusa in quell’inconscia immobilità?

I versi di dolore dell’uomo mi si impigliarono nelle carni come gli artigli che gli stavano lacerando il petto.

- Basta!- gridai con quanto fiato avevo in gola, e non era molto - Manuel, smettila. Lascialo andare.- per lo shock

non mi ero neanche accorta che stavo piangendo. La pantera sembrò aver udito le mie grida e si voltò a

guardarmi col muso insozzato di sangue e gli occhi bramosi di continuare il massacro.

- Ti prego, smettila.- dissi.

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Dopo aver ruggito all’uomo guardandolo dritto negli

occhi, la belva si scostò da quell’ammasso di carne a brandelli e con indifferenza si mise seduto per leccarsi le

zampe anteriori in modo da ripulirsele dal sangue. Un uomo normale sarebbe morto all’istante,

probabilmente dissanguato a causa del primo morso, e invece quello si rialzò e, premendo la mano del braccio

intatto sulla lacerazione alla gola, si trascinò via scomparendo tra la folla ancora impietrita che un attimo

prima passeggiava tranquillamente sul marciapiede. Ero ancora seduta contro il portone. Mi sembrava essere

lì da ore, e invece capii che erano passati meno di due o tre minuti al massimo, perché Roberta non era ancora neanche

uscita dall’ascensore quando quel pazzo mi era saltato addosso. Quanto può impiegare qualcuno a scendere in

ascensore dal quarto piano? Ora lo so! Il tempo di un aggressione mortale.

Avevo serie difficoltà a respirare, perché anche il minimo movimento risultava una violenza fisica per il mio stomaco,

che non desiderava altro che liberarsi di quel misero pacchetto di crackers che avevo mangiato prima di uscire di

casa, visto che non avevo pranzato. - Che cazzo è successo?- chiesi ansimando.

La pantera sospese le pulizie per guardarmi. Mi aspettavo, con orrore, che dicesse qualcosa da un momento

all’altro, invece si alzò e con un balzo riprese le sembianze del grosso corvo che avevo visto poco prima e si librò in aria

nella stessa direzione in cui era fuggito l’essere mostruoso che aveva tentato di strangolarmi.

Nello stesso istante in cui mutò forma il mondo riprese a muoversi intorno a me. O forse non aveva mai smesso di

farlo? Il passaggio improvviso dall’immobilità al caos mi diede

le vertigini, infatti quando provai ad alzarmi non ci riuscii.

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Roberta arrivò alle mie spalle un attimo dopo.

Vedendomi a terra si affrettò ad aprire il portone per aiutarmi - Iris, cara. Che cosa ti è successo?-

Sono stata aggredita da un mostro. Sarebbe stato perfino divertente dirglielo e gustarmi la sua espressione.

- È stato solo un giramento di testa.- risposi sperando di risultare convincente, anche perché dal vetro del portone

potevo notare che il terrore sul mio viso non lo era affatto. - Povera cara. Forse è un calo di pressione. Vieni su che

ti preparo un po’ di tè zuccherato.- Roberta era una delle donne più deliziose che avessi

incontrato. Ha cresciuto due figli praticamente da sola, dopo che il marito l’ha abbandonata per una squinzia

straniera qualsiasi. Giulio, il più piccolo dei due, aveva solo tre anni quando suo padre se l’era svignata. Nonostante ciò,

Roberta non si era lasciata prendere dallo sconforto, ma si era rimboccata le maniche e tra un lavoro e l’altro aveva

tirato su i bambini con le sue sole forze. Era sempre stata una donna affascinante. Alta un metro e settanta circa,

capelli rossi e una pelle invidiabile, poteva uscire di casa anche coperta con un sacco della spazzatura e sarebbe

comunque sembrata bella come se vestita di tutto punto per partecipare ad un matrimonio in grande stile.

Beata lei! Mi piaceva chiacchierare con lei, era piacevole, ma in

quel momento non ero davvero nelle condizioni di stare vicino a chicchessia se non volevo rischiare di vomitargli in

faccia. - Se non ti dispiace, me ne tornerei a casa. Sono

mortificata, Roberta, ma dovrai cercare qualcun altro per aiutare Giulio, io non me la sento proprio.-

- Ma non dirlo neanche per scherzo, Iris. Pensa a riprenderti piuttosto.- mi aiutò a rimettermi in piedi, visto

che da sola non ci riuscivo proprio - Ti accompagno a casa.-

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9

Erano le nove e trenta di sera quando mi svegliai nel mio

letto. Roberta mi aveva accompagnata fin dentro casa e mi aveva costretta a bere della disgustosa acqua zuccherata per

risollevare la pressione. Aveva aspettato che mi mettessi a letto e dato che non

ricordavo d’averla vista uscire, probabilmente era andata via solo dopo che avevo preso sonno.

Appena riuscii a rimettere in moto il cervello mi ricordai di non aver avvisato Gianpiero che non sarei andata a

lavoro. Mi alzai a sedere troppo in fretta, perché la stanza prese a

girare vorticosamente. Mi portai una mano davanti agli occhi per attenuare le vertigini, ma non servì a molto,

perché la nausea trattenuta tornò a farsi sentire e prima che potessi anche solo pensare di correre in bagno, fui costretta

a chinarmi verso il pavimento e vomitare. Ero così debole che riuscivo appena a sorreggermi con le

braccia per non cascare dal letto. Tenevo gli occhi chiusi, ma non ebbi bisogno della vista per sapere chi era salito sul

letto e mi teneva una mano sulla fronte e un braccio attorno alla vita.

Mi sembrava di rigettare disgustoso ferro fuso, e quando aprii gli occhi mi accorsi d’aver vomitato sangue. Era di un

rosso così scuro da sembrare nero alla penombra del crepuscolo.

Quella roba schifosa mi colava lungo il mento fino al collo, e la vista di tutto quel sangue mi nauseava ancora di

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più, però non potevo rigettare altro, ero svuotata.

- Ti senti meglio?- sussurrò Manuel alle mie spalle, ancora avviluppato a me.

- Sembra di sì.- - Mi dispiace, è tutta colpa mia.-

- Puoi dirlo forte.- gli feci capire che volevo sdraiarmi e lui senza lasciarmi mi sorresse fino ad adagiarmi

delicatamente con la testa sul cuscino. Poi rimase accanto a me, in ginocchio al centro del letto.

- Ho avvertito io Gianpiero. Gli ho detto che non stavi bene.-

feci per contestare, ma mi zittì posandomi l’indice sulle labbra. - Ho mandato due amici fidati a dargli una mano al

locale, visto che Federica è ancora ammalata e io sono qui con te.-

Un problema in meno. Si sfilò un fazzoletto dalla tasca del jeans e mi ripulì dalle

macchie di sangue con estrema delicatezza, quasi col timore di potermi fare del male.

Indossava una maglietta nera e notai che aveva dei graffi sulle braccia.

- Che cos’era quella cosa che mi ha attaccata oggi?- Smise di fissarmi e si voltò a guardare la finestra aperta.

Non voleva rispondere, così come non voleva dirmi cos’era egli stesso.

- Manuel?- con delicatezza gli misi una mano sulla guancia costringendolo a voltarsi vesto di me - Per quanto

ancora vorrai fingere che non stia succedendo niente?- Sembrava arrabbiato. L’ira che traboccava dai suoi occhi

era palpabile come il vento. - Fidati di me.-

Anche se molto lentamente, la sua espressione si addolcì. - Allora?- insistei.

- Era un demone degli Inferi!- disse d’un fiato.

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Oh!

Almeno un milione di domande mi frullavano per la

testa e non riuscivo a trovare la più sensata da fargli senza sembrare una scema totale. Era già difficile capire se diceva

la verità o se mi stesse prendendo in giro. Inferi? Non riuscivo a credere in Dio, figuriamoci gli Inferi.

- E che cosa ha a che fare con me tutto questo?- riuscii a chiedere.

- Te l’ho detto, Iris. Credo che tu sia rimasta involontariamente contagiata la notte dell’incidente.-

- Contagiata da cosa?- - Dal mio sangue.-

- E quindi?- Ci pensò su troppo a lungo, poi rispose - Quindi…non ne

ho idea. non è mai successo prima.- Stava provando a dare delle risposte, era già qualcosa.

Abbastanza da incoraggiarmi a fare una domanda che mi

ossessionava ormai - Manuel?- - Si?-

- Che cosa sei tu?- Non rispose.

Sorreggendomi sugli avambracci mi sollevai fino ad avere il viso a un centimetro dal suo - Che cosa sei,

Manuel?- sussurrai. Deglutì - Gli uomini ci chiamano…Angeli.-

Mi misi a sedere per bene. Mi sembrava tutto così assurdo e irreale.

Provò a posarmi una mano sulla spalla, ma lo scansai con freddezza.

Che diamine! Non poteva certo sperare che digerissi tutto in una volta? Era già illogico credere d’essere stata aggredita

da un demone, ma digerire di avere un Angelo in ginocchio sul mio letto era davvero troppo.

- Ti senti bene? Vuoi che ti porti un bicchiere d’acqua?-

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Che domanda stupida. No che non mi sentivo bene. Non

stavo affatto bene. Mi limitai a scuotere la testa. Mi portai le ginocchia al petto e vi poggiai la fronte

gelida e sudata. Lo sentii scendere dal letto.

- Che cosa vuoi da me?- chiesi ostentando una calma che non avevo.

Ci mise un po’ a rispondere - Voglio solo proteggerti.- mormorò.

- Quel… demone,- ripresi un momento fiato prima di proseguire - voleva uccidermi? L’avrebbe fatto se non fossi

intervenuto in tempo?- - Ti ha scambiata per una di noi.-

- Non mi hai risposto.- - Sì, l’idea era quella.-

- Perché?- - Perché siamo gli unici che possono annientarli.-

- In quanti siete?- - Non farmi queste domande.- sollevai la testa per

guardarlo. Era appoggiato allo stipite della porta con le mani incrociate al petto.

- Perché?- Non rispose. Tipico!

Non riusciva neanche a guardarmi. Si mordeva il labbro inferiore, fissandosi una scarpa da ginnastica nuova di

zecca. Sbuffai, però lo vedevo che era in difficoltà e non rincarai

la dose. Qualcosa mi diceva che avrei avuto modo di riaffrontare di nuovo l’argomento.

- Dove tieni di solito i tuoi vestiti?- Sembrò contento di quel cambio di argomento e infatti

gli occhi tornarono a guizzare su di me. Sorrise, un po’ imbarazzato - Nella mia tana?-

- Tana?-

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- La forma umana è quella che uso di meno.-

- E quale sarebbe la tua preferita?- Sorrise di nuovo e mi sciolse il cuore - Non l’hai capito?-

Mi sentii le gote avvampare, ma per fortuna era abbastanza buio da non farglielo notare - La pantera?-

Annuì. - E puoi mutare in tutti gli animali che vuoi?-

- Certo che no.- rispose, come se fosse scontato che conoscessi la risposta - Ognuno di noi è legato ad alcuni

animali in particolare.- - Beh! Tu sei legato ai gatti, ai corvi, alle pantere e…?-

- Non ti bastano?- rispose ridendo. - Questi tre?-

Annuì. - Due neri e uno grigio.- osservai - Non ha molto senso.

Perché non ti trasformi in un gatto nero?- - Non lo so. È così e basta. È sempre stato così.-

- Da quanto tempo date la caccia ai demoni?- - Dal giorno della ribellione.-

Non risposi e lui mi guardò. Dalla mia espressione capì che non lo stavo seguendo.

- La ribellione. La caduta degli angeli ribelli.- elencò come a volermi rammentare qualcosa.

Scossi la testa. - Hai mai sentito parlare della grande battaglia

dell’esercito di Dio contro gli Angeli ribelli di …?- non pronunciò quel nome.

- Qualcosa ho sentito, ho visto alcune rappresentazioni durante il corso di iconografia religiosa, ma non gli ho mai

prestato molta attenzione.- Sembrò shockato - Ci vai mai in chiesa, Iris?-

Scossi la testa. Stava cercando di farmi sentire ignorante o in colpa? Non l’avevo capito bene.

- Non vedo perché dovrei andarci.-

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- Vorresti dire che non credi in Dio?- chiese con estrema

serietà, perfino la voce tradiva una punta di disapprovazione.

E se anche fosse? Chi era lui per farmi sentire così stupida?

- Ho smesso di crederci tanto tempo fa.- La sua muscolatura si irrigidì al di sotto della maglietta

aderente e un brivido mi scorse lungo la spina dorsale, fino a terminare in una piccola scossa sulla prima vertebra

cervicale. Trattenni a stento un gemito, ma non riuscii a non inarcare leggermente la testa all’indietro. Fu un riflesso

incondizionato alla scossa. - Posso sapere perché?-

- No!- risposi secca. Sospirò. Il suo viso, quand’era imbronciato, gli dava una

nuova nota di virilità che non gli avevo ancora visto. Si staccò in silenzio dallo stipite e lasciò la stanza.

Lo seguii in salotto, dove si era fermato, braccia conserte, a fissare il paesaggio di pietra artificiale dalla finestra

spalancata. Una lieve brezza serale gli scuoteva appena i boccoli castani trascinando con sé il profumo di muschio

bianco. La luna era al suo ultimo quarto in cielo e Manuel

sembrava fissarla, o forse fissava semplicemente il cielo, non avrei saputo dirlo.

Percepivo nell’aria la sensazione che quello fosse uno di quei momenti in cui tacere è sempre la decisione migliore,

ma avevo troppe domande da porre e lui era l’unico che poteva rispondermi.

Ferma al centro del soggiorno, con la brezza che mi rinfrescava il viso, presi un respiro profondo e chiesi - L’hai

ucciso?- Scosse la testa.

- L’avresti fatto se non fosse stato per me?-

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- Avresti preferito che lo lasciassi fare?-

- Beh, quando ti ho visto volare via ho creduto che lo facessi.-

Scosse ancora la testa, ma lo sentii anche sbuffare. - Credi che ci riproveranno? I demoni intendo.

Proveranno a farmi del male un’altra volta?- Avrei dato qualsiasi cosa per vedere la sua espressione,

ma non si voltò, rimase immobile, come di pietra - Non lo so. Probabilmente sì.- rispose lentamente, il tono cupo della

voce mi fece capire che era arrabbiato con me. Incoraggiante.

- E non c’è un modo per fermarli?- - Iris?- la voce era così profonda da non sembrare

neanche sua - Se ti dessi delle prove…concrete, crederesti?- Non aveva risposto alla mia domanda, ma non fu una

sorpresa, ormai stavo iniziando a conoscerlo. - È così importante per te?- chiesi di rimando.

- È importante per te.- Per me? Ne dubitavo fortemente.

- Quando avevo dodici anni,- dissi - avevo assillato mia madre per insegnarmi a fare il ciambellone alla vaniglia e

cioccolato.- mi fermai, era difficile per me proseguire e non capivo neanche perché glielo stessi raccontando visto che

non l’avevo mai detto a nessuno, neanche a Michele. Manuel non sentendomi parlare, si voltò. C’era accusa e

disapprovazione nei suoi occhi. Mi mordevo il labbro inferiore, ansimavo, ma era la

rabbia che montava dentro di me a farmi sentire così. - Continua.- disse controllando il tono.

Scossi la testa. - Continua.- ripeté con maggior convinzione.

- Mia madre andò un momento dalla vicina, perché le mancava un uovo per la ricetta. Stette via pochissimo. Io

intanto preparavo gli altri ingredienti sulla tavola, tutta

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contenta che il mio stupido capriccio fosse stato

assecondato.- sentii le prime lacrime colarmi sulle guance - Rossana, la mia sorellina più piccola, venne in cucina a

chiedermi di giocare con lei. Aveva quasi quattro anni.- un singhiozzo mi soffocò le parole in gola e le ginocchia

cedettero facendomi accasciare a terra con le mani aperte sul pavimento.

Manuel non fece un passo. Sempre immobile e lo sguardo fisso su di me.

- Era una bella giornata, così, per togliermela di torno, le dissi di andare a giocare in giardino. Lei mi ascoltò, anche

se non potrò mai dimenticare il suo faccino triste quando la mandai via dalla cucina. Io, intanto, contenta di essermi

tolta quel peso, continuai a preparare tutto prima che tornasse mia madre. Volevo che mi dicesse che ero stata

brava. Volevo...- - Stai divagando, Iris.- disse - Che cosa è successo alla

piccola?- I singhiozzi si fecero più prepotenti. Ormai ero fuori

controllo - La sentivo giocare con l’altalena in giardino. Potevo vederla perfino, dalla finestra.-

- Che cos’è successo, Iris?- - Mi sono distratta. Solo un momento, giuro. Sentivo

l’altalena cigolare e… ero sicura che fosse ancora lì, invece…- scossi la testa, era un ricordo troppo simile a un

incubo, la mia mente si rifiutava di riportarlo a galla. Credo che Manuel avesse intuito la mia difficoltà, infatti

non mi forzò, attese che riprendessi il fiato e il coraggio di proseguire.

- Ero attenta a pesare la farina quando… sentii un clacson, poi il fischio dei pneumatici che si consumano

sull’asfalto, infine più nulla. Sentivo che era successo qualcosa, mi sentivo quella sensazione orrenda scorrere

nelle vene, raggelandomi. Lasciai cadere il pacchetto della

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farina e corsi alla finestra. L’altalena cigolava perché si

stava ancora muovendo, ma Rossana non c’era. Rossana… la mia piccola… era a terra in mezzo alla strada. Un’auto

l’aveva investita uccidendola sul colpo.- mi coprii il volto con le mani e scoppiai a piangere a dirotto - Quale Dio

permetterebbe che accadesse una cosa del genere a una bambina?-

- Non è stato Dio ad investirla.- rispose. - Avrebbe dovuto proteggerla.- strillai con tutta la rabbia

che avevo in corpo. - Tua madre avrebbe dovuto farlo. Tu avresti potuto

farlo.- puntualizzò. Era freddo, distaccato, come se quello

che gli avevo raccontato non lo scalfisse affatto. Mi rialzai, asciugandomi il viso col dorso delle mani -

Come fai a parlare così?- - Non lo capisci davvero o fingi per lavarti la coscienza?-

Scossi la testa, incredula. - Tu non hai smesso di credere in Dio, sei solo arrabbiata

con Lui perché non ha badato a Rossana così che tu potessi continuare a fare i tuoi comodi.-

- Ma come ti permetti?- - Eri una ragazzina viziata e probabilmente lo sei anche

adesso, che aggredisci me perché la verità ti ferisce. Per questo hai preferito crescere nella menzogna e cancellare

Dio dalla tua vita, come se fosse l’unico responsabile di quello che è successo.-

Quando smise di inveire, mi accorsi che per la rabbia stavo trattenendo il respiro. C’era una mensola di legno

accanto a me. Riempii i polmoni di ossigeno, afferrai la ciotola di cristallo che c’era sopra e gliela lanciai addosso

mentre gridavo - Fuori!- Prima che il cristallo potesse colpirlo, Manuel prese le

sembianze di corvo e volò fuori dalla finestra, gracchiando. La ciotola si frantumò sul pavimento del terrazzo dopo aver

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fracassato il vetro della finestra. I suoi vestiti erano sul

pavimento dov’erano caduti quando si era trasformato. - Che tu sia maledetto, Manuel!- strillai - Che tu sia

maledetto.-

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10

Il pavimento della mia camera da letto era incrostato di

sangue, ma non era quello a preoccuparmi, piuttosto le macchioline sulle lenzuola. Quando ero rimasta sola avevo

provato a chiamare Daniela. Non volevo rimanere da sola quella notte. Mi rispose la segreteria. Quando si inserisce la

segreteria telefonica è chiaro che non si vuole essere disturbati, quindi riagganciai senza neanche lasciare un

messaggio. Passai un’ora e mezza a strofinare il lenzuolo a mollo nel

lavandino, ma oltre a tingere l’acqua di rosa non ottenni grandi risultati.

Guardando il pavimento non riuscivo a credere che tutto quel sangue fosse uscito dal mio stomaco senza provocarmi

danni gravi. All’inizio l’avevo creduta un’emorragia interna, ma visto che l’episodio non si era replicato, avevo dedotto

che si trattasse di un’altra delle assurdità che mi stavano capitando negli ultimi giorni.

Stanca di scorticarmi le dita, strizzai alla meglio le lenzuola e le gettai in un sacco della spazzatura.

Erano le undici passate e mi illusi che in TV passassero qualcosa che riuscisse a non farmi pensare alle parole di

Manuel. Alle tre e mezza del mattino, esausta, lasciai cadere il

telecomando sul cuscino del divano e mi alzai mormorando ad alta voce - Angeli, eh?- poi a voce ancora più alta, come

se così potesse sentirmi - E dove accidenti sono le tue ali?- Naturalmente non mi rispose nessuno. Ero da sola e il

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silenzio che seguì alla mia domanda me lo ricordò.

All’improvviso, come se il mio udito fosse diventato cento volte più sensibile, in piedi nel soggiorno, iniziai a

percepire rumori che non avevo mai sentito prima o ai quali, più probabilmente non avevo mai prestato attenzione.

Un consiglio? Mai soffermarsi sulla voce del silenzio, fa dannatamente paura. Soprattutto dopo aver scoperto che

l’uomo nero esiste davvero. Per distrarmi accesi lo stereo in soggiorno, anche se

ormai il danno era stato fatto. Sobbalzavo al minimo fruscio, scorgendo movimenti ovunque, sentendomi

costantemente osservata. La suggestione è una brutta bestia. Mi sarei messa a gridare se non fossi uscita subito da lì. Non

potevo restare un minuto di più. Scrutai l’orologio a muro della cucina. Le 4:45. Troppo

presto. Ancora troppo, troppo presto. Di solito, quando non riuscivo a dormire, mi mettevo a

lavoro. Le mie opere migliori – prima che le distruggessi – erano nate di notte, o al mattino presto, se preferite.

Guardandomi intorno come se fossi un’intrusa in casa mia, mi spinsi fino al laboratorio. Mi ero riproposta di

riimbiancare le tele che avevo cancellato, ma per un motivo o un altro non lo avevo ancora fatto. Mi sembrava un

lavoretto abbastanza semplice e se fossi stata fortunata mi avrebbe tenuta occupata fino a un’ora ragionevole.

Raccolsi la prima dal pavimento e la posai sul cavalletto già aperto. La riconobbi subito, era ciò che rimaneva di una

scena mitologica di Dafne fra le braccia di Apollo mentre tenta di prenderla con la forza. Gian Lorenzo Bernini ha

raffigurato la stessa scena nel marmo. Un’opera incantevole che non smetterei mai di guardare. Mi aspetto ancora che

un giorno o l’altro assisterò alla completa metamorfosi di Dafne in albero di alloro. La genialità del Bernini, a mio

avviso, sta proprio nell’intrappolare quell’atto di violenza e

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disperazione e renderlo infinito.

Su tela, avevo provato a raffigurare la medesima scena, ma in un momento diverso. Sono sempre stata convinta che

Dafne, dopotutto, non disprezzasse davvero Apollo. Semplicemente non voleva essere violata. Allora mi piaceva

immaginarla in una mattina di tarda primavera, mentre si lasciava rincorrere, giocosa, alla fresca ombra degli alberi di

un bosco di betulle. Beh, io avevo voluto intrappolare su tela il momento esatto in cui Apollo riesce a raggiungerla, la

stringe fra le braccia e con sguardo pieno d’amore la tiene stretta a sé, mentre Dafne si abbandona completamente a

lui, in attesa di un bacio traboccante di passione. Ecco, avevo voluto catturare l’istante che precede la violenza,

l’attimo immediatamente prima che l’ardore umano, tipico dei mortali, cogliesse Apollo, impedendogli di fermarsi,

impedendogli di perderla per sempre. Un imprenditore di cui non farò il nome, mi aveva

offerto centocinquanta mila euro per quel dipinto. Io nonostante quell’offerta che mi avrebbe di certo cambiato la

vita, avevo mantenuto alto il buon nome dell’arte, rifiutando.

Non oso immaginare cosa penserebbe di me se sapesse che cosa ne ho fatto.

Non mi è rimasta neanche una foto di quel quadro, l’unica copia ce l’ha il suddetto imprenditore, perché per

togliermelo di torno, visto che continuava ad assillarmi offrendomi sempre più soldi, gli avevo fatto realizzare, a

mie spese oltretutto, una stampa a grandezza naturale del dipinto.

Mentre lo inondavo di solvente mi ripetevo, fra le lacrime, che ne avrei fatto uno migliore un giorno.

Stronzate! Per ripulire del tutto la tela, avrei dovuto spennellarla

ancora con del solvente e rimuovere gli ultimi residui di

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colore. Avevo già il pennello in mano e il secchiello col

solvente dell’altra. Non dovevo fare altro che intingerlo in quel liquido maleodorante e passarlo sulla tela. Oggi vorrei

che la fitta allo stomaco che mi prese in quel momento mi avesse uccisa tre mesi prima, quando il solvente glielo gettai

sopra, direttamente dal secchio. Senza lasciare il pennello e il secchio, indietreggiai dal

quadro fino a toccare con la schiena la parete alle mie spalle.

Le lacrime tornarono a imbrattarmi il viso, risvegliate dagli spettri del passato.

Non lo sentii neanche arrivare, mi accorsi solo che mi sfilava il secchio dalla mano. Lo posò a terra delicatamente

e dopo mi prese anche il pennello, che immerse nel solvente.

I singhiozzi erano così violenti che mi scuotevano tutta, ostacolandomi perfino il respiro. Avevo gli occhi talmente

offuscati dal pianto da non riuscire a mettere a fuoco Manuel. Sapevo che era lui, che era lì, anche senza vederlo.

La sua presenza era troppo palpabile. Con delicatezza, e senza dire una parola, mi posò una

mano sulla spalla e mi voltò piano verso di lui. Subito dopo le sue braccia si strinsero attorno a me, e allora mi sentii

come sospesa a mezz’aria, leggera, al sicuro. Era lui la causa di quel pianto, eppure non mi sarei mai

sottratta a quell’abbraccio, e non so perché, ma anche se avessi potuto scegliere, avrei sempre e comunque scelto lui

per starmi accanto in quel momento. La pelle liscia e calda del suo torace scaldò il mio cuore

avvizzito, risucchiandone il dolore. Aveva indossato solo i jeans che non avevo avuto il coraggio di raccogliere dal

pavimento insieme al resto dei suoi vestiti. Sentivo il suo respiro profondo sul collo. Era estremamente rilassante

sentirlo respirare sulla mia pelle e le sue braccia mi tenevano

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così stretta che riuscivo a percepire le fibre muscolari dei

bicipiti. Avrei potuto rimanere fra quelle braccia per giorni interi, sicura che più niente e nessuno avrebbe potuto

ferirmi. Ma allora perché si sciolse da me? Si schiarì un po’ la voce mentre indietreggiava a testa

bassa, massaggiandosi la nuca. Mentre si allontanava, mi accorsi che aveva i segni di un

morso sulla spalla. Non sanguinava, ma dai segni rosati sulla pelle si capiva che doveva averlo fatto, e molto.

- Sei ferito?- chiesi quasi bisbigliando. Si osservò la spalla - Non è niente.-

Tirai su col naso, asciugando le guance ancora bagnate - Dove sei stato?-

- Sono sempre stato nei dintorni.- - E quello come te lo sei fatto?-

Le sue guance si tinsero di un delizioso rossore. Manteneva lo sguardo basso per non incrociare i miei occhi.

- Non sapevo che gli Angeli provassero imbarazzo.- Almeno riuscii a farlo sorridere, anche se il rossore ci

mise un po’ a sparire. È particolarmente difficile risultare spaventosi quando il tuo viso mostra chiaramente il tuo

reale stato d’animo. Bisognerebbe essere delle statue per riuscire a rimanere impassibili e Manuel in quel momento,

sembrava perfino troppo vivo, troppo…umano.

- Ho disimparato a gestire questo corpo.- spiegò - Un tempo riuscivo ad evitare certi… effetti collaterali.-

Mi avvicinai di un passo e lui si ritrasse ancora, ma la parete frenò la sua fuga. - Non hai risposto alla mia

domanda.- - Un’imperdonabile distrazione.-

- Rispondi adesso allora.- Sorrise e gli occhi divennero due fessurine luminose -

Un’imperdonabile distrazione.- ripeté e la sua voce fu come una carezza dall’alto verso il basso della mia spina dorsale.

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Rabbrividii e lui se ne accorse, ma si morse il labbro

inferiore pur di non ridere. Ah! Era questa la risposta. Beh, meglio arrivarci tardi che

mai. - È un morso?- chiesi con una voce che mi appartiene

solo in momenti particolari. Annuì portando le mani in tasca.

- È stato un…demone?- Scosse la testa e il rossore si accentuò.

- Chi è stato allora?- - Non possiamo cambiare discorso?-

Sorrisi - No!- - Ti dispiace se faccio una doccia?-

- Sì!- - Iris!-

- Chi è stato, Manuel?- - Non è importante.-

- È importante per me.- - Perché?-

- Perché non mi fido di chi non risponde alle mie domande. E ho l’impressione che dovrò fidarmi di te in

qualche modo.- - Non sono tenuto a raccontarti tutto quello che faccio.-

- È vero.- ripresi ad avanzare lentamente e lui lasciò la stanza per evitare che mi avvicinassi troppo. Naturalmente

lo seguii. - Potresti mantenere una distanza più dignitosa?- chiese

con una certa inquietudine nella voce. Mi si sollevò spontaneamente un sopracciglio - Che cosa

intendi per…dignitosa?- - Preferirei limitare i contatti se non ti dispiace.-

- Beh! Niente di più semplice. L’uscita la conosci.- scherzai, ma non sembrò cogliere l’ironia, allora smisi di

farmi avanti e lasciai che si rintanasse nell’angolo meno

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esposto del soggiorno.

- Si può sapere che ti prende, Manuel?- - È proprio per evitare situazioni come questa che ho

smesso di usare questa forma per tanto tempo. È difficile sottrarmi alle pulsioni umane e ignorare di…sentire questo

corpo volubile e corrotto. Proprio non ci riesco. Non voglio finire relegato su questa dimensione come i miei compagni

solo perché non ho saputo tenere a freno questa…questa…- - Cosa?-

- Sensazione.- Da quando lo conoscevo non l’avevo mai visto in quello

stato. Dopo averlo visto sbranare un uomo mi risultava un po’ difficile credere che potesse avere paura dei propri stati

d’animo. Si premeva una mano davanti agli occhi, costringendosi

a non guardarmi. - Sarebbe stato più saggio se Dio, in qualche modo, vi

avesse resi immuni a certe pene. Non trovi?- - Sono fatto di materia mortale, Iris, benché non mi sia

concesso morire. Il mio corpo reagisce al dolore come un qualunque essere umano. È un prezzo da pagare per poter

vivere sulla terra.- - E reagisce anche al piacere, sto notando.-

Mi guardò con disprezzo - Sta lontana da me, donna.- Donna? Bel modo di dimostrare la sua superiorità. -

Guarda che non sono uno dei demoni che combatti.- replicai.

- Sai perché ho scelto volontariamente di abbandonare questa forma?-

Scossi la testa. - All’inizio avevamo deciso di comune accordo di non

interagire con gli umani, ma i Ribelli avevano già creato fin troppa confusione, lasciandosi travolgere dai piaceri della

carne con le donne dei mortali. Quest’unione dissacrante

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generò figli e figlie dagli straordinari poteri, ma per nostra

fortuna non riuscirono a concedergli l’immortalità, se non al primogenito maschio di ognuna di quelle famiglie di ibridi

celesti. Per un lungo periodo questi figli e figlie dominarono il mondo degli umani lasciando che li venerassero col nome

di dèi. Chi più chi meno fece i suoi danni e noi fummo costretti a riportare l’ordine, ma per farlo e poter combattere

quegli usurpatori dovemmo seguire il loro esempio e mostrarci agli umani incorporando materia mortale. Non

tutti, però, riuscirono a gestire questa materia fisica e molti caddero nel peccato compiendo i loro stessi errori. Quando

ci fu detto che la punizione per i peccatori sarebbe stata la relegazione eterna sul mondo degli uomini, cercammo un

accordo con gli eredi dei Ribelli, giurando che saremmo intervenuti contro di loro solo nel caso in cui avessero

apportato danni ai mortali. Una parte di loro accettò l’accordo e da quel giorno si fecero chiamare Ancharos.

Sono a servizio del Signore della morte e si occupano pacificamente della sorte delle anime immortali degli

uomini. Un’altra parte invece, si ostinò a voler mantenere la

propria indipendenza e supremazia, opponendosi a Dio. Si lasciarono guidare da quello che in principio fu l’Angelo più

caro al Nostro Signore e da quel momento in poi hanno continuato una guerra che sarebbe dovuta finire già il giorno

che vennero scacciati dal Regno. Si credeva che sulla terra gli angeli perdessero poteri e

immortalità, invece mantennero l’uno e l’altra. Sono questi i demoni che combattiamo. E non ci

limitiamo a rigettarli negli inferi, perché solo gli Ancharos Nocchieri hanno questo potere, noi li eliminiamo

definitivamente, in modo che non possano risorgere. Non ho bisogno di essere un uomo per distruggere un demone,

mi basta smembrarlo, avvelenarlo, però non posso neanche

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sottrarmi del tutto a ciò che sono. Questo è il mio vero

aspetto mortale, e un giorno in particolare dell’anno, inevitabilmente, devo riassumere le mie sembianze divine,

con tutti i contro di aver accettato questa materia mortale. Io detesto profondamente questa terra, gli umani in genere

mi fanno ribrezzo, la loro mortalità, la loro ignoranza, la loro lascivia… è disgusto, così come mi ripugna il dover

condividere la loro stessa materia macchiata dal peccato. Non riesco neanche a pensare di poter rimanere incastrato

in questa landa immorale per l’eternità, sarebbe come gettarmi all’Inferno senza aver fatto nulla per meritarmelo.

A mie spese ho scoperto di non essere immune alla tentazione di Dio, e l’unico modo per mantenere intatta la

mia purezza è stare il meno possibile a contatto con gli umani, che trasudano peccato da ogni poro della loro

sudicia pelle. Per questo ho deciso di abbandonare volontariamente

questa forma. La uso di tanto in tanto, è vero. Ci sono delle volte in cui non posso davvero farne a meno, soprattutto

quando rimango ferito, perché la forma umana è quella che mi permette di guarire più in fretta delle altre. Ma fin ora

ero riuscito a starmene alla larga da certe situazioni. Poi sei arrivata tu, e quel maledetto incidente ha cambiato tutto.

Non so quali danni ti ho arrecato contagiandomi col mio sangue e questo mi impedisce di starti lontano. Non posso

andarmene senza la certezza di saperti al sicuro.- non mi aveva guardata per tutto il tempo, ma quando si fermò si

voltò verso di me - Mi stai rendendo tutto estremamente complicato, Iris. Non potresti limitarti a fare la tua vita

senza badare a me? Senza preoccuparti di…sapere?- Non mi sentivo in colpa per ciò che stava provando. Il

suo lato umano mi desiderava e ammetto che mi faceva piacere saperlo, però, che colpa ne avevo io? Non avevo mai

neanche provato a sedurlo, anzi, ero stata fin troppo fredda

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e scostante con lui, ma allora perché mi sentivo in dovere di

scusarmi? - Non sapevo di crearti tutti questi problemi con una domanda.-

Tornò a guardare altrove - Non è la domanda in sé.- spiegò - Sono stato aggredito da un gatto mentre ero

distratto a pensarti.- gli sfuggì una breve risata - Io! È così… imbarazzante-

Era il momento perfetto per sdrammatizzare e lo colsi al volo - Giusto per curiosità, che fine ha fatto il povero gatto?-

Sorrise - È ancora tutto intero, se è questo che vuoi sapere, ma mi ha quasi strappato un’ala.-

- Che gattaccio!- Per fortuna continuò ad assecondarmi - Tanto so dove

abita!- Ridemmo insieme, e la tensione sembrò allentarsi.

- Manuel?- Mi fissò con la stessa intensità di sempre, ma stavolta

non lo percepii sulla pelle. Si stava sforzando di ignorarmi? - Sì?- la voce era rimasta avvolgente però, forse su quella non

poteva avere controllo e fui contenta di quella sorpresa come una bambina la mattina di natale.

Scossi la testa - No…niente.- - Forse è meglio che vada.-

No, solo un altro minuto.- Hai fame?-

Ci pensò un po’ su, poi annuì. - Allora fatti la tua doccia mentre io ti preparo qualcosa.

Dopo controlliamo quella ferita.- Mi scrutò un po’ dubbioso.

- Che c’è?- - No…niente.-

- Ci sono degli asciugamani puliti nel mobile sotto il lavandino. Prendili pure.-

- Grazie.- - Di niente.-

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- La impugni come una ragazzina.- mi rimproverò.

A colazione, Manuel e io eravamo riusciti a giungere a un compromesso. A me andava di lusso, perché la mia

psiche si rifiutava ancora di credere ciecamente a quello che mi raccontava Manuel, ma per lui diventava sempre più

angosciante starmi intorno. Gli leggevo la preoccupazione negli occhi, ma non era in ansia per se stesso, perché dal

discorsetto all’alba sembrava svanito in lui ogni interesse umano nei miei confronti, l’apprensione nasceva

esclusivamente dal pensiero che l’aggressione potesse ripetersi. Non mi aiutò sentirlo dire che non sarebbe potuto

essere sempre presente per togliermi dai guai, e il terrore sul mio viso lo convinse a prendere delle precauzioni pratiche.

Ci sono tre modi per difendersi da un demone. Sì, ha usato proprio la parola difendersi, non eliminare, perché

quello è qualcosa che possono fare soltanto loro. Questi tre

modi sono associati ad altrettanti oggetti: croce benedetta, acqua santa e ostia consacrata.

Beh, fui costretta ad ammettere, dopotutto, che se Dio non esisteva, c’era qualcuno di molto simile da qualche

parte a prendere il suo posto. Manuel mi spiegò che, con la loro forza, erano in grado

di fare letteralmente a pezzi un demone, e che le loro zanne producevano un veleno tale da farli liquefare come gelato al

sole. Eppure, lo stesso effetto del veleno sul corpo di un dannato lo procura l’ostia consacrata. Se si è abbastanza

forti da fargliene ingerire, il più delle volte si assiste a una

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vera e propria esplosione preceduta da un’indicibile

sofferenza da parte del malcapitato. Mi sembrava una buona notizia, ma si sbrigò a spiegarmi che non esisteva

nessun essere umano tanto forte da riuscirci. Quindi, al massimo lo si feriva sparandogli particolari proiettili

contenenti oltre la polvere da sparo, il 30% di polvere di ostia consacrata. Se si aveva sangue freddo, a sufficienza da

sparare più di una volta, e una buona mira, le ferite del demone sarebbero risultate abbastanza gravi da indurlo a

ritirarsi dallo scontro. Non sarebbe morto, questo era sicuro, ma almeno si avrebbe avuto tutto il tempo per tagliare la

corda il più velocemente possibile, prima che le ferite iniziassero a risanare e la rabbia lo spingesse a riprovarci di

nuovo. L’acqua santa agisce più o meno come un acido molto potente. Manuel dice che manda letteralmente a

fuoco la pelle dei demoni, nel punto in cui vengono colpiti e continua a bruciare fino a completa evaporazione. È pur

sempre acqua! Ha assicurato però che le piaghe che lascia sulla pelle sono assai dolorose, a giudicare dal modo di

contorcersi del dannato che ne riceve una. Neanche l’acqua santa provoca la morte del demone, e a differenza dell’ostia

non è assicurato che si ritiri dallo scontro per leccarsi le ferite, mentre è assicurato che lo fa parecchio incazzare.

Tuttavia, l’importante è che lo rallenti abbastanza da permetterti di fuggire. È questo lo scopo principale: fuggire,

non combattere. La croce? Se è benedetta ha lo stesso effetto dell’aglio sui

vampiri. Non lo ferisce, lo ostacola soltanto impedendogli di avvicinarsi tanto da afferrarti.

Tutto molto rassicurante. Sì, come no!

L’unica cosa che avevo afferrato al volo delle sue spiegazioni è che se mi fossi ritrovata un demone nelle

vicinanze, lui avrebbe fiutato la mia presenza contaminata e

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avrebbe tentato di attaccarmi. E con la parola attaccarmi

intendeva dire uccidermi, non certo legarmi da qualche parte.

Grazie mille Manuel! Ricambierò il favore un giorno o l’altro.

Lui era convinto che con il contagio mi avesse trasmesso un qualche potere che permetteva ai demoni di fiutarmi e

scambiarmi per un nemico, però non ne era sicuro e aveva

bisogno di consultarsi con un suo compagno per avere qualche certezza. Fare questo però, implicava una sua

assenza, perché l’unico Angelo che poteva rispondere alle sue domande, Daniel, lasciava raramente Cipro, l’isola in

cui viveva stabilmente da più di tremila anni. Il compromesso era nato dalla sua paura di lasciarmi da

sola, quindi aveva deciso di insegnarmi a difendermi prima di partire.

Ci sono tre Angeli in città. Manuel usa il termine Saphiros, per distinguersi dalle altre gerarchie presenti.

Sono tutti Angeli, dopotutto, perfino il più crudele dei demoni.

Manuel è uno dei tre Saphiros della città, gli altri due sono Samuel e Rachael.

Rachael è una lei, anche se Manuel mi ha spiegato che non c’è distinzione di sesso fra Angeli. La necessità

dell’appartenenza a un genere è una caratteristica tipicamente umana e dato che l’aspetto divino di Rachael

era quello di una donna mortale, la si poteva definire una lei a tutti gli effetti.

Durante la sua assenza sarebbero stati proprio Samuel e Rachael a tenermi d’occhio, ma non potendo stare troppo a

contatto diretto con me, per gli identici motivi che tenevano distante Manuel, in un modo o in un altro avrei dovuto

anche imparare a cavarmela da sola, garantirmi almeno la possibilità di fuggire prima del loro intervento.

Samuel era l’esperto in armi. Non aveva la stessa

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ripugnanza di Manuel per il genere umano, quindi adottava

questa forma regolarmente. Aveva un lavoro, una casa, ed era tranquillamente inserito nella nostra società, pur

rifiutando una famiglia e tutto ciò che ne comporta. Rachael viveva con lui. Dopotutto, si potrebbe affermare

che sono tutti fratelli. Centinaia di figli generati dallo stesso padre. E la madre? Quando feci questa domanda a Manuel,

la sua occhiataccia mi fece desistere in futuro dal fare dell’ironia sul Grande Capo. Mi guardava storto perfino se

lo nominavo. A lui è concesso e a me no? Bell’ingiustizia. Se lo nomino io è peccato, se lo fa lui è normale. Non credo

che digerirò facilmente questa discriminazione. Secondo Manuel l’intero genere umano è un ricettacolo

di peccati, per lo più mortali. Ci schifa a tal punto da credere di rimanerne contaminato al solo frequentarci. Non

perdeva mai l’occasione di ricordarmelo e questo iniziava a darmi sui nervi. Se mi arrabbiavo, mi accusava di irosità, se

mi truccavo o mi soffermavo più del suo dovuto davanti allo

specchio rimproverava la mia oscena vanità, perfino ammiccare a qualcuno in macchina che mi concedeva di

passare fermandosi, per Manuel era un’aperta dimostrazione di lussuria. Mi stava rendendo la vita un

inferno, soprattutto perché continuava a ripetermi che se non mi fossi redenta sarebbe stata quella la mia dimora

eterna. In meno di due ore, quella mattina, mi aveva fatto

seriamente desiderare di aggredirlo fisicamente. Non ne potevo più, ma se, come diceva lui, era un peccato

imperdonabile picchiare un misero essere umano figuriamoci quale sarebbe stata la condanna per aggressione

a un Angelo puro e immacolato come lui. Beh, non potevo toccarlo, ma gridare lo potevo fare.

Sarei andata all’inferno per essermi arrabbiata troppe volte? Lo dubitavo, ma se fosse accaduto sarebbe stata tutta colpa

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sua, e anche questa era una precisazione ricorrente.

Eravamo passati da Samuel per recuperare le armi prima di recarci in alta montagna in una radura desolata. Voleva

insegnarmi ad usare una 9mm semiautomatica con proiettili modificati a prova di demone. Naturalmente in

quell’occasione usammo proiettili a salve perché quelli a base di ostia sono molto difficili da produrre e le ostie

consacrate quasi impossibili da trovare, visto che il più delle volte venivano sottratte di nascosto in qualche chiesa della

città. Se l’avessi fatto io, mi avrebbero accusata di furto, ma

quando lo facevano loro era sottrarre per giusta causa.

No no! Non riuscivo proprio a digerirlo. - La impugni come una ragazzina.- diceva sbuffando.

- Ma la pazienza non dovrebbe essere una virtù?- - Sì, ma perfino la mia ha un limite.-

- Sì, sì, continua a girare la frittata.- mormorai. - Che?-

- Vedi che significa preferire la pelliccia ai vestiti? Ti estranei al mondo degli uomini e finisci col non capire

neanche quello che dicono.- - Senti, signorina, è da stamattina che discutiamo di

questo. Ho le mie ragioni, ok? E non mi curo di comprendervi perché ho in programma di tornare alla mia

vecchia vita molto presto.- - Miao.- Adoravo prenderlo in giro quando lo vedevo in

difficoltà. Io mi arrabbiavo con un nulla e lui di certo era più incline di me a mantenere il controllo delle proprie

emozioni umane, ma aveva i suoi limiti e io, carogna, mi divertivo troppo a vedere quando si sarebbe spezzata la

corda. - Smettila!-

- Sei proprio sicuro che la suscettibilità non sia un peccato?-

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Dalla gola gli risalì un ruggito profondo, quasi

cavernoso. Era il segnale di allarme che usava per farmi capire che proseguendo oltre il limite mi si sarebbe rivolto

contro. - Perché invece di lamentarti non mi fai vedere tu come

devo tenerla?- chiesi con la calma di una micetta - Non ne ho mai impugnata una prima d’oggi. Non posso imparare in

un’ora ciò che altri imparano a fare in mesi e mesi di pratica costante.-

- Noi non abbiamo tutto quel tempo.- - Tu sei immortale, Manuel. Per te il tempo non esiste.

Che differenza fa un giorno o un mese?- Per non rispondermi si avvicinò, anche se con la solita

riluttanza che mi dimostrava da quando mi aveva confessato di sentirsi attratto da me. Mi si piazzò alle spalle

e posando una guancia contro la mia, impugnò la pistola avvolgendomi con le braccia, in modo da avere le sue mani

sulle mie e guidare i miei movimenti. Mi voltai a guardarlo, staccandomi un po’ da lui. Il suo

sguardo cercava di resistere dal guardare l’incavo del mio seno, non troppo prosperoso, sbucare dalla scollatura della

canottiera. - Non è me che devi guardare.- replicò - Se vuoi ti aiuto,

ma devi concentrarti sull’arma oppure torno dov’ero.- Ossia venti metri lontano da me, neanche avesse ricevuto

una diffida dal tribunale. Il suo cuore pulsava contro la mia schiena, e non era

l’unico organo a farlo. Purtroppo se ne accorse anche lui e si staccò per tornare al suo posto.

Sembrava davvero nervoso - Non andiamo da nessuna parte se continui a fare così.-

E ti pareva che non era colpa mia? - Che cosa ho fatto stavolta?-

- Lo sai.-

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- Mmmmmm! Quanto sei pesante, Manuel.-

Scosse la testa, ma fu più una scrollata che un diniego - È meglio se ce ne andiamo. Così non funziona.-

Aveva davvero voglia di andarsene - Dai, faccio la brava. Promesso. Se proprio ti creo qualche problema, trasformati,

io mi esercito a colpire quei barattoli da sola, dovrò pur beccarne uno prima o poi.-

- Non ho bisogno di trasformarmi.- rispose. L’avevo colpito nel vivo della sua debolezza ed era troppo

orgoglioso per ammettere di essere sul punto di perdere il controllo.

Sbuffai - Fa come ti pare.- - Questo è sicuro!- ribatté.

Senza prestargli ulteriore attenzione, mi concentrai a prendere la mira e feci fuoco sul primo barattolo su un

grosso masso a circa cinquanta metri di distanza. Non seppi mai dove fosse finito il proiettile. Di sicuro non colpì il

bersaglio. Sentii Manuel applaudire.

C’era una certa soddisfazione sul suo volto. Gioiva del mio fallimento?

Ruotai lentamente il busto puntando la pistola contro di lui.

Sorridendo sollevò entrambe le braccia in segno di resa - È una minaccia?-

- Hai detto di essere immortale, giusto?- Mi scrutò con curiosità, non capiva dove volessi arrivare

- Giusto.- - Perché non rendiamo l’allenamento più divertente?-

- Io mi sto già divertendo a guardarti.- precisò. - Io no. I bersagli statici mi annoiano. Non riesco a

concentrarmi abbastanza. Sono sicura che riuscirei a fare molto meglio con un bersaglio mobile.-

Rise, pensando che scherzassi - Vuoi usarmi come

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bersaglio?-

Annuii con decisione. Si accigliò - Stai scherzando, spero.-

- No! Non ti piace l’idea?- - Vuoi dire che avresti il coraggio di spararmi?-

Mi strinsi nelle spalle - Perché no? E poi i proiettili sono a salve, non moriresti comunque.-

- Non potrei morire a prescindere.- Sorrisi - Allora? Ci stai?-

- Certo che no, pazza mortale.- - Perché no? Di cosa hai paura?-

- Non ho paura di niente, ma non mi faccio sparare addosso solo perché ti annoi. Sei un essere assurdo e

capriccioso.- rispuntò il tono denigratorio verso gli umani. Gli mancava proprio il senso dell’umorismo a quello là.

- Temi il dolore. Credevo che a Dio piacesse vedere i suoi figli soffrire per lui.-

- Ma che stai blaterando? Come fai a pensare una cosa del genere?-

Un sospirone sfuggì al mio controllo. Abbassai l’arma, rassegnata - E dai, Manuel, stavo scherzando.-

Si rabbuiò. Non mi piaceva affatto quando mi guardava in quel modo. Sembrava sempre sul punto di sbranarmi da

un momento all’altro - Ti sembra un argomento su cui fare dell’ironia?-

Finsi di pensarci un momento - Perché no?- - Perché è blasfemia.- si infuriò. Si fece avanti e per un

istante credetti sinceramente che volesse farmi del male, invece si limitò a strapparmi la pistola di mano.

- Come sei esagerato. Che cosa ho detto di tanto grave?- - Vieni, ti riporto a casa.- disse cupo.

Ops! Avevo proprio esagerato. Gli corsi dietro perché si era già allontanato - Manuel,

aspetta. Mi dispiace. Davvero. Non volevo offenderti.-

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Rispose senza smettere di camminare - Non è me che

offendi, Iris. Ma tanto è inutile parlarne. Tu non capisci. Ti rifiuti di farlo.-

Non sapevo cosa rispondere, quindi continuai a seguirlo in silenzio. decisione saggia, se non volevo farlo imbestialire

davvero. Mi era quasi impossibile parlare con lui. Sembrava che

tutto ciò che dicessi fosse sbagliato, sporco e peccaminoso. Sapevo di urtarlo con certi discorsi e ammetto che spesso

lo facevo di proposito perché quando si arrabbiava diventava adorabile, però non riuscivo a non pentirmene

subito dopo. Le sue reazioni non erano esagerate, si capiva che era una reale sofferenza a turbarlo. Come se i miei

peccati pesassero anche sulla sua coscienza. Però, miseria ladra, se avessi dovuto dar retta a lui, mi sarei dovuta

murare viva con un bavaglio sulla bocca. Forse è vero che l’uomo è peccatore agli occhi di Dio,

ma come si fa ad intervenire su un difetto innato, se Dio stesso ci imprime il marchio del peccato fin dalla nascita?

Per Manuel era semplice fare prediche, lui non è mai nato e non ha dovuto scrollarsi di dosso neanche il peccato

originale. Se hai la fedina penale pulita è più facile tenerti lontano dai guai, ma quando c’è una macchia da cancellare,

diventa quasi impossibile non aggiungervi qualcun’altra, nella convinzione di ripulirle tutte insieme. È come quando

hai un vestito appena uscito dalla tintoria, presti attenzione fino alla prima macchia, casuale, dopo te ne freghi perché

tanto già sai che dovrai riportarlo in tintoria comunque, che le macchie siano una o cento non fa più differenza.

È un concetto semplice. Io l’avevo capito. Ma per il bene di entrambi, avrei di gran lunga preferito che lo capisse lui,

perché così come stava andando rischiava di finire male. Erano passati solo tre giorni e già non sopportavo più la sua

presenza. Non volevo passare le prossime settimane a

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mangiarmi le mani per non usarle contro di lui. Se non si

dava una calmata, e in fretta, uno dei due si sarebbe fatto molto male. Io probabilmente, perché se la situazione ci

fosse sfuggita di mano, che danno avrei potuto infliggerli prima che mi saltasse alla gola per azzannarmi?

Era già successo in fondo. Era bastata una piccola provocazione a trasformarlo. Forse era un riflesso

incondizionato il suo, era un modo per mettersi sulla difensiva. Come facevo ad essere sicura che oltrepassando il

limite consentito, per istinto di sopravvivenza, la pantera che è in lui non avrebbe preso il sopravvento?

Lo conoscevo troppo poco per affermare il contrario e questo dubbio mi terrorizzava.

Scendevamo il costone boscoso del monte. Avevamo dovuto lasciare la moto in strada perché per arrivare alla

radura non c’erano vie o sentieri battuti. Manuel mi precedeva di almeno dieci metri e sembrava

non avere la minima difficoltà a muoversi fra la boscaglia, mentre io dovevo sorreggermi costantemente a qualcosa per

non scivolare di sotto. - Ti costa tanto aspettare?- mi lamentai.

Non si degnò neanche di voltarsi e tanto meno di rispondere, ma almeno si fermò.

- Grazie tante.- mormorai fra me e me. Ero a pochi passi da lui quando si voltò a guardarmi.

Sentii la solita carezza sulla schiena, e la scossa mi provocò un brivido che mi fece perdere la coordinazione. Mancai

l’appiglio sul busto di un acacia e, messo un piede in fallo su un masso nascosto dal sottobosco scivolai.

Manuel mi afferrò al volo un attimo prima che potessi sbattere la schiena sullo stesso masso.

Non aveva fatto il minimo sforzo ad avvolgermi un braccio attorno alla vita per sostenermi.

Mi sollevò lentamente, attirandomi a sé. Il mio petto

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contro il suo sembrava percosso da frenetici colpi irregolari.

Non era il suo cuore a scuoterlo stavolta, era il mio. Sentivo il torace gonfiarsi sul suo per l’affanno. Mi

aspettavo che mi allontanasse, che mi rimproverasse perfino per la mia goffaggine e invece continuò a fissarmi. Se il mio

respiro era affannato, lui sembrava non respirare affatto. Sembrava che per lui il tempo si fosse fermato a

quell’attimo per gustarselo all’infinito e forse avrebbe potuto farlo, per quanto ne sapevo.

Se il pensiero fosse un peccato, lui sarebbe finito direttamente all’Inferno solo per avermi desiderato con la

bramosia che potevo leggere nei suoi occhi, unico spiraglio di vita in quell’irreale immobilità.

Era così incredibilmente affascinante in quel momento, così maschio. Sollevai leggermente il capo per raggiungere il

suo viso, così vicino eppure così incredibilmente distante.

Continuò a non muoversi, anche se nel suo sguardo guizzò una luce di sincera sorpresa. Non si mosse neanche

quando mi avvicinai tanto da posare la fronte sulla sua, e continuò a non muoversi, nonostante le mie labbra, pur

indugiando, iniziarono a cercare avidamente le sue. Erano morbide, calde, e sapevano di buono, di pulito. Non

ricambiò il bacio, se pur casto, però mi lasciò fare, anche se non riuscì a tenere gli occhi aperti mentre lo facevo.

Non approfittai del momento, nonostante non desiderassi altro. Mi staccai, controvoglia, ma lo feci e lui

riaprì gli occhi, come se si fosse appena risvegliato da un sogno.

Mi aspettavo davvero uno scoppio di rabbia stavolta, e invece, si limitò a rimettermi in equilibrio e lasciare la presa.

Non sembrava confuso, o disorientato, quasi fosse stato un gesto del tutto prevedibile il mio per lui. Non sapeva

cosa dire però e invece si percepiva chiaramente che desiderava dire qualcosa, qualunque cosa, per rompere quel

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silenzio.

Lo feci io per lui. Ero più abituata a svincolare da quel tipo di morsa imbarazzante e in quei casi ero solita ignorare

del tutto l’accaduto, quindi lo feci anche con lui - Scendiamo?-

Rimase teneramente sorpreso dalla domanda, probabilmente si aspettava qualcosa di diverso. Quando non

capiva qualcosa sembrava dolcissimo, perché chinava leggermente la testa su una spalla, come un micio che sente

pronunciare delle parole nuove dal proprio padrone. Non so se riuscisse a capire che quegli atteggiamenti così

innocui lo rendevano talmente umano ai miei occhi da farmelo desiderare ancora di più.

Ci mise qualche secondo per carburare la situazione, ma alla fine annuì. Mi porse la mano perché l’afferrassi e mi

guidò fino alla strada. È vero che non disse più una sola parola fino a quando non rientrammo al mio appartamento,

ma era sempre meglio di una sfuriata di rimprovero per quello che avevo fatto.

Lasciò sul tavolo della cucina il marsupio che conteneva la pistola. Io mi sentivo troppo in difetto per parlare. Avevo

davvero paura che una parola maldestra potesse scatenare l’Inferno, eppure non sembrava arrabbiato, anzi, lo vedevo

tranquillo, troppo forse. Aprì il frigorifero e con una semplice pressione ruppe

l’involucro di plastica della confezione da sei di acqua minerale da mezzo litro. Ne afferrò una e bevve

direttamente dalla bottiglia. Aveva la fronte imperlata di sudore, ma non se ne

curava. Io ero appoggiata al mobile del lavandino con le mani

dietro la schiena e la testa bassa. Solo gli occhi si muovevano per seguire i suoi movimenti.

Bevve l’acqua tutta d’un fiato e prima di gettare la

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bottiglia nel secchio della spazzatura la stritolò con una

mano. Nonostante ciò il suo viso continuava a non mostrare tracce di collera. Doveva sforzarsi parecchio per

riuscire ad ottenere quel risultato. Mi affiancò per gettare la bottiglia, senza degnarmi di

uno sguardo, mi sfiorò e mi si accapponò la pelle. Una voce dentro di me, mi gridava di mettermi al riparo

prima dell’arrivo della tempesta, ma non avevo neanche il coraggio di muovermi. Volevo solo sparire. Sperare di

rimanere immobile al punto da risultare invisibile. Fece per uscire dalla cucina, ma si fermò sulla porta

dandomi le spalle - Avevi ragione.- disse. La voce gli tremava un po’ - Non puoi imparare ad usare la pistola in

un giorno. Sei solo una mortale, hai bisogno di più tempo.- stava abilmente seguendo il mio esempio, fingeva che non

fosse mai successo, ma se a me veniva naturale farlo, su di lui si leggeva lo sforzo. Però apprezzai che almeno ci stesse

provando. - Facciamo come vuoi tu.- lo assecondai.

Annuì leggermente, poi si voltò per recuperare le chiavi della moto dal tavolo della cucina, accanto al marsupio.

- Esci?- chiesi col solito timore di aver detto troppo. - Pranzo da Samuel e Rachael oggi, non è cortese

presentarsi troppo tardi.- Guardai l’orologio alla parete, erano le 11:43.

Lo lasciai fare senza intromettermi oltre. Avevo bisogno di rimanere un po’ da sola anch’io e riflettere. Mi sentivo in

colpa. Per me si era trattato solo di un momento di debolezza, niente di più. Mentirei se dicessi che non ero

attratta da lui, era troppo incredibilmente attraente per non desiderare di goderselo almeno un pochino, ma quel bacio,

per me, non era stato altro che l’assecondare una voglia puramente fisica. Nessun coinvolgimento sentimentale. Ce

l’avevo così vicino che non ero riuscita a trattenermi, tutto

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qui. Per lui era diverso però, per Manuel,

quell’insignificante effusione avrebbe potuto costargli cara, ed io avrei dovuto pensare a lui prima che a me stessa, che

per quanto mi dice, sono già con un piede e mezzo nella fossa dell’Inferno. Mi aveva avvertita, si era confidato,

sperando forse che fossi stata d’aiuto qualora non fosse riuscito a controllarsi, e io che cosa avevo fatto invece?

Avevo rischiato di trascinato all’Inferno con me, sempre che non fosse già stato troppo tardi.

Quando sentii il portone chiudersi, tirai un sospiro di sollievo. Avrei voluto chiedergli scusa, ma non volevo

riportare a galla quell’argomento, non se prima non fossi stata certa che fosse pronto a farlo anche lui. No, non avrei

commesso due volte lo stesso errore.

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12

L’aria condizionata del bar davanti al tribunale era una

manna dal cielo. Il sole picchiava così forte che i venti minuti che avevo impiegato per arrivarci da casa mi erano

bastati a darmi l’aspetto di una che era appena uscita da una vasca dopo essersi fatta un bagno completamente vestita.

Poco importava, in quel momento, che il sudore mi si stesse congelando addosso, se fosse stato necessario ci avrei

pensato quando, tra un fazzolettino e l’altro, sarei rimasta a letto con l’influenza.

Avevo chiamato Daniela per pranzare insieme. Non volevo rimanere a casa da sola, anche se un’ora prima mi

era sembrato di sì. Daniela aveva un’udienza quella mattina, per questo ci

eravamo date appuntamento in quel bar. Nell’attesa avevo ordinato un succo di frutta ghiacciato e

avevo preso posto al tavolo accanto alla vetrata. Lavorare da Gianpiero mi aveva impresso inconsciamente delle

abitudini che credevo mi appartenessero. Una di queste era sedere vicino alle finestre nei locali. Non lo avevo ancora

sperimentato, ma non mi sarei stupita se avessi scoperto di avere la stessa esigenza anche in aereo. Nei mezzi pubblici

se potevo scegliere sceglievo il lato del finestrino, ma non mi creava difficoltà sedere da un’altra parte, mentre nei

locali era quasi un bisogno fisico. Che stessi diventando claustrofobica?

Il succo d’ananas non era un gran ché, però era talmente piacevole sentire il liquido gelato che mi attraversava il

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torace per intero, da far passare il sapore in secondo, forse

perfino terzo piano. Avevo provato a rimanere a casa, visto che Manuel non

c’era. Da quando si era insediato a casa mia in pianta stabile mi sentivo soffocare. È vero che passava quasi tutti il giorno

a sonnecchiare acciambellato sul divano o peggio ancora sul mio letto, ma da quando avevo saputo che il mio Hermes

non era propriamente un gatto come gli altri, sentivo un intruso anche lui.

Manuel mi aveva spiegato che in forma umana non conserva molti ricordi di quello che gli accade quando è in

forma animale. È come se possedesse due distinte personalità in quattro forme differenti.

Dato che era fuori discussione che dormisse con me e che non avevo minimamente intenzione di trasformare il mio

laboratorio in una camera per gli ospiti, avevamo comunemente stabilito che almeno di notte, mutasse forma,

in modo che non ci fossero problemi per nessuno. Quella mattina però, quando mi svegliai, lo trovai

acciambellato al centro del letto, come faceva di solito prima che scoprissi la sua vera identità.

Faceva talmente caldo che mi ero addormentata con addosso solo gli slip e una canottierina striminzita e la mia

reazione, nel vederlo, non fu delle migliori, perché interpretai quel gesto come un’invadenza calcolata.

Se ciò che diceva Manuel era vero però, non c’era stata nessuna premeditazione, ma semplice istinto felino. È

risaputo infatti, che il gatto è un animale estremamente abitudinario. Fino a quel giorno gli avevo permesso di

dormire sul letto con me, e quindi per la sua testolina pelosa era del tutto naturale continuare a farlo.

Peccato per lui che non credevo affatto a questa versione quindi lo scacciai sbraitando. Si svegliò talmente

all’improvviso, che ci volle un po’ prima che si rendesse

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conto di quello che stava accadendo, quando gli arrivò

addosso il primo cuscino per essere più precisi. Schizzò giù dal letto ringhiando, poi si infilò in bagno.

Ne uscì con un asciugamano avvolto attorno alla vita. Si era trasformato.

Era furente e non si impegnò affatto a nasconderlo - Sei impazzita?- vociò.

Ero ancora in ginocchio sul letto - Allora non è vero che non ricordi.- lo accusai.

Socchiuse gli occhi fino a renderli una fessura sottile - Di che stai parlando?-

- Non è vero che non ricordi quello che ti succede quando non sei umano.-

- Se qualcuno tenta di farmi del male me lo ricordo eccome.-

- Avevamo un accordo noi due. Se non lo rispetti, la convivenza salta.- mi accorsi che cercava di non guardarmi -

Ti sto parlando, sarebbe buona educazione se mi guardassi.- - Potresti metterti qualcosa addosso per favore.-

Mi ero dimenticata perfino perché avevo iniziato a fare tutto quel casino. Mi coprii velocemente con il lenzuolo

stropicciato. Solo allora tornò a posare i suoi occhi su di me, e non preannunciavano nulla di buono.

- Avrei potuto sbranarti.- spiegò rabbioso - Tu non capisci il rischio che hai corso.-

- Tutte scuse!- Il suo torace si gonfiava delimitandone tutti i muscoli ben

allenati. Chissà quanti insulti gli frullavano per la testa? Mi guardava come se mi avesse appena colto a scribacchiare

con un chiodo sulla carrozzeria della sua moto. Non poteva uccidermi per una cosa del genere, ma di certo poteva

sentirsi molto, molto incazzato. - Non ti ci voglio sul mio letto!-

- Non mi sono neanche accorto di esserci venuto, fino a

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un minuto fa. Quando mi trasformo cerco di lasciarmi

andare e assecondare l’istinto primordiale dell’animale che mi possiede in quel momento. È una maniera come un’altra

per sfuggire al mio lato umano.- - E perché non me l’hai detto allora?-

- Mi sarà sfuggito, no?- - E allora beccati le cuscinate senza lamentarti.-

- Eh no!- si fece avanti, fino a salire sul letto e rimanere in ginocchio davanti a me.

Provai a ritrarmi, ma mi tenne ferma afferrandomi un polso.

- Riesci ad immaginare cosa sarebbe potuto succedere se non avessi ripreso il controllo?- chiese serio, la sua voce era

tornata calda e carezzevole. La rabbia se n’era andata per lasciare spazio alla preoccupazione - Se al posto mio si fosse

risvegliata la pantera ora saresti morta.- La mia pelle si increspò per una fastidiosa pelle d’oca. Se

voleva spaventarmi c’era riuscito - Vuoi dire che c’è una pantera assassina in libertà in casa mia?-

- Voglio dire che non mi devi mai cogliere di sorpresa.- mi lasciò il polso e si soffermò a guardarmi dritto negli

occhi. Il solito brivido elettrico sulla schiena. Mi sarei accasciata a terra se non fossi già stata in ginocchio. - Non

ho nessuna intenzione di farti del male, Iris.- scosse la testa, come se un brutto pensiero gli avesse attraversato la mente -

Non devi temere il mio lato umano, perché è l’unico che non può nuocerti. La situazione al momento è un po’

ingarbugliata anche per me. Di solito la notte la passo fuori, ma ho un po’ paura a lasciarti da sola, per questo sono

rimasto qui. Ma è una condizione passeggera, me ne andrò appena avrò capito bene cosa sta succedendo e ti lascerò

tornare alla tua vita di sempre. Te lo prometto. Se mi respingi però, se la mia presenza diventa un problema per

te, allora sarà ancora più difficile per tutti e due, perché

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rischio di non riuscire a proteggerti come dovrei, se devo

prima difendere me stesso da te.- La mia vita con Manuel era fatta di compromessi. Anche

in quel caso mettemmo a tacere la discussione stabilendo che la camera da letto era off limits per tutti e quattro

eccetto che per me. Il resto della casa era a sua completa disposizione, anche se alla fine mi ero quasi convinta a

sgomberare il laboratorio per concedergli uno spazio tutto suo, anche se momentaneo. Manuel può anche essere un

gran rompiscatole, ma non ho mai dubitato delle sue reali intenzioni di proteggermi. Disprezza troppo la sua forma

umana per credere che si sia insediato in casa mia per fini differenti.

Non toccavo un pennello da mesi, il blocco d’argilla non aveva ancora neanche una mia misera impronta, non

potevo di certo affermare che fosse il migliore dei miei periodi, quindi perché sperare inutilmente in un miracolo?

Far posto a Manuel in laboratorio non avrebbe peggiorato la mia situazione, quindi…

E poi dopo il mio patetico strusciamento di quella mattina gli dovevo proprio un favore. Fosse anche solo

perché, conoscendolo, non mi aveva neanche insultata accusandomi di essere una poco di buono. Dopotutto è così

che giudica tutte le donne, nessuna esclusa. Era passato da poco mezzogiorno e dalla vetrata del bar

vidi Daniela attraversare la piazzetta comunale in compagnia di due uomini e una giovane poco più grande di

noi, o forse era solo l’abbigliamento troppo serio a farla sembrare tale. Il più adulto dei due uomini mi sembrava un

viso vagamente familiare, ma non riuscivo a ricordare dove l’avevo già visto.

Si fermarono un momento a discutere all’ombra del vecchio platano al centro della piazza. Dalle espressioni

accigliate dei loro volti sembrava proprio che stessero

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parlando di cose serie, probabilmente di lavoro, se non

addirittura della causa che stavano disputando quella mattina.

Daniela era di un eleganza imbarazzante in confronto alla sua collega. Il completo giacca e pantalone blu notte

non glielo avevo ancora mai visto addosso, ma già al primo sguardo si notava essere di alta sartoria. Il pantalone a vita

bassa, non aveva una pieguzza fuori posto, anzi, gli disegnava due fianchi e un fondoschiena da indossatrice di

costumi da bagno. Il tacco alto del sandalo aperto di Gucci le slanciavano gambe che già di per sé non avevano alcun

bisogno di aiuti artificiali, visto che sorreggevano un corpo esile di un metro e settantacinque di altezza. La caviglia

sottile era messa in bella mostra dal pantalone che scendeva a stringersi fino ai malleoli. Daniela non ha un seno

abbondante e questo le garantiva ancora più fascino, perché poteva permettersi di sfoggiare anche il top più provocante e

non rischiare mai di apparire volgare. Quella mattina indossava una camicetta avorio di seta, con colletto alla

coreana e delicati motivi orientali in oro talmente chiaro da confondersi con la tinta. Gliel’avevo già vista la camicetta e

forse, anzi, molto probabilmente i suoi colleghi e il resto della corte non sapevano che sulla schiena era tenuta

allacciata solo da un sottile lembo di stoffa all’altezza dei reni, per il resto era completamente a schiena nuda. Non

avrebbe fatto di certo brutta figura se si fosse tolta la giacca in aula di tribunale, ma… come avrebbe detto mia madre…

“Non sarebbe professionale”. I capelli li teneva acconciati in una crocchia che, ci avrei

messo la mano sul fuoco, aveva impiegato ore a sistemare. Nessun braccialetto o fronzolo eccessivo, ad ornare le

braccia, e sì che Daniela non esce mai di casa se prima non sembra pronta per farsi rapinare dal primo balordo che la

vede rilucere come la vetrina di un gioielliere. Perfino il

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trucco era molto moderato quella mattina. Beh, a quanto

pare il lavoro è lavoro anche per lei. Anche i due uomini facevano la loro figura, ma non è

che ci voglia molto a far sembrare elegante un uomo. A parte il colore e il tessuto, è sempre la solita solfa: Abito

giacca e pantalone, camicia, cravatta e scarpe eleganti intonate alla cintura. L’unico dilemma degli uomini è

scegliere una cravatta che non li faccia sembrare degli imbecilli. Ardua impresa, visto che chi non ha gusto nel

vestire se ne compra al massimo quattro da abbinare ai quattro colori standard delle camicie, però, giuro che c’è

perfino qualche audace che crede di potercela fare da solo e per ingenuità, sfortuna o arroganza, riesce sempre a

sembrare ridicolo indossando la cravatta sbagliata. Mi è capitato di vedere certi abbinamenti di colore, tra

cravatta camicia e abito, da farmi venire la nausea. L’unica nota stonata in quel gruppetto di serpi era la

donnina accanto a Daniela. Sembrava uscita da una bancarella dell’usato degli anni sessanta. Possibile che

nessuno di quei tre carciofi di prima classe potesse spendere una parola con lei in proposito? Che ci vuole a prenderla da

parte un momento e dirle, con tutta la gentilezza che quegli abiti si possono meritare, che è vestita malissimo? Io l’avevo

fatto con Daniela, e più di una volta, quando pretendeva di uscire con me vestita come una tipetta dark dal cattivo

gusto. Eravamo rimaste amiche nonostante questo, quindi perché non andare in soccorso anche a quella povera anima

in pena? Distolsi lo sguardo per non lasciarmi tentare dall’andare

da loro, prendere quella disgraziata per un braccio e portarla di filato a casa a cambiarsi. Soprattutto quelle scarpe, ma da

dove le aveva riesumate? Non c’è niente che mi fa innervosire di più di un brutto paio di scarpe. Il gusto

purtroppo non si può comprare, - non ti rende elegante e

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raffinato un abito da tremila euro, se non sai scegliere cosa

indossare -, e chi ce l’ha ha il sacrosanto dovere di aiutare chi ne è sprovvisto. Io almeno l’ho sempre pensata così.

Mandai giù l’ultimo sorso di succo di frutta per distrarmi in attesa che Daniela si decidesse a raggiungermi. Il locale si

stava affollando e a me non piace affatto la folla. Sono un tipo piuttosto solitario io. Si era capito?

Alzai un braccio per richiamare l’attenzione della cameriera, che mi raggiunse subito col suo taccuino

stropicciato in mano. Era una ragazzina di non più di vent’anni con i capelli castano-ramati raccolti in una coda.

Indossava una camicetta bianca a maniche corte, jeans neri e scarpe da ginnastica. Un po’ bruttina a dire il vero,

nonostante il fisico asciutto, però aveva un gran bel sorriso sincero stampato in faccia che me la rese subito molto

simpatica. - Le porto qualcos’altro?- domandò prendendo il mio

bicchiere vuoto. - No, grazie. Il conto per favore.-

- Ha preso solo questo?- Annuii semplicemente, sfilando un biglietto da cinque

dalla borsa mentre mi alzavo. - Sono tre euro.- disse infilando la banconota nella tasca

del grembiule e porgendomi due euro che posò delicatamente sul tavolinetto circolare, senza farli

tintinnare. - Grazie, ma tieni pure il resto.- dissi sorridendo. Era una

mia collega, dopotutto, e so quanto siano importanti le mance a fine giornata, visto lo stipendio misero che prende

un cameriere part-time che, per giunta, lavora a nero. Le si illuminarono anche gli occhietti color cioccolato -

Grazie a lei e buona giornata.- Appena misi piede fuori dal bar mi pentii di averlo fatto.

Il cambiamento di temperatura mi investì come un tornado

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bollente.

Mi avvicinai a Daniela, che continuava a discutere senza ricordarsi minimamente del nostro appuntamento. Appena

la raggiunsi le misi solo una mano sulla spalla. Si voltò e quando mi vide mi sorrise come se niente fosse.

Senza darmi neanche il tempo di dire una parola mi presentò ai suoi colleghi. Non rischiavo certo di farla

sfigurare con il mio abitino di lino verde scuro in perfetta armonia con i miei capelli lunghi color cioccolato che si

abbinavano a sandali, cinta e borsetta in coordinato di Fendi.

Non avrei potuto permettermeli se non in un’altra vita, ma erano un regalo di Michele per il mio compleanno,

l’ultimo che avevamo passato insieme. Quei sandali con tacco alto proprio non ero riuscita a

darli via, quindi tanto valeva tenere anche la cinta e la borsa, no?

Sì, è vero, sono un po’ vanitosa, non ricordatemelo anche voi, basta già Manuel a fare la sua parte.

Fra i colleghi di Daniela, solo l’uomo con i capelli corti e brizzolati si limitò ad un misero cenno con la testa, l’altro

più basso e molto più giovane, biondo e mingherlino, mi strinse la mano, sorridendo, anche la ragazza mi strinse la

mano, ma arrossì intimidita. Mi sentirei timida anch’io se andassi in giro vestita in

quella maniera, ma… non torniamo sull’argomento, tanto è inutile. Il mio punto di vista è fin troppo chiaro per

spenderci ulteriori parole. Daniela guardò l’orologio sul suo polso e mi lanciò

un’occhiatina colpevole - Mi dispiace, Iris, non mi ero resa conto che fosse così tardi. Questa causa mi sta risucchiando

ogni minuto libero.- Bella scusa - Non fa niente, però avresti potuto dirmelo

quando ci siamo sentite, mi evitavo di venire fin qui per

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pranzare da sola.-

Arrossì - Hai ragione. Non so che dire.- - Lei di cosa si occupa?- intervenne l’uomo brizzolato. Si

accarezzava la cravatta come se ci fosse ossessivamente affezionato.

Io di cosa mi occupo? Domanda da un milione di dollari. Se l’avessi saputo, probabilmente a quell’ora non mi sarei

trovata lì, ma a lavoro. - Iris è un’artista, Ferdinando.- spiegò Daniela,

entusiasta. Le fui grata di avermi spalleggiata, peccato solo che

Ferdinando non condivise il suo stesso entusiasmo - Ah!- - Ah, cosa?- chiesi io. Volevo sembrare curiosa, ma

scommetto che sembrai semplicemente stizzita. Il ragazzo biondo guardò prima Daniela, poi me. Mi

sorrise di nuovo - Qual è il tuo campo?- Mi dava del tu, quindi mi considerava una sua pari a

differenza di quel cafone del suo collega - Pittura, scultura, soprattutto scenografia per gli spettacoli teatrali, la TV e il

cinema.- fino a quel giorno avevo collaborato solo a quattro piccoli progetti, due teatrali, uno televisivo e uno

cinematografico, però lui non poteva saperlo, no? - Sembra molto interessante.- rispose, e sembrava

sincero. Rise perfino, ma di sé stesso - Io non so neanche appendere un chiodo a un muro senza fracassarmi qualche

dito.- Ferdinando mugugnò qualcosa a bassa voce, ma lo

sentimmo comunque e ci voltammo tutti a guardarlo. - Posso sapere qual è il suo problema?- domandai -

Oppure non mi considera all’altezza neanche per rivolgermi la parola con un minimo di cortesia?-

Daniela mi prese per un braccio accostandosi al mio viso per sussurrare - Iris, ti prego, lascialo stare, è un mio

superiore.-

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Non mi sarebbe importato neanche se mi avesse detto

che era il Papa, ma… iniziare a discutere con lui rischiava di mettere nei guai Daniela, e se quella disputa avesse

compromesso il suo futuro nel loro studio legale non me lo sarei mai perdonata. Decisi di fare la brava e fare finta di

niente. Purtroppo Ferdinando non era dello stesso avviso e continuò a punzecchiarmi.

- Non mi sento superiore a lei solo perché io ho un lavoro e lei no!-

- Io ce l’ho un lavoro.- - Sì, ho visto. È una cameriera molto in gamba.-

Lo osservai con più attenzione e finalmente mi ricordai dove avevo già visto il suo brutto muso. Era uno del gruppo

degli avvocati che era venuto a cena da Giampiero. In quel momento mi pentii di non avergli sputato nel

caffè, ma avevano lasciato una buona mancia, accidenti a loro.

Da più di un anno aspettavo una valida occasione per farlo, volevo provare l’ebbrezza della trasgressione almeno

una volta, ma non mi si era ancora presentata l’opportunità. Avrei potuto farlo a prescindere con quel branco di serpi,

ma avevo rimandato a un’altra volta, tanto lo sapevo che sarebbero tornati prima o poi e io li aspettavo al varco. In

quel momento però, avrei dato qualunque cosa pur di poter godere della soddisfazione di averlo fatto.

- Non tutti ci possiamo permettere di vivere con un solo stipendio come certa altra gente.- risposi offrendogli il

migliore dei miei sorrisi fasulli. Il biondino soffocò una risata con un colpo di tosse. La

ragazza impallidì, e Daniela divenne quasi blu per l’assenza di ossigeno. Non respirava più.

- È giusto che vengano ripagate le fatiche di tanto studio.- riprese a dire Ferdinando.

- Già! Peccato che queste fatiche siano costrette a pagarle

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persone in estrema difficoltà. Nessuno obbliga certa gente a

studiare, mentre a quei disgraziati non è data la stessa possibilità di scegliere. Che c’è di male ad ammettere che

certi lavori fanno arricchire con le disgrazie degli altri?-

Daniela riprese un po’ di colore. Purtroppo per me aveva ricominciato a respirare - Adesso basta, Iris. Sì è fatto tardi,

dobbiamo rientrare in Aula.- Ferdinando la zittì con un gesto della mano - Non c’è

fretta. Sono proprio curioso di sapere cosa pensa la tua amica del nostro lavoro.-

Sorrisi - Non l’ha ancora capito?-

- Mi piacerebbe sentirglielo dire.-

- Perché? Vuole un pretesto per farmi causa?- Daniela non ne poteva più - Iris…-

- Sono solo curioso.- Il biondino disse qualcosa all’orecchio della ragazza, ma

così piano che non riuscimmo a sentirlo. Lei ridacchiò, voltandosi per non farsi vedere e lui incrociò le braccia al

petto in attesa della mia risposta. In verità erano tutti in attesa della mia prossima mossa.

- Credo che siate dei delinquenti della peggior specie, dei ladri senza scrupoli, perfino peggiori degli strozzini.- ero

stata troppo cruda? Si può dare del delinquente, ladro e strozzino a un avvocato in presenza di testimoni, se i

testimoni sono suoi dipendenti? Non lo consiglio a nessuno, ma quel tipo se le era proprio tirate.

Si sforzò di non sembrare urtato dalla mia sfrontatezza, ma fu una pessima interpretazione - È mai stata in un’aula

di tribunale, signorina?- - No! Vuole farmene vedere una?-

Due rughe profonde si arricciarono al centro della sua fronte, creando un vistoso solco fra le sopracciglia.

- È l’una e mezza, Ferdinando.- disse il biondino. Era sparita ogni traccia di ilarità dal suo viso. Forse aveva

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fiutato il pericolo molto più di me - Sarebbe meglio rientrare

per definire gli ultimi punti dell’arringa finale.- Ferdinando non mi tolse gli occhi di dosso, ma annuì -

Aspettatemi dentro.- ordinò. Daniela non provò neanche a replicare. Prima di

allontanarsi però mi lanciò un’occhiataccia. Ma che pretendeva? Che mi lasciassi insultare? Non sono proprio il

tipo e lei lo sa. - Quanto a lei.- disse sostenendo il mio sguardo

strafottente - Preghi Dio di non trovarsi mai nei guai in futuro, perché questo delinquente potrebbe creargli più

problemi del guaio stesso.- - Quelli come lei, Dio non sono degni neanche di

nominarlo.- replicai. Manuel mi stava infettando anche il cervello oltre che il sangue. Ammetto però, che sentirmi,

agli occhi di Dio, più pulita di quel tizio, era una gran bella sensazione. Ma questo mi dava forse il diritto di giudicare o

accusare il prossimo? No! proprio no, ma improvvisamente capii perché a Manuel riusciva difficile non farlo.

Ferdinando si congedò con un mezzo inchino, ma il ghigno sul suo volto rivelò le sue reali intenzioni. Detesto

essere presa in giro così palesemente e glielo feci notare mostrandogli un raffinatissimo dito medio e un sorriso che

più sincero non poteva essere. Se solo il Biondino avesse potuto gustarsi la sua

espressione dopo quel gesto, mi avrebbe eretto un monumento.

Beh, non si può avere tutto nella vita, no?

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Daniela mi aveva dato buca nel peggiore dei modi. Oltre

a non aver pranzato con me, mi aveva anche lasciata da sola nel bel mezzo di una discussione con il suo nuovo

capo. Era inaccettabile. Erano amici suoi e non avrebbe mai dovuto permettere che mi trattassero come una pezzente

qualunque. Tanto meno poteva pretendere che li lasciassi fare. Sarebbe bastato che spendesse lei una buona parola al

posto mio e non sarebbe successo niente. Una mancanza che non ero disposta a perdonargli. Assolutamente no.

La giornata andava di male in peggio. Rientrai in casa con un diavolo per capello. Lanciai la

borsa sul divano e mi sfilai i sandali all’ingresso. La cucina, a quell’ora, era inondata dal sole e, come se

non bastasse, avevo dimenticato di abbassare le tapparelle prima di uscire.

- Magnifico! Davvero magnifico!- brontolai spalancando lo sportello del freezer. Una nuvola di vapore ghiacciato mi

attraversò il viso quando lo avvicinai alle confezioni di surgelati riposti all’interno. Mi sentivo andare a fuoco, e

non era il caldo. Con un sacchetto di piselli surgelati sulla fronte mi diressi

in camera da letto. La segreteria telefonica sul comodino lampeggiava. C’erano due messaggi. Il primo era di

Giampiero. Chissà che un po’ di lavoro fosse servito a scaricare la tensione. Il secondo era di Rodolfo, il mio capo

a tutti gli effetti. È il direttore della squadra di allestimento scenografico teatrale di maggior fama in Italia. La sua

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azienda si occupa dell’80% delle scenografie dei teatri su

territorio nazionale. Ha curato personalmente le scene delle più celebri

compagnie negli ultimi dieci anni. Non posso fare pubblicità, ma basti sapere che se vi capita di andare a

teatro, ovunque in Italia, avete l’80% di possibilità che la scenografia dello spettacolo che state vedendo sia stata

ideata e curata da lui. È stato Rodolfo a garantirmi un colloquio con i dirigenti

del Museo delle Cere di Londra di cui vi ho parlato. Crede che sia un’esperienza indispensabile per un’artista poter

partecipare a qualche loro progetto. I messaggi di Rodolfo sono inequivocabili. Non si degna

neanche di dire chi è. Quando trova la segreteria il massimo che si impegna a dire è: - Richiamami!- Beh, non si può

certo dire che sia di tante parole. Non avevo voglia di implicarmi in qualche progetto

estenuante in quel periodo e già gli avevo detto di no almeno sei volte negli ultimi mesi, ma dovevo riconoscere

che mi pagava dannatamente bene e che non ero propriamente al meglio delle mie possibilità economiche da

almeno un mese e mezzo. Alzai la cornetta del telefono controvoglia. Sbirciai il

numero sull’agenda e sbagliai a digitarlo due volte. Che fosse un segno? Credevo nei segni? Beh, se riuscivo a

credere di condividere l’appartamento con un Angelo immortale che all’occorrenza diventava una pantera

assassina, allora potevo anche provare a credere nei segni. Feci un respiro profondo prima di riprovare un’ultima

volta, dicendo a me stessa che se avessi sbagliato di nuovo ci avrei rinunciato assecondando il destino, ma questa volta

andò meglio e Rodolfo rispose al secondo squillo, togliendomi perfino la possibilità di riattaccare con la

scusante di non averlo trovato.

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- Sì?-

- Rodolfo, sono io, Iris.- - Alla buon’ora!-

Mi balenò il pensiero che quella mattina avessero tutti voglia di litigare con me - Perché mi hai cercato?- chiesi

mantenendo la calma. - Ho un lavoro per te.-

- Un lavoro per te, vorresti dire.-

Ci fu un attimo di esitazione dalla sua parte, poi disse - Ho scelto un brutto momento?-

- No, Rodolfo, anzi scusa se sono stata un po’ brusca, ma

ho avuto una pessima giornata.-

- Sono appena le due del pomeriggio.- osservò ridendo - Ricordami di non passare dalle tue parti stasera, non vorrei

rischiare di venire sbranato se ci dovessimo incontrare per caso. -

- Che cosa ti serve, Rodolfo?- - Che domande! Mi servi tu, e subito.-

- Stasera lavoro.- - Non c’è problema. Starò in ufficio tutta la notte. Vieni

pure quando vuoi.- - Mi stai chiedendo di fare gli straordinari?-

- È un progetto importante, Iris. Mr Truman sta girando una nuova versione dell’Otello e ha deciso di fare una gran

parte delle riprese del film a Cinecittà.- - Cinema?-

- Americano. Come piace a te.- Se fossi stata al buio sono certa che il mio corpo avrebbe

emanato luce propria dall’entusiasmo - Quali scene?- - Il castello. Tu sei la mia esperta in ricostruzione storica,

non saprei a chi altro chiederlo. Ci paga un sacco di soldi, Iris, non posso assumere un principiante che non conosco,

ho bisogno di te.- Quasi il 90% delle scene dell’Otello si svolgono nel

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castello del Moro, il restante in strada o al porto, ma niente

di più. Quindi il grosso del lavoro toccava a noi, nel ricostruire gli interni di alcune stanze del castello. Un lavoro

enorme, e per questo assolutamente affascinante - Stacco alle due al massimo.-

- Fai con comodo, tanto io resto in ufficio. Sto lavorando a una piccola scenografia per il teatro comunale di

Palermo.- - Vedo che sei sommerso di lavoro.-

- Più di quanto vorrei, da quando la mia assistente migliore mi ha piantato in asso.- c’era un sottile tono di

rimprovero nelle sue parole, ma feci finta di non averlo colto.

- Fossi in te, la depennerei dalla mia agenda, quella piccola insolente.- scherzai.

- Buon consiglio.- mi assecondò - Vedrò cosa posso fare. Adesso ti lascio però. Sono già in ritardo con le scadenze.

Ci vediamo dopo.- - Ok!-

- Guarda che ci conto. Non darmi buca anche stavolta.- - Ci vediamo dopo, Rodolfo.-

Riattaccò senza salutare, ma lo sapevo che non lo faceva per maleducazione, faceva così quando era davvero

impegnatissimo con il lavoro. Quando hai delle scadenze da rispettare, anche un secondo è prezioso, soprattutto se puoi

evitare di perderlo in chiacchiere inutili. Grazie a Rodolfo avevo trovato un diversivo per tornare

ad assaporare un po’ di sana vita normale. Mi fiondai sulla libreria per recuperare una copia

dell’Otello. Non lo leggevo dal primo anno d’accademia e avevo bisogno di studiare le scene dell’originale, se no

rischiavo di lasciarmi sviare dalle rappresentazioni televisive o teatrali a cui avevo assistito negli ultimi anni.

Lo cercai, spulciando più volte sugli scaffali affollati.

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Avevo sempre pensato di riordinarli per genere, ma quando

pensavo a me, seduta sul pavimento a catalogare centinaia di volumi, mi venivano i brividi e rimandavo a un secondo

momento. Mi rimproverai da sola per la pigrizia, mentre gli occhi

scorrevano da un titolo all’altro, ma per quanto insistetti nel cercarlo, non lo trovai.

Per quanto ne sapevo, i libri non hanno le gambe, non si spostano da soli, e quei pochi che frequentano casa mia,

l’Otello non lo avrebbero rubato neanche se si fosse trattato del manoscritto originale di William Shakespeare.

Una persona soltanto poteva averlo preso per sbaglio, credendolo uno dei suoi. Michele.

Avrei potuto chiamarlo e passare a casa sua a riprendermelo, ma non desideravo vederlo, non ero ancora

pronta ad affrontarlo, quindi mi preparai ad uscire di nuovo per andare a comprarne un altro in libreria.

Guardai l’orologio. Le tre meno venti, mancava più di un’ora all’apertura pomeridiana dei negozi. Bella fregatura!

Beh, almeno avevo un po’ di tempo per prepararmi qualcosa per pranzo, dato che non avevo ancora mangiato.

Mi arrampicai su una sedia della cucina per recuperare una padella dallo scaffale più alto del pensile accanto al

lavandino. Ancora non capisco perché mi ostini a tenerle lì sopra visto che da sola non supero il metro e sessanta.

Ero ancora in bilico sulla sedia quando il baraccio destro cedette alla scarica elettrica improvvisa che mi attraversò la

mano fino alla spalla. Mollai la presa della padella, che cadde a terra facendo un gran baccano. Mi chinai

lentamente sulla sedia per sorreggermi allo schienale. Mi tremavano le ginocchia e il braccio era tutto un formicolio.

Con estrema attenzione riuscii a smontare dalla sedia e mettermi seduta. Quella scossa era stata più violenta delle

altre e sembrava che il mio corpo avesse bisogno di qualche

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istante prima di riprendersi del tutto.

Pessimo segno! Una folata di vento fresco arrivò fino alla cucina. Mi

voltai verso la porta-finestra del soggiorno. Le tende svolazzavano verso l’interno lasciando aperta un’ampia

fessura attraverso la quale entrò in picchiata una magnifica aquila, che si appoggiò sullo schienale del divano e prese a

fissarmi. - Samuel?- chiesi dubbiosa. Sapevo che l’aquila era una

delle sue forme, ma non mi fidavo più di niente ormai. L’aquila raggiunse il pavimento con un balzo e

nell’attimo in cui toccò terra si trasformò in un minaccioso lupo tutto nero.

Si fece avanti di qualche passo, guardandomi dritto negli occhi e mi si accapponò la pelle dalla paura.

Per fortuna non oltrepassò la soglia della cucina, ma rimase nella porzione di corridoio fra ingresso e soggiorno.

Si mise seduto, ma i suoi occhi tradivano una certa impazienza.

- Manuel non c’è.- dissi stringendomi le ginocchia al petto.

Il lupo guardò verso la camera da letto e poi di nuovo me, e di nuovo la camera da letto, sempre seduto, sempre in

attesa. - Ci sono dei vestiti di Manuel nel secondo cassetto del

mio armadio.- dissi. Senza aspettare che aggiungessi altro, sgambettò fuori dal

mio campo visivo. Tirai un sospiro di sollievo, ma sembrò più uno sbuffo. Il

mio appartamento era diventato un corridoio di passaggio per quelle bizzarre creature ultraterrene.

Il formicolio al braccio nel frattempo era svanito senza che me ne accorgessi, insieme alla paura, quindi mi rimisi in

piedi e raccolsi la padella. Mi era perfino passato l’appetito.

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La posai in una delle due vaschette del lavandino e presi

posto su uno sgabello ad aspettare Samuel. Non era mai stato a casa mia. Non sapevo neanche come avesse fatto a

trovarmi in verità. Io avevo avuto occasione di passare al suo negozio di informatica poche ore prima, per recuperare

la pistola, ma non mi sembrava che si fosse parlato di dove abitavo. Probabilmente gliel’aveva riferito Manuel mentre

era a pranzo con lui e Rachael. Quello che non capivo è cosa ci facesse lì. Il suo appartamento era due volte più

ampio del mio, quindi dubitavo fortemente che le sue intenzioni fossero trasferirsi da me come Manuel. Non

riuscivo proprio a capire, ma sarebbe stata una delle prime domande a cui avrei preteso una risposta immediata.

Samuel mi raggiunse in cucina qualche minuto dopo. Aveva la vita avvolta in un asciugamano bianco.

- Anche tu allergico ai vestiti?- scherzai per allentare la tensione.

Samuel era più alto di Manuel di almeno quindici centimetri, il tanto che bastava a renderlo fisicamente più

robusto, pur mantenendo un fisico scolpito come la statua di un dio greco. Un metro e novanta di carne da

mordicchiare. I suoi boccoli biondi facevano cornice a un viso mascolino su cui brillavano due occhi dalle iridi di un

intenso verde speranza. La pelle d’avorio come quella di Manuel lo rendeva, se possibile, ancora più attraente. Si può

dire tutto sugli Angeli, ma non che siano banali e poco appariscenti nell’aspetto.

Guardandolo in quel momento mi resi conto che i vestiti di Manuel non avrebbero potuto stargli neanche se si fosse

immerso in una vasca d’olio. Era semplicemente impossibile.

- C’era anche un accappatoio in bagno.- gli feci notare. - Non mi tratterrò così a lungo.- rispose avvicinandosi -

Devo solo parlare con Manuel.-

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- Non è ancora rientrato. O meglio… io sono rientrata da

poco, non so se sia ripassato per casa e uscito di nuovo. - Rimase un po’ soprappensiero, poi rispose - Prima di

uscire, ti ha detto dove stava andando?- All’improvviso mi fu tutto chiaro - Mi stai dicendo che

non lo vedi da quando siamo venuti al negozio?- - Sì.-

Cavolo! Mi alzai senza accorgermene. - Ma non è venuto

a pranzo da te e Rachael?- Sembrò sorpreso - Direi proprio di no.-

- Mi ha detto che avrebbe pranzato da voi.-

Il suo viso, dapprima molto tranquillo, assunse

un’espressione tutt’altro che pacifica - È successo qualcosa, qui? È successo qualcosa fra voi?-

Ci pensai un attimo prima di mentire - No, perché?- - Perché Manuel non avrebbe mai mentito, mentre vedo

a che a te riesce benissimo.- Colpita e affondata! Mi sentivo offesa per le sue allusioni.

Avevo sbagliato, è vero, ma lui non lo sapeva, eppure era già pronto a puntarmi il dito contro - Forse stava davvero

venendo da te. Potrebbe aver avuto un contrattempo e aver cambiato idea. Perché accusi me? Non sono mica sua

madre. Non è tenuto ad informarmi di tutto quello che fa quando non è con me.-

- È tenuto ad informare me però!- - Perché, sei tu che comandi?-

Scosse la testa. - E allora?-

- Non ti devo spiegare niente. Sei solo una mortale. Non capiresti.-

- Non sono così stupida come credete.- - Non ho detto questo.-

- No, ma l’hai pensato. Avrei preferito che avessi avuto il coraggio di dirmelo in faccia.-

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Si accostò con la schiena nuda alla parete e mi fissò con

uno strano ghigno.- Vuoi davvero sapere quello che penso?- Volevo saperlo? No, certo che no - Posso farne benissimo

a meno.- risposi accigliata. Sorrise compiaciuto - Siete delle creature così…fragili.-

Mi avvicinai alla porta - Appena rientra, dirò a Manuel che sei passato. Adesso se non ti dispiace… stavo per

uscire.- Sorrise di nuovo, ma non riuscì a nascondere il ghigno

divertito. Si stava burlando di me e non mi piaceva. Mi passò davanti con passo deciso. Non mi sfiorò neanche, ma

sentii come una carezza palpabile lungo la colonna vertebrale. Il brivido mi fece inarcare la schiena e riuscii a

stento a trattenere un gemito. Che bastardo!

Non si diresse in camera da letto come mi aspettavo. Si soffermò nel corridoio ad osservare un disegno a carboncino

del Colosseo. Stavo per rinnovargli il mio invito ad andarsene quando

suonò il campanello. - Una volta tanto ha usato la porta principale.- osservai -

Dovresti imparare a farlo anche tu.- Samuel fissò il portone. Dall’espressione seria sul suo

viso, trapelava in tutta la sua pericolosità la collera che aveva nei confronti di Manuel per averlo tenuto all’oscuro

dei suoi piani. Incrociò le braccia al petto impaziente di trovarsi

finalmente faccia a faccia con lui. Gli Angeli litigano? Sarebbe stato interessante assistere ad una scazzottata in

piena regola. Forse no. Lo fissai, costringendolo a posare la sua attenzione su di

me - Non voglio spargimenti di sangue in casa mia, chiaro?- - Apri quella porta.- rispose cupo.

Ubbidii senza replicare. Spalancai il portone. Neanche

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per un istante mi era balenato per la testa che potesse non

trattarsi affatto di Manuel e, purtroppo, non lo era. - Michele!- esclamai sbiancando - Che ci fai qui?- mentre

parlavo riuscivo solo a pensare che c’era un uomo mezzo nudo alle mie spalle.

Michele lo fissava incuriosito. Sembrava che volesse imprimere nella memoria ogni dettaglio del suo corpo.

- Come mai qui?- chiesi ancora. Senza abbassare gli occhi a guardarmi, forse per non

perdere di vista Samuel, mi porse delle lettere imbustate - Scusa, non credevo avessi compagnia, se no sarei passato in

un altro momento. Sono arrivate queste per te al mio indirizzo.- parlò con estrema calma, quasi indifferenza, però

continuava a fissare Samuel, allora mi voltai nella speranza che non stesse facendo qualcosa di strano.

Era ancora immobile nella sua posizione. Non si era mosso di un millimetro, impegnato a sostenere lo sguardo di

Michele, che non ci pensava neanche a distoglierlo per primo.

Stupida mentalità maschile! Che cosa credevano di dimostrare?

- Samuel puoi lasciarci da soli un minuto, per favore?- Samuel naturalmente non si mosse.

- Samuel!- dissi con più decisione, o più rabbia. Lo vidi gonfiare il torace e sgonfiarlo con un sospiro di

resa. Abbassò lentamente gli occhi su di me e con un inchino accennato si ritirò nella mia stanza senza più

degnare Michele della sua attenzione. Che stronzo, lui sapeva, fin dall’inizio sapeva chi era alla porta, ne ero

sicura, e non aveva fatto nulla per evitare di mettermi in quella situazione.

Finalmente eravamo rimasti da soli. - È il tuo nuovo ragazzo?- chiese Michele col tono

indifferente che gli avevo sentito usare poco prima.

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- È solo un amico del mio coinquilino.- risposi.

Inarcò un sopracciglio - Coinquilino?- - Sì! È un problema per caso?-

Scosse la testa - No, affatto. Pensavo solo che non avresti più diviso casa con nessuno.-

Ipocrita! - A volte capita di cambiare idea. Tu dovresti saperlo più di tutti.-

Sbuffò - Non sono venuto per litigare, Iris.- replicò - Dovevo portarti la posta e l’ho fatto. E adesso ti saluto.- fece

per andarsene, ma si fermò, dandomi le spalle - E… giusto per la cronaca…- aggiunse - Non hai bisogno di mentire con

me. Sei libera di uscire con chi vuoi, a me non interessa.- Stronzo! - Vale lo stesso anche per me!-

Si voltò - Bene!- rispose calmo. - Bene!- ripetei con rabbia prima di sbattergli la porta in

faccia. Il tonfo del portone mise in allarme Samuel, che uscì

dalla camera - Tutto bene?- sembrava sinceramente preoccupato - Se ne è andato quello? Ti ha fatto qualcosa?-

- Sto bene!- mormorai trascinandomi in salotto, dove mi lasciai cadere sul divano, appoggiandomi allo schienale e

serrando gli occhi con un avambraccio. Si inginocchiò davanti a me, senza toccarmi - Sicura?-

Sentii le lacrime bagnarmi il braccio e colare lungo le guance.

Samuel mi accarezzò dolcemente i capelli senza aggiungere altro.

- Mi odia!- singhiozzai. - Ma no che non ti odia.-

- E invece sì. Non mi perdonerà mai.- - Ha reagito così solo perché la mia presenza lo ha

innervosito.- Scossi la testa, asciugandomi il viso col dorso della mano

- Non prenderti colpe che non hai, Samuel. Faceva così

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anche prima di conoscerti, anche se tu non mi sei di certo

stato d’aiuto.- - Era il tuo ragazzo, vero?-

Annuii, nascondendo il viso fra le mani. Samuel prese ad accarezzarmi una spalla in silenzio.

I singhiozzi mi mozzavano il fiato - Ho rovinato tutto.- balbettai.

Mi pose un dito sotto il mento per costringermi a sollevare la testa e guardarlo - Non è colpa tua. Capito?- mi

guardò come se quel semplice “capito?” non potesse

ammettere repliche, come se con quella parola avessi

dovuto capire qualcosa che ancora non capivo.

Annuii tirando su col naso. Mi passò un fazzolettino dal pacchetto sul tavolino basso

del salotto, alle sue spalle. Mi soffiai il naso e cercai di respirare a fondo per calmare

i sussulti del pianto. - Non mi andrebbe di lasciarti qui da sola proprio adesso,

ma devo uscire a cercare Manuel. Inizio ad essere un po’ preoccupato per lui.-

- L’ho baciato.- dissi tutto d’un fiato. Credevo si arrabbiasse con me, invece non sembrò

neanche turbato - Quando?- chiese. - Stamattina.-

- E lui?- - Non si è mosso.-

- Ti ha baciata?- - No!-

Annuì, poi sospirò, alzandosi - Non ti preoccupare. Probabilmente è solo un po’ scosso per quello che è

successo.- - L’ho condannato?-

Chinò la testa su un lato, confuso - A cosa?- - Mi ha spiegato cosa è successo ai vostri compagni che si

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sono lasciati tentare dalle donne mortali.-

- Non si è dato a te, iris. O sbaglio?- - No no.-

- Allora non ti curare di certe cose. È un problema suo se non riesce a controllarsi, non tuo.-

- Non voglio creargli problemi.- - È meglio che vada adesso. Sono sicuro che lui si senta

perfino più in colpa di te. Non vorrei che per questa sciocchezza gli venisse in mente di fuggire chissà dove.-

- Potrebbe davvero andarsene?- chiesi allarmata. - È già successo.- sorrise - È convinto che estraniarsi dagli

umani lo tenga lontano dalle tentazioni. Si rifiuta di affrontare il problema. Non può fuggire in eterno e tanto

meno passare altri trecento anni a fare l’animale in qualche foresta sperduta. Non è questo che siamo, e sarebbe ora che

se ne rendesse conto una volta per tutte.- - Samuel?- Mi alzai - Trovalo e riportalo da me. Se gli

accadesse qualcosa a causa mia non potrei mai perdonarmelo.-

Annui soltanto, poi riprese in un lampo le sembianze della meravigliosa aquila che avevo visto prima. Zampettò

fino al terrazzo e con un salto raggiunse la ringhiera, dalla quale si lasciò cadere nel vuoto, prima di riprendere quota

con uno strillo acuto e agghiacciante. Rimasi a fissarlo librarsi in aria, molto più in alto dei palazzi, fino a

scomparire alla vista, inghiottito dalla distanza che non potevano coprire i miei sensi mortali.

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La lampada sulla scrivania illuminava lo studio di

Rodolfo il tanto che bastava a vedere senza difficoltà i fogli sparsi. Erano circa le tre e mezza del mattino, ero lì da

meno di mezz’ora e gli stavo mostrando gli schizzi delle scene per la scenografia che avevo preparato nel pomeriggio

dopo una rispolverata al testo originale dell’Otello. Nel poco tempo che avevo avuto mi ero soffermata agli interni

del castello, con maggiore attenzione alla camera da letto, dove si sarebbe svolta la scena finale nonché la più

importante di tutto il film. Era stata una giornata troppo lunga per i miei gusti.

Avevo perfino dovuto lavorare da Gianpiero quella sera e come se non fosse già abbastanza, un gruppo di clienti si era

trattenuto più del solito e mi aveva inchiodata al locale fino alle due e mezza.

Ero stanchissima. - Intanto potresti iniziare a lavorare al modellino della

camera da letto.- disse Rodolfo, esaminando gli schizzi per apportare qualche modifica qua e là.

Annuii, ma la sua voce mi giungeva lontana, estranea. Mi stavo addormentando in piedi.

- Me lo faresti un caffè?- chiesi nel mezzo di uno sbadiglio.

- Stanca?- - È stata una giornataccia.-

Si allontanò dalla scrivania e raggiunse il mobile su cui teneva una macchina per il caffè espresso - Cappuccino?-

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propose.

- Caffè! Amaro! Forte!- Mentre Rodolfo frugava in cerca delle cialde nella semi

oscurità dell’ufficio, io mi misi a sedere alla sua poltrona per definire un dettaglio che mi era appena venuto in mente di

aggiungere vicino alla finestra dello schizzo della camera da letto di Otello e Desdemona.

Inserita la cialda, Rodolfo tornò da me per continuare il lavoro.

- Tu non dormi mai, Rodolfo?- chiesi tracciando una linea retta più marcata delle precedenti per definire un

contorno. - Quando ho tempo.-

- E a Veronica sta bene che tu stia via da casa tutto il tempo?-

- Veronica è un’attrice, Iris. Sta molto poco in casa anche lei.-

Rodolfo era sposato da due anni. Si era innamorato di Veronica la prima volta che l’aveva vista recitare per il

provino di uno spettacolo che stavano organizzando. Un vero colpo di fulmine. Non ottenne la parte per quello

spettacolo, però ottenne il cuore di Rodolfo per l’eternità. Quando mi era capitato di vederli insieme qualche volta, mi

ero scoperta ad invidiare la loro sintonia. Sembravano nati per stare insieme. Cosa che non si poteva dire di me e

Michele, visto come era andata a finire fra noi. - Ce la fai a portarmi qualcosa per la fine della

settimana?- mi chiese senza togliere la punta della matita dal foglio su cui stava prendendo forma un ritratto di

donna. Rodolfo è un soggetto molto particolare, quando crea una scena ha bisogno di figurarsi i personaggi che la

ambienteranno. Non importa che in un secondo momento i protagonisti non avranno nulla in comune con quelli della

sua fantasia, l’importante, per lui, è creare la scena affinché

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calzi a pennello sui suoi personaggi.

- Ci posso provare.- risposi. Stavo anche per aggiungere che al momento non avevo materiale a disposizione per

realizzare il modello in scala e che, probabilmente, avrei dovuto ordinarne se non avessi trovato tutto al negozio di

articoli per belle arti in cui mi rifornivo di solito e che, in quel caso, avremmo dovuto aspettare qualche giorno, però

venni distratta da un urlo straziante, tanto forte che sembrò riecheggiarmi nella testa. - Che cosa è stato?-

- Cosa?- Mi guardai intorno, inquieta - Non l’hai sentito?-

- Sentito cosa, Iris?- - Quell’urlo! Come hai fatto a non sentirlo?-

Rodolfo si chinò un poco a scrutarmi in viso - Sei sicura di non esserti appisolata e aver sognato ad occhi aperti?-

- Non diciamo stronzate, Rodolfo. Per favore! Sarò anche stanca, ma so ancora riconoscere quando sono

sveglia e quando no.- Si strinse nelle spalle - Io non ho sentito niente.-

Il cuore mi batteva ancora forte contro il torace per lo spavento.

- Senti, cara, facciamo così: abbiamo lavorato abbastanza per oggi, perché non torni a casa e non fai una bella

dormita.- Di nuovo quell’urlo, ma una violenta fitta all’addome mi

fece balzare in piedi dalla poltrona, lasciando Rodolfo a fissarmi, incerto.

- L’hai sentito, adesso?- domandai, nella direzione dalla quale avevo sentito provenire un grido ancora più

angoscioso del primo. Rodolfo mi posò una mano sulla spalla tremante - Vuoi

che ti riaccompagni a casa? Non mi sembri nella condizione di guidare.-

Mi voltai a guardarlo come un furia - Non sto

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mentendo!-

- Io non sento niente, Iris.- rispose calmo, nel tentativo di non aumentare la mia agitazione, ma riuscì solo a farmi

innervosire di più. - Sono stanca, me ne torno a casa. Ci sentiamo domani.-

Mi allontanai da lui in maniera assai poco garbata, poi afferrai la borsa che avevo posato sul mobile accanto al

tavolo da lavoro davanti alla parete di fronte alla scrivania e uscii dall’ufficio senza neanche salutarlo.

Mentre scendevo le scale del palazzo i gemiti di dolore continuarono a risuonarmi nella testa, come se provenissero

dalle immediate vicinanze. Non trovavo le chiavi della macchina nella borsa, ma sono sicura che, agitata com’ero,

non le avrei viste neanche se me le avessero sventolate in faccia.

Scendevo un gradino dopo l’altro quasi correndo. Mi sentivo guidare verso l’esterno, ma ero consapevole di

essere attratta da qualcosa al di fuori della mia ragione. Sul marciapiede, sotto un lampione accesso, mi ritrovai a

guardarmi di nuovo intorno in cerca di qualcosa che non comprendevo.

Avevo rinunciato perfino a trovare le chiavi. Sentivo di non avere tempo da perdere, così mi misi a correre lungo la

via del corso, guidata dai gemiti che diventavano sempre più vicini.

La città era deserta a quell’ora della notte. Perfino le auto parcheggiate lungo i marciapiedi sembravano

addormentate. Non sono mai stata abile nella corsa, le mie lezioni in

palestra si limitano a qualche ora di step e attrezzi vari per il fitness. Ho il fiato corto e in questi casi la corsa non è

l’ideale se non vuoi stramazzare al suolo come un’imbranata davanti agli occhi di tutti.

Quella notte però non sentivo neanche la fatica. Non

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avvertivo il solito bruciore all’altezza del cuore per lo sforzo

della corsa, non mi mancava il fiato e non dovevo neanche sforzarmi di coordinare corsa e respiro. Correvo e basta,

come se non avessi mai fatto altro in tutta la vita. Arrivata all’incrocio fra via del corso e Viale Dante, le

urla nella mia testa cessarono di colpo. Fino a quel momento mi ero lasciata guidare fin lì

dall’istinto, ma svanite le urla era svanita anche la bussola che mi stava indicando la strada da seguire. Così rimasi

immobile, aggrappata al palo del semaforo all’angolo del marciapiede.

Con un rombo di motore, che sembrò quasi un ruggito, Samuel mi affiancò con la sua auto sportiva - L’hai sentito?-

mi chiese allarmato. Annuii. Cavolo, non avevo neanche il fiatone. - Che

cos’è?- - Manuel.-

Non so che aspetto assunse la mia faccia quando pronunciò il suo nome, ma l’affanno che non avevo per la

corsa mi colse per l’apprensione. Quelle urla erano davvero raccapriccianti e se era davvero lui a produrle, doveva essere

nei guai fino a collo. - Sali!- mi disse, ma a mente lucida l’avrei riconosciuto

per ciò che era davvero: un ordine. Quando passai dal lato del passeggero mi accorsi che

c’era anche Rachael sul sedile posteriore. Non sembrava affatto turbata, ma i suoi occhi fucsia scintillavano di luce

propria rivelando una collera che non avevo mai visto sul volto di nessuno.

Non riuscii a sostenerne lo sguardo, nonostante la sua attenzione fosse rivolta avanti a sé, nel vuoto.

Non mi salutò e non lo feci io, mi sbrigai solo a salire in macchina. Non avevo neanche finito di chiudere lo

sportello, che Samuel ripartì a tutto gas, lungo il Viale

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Dante deserto.

Ero così schiacciata al sedile a causa dell’alta velocità da non riuscire neanche ad allacciarmi la cintura.

- Dove stiamo andando?- chiesi saldamente aggrappata alla maniglia dello sportello.

Senza rispondermi, Samuel diede un’occhiata a Rachael dallo specchietto - Tutto bene là dietro?-

Rachael non si mosse. - Che cos’ha che non va?- provai a chiedere di nuovo.

- Sta cercando Manuel.- rispose imboccando la rampa della superstrada.

- In che senso?- - Sta provando a capire dove l’hanno portato.-

- Chi?- Non mi rispose.

- Ma se lei non parla, tu come fai sapere dove devi andare?-

- Per adesso seguo il suo odore. È passato di qua.- Non capivo gran che di tutto quel discorso, ma sentivo il

bisogno di parlare, di sentirlo parlare, qualunque cosa dicesse, non era molto importante, purché parlasse, quindi

tanto valeva farmi spiegare cosa stava succedendo. - Non lo senti più, vero?- mi chiese accelerando.

- Ho smesso di sentirlo all’incrocio. Ma perché strilla così? Che sta succedendo?-

- Rachael?- chiese ignorando di nuovo le mie domande. Mi voltai a guardarla. Il viso ancora stravolto dalla

collera, ma le sue guance erano bagnate di lacrime. - Rachael!- ripeté.

- Sembra un sotterraneo.- rispose. - È cosciente?-

- Sì. Si sono fermati. E stanno discutendo fra loro.- - Loro chi?- domandai.

- Vedi nient’altro?-

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- Non riesce a tenere la testa alzata per troppo tempo. È

esausto.- - Dannazione!-

Ok, adesso ne avevo la prova, anche gli Angeli imprecano.

- Stanno tornando!- esclamò Rachael, e la rabbia trasfuse dalla sua voce.

Samuel diede ancora gas, come se fosse stato possibile accelerare di più.

Una lancinante fitta alla schiena me la fece inarcare all’indietro scuotendomi il corpo per intero. Non riuscii a

trattenere un grido, che si mescolò a quello di Manuel che sentii nella mia testa.

Rachel si accasciò contro il sedile, portandosi le mani agli occhi, un gesto spontaneo, ma assolutamente inutile,

perché non sarebbe bastato per annullare le sue visioni. Un nuovo colpo sulla schiena mi sbalzò in avanti,

facendomi quasi battere la testa contro il parabrezza. Non lo colpii solo perché Manuel mi bloccò con un braccio.

- Tienila.- disse, e quando sentii le braccia di Rachael addosso per bloccarmi al sedile capii che l’ordine non era

rivolto a me. Una sequenza di colpi mi mandò al schiena in fiamme.

Sentivo Rachael singhiozzare alle mie spalle. Appena i colpi cessarono, mi abbandonai contro il sedile,

avvolta dall’abbraccio protettivo di Rachael. - Riesci a respirare?- mi chiese Samuel voltandosi un

istante a guardare come stavo. Annuii - Il dolore è passato.-

- Lo so.- - Sento il suo dolore?- chiesi trattenendo le lacrime.

- Sì.- rispose Rachael - Ma solo nel momento in cui gli vengono inflitti i colpi, poi tu smetti di sentirlo, ma lui

continua a soffrire.-

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- E tu lo vedi?-

- Io vedo quello che vede lui.- - E tu, Samuel?-

- Io percepisco i suoi odori.- - Lui invece sente le vostre voci, vero?-

- Sì!- - Io che c’entro con tutto questo?-

Sorpassammo un cartello che non riuscii a leggere e non per il buio, ma per la velocità. Eravamo in prossimità di una

svolta e Samuel rallentò per imboccarla. L’uscita dell’autostrada. Stavamo andando a Roma.

- A quanto pare il contagio ti permette di entrare in contatto con lui attraverso alcuni dei suoi poteri.-

- E il dolore?- chiesi ripensando alle frustate che avevo sentito una per una sulla schiena.

- Un effetto collaterale.- - Ma all’inizio non l’ho sentito.-

- Non so risponderti, Iris. È una situazione nuova anche per noi.- mi sembrò un tantino irritato dalle mie chiacchiere,

quindi preferii lasciarlo un po’ tranquillo. Rachael mi sciolse dalla sua stretta e tornò ad accucciarsi

sul proprio sedile. Samuel la osservò di nuovo dallo specchietto - Che

succede, Rachael?- - Non lo so, ha chiuso gli occhi.-

- Ma è vivo?- non riesco a tenere la bocca chiusa a lungo, ma almeno qualche volta ci provo.

- Noi siamo davvero Immortali, Iris.- rispose Rachael - Non potremmo morire neanche se volessimo. Però questo

maledetto involucro mortale ci permette di soffrire, e non è una bella fortuna poter soffrire in eterno.-

- Senti qualcosa?- chiese Samuel accostando la macchina in un parcheggio per togliersi dal traffico dell’alba.

- No!-

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- Non riesci a sentire i suoni che percepisce lui?-

- E come faccio a sapere che non sia semplicemente quello che sento qui intorno?-

- Prova a tapparti le orecchie.- Seguii il suggerimento, ma non mi giunse nessun suono

in particolare. Scossi la testa - Niente.- - Sono usciti.- intervenne Rachael. Lo hanno lasciato da

solo. Manuel con una mezza torsione del busto si voltò a

guardarla - Ha ripreso i sensi?- - Per ora si, ma è cosciente solo a tratti.-

Balzai in ginocchio sul sedile - Se io condivido con lui il potere di sentirlo, lui dovrebbe poter sentire me, o no?-

Rachael mi fissò, poi scambiò un’occhiata con Samuel. Samuel scosse la testa - Non funziona così.- mi spiegò -

Noi siamo legati l’un l’altro e quando uno è in pericolo, gli altri sono in grado di entrare in contatto con lui per poter

accorrere in suo aiuto. Tu involontariamente ti sei legata a lui e questo ti permette di condividere il suo potere, ma non

puoi usarlo a tuo piacimento. È Manuel quello in pericolo, per questo lo senti, lui non riesce a sentirti perché sei qui al

sicuro con noi.- - È una trasmissione a senso unico.- osservai.

- Esattamente.- - Quindi se io fossi in pericolo, lui non potrebbe non

sentirmi, giusto?- - È così. In teoria.-

Aprii lo sportello e smontai velocemente dall’auto - Allora mettiamola in pratica.- la strada a scorrimento veloce

costeggiava il parcheggio. Mentre correvo per raggiungerla, sentii gli sportelli aprirsi alle mie spalle.

- Che fai, sei impazzita?- gridò Rachael - Samuel, ferma quella pazza.-

Quando raggiunsi il centro della strada gli autisti

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iniziarono ad assordarmi con i clacson, sfrecciandomi da

tutti i lati. Mi voltai verso Samuel e lo vidi sul ciglio della strada

intento a mantenere ferma Rachael che voleva correre ad aiutarmi.

Lui aveva capito, lei ancora no, ma non avrebbe tardato a farlo, se non fossi morta in quella folle esibizione.

I clacson mi assordavano, per non parlare degli insulti di quei disgraziati che non si degnavano neanche di rallentare.

Mi coprii le orecchie con le mani e gridai con quanto fiato avevo in gola - Manuel?-

Per un paio di minuti continuai ad udire nient’altro che il traffico intorno a me, ma poi, anche se debolmente riuscii a

distinguere la sua voce in quel trambusto. - Iris.-

- Manuel, presto, prima che sia troppo tardi, dimmi dove

sei.-

- Cos’è questo frastuono?- chiese.

- Che cazzo di domanda è?- strillai inferocita - Dimmi dove sei. Subito!-

- A Roma.-

- Sì, ma dove?- - In un Club nei pressi di Cinecittà.-

- Il nome del Club, Manuel.- - Non sono riuscito a vederlo. Ma è traffico quello che sento?

Togliti dalla strada. Immediatamente.- mi rimproverò.

- No!- - Iris!-

- Non mi tolgo se prima non mi fai capire dove sei.- - Riuscivo a vedere i cartelloni del centro commerciale sulla

destra- spiegò - e c’è un supermercato di fronte al Club, ma non

chiedermi di più, perché non so dirti altro. E adesso togliti dalla strada , pazza incosciente che non sei altro! -

Mi sentii scaraventare a terra da qualcosa di pesante ed

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estremamente forte. Ero finita sull’altro lato della strada e

una tigre mi sormontava in tutta la sua maestosa corporatura.

Samuel era ancora al suo posto, ma stava raccogliendo degli abiti sul cemento.

- Rachael!- esclamai. La tigre ruggì guardandomi con ferocia. Mostrava le

zanne e un gorgoglio tenebroso gli usciva dalla gola. Sollevai le braccia sopra la testa - Non lo faccio più,

giuro, però… ti prego… non uccidermi.- Per fortuna gli umani a bordo delle auto erano stati

preservati da quello spettacolo da qualche sortilegio divino. - Venite subito qui!- ci ordinò Samuel.

Una zampa artigliata della tigre mi premeva la spalla conficcando le unghia aguzze nella carne. Non molto, ma

abbastanza da farla sanguinare. La voce di Manuel tornò a farsi sentire, era stanco, e le

sue parole erano sussurri, ma riuscivo a sentirlo distintamente, anche perché quando mi voltai a cercare

Samuel, mi accorsi che il traffico e la vita intorno a noi era immobile come un fermo immagine - Iris?-

- Rachael, adesso basta!- la rimproverò Samuel. Solo

allora si scostò da me, permettendomi di rialzarmi. Raggiungemmo Samuel dall’altra parte, talvolta

scavalcando le auto troppo accodate le une alle altre. Rachael, con le zampe lasciò ammaccature e graffi sulle

carrozzerie quando ci saltava sopra, ma da perfetto felino, non lasciò trapelare affatto dai movimenti la pesantezza

della propria corporatura. Sembrava priva di peso quando spiccava un salto per atterrare più avanti. Al contrario, io

sembravo un elefante che tenta di scalare una montagna. Goffa e priva di senso dell’equilibrio. Non sono alta e

scavalcare i cofani delle auto era tremendamente difficile, senza contare che il più delle volte scivolavo dal cofano

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sbattendo contro l’auto ferma davanti. Per fortuna la fila di

macchine non superava le quattro vetture, altrimenti, avrei fatto perdere la pazienza perfino a Samuel, che per il

momento, dal ciglio della strada, si godeva la scena. - Perché non mi dai una mano invece di prendermi in

giro.- gli dissi, offesa mentre scendevo dall’ultima vettura. Mi scollai la polvere e la sporcizia delle auto dai blue jeans e

dalla maglietta verde chiaro. Rachael non si era ancora ritrasformata, e si lisciava le

piccole orecchie con le massicce zampe anteriori. - Sei riuscita a sapere dov’è?- mi chiese Samuel

tendendomi una mano per raggiungerlo sul lastricato del parcheggio.

La afferrai e appena fui con entrambi i piedi nel parcheggio, le auto ripresero a sfrecciare sulla strada come

se niente fosse successo. - C’è mancato un pelo che non ti investissero, lo sai? Se

non fosse stato per Rachael a quest’ora saresti una frittella sull’asfalto.- mi spiegò. Subito dopo diede un’occhiata alla

ferita che mi aveva lasciato sulla spalla - Ti fa male?- - Brucia, ma è sopportabile.- risposi guardando la tigre

rotolarsi per terra - Che sta facendo?- - Si gratta la schiena.-

- Ah!- Lo sentii ridere, ma non mi voltai a guardarlo, - Cosa

credevi che facesse?- - E che ne so?-

- Che cosa ti ha detto Manuel?- domandò senza più neanche un accenno di ilarità nella voce.

Mi voltai verso di lui, e il suo viso era tornato severo e autoritario - Cinecittà. Tabellone del centro commerciale

sulla destra. Club con di fronte un supermercato.- tacqui in attesa che mi comunicasse la nostra prossima mossa, invece

rimase a fissarmi ancora un po’. - Che c’è?-

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- Non ti ha detto altro?-

Scossi la testa. - Sicura?-

- Mi ha detto: “Togliti dalla strada, pazza incosciente che non sei altro.”- riferii.

A quelle ultime parole, l’espressione severa di Samuel si addolcì un po’ con un sorriso dopo un sospiro di sollievo.

- Sembra che questa informazione sia più importante delle altre.- dissi sforzandomi di capire.

Annuì senza smettere di sorridere, poi mi passò accanto per tornare alla macchina - Andiamo. Il sole è sorto. Adesso

tocca a noi.- - Che significa?- domandai correndogli dietro per

raggiungerlo Rachael gli fu accanto con due balzi soltanto e gli

annusava la mano libera, mentre l’altra teneva stretti gli abiti della ragazza.

Invece di entrare in macchina, Samuel si fermò ad aprire il portabagagli. Posò i vestiti di Rachael all’interno e mi

prese per un braccio guidandomi in disparte. Mentre ci allontanavamo dall’auto vidi Rachael

riprendere la forma umana. La sua nudità nascosta solo dallo sportello del portabagagli.

Quando gli sembrò che ci fossimo allontanati abbastanza da dare a Rachael la dovuta privacy, ci fermammo.

- Che significa: “Adesso tocca a noi.”?- domandai. - Andiamo a riprenderci Manuel.-

- Ma non chiamiamo la polizia?- Mi fissò come se si chiedesse se stessi dicendo sul serio.

- Chi gli sta facendo questo potrebbe essere pericoloso.- precisai - Ho potuto sentire sulla mia pelle quanto lo siano.

Se andiamo lì da soli rischiamo di farci ammazzare…anzi…mi correggo, rischio di farmi

ammazzare, visto che voi siete immortali.-

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- Non possiamo immischiare altri mortali nelle nostre

faccende, Iris. E sappiamo quello che facciamo. Non è la prima volta che diamo la caccia a una banda di demoni. Se

siamo fortunati ce la sbrigheremo in pochi minuti, quindi sta tranquilla.-

Indietreggiai spaventata - Ehi! Io ho visto cosa sono capaci di fare quei mostri.- scossi la testa - Non ci penso

neanche a ritrovarmi faccia a faccia con un'altra di quelle creature.-

Samuel si scurì in volto. Corrugo la fronte, guardandomi male - Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Iris. Che tu voglia o

no, ormai ci sei dentro e non ti puoi tirare indietro.- - E se dicessi di no?- strillai. Non volevo alzare la voce,

ma non riuscii a controllarla. Rachael sbucò da dietro la macchina rivestita da capo a

piedi. Non mi ero accorta del suo abbigliamento fino a quel momento. Indossava un top nero allacciato al collo, e un

paio di pantaloni di pelle a vita bassa aderenti come una seconda pelle e infilati in anfibi di pelle nera ,alti fino al

ginocchio e chiusi da tre stringhe con fibbie d’acciaio come quella della cintura che portava alla vita. Era alta poco

meno di Manuel, circa un metro e settanta, ma il suo corpo esile e sinuoso da felina la rendeva affascinante perfino ai

miei occhi di donna. Non avevo mai visto niente del genere.

Samuel indossava una maglietta aderente verde scuro, pantaloni marroni con tasconi sulle cosce infilati in anfibi

militari neri. I muscoli delle braccia guizzavano minacciosi dalla

manica corta della maglietta. Sarebbero bastati quelli a incutermi tanto timore da farmi convincere a fare qualsiasi

cosa. Rachael ci raggiunse mettendosi alle spalle di Samuel.

Gli infilò le mani sotto le braccia e ne raggiunse i pettorali

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di marmo, poi, sporgendosi a guardarmi disse - Se non

vuole venire non possiamo costringerla.- mi sorrise. Vidi il corpo di Samuel irrigidirsi sotto la sua stretta. A

quanto pareva non era affatto d’accordo con lei. - Stiamo solo perdendo tempo, Sam.- gli disse -

Dobbiamo trovare Manuel prima che ricomincino a fargli del male.-

- Lei viene con noi.- - No, Sam. Iris non vuole.-

- Non mi interessa. Se può aiutarci a portare Manuel a casa, allora verrà con noi, con le buone o con le cattive.-

- Sam!- Le prese le mani e si staccò dal suo abbraccio. Rachael lo

lasciò fare e indietreggiò di un passo, senza togliergli gli occhi di dosso, ma lui non se ne accorse, perché stava

fissando me. E non aveva per niente l’aria contenta. Sbuffai - Siete tutti immortali, che aiuto potrei essere per

voi?- - Iris ha ragione, Sam. Piuttosto ci sarà d’intralcio.-

- Di che cosa hai paura?- mi chiese Samuel. Lo guardai shockata. Davvero non capiva?

Non aspettò la mia risposta, ci diede le spalle e tornò alla macchina. Rachael lo seguì lentamente mantenendo le

distanze e io feci altrettanto. Il portabagagli era ancora aperto. Mi affacciai a guardare

all’interno e vidi due borsoni, uno nero e uno color crema. Samuel afferrò quello nero e lo aprì.

Ne tirò fuori una strana cintura e la indossò. Una identica la passò a Rachael, che se la posizionò sui fianchi

modellati, al posto di quella di cuoio che indossava già. Un’altra strana cintura, la indossò sul petto quasi come

fosse un’imbracatura e lo stesso fece Rachael. - Che fate?- chiesi.

- Ci armiamo.- rispose Rachael, visto che Samuel

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sembrava deciso a non rivolgere più la parola a nessuna

delle due. - Sicura di non voler partecipare? Sarà divertente. Beh,

spesso lo è stato.- afferrò una pistola che gli porse Samuel e la infilò nella fondina ascellare che aveva appena finito di

allacciare. Quattro caricatori pendevano dalla cintura alla vita.

Sempre dallo stesso borsone, Samuel tirò fuori due autentiche spade dalla inconfondibile foggia greco-antica.

Erano chiuse in un fodero di cuoio che agganciarono alla cintura con un piccolo moschettone.

Mi aspettavo che estraesse degli elmi di bronzo da un momento all’altro, invece passò a Rachael una seconda

pistola, più piccola della prima, che infilò nella fondina sul fianco.

- Bello giocare a fare la guerra quando le armi non possono ucciderti.- osservai.

Samuel si voltò a fulminarmi con lo sguardo e io tornai a farmi i fatti miei come una brava mortale.

- Non è una questione di vita o di morte, Iris.- spiegò Rachael - Si tratta di salvare un compagno. L’hai sentito

Manuel. Hai perfino percepito sulla tua carne il suo stesso dolore. Forse tu riesci ad ignorare tutto questo, ma noi no.

Io vedo quello che gli fanno ed è orribile. Vedo le lacrime che gli offuscano la vista e sento il bruciore dei suoi occhi.

Non te ne facciamo una colpa, sei solo un’umana, dopotutto, e il secolo che vivi non conosce l’onore e il senso

di lealtà verso un proprio compagno, per questo riesci a tirarti indietro senza battere ciglio pur sapendo che potresti

aiutare un amico, anche a costo della vita. Noi abbiamo vissuto per tanto di quel tempo insieme da sentirci un

tutt’uno ormai. Se anche avessi la certezza che entrando in quel sotterraneo cessassi di esistere, lo farei comunque pur

di salvare Manuel. Non ti giudico, ma tu non giudicare noi,

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perché non te lo permetto.-

Samuel intanto aveva indossato un mantello nero con cappuccio che gli sfiorava le caviglie.

Rachael sventolò il proprio prima di indossarlo e legò i capelli biondi in una coda alta prima di tirare il cappuccio

sulla testa. Il borsone color crema era aperto perché Samuel vi aveva

appena estratto i mantelli. All’interno c’erano degli abiti di riserva accuratamente piegati e stirati.

I mantelli nascondevano perfettamente l’arsenale che si portavano addosso. Incutevano un po’ di paura visti

abbigliati in quel modo, ma forse il loro intento era proprio quello, se mai mortale fosse riusciti a vederli arrivare.

- La lasciamo alla stazione Termini prima di andare?- chiese Rachael, ma Samuel stava ancora frugando nel

borsone delle armi, come se non avesse ancora finito. Non le rispose, ma in compenso mi attirò a sé tenendomi

stretta per un braccio e mi allacciò alla vita una cintura come la sua.

- Samuel!- lo richiamò Rachael - Che stai facendo?- - Ho detto che viene con noi e non voglio sentire una

parola di più in proposito.- Rachael provò a protestare e lui le ringhiò contro

digrignando i denti. Aveva due zanne aguzze al posto dei canini. Gli occhi erano diventati completamente neri e

profondi, come quelli del lupo che avevo visto in casa mia. Rachael indietreggiò a testa bassa.

Una tigre che ha paura di un lupo? Normalmente avrebbe dovuto poterselo pappare con estrema facilità. Boh!

Non ci capivo più niente. Aiutandomi a indossarla, Samuel mi allacciò al petto la

fondina ascellare e solo dopo mi ci inserì la pistola. - Prova ad estrarla.- mi disse.

Non avevo idea di cosa fare esattamente, infatti usai la

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mano sbagliata.

- Si fa così.- e mi fece vedere estraendo la sua. Lo imitai, accorgendomi che risultava particolarmente

semplice farlo. - Manuel ti ha insegnato a mettere e togliere la sicura e a

cambiare il caricatore?- Annuii.

Mi infilò un’altra pistola nella fondina sul fianco e assicurò il fodero con la spada alla cintura.

- Non crederai davvero che sappia usare una spada?- - Io lo so che non ti sai infilare neanche un dito in un

occhio, ma loro non lo sanno. Fiutano il contagio di Manuel e ti credono una di noi. Non devi combattere, forse

non ci sarà affatto la necessità di mettere mano alle armi, ma più riusciamo ad intimidirli, meglio è.-

- E se mi attaccassero come l’altro giorno?- - Allora prendi la pistola e spara.-

- Ma…- - Ti stai preoccupando per niente, Iris. Ci saremo noi con

te. Non accadrà niente a nessuno.- Un tremito mi scosse il corpo - Io non ho mai ucciso

nessuno.- dichiarai. - Stiamo parlando di demoni sputati fuori dall’inferno,

Iris. Anche se sono in forma umana, non sono umani, tanto quanto non lo siamo noi. Non farti scrupoli inutili.-

- E come faccio a sapere che si tratti proprio di un demone e non di un uomo qualsiasi.-

- Lo capirai quando li avrai davanti.- Scossi la testa - Ho paura.-

Samuel spiegò un terzo mantello e me lo allacciò al collo, soffermandosi poi con le mani sulle mie spalle. Mi guardò

dritto negli occhi - Ti giuro su Dio che non lascerò che ti torcano neanche un capello.-

Sembrava sincero. Troppo serio, forse, ma estremamente

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sincero e sicuro di quello che diceva.

- Andiamo?- chiese accennando un mezzo sorriso. Annuii, pentendomi subito di averlo fatto.

Lanciò un’occhiata a Rachael, che richiuse lo sportello del portabagagli e si infilò in macchina. Toccò a me il sedile

posteriore stavolta, ma non mi lamentai, anche se avrei voluto. Non volevo mai più rivedere quegli occhi e quelle

zanne, soprattutto rivolti verso di me.

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15

Quando arrivammo, il Club stava ancora riversando

fuori gli ultimi dipendenti. La scritta al neon era stata spenta e i tavoli all’interno erano già stati puliti e ricoperti da sedie

e sgabelli per permettere alla donna delle pulizie di ripulire il pavimento senza intoppi. Al bancone del bar c’era un

ragazzone in maglietta bianca aderente che puliva i bicchieri con un panno. Non garantisco sulla pulizia del panno, ma

dalla cura che applicava per renderli lucenti mi sforzai di credere che fosse pulito.

Al nostro ingresso, il barista ci diede un’occhiata veloce, ma non sembrò per niente sorpreso dal nostro

abbigliamento, come se non gli fosse nuovo vedere nel suo locale strani personaggi come noi.

Rachael teneva ancora il cappuccio sulla testa, che le celava, nella penombra, tutta la parte alta del viso. Forse

credeva di incutere più timore se non avesse rivelato da subito di essere una donna.

Samuel si avvicinò all’uomo al bancone. Dal suo viso non trapelava la minima emozione, né paura, né

spavalderia, niente di niente. Rachael rimase ferma sulla porta a controllare la via di

fuga più vicina.Io invece ero ferma a metà strada fra lei e Samuel, immobile come una statua. Solo gli occhi

guizzavano da tutte le parti in cerca di rumori molesti o strani movimenti.

- Chi è il capo qui?- chiese Samuel con una calma e una profondità che mi fece rizzare la peluria sulle braccia.

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- Chi è che lo desidera?- rispose l’altro. Sul metro e

novanta, più di cento chili di muscoli, l’uomo sembrava appena sceso da un ring dopo un incontro di lotta libera. Sul

cranio rasato si era tatuato un serpente, con le fauci spalancate, che stritola una tigre fra le sue spire.

Gran parte del locale era immerso nel buio. Privo di finestre, come fonte di luce, quella mattina, c’era una fila di

neon alle spalle del barista. Una donna uscì dall’oscurità in fondo alla sala. Ero così

tesa che quando sbucò come dal nulla sentii un violento tremore in tutto il corpo. Scorsi Rachael muoversi con la

coda dell’occhio, ma non lasciò la sua postazione. La donna si avvicinò al bar, reggendo un grembiule in

mano. Lo posò sul piano di acciaio del bancone e si sciolse i capelli, che rilegò dopo avergli dato una sistemata - È finita

anche oggi.- disse guardando il barista - Ti serve un passaggio?- sembrava non averci notato affatto e forse era

così, perché quando il barista gli rispose che si sarebbe trattenuto ancora un momento lei lo salutò, raccolse la sua

borsa dal tavolo dove l’aveva lasciata e ci sfilò accanto senza degnarci di uno sguardo.

Sparita alla vista, il barista tornò ad occuparsi di Samuel - Chi vi manda?- chiese indifferente.

- Non sei abbastanza forte da poterti permettere di farmi delle domande.- ribatté secco Samuel.

L’altro lo scrutò con una punta di collera nello sguardo. Strinse tanto un bicchiere tra le mani, mentre lo lucidava, da

frantumarlo. Rivoletti di sangue gli colarono dalla mano ferita, ma la sua espressione non mutò e se soffriva, fu bravo

a non darlo a vedere. - Vengo da lontano.- aggiunse Samuel - Sono stanco e

quando sono stanco mi innervosisco facilmente, quindi faresti meglio a dirmi subito dove si trova il mio amico.

Non costringermi a cercami da solo le mie risposte. Non ti

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piacerebbe.-

Il barista si irrigidì, cercando di sovrastare Samuel in altezza, ma Samuel non si lasciò intimidire e con un

movimento così rapido che neanche riuscii a percepire, lo afferrò per la maglietta attirandolo a sé. Un ringhio

minaccioso fuoriuscì dalla sua gola e da dove mi trovavo riuscii a vedere le zanne allungarsi. La maglietta bianca si

tinse di sangue. Samuel aveva artigli al posto delle unghie. - Vuoi essere tu il primo?-

Finalmente scintillò qualcosa di molto simile alla paura negli occhi del barista. Sollevò le braccia in segno di resa e

Samuel lo lasciò, allontanandolo da sé con uno spintone che gli fece sbattere la schiena contro gli scaffali con gli alcolici.

Per la forza dell’urto alcune bottiglie caddero e si ruppero. Tutta la sala si riempì di puzza di alcool.

Senza preoccuparsi di raccogliere i vetri a terra, il barista uscì da dietro il bancone e fece cenno a Samuel di seguirlo.

Rachael si staccò dalla porta e mi passò davanti per raggiungere Samuel, che seguiva il barista senza togliergli

gli occhi di dosso. Li seguii anch’io, ma rimasi sempre qualche passo più indietro.

Scendemmo al piano interrato, in fila indiana. Rachael teneva il barista sotto tiro con la pistola. Samuel invece, non

sembrava affatto preoccupato. Io naturalmente stavo morendo di paura e sussultavo ad ogni minimo rumore. Se

il mio scopo era di non dare nell’occhio e lasciare che mi credessero una di loro, non ci stavo riuscendo e forse non ci

sarei mai riuscita. Attraversammo un corridoio illuminato da piccole luci a

parete che si alternavano su entrambi i lati del corridoio dipinto di rosso. Sorpassammo delle porte di legno, ma tutte

chiuse, il barista si fermò su quella in fondo al corridoio e la aprì estraendo la chiave dalla tasca dal pantalone. La porta

apriva su un’altra scala, che scendemmo sempre in fila

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indiana. Ci invase un puzzo persistente di muffa e umidità.

Da dove mi trovavo non vedevo molto, visto che l’unica fonte di luce era la fiamma della torcia che reggeva in mano

il barista. Ero troppo bassa per vedere oltre le spalle larghe di Samuel e davanti a lui c’era un bestione di quasi due

metri che al posto della schiena sembrava avere un muro di cemento.

I gradini erano stretti e alti. Si sentiva l’umidità scivolare sotto i piedi. La parete alla mia destra trasudava acqua che,

in alcuni tratti, schizzava sui gradini imbrattandomi le scarpe da ginnastica leggere e i jeans.

Mentre scendevamo nel sotterraneo mi chiedevo come avrei fatto a ritornare in superficie al buio se fosse stato

necessario darcela a gambe. La scala non aveva alcuna protezione e si attorcigliava verso il basso, assecondando la

curva della parete. Forse stare al buio non era poi una così cattiva idea, visto che da sempre soffrivo di vertigini anche

in piedi su una sedia. Finalmente raggiungemmo la base della gradinata. Dalla

flebile luce della torcia riuscimmo a scorgere alcune aperture ad arco sulla parete circolare che servivano da

ingresso a cupi cunicoli con soffitto a botte che si perdevano nell’oscurità più totale.

Ci fermammo un momento perché il barista si guadò un po’ intorno come se non sapesse quale fosse la galleria da

percorrere. - Vedi qualcosa?- sussurrai a Rachael, un passo avanti a

me. - No!- non si voltò a guardarmi, a dire il vero non aveva

mai tolto gli occhi dal barista, pronta a fare fuoco al primo passo falso.

- Credi sia svenuto di nuovo?- Scosse la testa - È più probabile che abbiano

semplicemente smesso di torturarlo.-

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La nostra guida tornò ad avanzare in silenzio, verso il

cunicolo sulla nostra sinistra. Era uno stretto passaggio sotterraneo con le pareti scavate direttamente nella roccia e

dal quale diramavano diversi cunicoli ancora più bassi e stretti di quello principale.

Non camminammo molto prima di iniziare a vedere dei bagliori in lontananza e un fitto vociferare.

Il barista si fermò all’improvviso e, per la prima volta da quando ci aveva chiesto si seguirlo, si voltò a guardare

Samuel, che non aveva ancora ripreso la sua forma umana per intero.

- Se mi accorgo che mi hai mentito ti ammazzo.- disse al barista. Non c’era barlume di menzogna nel suo sguardo

infuriato. - Io sono solo il tramite.- rispose serio - Dovevo condurti

qui e l’ho fatto. Se proprio vuoi un pretesto per ammazzarmi posso sempre procurartene uno.- lo sfidò.

Samuel ringhiò, ma il barista sembrava aver perso ogni timore.

- Sei un illuso se credi che ti salveranno.- disse Samuel - Sei solo una vittima da sacrificare per raggiungere i loro

luridi scopi. Una delle tante. Niente di più.- - Presto sarò uno di loro e allora, se ne avrai il coraggio,

potrai tornare a batterti con me. Oggi sono qui per un altro motivo.-

- Non sarai mai essere uno di loro.- si intromise Rachael - Sei solo un inutile mortale.-

- Non lo sarò ancora per molto.- Samuel rise - Ti hanno promesso l’immortalità? Sciocco

di un umano!- Dal fondo della galleria giunse un gemito soffocato.

Samuel si scambiò un’occhiata con Rachael, che si fece avanti invitandomi a seguirla lungo il cunicolo, verso la

luce.

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Lei impugnava ancora la pistola e, benché io non fossi

neanche capace di centrare un bersaglio con un colpo sparato a bruciapelo, sfoderai la mia dalla fondina ascellare

e la seguii imitando i suoi movimenti. Quando arrivammo alla fine del tunnel mi accorsi che terminava su un

precipizio di circa dieci metri e sotto di noi si apriva un ampio salone circolare scavato nella pietra, completamente

illuminato da torce appese alla roccia. Una spessa catena di metallo pendeva dal soffitto al

centro della stanza. I polsi di Manuel erano assicurati alla catena mediate stretti bracciali di ferro, mentre il suo corpo,

completamente nudo, era sospeso permettendogli appena di toccare il centro di un cerchio cerimoniale con le dita del

piedi. La sua pelle d’avorio era una macchia di sangue

raggrumato. Il viso tumefatto e stanco. Era cosciente, e dalla sua espressione si capiva che il dolore doveva essere

insopportabile. Un altare sacrificale in pietra si trovava quasi addossato a

un tratto della circonferenza della parete. Era sporco di sangue fresco e presto mi accorsi anche chi ne fosse il

donatore. Una ragazzina giaceva senza vita su una panca di pietra. Dalla posizione che aveva, sembrava che l’avessero

semplicemente buttata via dopo aver terminato il rito col quale avevano tracciato degli strani segni sul pavimento

roccioso. Cinque persone in tunica nera lunga e incappucciate ruotavano intorno a Manuel sorreggendo

spesse candele rosso sangue fra le mani. Solo uno, vestito allo stesso modo degli altri, ma di colore rosso, teneva

sospeso sul palmo delle mani un’ampolla di vetro. Senza accorgermene, Samuel ci aveva raggiunte e fissava

la scena da pochi passi dietro di noi. - Che cosa stanno dicendo?- bisbigliai.

- È una formula per completare il rito.- rispose Rachael.

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- Di che rito si tratta?-

Samuel mi posò una mano sulla spalla - Vogliono imprigionare la sua anima immortale. È l’unico modo che

conoscono per metterci fuori gioco.- - Samuel, dobbiamo fare qualcosa, e in fretta.- lo esortò

Rachael, sempre più in ansia. - Credevo non poteste morire.- dissi.

- Infatti, l’incantesimo non ci uccide,- rispose indignato - ci imprigiona in quella maledetta ampolla di vetro.-

- Ma è terribile! Che cosa aspettate a fare qualcosa? Eliminateli prima che terminino il rito.-

- I proiettili non li uccidono, Iris.- spiegò Samuel - Li rallentano, li feriscono, ma per riavere Manuel dovremmo

comunque scendere a prendercelo e affrontarli.- Osservai il corpo martoriato di Manuel, ma non riuscii a

guardarlo a lungo. Mi sentivo strana, come se una parte della sua sofferenza mi scorresse dentro pur senza provocare

il minimo dolore. Guardarlo mi faceva stare peggio. Rachael si acquattò a terra per sporgersi e osservare

meglio senza essere vista. L’uomo vestito di rosso si fermò all’improvviso

arrestando tutta la fila. Annusò l’aria e si voltò nella nostra direzione.

Samuel si fece avanti senza esitazione, mostrandosi in tutta la sua maestosa fisicità - Che i giochi abbiano inizio.-

mormorò, poi con un saltò si lasciò cadere di sotto atterrando sulle gambe flesse e una mano a terra. La caduta

fu come a rallentatore e quando toccò i piedi sulla roccia del pavimento non produsse il minimo rumore.

Senza neanche avvertirmi, Rachael fece lo stesso, atterrando accanto a lui con armoniosa leggerezza.

Si erano forse dimenticati di me? Non che mi dispiacesse assistere al massacro dall’alto, al sicuro.

L’uomo in rosso si fece avanti con noncuranza, sfilandosi

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il cappuccio dalla testa per mostrare il viso lungo. Non era

bello, ma era uno di quegli uomini sopra i trent’anni che possono ancora permettersi di avere tutte le donne che

vogliono senza il minimo sforzo, e solo perché hanno uno sguardo così intenso da sembrare ipnotico - Ben venuti,

fratelli. Vi stavamo aspettando. Anche se non vedo ancora il nostro caro vecchio Daniel. A cosa dobbiamo l’onore?

Credevo avesse deciso di non lasciare più Cipro dopo il piccolo incidente dell’ultima volta.- alzò lo sguardo verso di

me e mi sorrise invitandomi, con un gesto della mano, a raggiungerli.

Io naturalmente non ci pensai neanche a dargli retta. Però rimasi in piedi, ferma, senza indietreggiare, col viso

seminascosto dal cappuccio del mantello. Finalmente capii perché Samuel aveva insistito tanto ad

avermi lì con loro. Rachael rinfoderò la pistola per sguainare la spada, che

brillò di luce propria. La lama, vista dalla mia postazione, sembrava fatta di fiamme di ghiaccio. Ma si può

cristallizzare il fuoco? Quella mattina sarei stata pronta a giurare di sì.

- Lascialo andare, Demian, e ti do la mia parola che ce ne andremo da qui senza nuocere a nessuno.- intimò

Samuel all’uomo in rosso. Demian scosse la testa lentamente, guardandolo dritto

negli occhi, sfidandolo apertamente. - Non costringermi a farti del male.- ringhiò Samuel.

Con un gesto della mano, uno degli incappucciati, si sfilò il copricapo. Era una donna. I capelli neri, trattenuti solo

dal cappuccio, scivolarono lungo la schiena, fino a raggiungere quasi le natiche. Erano così lucidi da sembrare

petrolio fluido. La donna, senza curarsi di noi, entrò nel cerchio rituale e

si inginocchio ai piedi di Manuel, che si mosse in un

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sussulto quando lei gli sfiorò il polpaccio con un artiglio

dell’indice della mano sinistra. Non lo percepii chiaramente, ma un piccolo fremito scosse anche la mia gamba.

- E questo che significa?- chiese Samuel. - Avete interrotto il nostro rito,- disse Demian con

tranquillità - e a quanto vedo non avete intenzione di lasciarci continuare, quindi, tanto vale divertirci un po’

prima di tornarcene tutti a casa.- - Non credo proprio.- replicò Rachael, che gli premette la

punta della sua spada al petto. Demian rise di gusto, la risata più tetra che avessi mai

udito. Con un semplice passo indietro entrò all’interno del cerchio - Siete proprio dei guastafeste. Se l’avessi saputo

prima non vi avrei invitati.- - Ci saremmo imbucati lo stesso.- disse Samuel.

- Non è cortese da parte vostra negare un piccolo piacere alla nostra Cinthia.-

La donna raccolse l’incoraggiamento e iniziò a risalire la gamba di Manuel con le dita aperte.

Manuel scalciò per togliersela di dosso, ma aveva le caviglie incatenate a due anelli piantati nel pavimento.

Le dita di Cinthia salirono fino alla coscia, sporcandosi di sangue, allora staccò le mani da Manuel e si leccò le dita

insanguinate come se stesse gustando cioccolata liquida. Manuel scalpitò quando la donna riprese a massaggiargli

la coscia, e quando indugiò sull’inguine, solleticando la pelle con gli artigli, riuscii a percepire il suo tocco per intero.

Manuel avvertiva quel contatto come un pericolo e questo proiettava le sue sensazioni sul mio corpo.

Un bruciore improvviso nell’interno coscia mi costrinse ad appoggiarmi alla parete per non perdere l’equilibrio e

cadere di sotto. Cinthia lo aveva graffiato a sangue. Umettandosi le

labbra, la donna si sollevò in ginocchio e premette la bocca

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sulla ferita, pericolosamente vicina alle parti intime di

Manuel, succhiando lentamente. Sentii uno spasmo allo stomaco quando i capelli di lei lo sfiorarono. Percepii lo

sfregamento e perfino lo sforzo sofferto di Manuel per non perdere il controllo.

Quando la lingua di lei guizzò velocemente su di lui, me la sentii tra le gambe, che non mi ressero e caddi in

ginocchio strappandomi un gemito, che riecheggiò nella sala insieme a quello di Manuel.

Demian sollevò lo sguardo a guardarmi di nuovo, poi si portò una mano al mento per accarezzarsi il pizzetto nero,

pensieroso - Davvero interessante.- mormorò. Lo disse a voce troppo bassa perché potessi sentirlo da

lassù, ma lo udii attraverso Manuel. Finalmente Cinthia si scostò quel tanto da riuscire a

guardare Manuel negli occhi. Le mani gli accarezzavano i fianchi e le natiche contratte dallo sforzo.

Aveva perfino il coraggio di sorridere, quella sgualdrina. - Basta.- la voce di Manuel era un sussurro in pena.

Non capivo davvero cosa aspettassero ancora Samuel e

Rachael a mettere fine a quel gioco perverso. - Manuel?- dissi piano.

Lo vidi posare lo sguardo su di me. - Non ce la faccio più!- non mosse le labbra per dirlo, ma la

voce del suo pensiero mi raggiunse chiara come se l’avesse

detto ad alta voce. - Perché Samuel non interviene?- chiesi. - Non può attraversare il cerchio.-

- Non puoi trasformarti?- - No. Il sortilegio legato al cerchio me lo impedisce.-

Mi portai le mani alla testa per la disperazione. - Mi dispiace, Iris.- mormorò, e smisi di sentirlo. Cinthia si

era alzata in piedi e lui si era tranquillizzato abbastanza da

interrompere il contatto con me.

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Con un movimento molto disinvolto, come di chi lo fa di

frequente, Cinthia si slacciò la tunica e lasciò che ricadesse morbida ai suoi piedi. Rimase completamente nuda e il

contrasto della pelle chiara con i capelli neri la faceva sembrare uno spettro.

Manuel chiuse gli occhi e si voltò di lato per non essere costretto a guardare, ma lei iniziò comunque a sfregarsi col

corpo sulla sua pelle. Mi infastidiva sentirmela strusciare addosso. Il seno contro il petto, l’interno coscia stretto a un

fianco, una mano sulla schiena. Sentii il tremore convulso di Manuel, che non riuscì a

trattenere un gemito che risuonò nella sala, facendomi rizzare la peluria sul corpo e inturgidire i capezzoli.

Dai gemiti affannati di Manuel riuscivo a capire che aveva ormai perso ogni controllo sul suo corpo, anche se

non riusciva a lasciarsi andare e interrompere il contatto con me, che a differenza sua ero sul punto di esplodere. Il suo

autocontrollo stava bloccando entrambi in quel particolare momento in cui il confine fra dolore e piacere è così sottile

da finire per fondersi in un’unica, nuova sensazione: l’orgasmo.

Una carezza più vigorosa delle altre, mi fece inarcare la schiena. Mi morsi il labbro inferiore a sangue per reprimere

un urlo. Non avevo la più pallida idea di cosa stesse accadendo di

sotto, avevo la vista offuscata e riuscivo appena a vedere il soffitto di roccia sopra di me. Il bacino si sollevava da solo

ad ogni nuovo spasmo, alla ricerca ossessiva di agevolare quella penetrazione immateriale. Mi aggrappavo alle onde

irregolari della roccia del pavimento quasi potessi affondarvi le dita come fosse burro e ringraziai Dio quando sentii la

resistenza di Manuel cedere e lasciarsi andare. L’orgasmo mi travolse con la stessa violenza di un onda

che sbatte una piccola imbarcazione contro gli scogli,

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fracassandola. Gridai, e non fui la sola.

Insieme all’orgasmo, un incredibile flusso di potere esplose da Manuel scuotendo il sotterraneo come fosse

l’epicentro di un terremoto. Sentii il potere spandersi dal mio corpo e fondersi col suo, che già premeva contro le

pareti rocciose, riducendole a tante piccole crepe. Qualche sottile detrito mi finì addosso, impolverandomi.

Avrei voluto alzarmi, ma non ne avevo la forza. Come se quell’esplosione mi avesse svuotata di ogni energia.

Non sentivo più Manuel. Ne con la mente né con l’udito. Non sentivo niente di niente a dire il vero. Ma pensai che il

boato dell’esplosione fosse stato così forte da avermi resa momentaneamente sorda.

Senza neanche provare a mettermi in piedi, mi trascinai a fatica fino al dirupo. Se non potevo sentire, volevo almeno

vedere. Prima di ogni altro, cercai Manuel. Era sospeso alle

catene, privo di conoscenza. Cinthia era a terra, o almeno quello che restava del suo affascinante corpo carbonizzato.

Demian era fuori dal cerchio, e Samuel gli torceva un braccio dietro la schiena e con la mano libera gli premeva

alla gola la lama della sua spada. Non sentivo quello che gli stava sussurrando all’orecchio,

di sicuro niente di rassicurante, vista l’espressione sul viso di entrambi.

Altri tre corpi giacevano carbonizzati alle spalle di Manuel. Erano nel cerchio. Forse Demian li aveva costretti

ad entrare per tenerlo fermo. Rachael combatteva contro l’unico incappucciato nero

rimasto. L’aveva sbattuta schiena a terra e cercava di azzannarla al collo con zanne più grosse di quelle che avevo

visto a Samuel. La spada era caduta troppo distante perché riuscisse a recuperarla. Lo teneva solo stretto per la gola in

modo da non farselo avvicinare al collo.

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- Samuel, fa qualcosa.- gridai, ma mi uscì poca voce,

comunque fu sufficiente, perché mi guardò. - Ma allora è vero.- esclamò Demian, sorpreso - C’è

davvero un quinto Angelo con voi.- rise - E io che ho punito uno dei miei perché credevo che mi stesse mentendo.-

Samuel lo strinse con più forza. I muscoli delle braccia si gonfiarono tanto che la maglietta sembrava voler scoppiare -

Ordina subito al tuo demone di lasciare Rachael, Demian, o ti taglio la gola.-

- Fallo se ne hai il coraggio.- Samuel gli torse il braccio fin quasi al limite di rottura e

Demian non riuscì a reprimere un lamento. - Ritira subito il tuo demone.- intimò ancora.

- No!- Rachael era ancora bloccata a terra, allo stremo della

forze. Gli artigli del demone piantati nelle spalle per farle mollare la presa sulla gola.

- Samuel, che aspetti?- strillai di nuovo a vuoto. - Scendi a darci una mano, invece di startene lì a

starnazzare come una gallina senza voce.- mi rimproverò. Scendere? Lo disse come se avessi dovuto fare un saltello

di pochi centimetri - Sei impazzito se pensi che mi butti di sotto.-

- Allora spara a quel figlio di puttana.- gridò. Ok! Qualche volta gli Angeli dicono anche le parolacce.

Demian si dimenò un po’ per far allentare la presa sul braccio - Aspetta un momento.- disse con un ghigno

alquanto sinistro - Non è un Angelo. È una mortale, vero?- rise sguaiatamente - Ma certo. È tutto chiaro adesso. Come

ho fatto a non pensarci subito?.- con uno strattone improvviso, che colse Samuel di sorpresa, riuscì a liberarsi

un braccio e con un gesto a mezz’aria rivolse il suo potere verso di me e mi spintonò oltre l’orlo del dirupo.

Gridai, ma invano, perché mi sentii come scaraventare

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nel vuoto da una gigantesca mano invisibile.

- Samuel.- urlò Rachael. Io riuscivo solo a vedere il pavimento di roccia che si

avvicinava sotto di me. Anche se sembrò di più, la caduta durò appena alcuni secondi di secondi. Samuel mi afferrò al

volo un attimo prima che toccassi terra. Subito dopo sentimmo Rachael gridare e ci voltammo nella sua

direzione. Il demone le stava squarciando al gola a morsi. Samuel estrasse la pistola così velocemente che non glielo

vidi fare. Sembrò semplicemente comparire nella sua mano dal nulla. Fece fuoco ripetutamente, quattro volte,

centrando una spalla, e tre volte la testa. Allora il demone mollò la presa e si voltò verso di noi ringhiandoci contro.

- Sta lontano da lei!- ordinò Samuel alzandosi in piedi. Il demone si alzò con fare minaccioso, ma invece di

avanzare fece un passo indietro. Mi guardai intorno a cercare Demian, ma nonostante

non ci fossero porte o vie di fuga in quella gola infernale, Demian non si vedeva da nessuna parte.

- Demian è fuggito!- dissi preoccupata. - Non importa.- rispose Samuel - Lo prenderemo la

prossima volta.- Il demone continuava a ringhiare contro la pistola del

suo avversario. - Vattene.- gli disse Samuel - Via! Prima che cambi idea.-

Non capivo il suo comportamento - Perché li lasci andare così?- chiesi, osservando il demone svanire nel nulla - Con

quale coraggio…- - Sta zitta!- ringhiò.

Indietreggiai spaventata. Senza preoccuparsi più di darmi retta, Samuel corse da

Manuel e con la sola forza delle mani spezzo le spesse catene d’acciaio. Lo adagiò dolcemente a terra e dopo si

sciolse il mantello per coprirlo.

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Rachael era seduta a terra con le mani alla gola. Il sangue

sgorgava copioso attraverso le sue dita. Avrei voluto andare ad aiutarla, ma non riuscivo a

togliere gli occhi da Manuel. - Stai bene, Rachael?- chiese Samuel, senza guardarla.

- Sì, tutto bene, è solo un graffio.- Solo un graffio? Molto probabilmente le aveva fatto a

pezzi la giugulare e per lei era solo un graffio? - Come sta, Sam?- chiese lei. Ormai nessuno dei due

faceva più caso a me. - È svenuto.-

- Perché non l’avete fermata prima che gli facesse questo?- chiesi con la collera che spingeva per emergere.

- Non è affar tuo, Iris.- inveì Samuel. Gli scostò un ricciolo castano dal viso e se lo strinse al petto baciandogli

la fronte sudata e imbrattata di sangue. Lo cullò per un paio di minuti, sussurrandogli all’orecchio qualcosa che non

riuscii a sentire. Quella mattina mi sarei aspettata di tutto da Samuel,

tranne che di vederlo piangere. Soffriva sinceramente per Manuel, molto più di quanto avrei potuto soffrire io, che

avevo fisicamente condiviso il dolore con lui. Rachael, ancora sporca di sangue, ma con la gola

perfettamente risanata, senza lasciare la minima traccia del morso letale che le era stato dato, si avvicinò, racchiudendo

entrambi in un tenero abbraccio - Riportiamolo a casa.- sussurrò e Samuel annuì sollevando lo sguardo su di lei, che

le asciugò le lacrime dal viso, macchiandoglielo di sangue. Quando furono pronti, Samuel prese in braccio Manuel e

con un semplice salto si librò in aria fino a raggiungere il terrazzamento della galleria da cui eravamo arrivati.

Ero rimasta imbambolata a guardarlo, quando mi sentii afferrare da dietro. Rachael mi sollevò da terra e balzò sul

terrazzamento con me che mi agitavo terrorizzata. Le diedi

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una gomitata allo stomaco e lei mi mise a terra - La

prossima volta ti lascio cadere di sotto.- disse seria. - Vaffanculo.- gridai - Non farlo mai più.-

- Basta! - ci sgridò Samuel. L’atmosfera era così tesa che ci si poteva camminare sopra. - Usciamo da qui.-

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16

Il ritorno da Roma fu decisamente meno nauseante

dell’andata. Impiegammo più di un ora e mezza, però almeno potei evitare di stare aggrappata alla maniglia tutto

il tempo e tenere gli occhi aperti per non assistere all’auto che usciva fuori strada uccidendoci tutti.

Chissà se schiantarsi a più di duecento chilometri orari contro qualcosa ti da il tempo di soffrire. Probabilmente no,

ma spero di non dover mai mettere alla prova la mia teoria. Samuel teneva gli occhi fissi sulla strada molto più di

quanto non avesse fatto quando spingeva la vettura al limite della resistenza.

Ero tornata ad occupare il sedile anteriore perché Rachael era occupata sul retro con Manuel. Se lo teneva

seduto sulle ginocchia per tenerlo stretto fra le braccia. In quel momento era Manuel la sua priorità. Gli aveva ripulito

il viso con delle salviettine umidificate che Samuel teneva nel cruscotto, però il sangue che lo imbrattava da capo a

piedi era talmente tanto che sarebbe andato via definitivamente solo con un bel bagno. Manuel non aveva

ancora ripreso conoscenza, anche se a tratti sussultava come scosso da qualche brutto sogno.

Gli Angeli sognano? Sì, se hanno accettato di assorbire materia mortale per mescolarsi agli umani come avevano

fatto loro. A quanto mi aveva spiegato Samuel, visto che la materia cerebrale era la stessa degli uomini, il loro cervello

agiva allo stesso modo. Rachael accarezzava il viso di Manuel, posandoci le

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labbra delicatamente di tanto in tanto, come a voler

controllare la temperatura. Per comodità lo aveva coperto con il mantello di Samuel solo dalla vita in giù. La schiena

era segnata a sangue da solchi sottili e lunghi. Le frustate che a me avevano tolto solo per qualche minuto il respiro

per il dolore, continuavano a bruciare sulla sua pelle liscia. Rachael stava attenta a non posare le braccia sulle ferite, ma

il corpo di Manuel sembrava fatto a brandelli, dagli artigli di un enorme felino ed era davvero difficile trovare un posto

dove toccarlo senza fargli male. Vedere Manuel accucciato a Rachael con la guancia sulla

sua spalla e le braccia rannicchiate contro il proprio petto, mi sconvolse fin quasi alle lacrime. Vederlo lì, così indifeso,

assolutamente vulnerabile, mi risvegliò l’istinto materno che avevo soppresso con la forza per non pensare più al mio

bambino. Sapeva essere un vero rompiscatole quando voleva,

questo sì. Solo poche ore prima, per dispetto, ero stata perfino tentata di sparargli io personalmente, ma vederlo in

quello stato mi si stringeva il cuore dalla pena. Fu in quel momento che mi accorsi quanto fosse radicato l’affetto che

provavo per quel viziato presuntuoso, e lo conoscevo solo da pochi giorni. Allora capii quanto doveva essere stato

straziante per Samuel e Rachael dover assistere alla sua sofferenza senza poter fare niente per aiutarlo. Si

conoscevano da più giorni di quanti io riuscirei a contarne in due vite e io avevo avuto il coraggio di accusarli di non

aver fatto abbastanza per lui. Rachael faceva bene ad avercela con me e il meglio che

potessi fare per scusarmi era starmene zitta senza rompere le scatole con le mie stupide domande. Per quante potessi

farne, non avrei mai potuto imparare davvero a conoscerli, non avrei avuto il tempo materiale per farmi raccontare più

di cinquemila anni di vita. Semplicemente, la mia mortalità

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non me ne concedeva il tempo.

Se non conosci qualcuno non puoi neanche sentirti in diritto di accusarlo di alcun che, perché non conoscerai mai

a fondo le reali motivazioni che lo hanno spinto a comportarsi in un preciso modo piuttosto che in un altro.

Ero stanca morta e mancava ancora un’ora buona prima di arrivare, quindi reclinai leggermente lo schienale del

sedile e provai a prendere sonno. Non parlava nessuno, c’era solo un cd degli U2 in sottofondo e qualche lamento

soffocato di Manuel. - Tutto bene lì dietro?- chiese Samuel scorgendo

movimenti dallo specchietto. - Sì, è solo un brutto sogno che preferirei non essere

costretta a vedere.- rispose Rachael. - Che cosa sta sognando?- chiesi sbadigliando. Ormai

avevo le lacrime agli occhi per la stanchezza. - Te!- rispose secca.

- Ah!- Samuel rise sbirciando dalla mia parte con la cosa

dell’occhio. Stava ridendo di me. Risollevai lo schienale del sedile e slacciai la cintura di

sicurezza per mettermi in ginocchio e guardarla - E cosa c’è di tanto orrendo nel sognare me?-

- Lascia stare, non capiresti.- - Almeno provaci.-

Accarezzava ancora il viso di Manuel, indugiando spesso con le dita fra i riccioli castani. - No!-

Samuel sospirò. Lo guardai. Sembrava alquanto divertito, però provò comunque a venirmi incontro per

togliermi da quella situazione - Prova a svegliarlo, Rachael.- - Credi che non ci stia provando? Non è un bello

spettacolo, credimi.- sembrava esasperata. Mi schiarii la voce - Perché riesci a vedere anche i loro

sogni?-

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- Io vedo tutto ciò che li spaventa.-

- Vuoi dire che Manuel è spaventato da me?- - No! Manuel è spaventato da quello che potrebbe fare

con te.-

Che Manuel fuggisse il sesso mi era fin troppo chiaro, ma sapere che addirittura lo spaventasse mi lasciava perplessa.

- Cosa ci può essere di tanto spaventoso nel rapporto fra uomo e donna.-

- Niente, se il rapporto si limita a uomo e donna. Noi non siamo umani, Iris. Non possiamo unirci ai mortali.-

- Lo so, Manuel mi ha spiegato qualcosa in proposito,

ma non necessariamente dovrebbe fare sesso con una donna

mortale, potrebbe farlo con una della sua specie.- - No!-

- Perché, no.- insistei. - Semplicemente perché gli Angeli non fanno sesso.-

- Ma potrebbero. E non dire di no, perché il tuo amichetto lì, se l’è goduto eccome il servizietto di quella tipa

poco fa. Beh, forse godere è la parola sbagliata, però il suo corpo ha reagito esattamente come un corpo mortale,

quindi se non lo fate è per un vostro rigore morale, ma di certo non per impossibilità fisica.-

- Non ho mai detto il contrario. Ho solo detto che noi Angeli non lo facciamo. Punto. Le nostre ragioni non ti

devono interessare.- - Io dico solo che…-

- Basta, Iris.- si alterò - Cambia discorso o rimettiti a dormire. È già frustrante dover assistere alle sue fantasie,

non ti ci mettere anche tu.- Non le risposi, ma seguii il suggerimento. Samuel alzò

un po’ il volume dell’autoradio e questo mi aiutò a prendere sonno. Mi risvegliai solo quando parcheggiammo sotto casa

mia. Alle otto e mezzo del mattino la città è in piena attività.

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D’inverno, con le scuole aperte è anche peggio, ma d’estate

è un via vai di spiaggianti occasionali. Zaino in spalla, partono al mattino per raggiungere la zona di mare più

vicina e fare rientro a casa nel pomeriggio, distrutti dal caldo, più che dal breve viaggio in macchina.

I miei vicini di appartamento, un gruppo di quattro studenti fuori sede, ogni anno, appena arrivava l’estate, non

perdevano mai l’occasione per sgattaiolare al mare quando non ci sono esami di recupero in vista.

Anche quella mattina si apprestavano a caricare la macchina con stuoie arrotolate, zaini, ombrellone e

l’immancabile pallone per una partitina in spiaggia o in acqua. Loro sì che sapevano prendere il sole, non le ragazze

che si trascinavano dietro. Ero stata in spiaggia con loro due estati prima. Michele si era divertito con loro, io ero rimasta

la maggior parte del tempo con quelle lucertole a maledire il momento in cui mi ero lasciata convincere a partecipare alla

combriccola. Ero contenta che Michele si divertisse, di solito era sempre così serioso che vederlo giocare come un

ragazzino tutto il giorno, mi riscaldava il cuore. Ho odiato quella giornata, ma l’avrei replicata altre mille volte solo per

vederlo ridere e scherzare come allora. Da quando suo padre è morto, quattro anni fa, Michele è cambiato molto.

Si è spezzato qualcosa in lui ed è come se non riuscisse a riemergere da tutto il dolore che lo ha travolto. Adorava suo

padre. Appena i ragazzi mi videro in macchina con Samuel, mi

salutarono con grandi sorrisi. Bruno si avvicinò al finestrino e Samuel abbassò il vetro solo per metà. Non voleva che

sbirciasse troppo, anche se non c’era pericolo, perché Manuel si era ripreso un pochino e per stare più comodo

aveva ripreso sembianze feline, di gatto, naturalmente. Rachael lo teneva in braccio, accarezzandogli la pelliccia

morbida sulla gola e lui fra un mugolio di dolore e l’altro, si

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faceva scappare qualche fusa affettuosa.

- Bella giornata, eh?- disse Bruno affacciandosi all’interno dell’auto, nonostante il finestrino glielo permettesse appena.

Allungò un braccio all’interno per porgere la mano a Samuel e presentarsi. Samuel ricambiò il saluto e si mostrò

perfino gentile, abbassando il finestrino completamente. - Già di partenza?- chiesi.

Sorrise - Non mi piace guidare quando fa troppo caldo.- - Ma non avevate un esame dopodomani?-

Si grattò la testa un po’ imbarazzato - Ma hai visto che giornata? Come si fa a stare chiusi in casa sui libri con

questo sole?- - È la terza volta che salti diritto privato quest’anno.-

- Lo sai che non è la materia a frenarmi.- Sì, lo sapevo. Era letteralmente terrorizzato dalla sua

docente e tutte le volte che arrivava il giorno dell’esame, attendeva il suo turno fino all’ultimo minuto e poi

sgattaiolava via di nascosto, pur di non affrontarla. - Non puoi rimandare l’esame per sempre, lo sai vero?

Presto o tardi dovrai trovare il coraggio di trovarti faccia a faccia con lei.-

- Meglio tardi allora.- - No, affatto.-

Sbuffò un po’ fissando Samuel, che lo scrutava con attenzione - Lo faccio a novembre. Promesso.- e si segnò

una croce sul cuore con il pollice. Scossi la testa, rassegnata - Non vorrei essere nei tuoi

panni quando tuo padre verrà a sapere che l’hai saltato anche stavolta.-

Sorrise facendomi l’occhiolino - E chi ti dice che verrà a saperlo?- si scansò dallo sportello per permettermi di aprirlo.

Alberto lo chiamò dalla macchina. - Dobbiamo andare!- disse Bruno - Non te lo chiedo

neanche se vuoi venire, tanto già conosco la risposta.-

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- Ci vediamo stasera.- risposi - Dobbiamo fare due

chiacchiere io e te.- Rise, infilando le mani nelle tasche del costume - Fiato

sprecato, Iris. Ho già deciso.- Sorrisi - Staremo a vedere.-

- Sì! Come no.- Si chinò a salutare Samuel e scappò alla macchina prima

che potessi minacciarlo di dire tutto a suo padre se non si fosse presentato all’esame. Finiva sempre così, quindi aveva

imparato a dileguarsi al momento giusto. Prima di salire in macchina si voltò di nuovo verso di

me, che ero in piedi sul marciapiede, appoggiata allo sportello aperto - Quasi dimenticavo…È passato Michele

stamattina presto.- Mi sentii avvampare.

- Ti stava cercando, gli ho detto che eri a lavoro e mi ha chiesto di dirti che sarebbe ripassato in serata.-

Annuii - Ti ha detto altro?- - “Digli di farsi trovare” ha detto.-

Brutto segno! - D’accordo. Grazie.- Mi salutò ancora con un cenno del capo e si infilò in

macchina. Io mi abbassai per salutare a mia volta Samuel e Rachael,

prima di chiudere lo sportello - Sicuri di non voler salire? Non c’è molto in frigo, ma qualcosa per colazione riesco a

rimediarla.- - Io devo correre a lezione.- rispose Rachael. Insegnava

inglese alla scuola elementare privata della città. - Anche tu vai a lavoro?- chiesi a Samuel, che intanto

metteva in moto. - Sì, ho due computer da consegnare per oggi pomeriggio

e non ci ho ancora messo le mani.- - E Manuel?- chiesi allarmata - Lo lasciate a casa da solo

in queste condizioni?-

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Per un momento si guardarono entrambi, fu Rachael la

prima a scuotere la testa - Io non posso di certo portarlo a scuola con me. ma tu…-

- …non ci pensare neanche. È giorno di consegne oggi.- replicò Samuel - Chiedi un girono di permesso.-

- Un altro?- - D’accordo, come non detto. Ci penso io.- sbuffò.

- No, lascia stare. Fammi solo avvertire la scuola.- - Ho detto che ci penso io.-

Stanca di starli a sentire, sbattei lo sportello sperando che la smettessero di discutere. Non lo fecero, ma…che

litigassero pure, non mi importava. Girai intorno alla macchina e aprii lo sportello posteriore, sul lato occupato da

Rachel. Mi sporsi all’interno e gli tolsi Manuel dalle braccia, stringendomelo al petto con delicatezza.

Non dissi niente e loro non si degnarono neanche di smettere di litigare su chi avesse o meno il compito di

prendersi cura di lui. Sbattei anche l’altro sportello e me ne andai senza

preoccuparmi più di loro. Manuel mi guardava con i suoi occhietti tondi e gialli. Non so se si rendesse conto di quello

che stava succedendo, ma di sicuro stava soffrendo e dovevo sbrigarmi a portarlo su per permettergli di mettersi a

letto.

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17

Dire che ero esausta è un pessimo eufemismo. Forse

renderei meglio l’idea dicendo che il mio corpo reclamava riposo assoluto per almeno un paio d’ore.

Manuel giaceva, più svenuto che addormentato, nel mio letto. Aveva ripreso la forma umana qualche minuto dopo

averlo adagiato sul materasso e coperto con il lenzuolo di cotone verde.

Inutile cercare di negarlo, quel ragazzetto viziato era uno degli esseri più perfetti che avessi mai visto, il suo corpo

trasudava attrazione da ogni poro di quella splendida pelle d’avorio. Se solo non avesse avuto quel caratteraccio…

Uscii dal bagno avvolta in una asciugamano troppo grande. Abituata a vivere da sola, avevo ancora l’abitudine

di lasciare tutto in camera da letto per vestirmi comodamente lì.

Avevo lasciato la porta della camera aperta per non disturbare Manuel col mio continuo via vai, e infatti quando

entrai non si mosse di un millimetro. Probabilmente era solo troppo stanco e dolorante per avere la forza di

muoversi. Avvicinandomi al letto notai che le cicatrici sulla schiena si stavano rimarginando con una velocità

impressionante. Non avrebbero lasciato alcun segno sulla sua pelle, solo sulle mie lenzuola pulite, ma mi chiesi

quanto danno avesse arrecato alla sua mente quell’aggressione così intima.

Il ricordo di ciò che aveva provato quella mattina era ancora abbarbicato alle mie terminazioni nervose,

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irrigidendomi le membra. Era una sensazione strana, non

l’avevo mai provata prima, o almeno non così intensamente e tutta in una volta. Quando pensavo a quello che era

successo mi sentivo letteralmente il cuore stretto in una morsa e un brivido caldo risalire lungo gli arti fino a

concentrarsi in uno spasmo incontrollato che mi contraeva lo stomaco facendomi piegare in avanti. Una sensazione

orrenda, che mi assale tutt’ora quando vivo emozioni forti, solo che oggi ho imparato a controllarle e a prevederne

l’arrivo in modo da non essere più colta di sorpresa. Mi vestii in bagno dopo aver recuperato un pantalone

nero sportivo e una maglietta aderente grigia dall’armadio. Non avevo lavato i capelli per non dover fare rumore con

il Phon, ma li avevo lavati la sera prima di andare a lavoro, quindi avrebbero potuto resistere per qualche altra ora.

Dovevo dormire a tutti i costi, anche se sapevo che sarebbe stato difficile rilassarmi tanto, ma mi sarei

accontentata anche se fossi riuscita solo a sdraiarmi e chiudere gli occhi qualche minuto. Non sono molto esigente

riguardo al sonno, me ne basta poco per sentirmi di nuovo sveglia e pronta ad affrontare un’altra giornata, fiacca o

intensa che sia. Senza scuotere troppo il materasso mi accoccolai accanto

a Manuel, disteso a pancia in giù abbracciato al cuscino e con una gamba flessa sull’altra distesa.

I capelli umidi di sudore si erano arricciati ancora più del solito, incorniciandogli il viso pallido. Stranamente,

sembrava ancora più mascolino di quando se li acconciava in modo da nascondere i boccoli.

Sembravano così morbidi da farmi desiderare di toccarli per accertarmene. Quando me ne accorsi avevo già una

mano sospesa sul suo volto, ma non lo toccai, non volevo svegliarlo.

Si svegliò che erano quasi le due del pomeriggio. Io ero

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in cucina ad armeggiare con pentole e fornelli. Non mi ero

alzata dal letto molto prima di lui. Sentii che si era svegliato perché quando mi cascò una padella sul pavimento, si

spaventò e percepii la sua accelerazione cardiaca. Andai da lui. Le ferite erano svanite quasi del tutto, e lui

riusciva a stare sdraiato sulla schiena senza difficoltà. Guardava il soffitto come se ci vedesse qualcosa di molto

interessante, tanto che mi spinse a guardarlo come lui. Non c’era niente di niente, solo stelline di luce riflettente.

- Non le avevi ancora notate?- chiesi gentilmente, avvicinandomi al letto. Mi misi a sedere sul bordo accanto a

lui e gli asciugai la fronte sudata col panno asciutto che avevo preso per asciugare le stoviglie che avevo appena

lavato. Mi guardò. In silenzio.

- Mi sembra che stai meglio.- aggiunsi - Sto preparando da mangiare, se vuoi farti una doccia prima, sarà pronto fra

una decina di minuti.- Manuel non lo si può proprio definire un ragazzo

loquace, parla solo quando non può proprio farne a meno, e anche in quel momento si limitò ad annuire senza

aggiungere altro. Non volevo parlare di quello che era successo quella

mattina, ma un punto dovevamo assolutamente metterlo in chiaro, o, conoscendoci, non saremmo più riusciti a

guardarci in faccia - Senti,- mormorai abbassando lo sguardo - Volevo solo dirti che…- era più difficile di quanto

credessi - Ecco…io…volevo dirti che per me…- forse avrei fatto meglio a prepararmi un discorso prima di affrontare

l’argomento - Insomma…per me non è successo niente!- sbottai alla fine - O meglio… preferirei, se sei d’accordo, che

facessimo finta che non sia successo niente.- - Mi sembra una buona idea.- rispose imbarazzato.

- Non ne parliamo più, quindi.-

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- Parlare di cosa?-

Esattamente! Mi rimisi in piedi per tornare in cucina e lasciarlo libero

di alzarsi e andare in bagno. È vero che avevo già visto più di quello che avrei voluto vedere e sentire di lui, ma se

dovevamo fingere, meglio farlo fino in fondo e ricominciare da dove ci eravamo lasciati l’ultima volta che eravamo stati

insieme. Uscii dalla camera da letto e in corridoio sentii un tonfo,

quando tornai in dietro lo trovai semidisteso sul pavimento, il respiro affannato e il corpo scosso da un tremore quasi

convulsivo. Mi inginocchiai accanto a lui, sfilando il lenzuolo dal

letto per coprirlo. Non sollevò lo sguardo su di me, ma lo tenne fisso sul pavimento.

- Va tutto bene?- Scosse la testa.

Quel mutismo mi faceva impazzire - Almeno, di’ qualcosa!-

- Non ne ho la forza.- D’accordo, forse la pazienza non è proprio il mio forte,

altrimenti mi sarei dovuta accorgere da subito che era sfiancato e privo di forze.

- Posso fare qualcosa per aiutarti?- Scosse la testa.

- Lascia almeno che ti aiuti a rimetterti a letto.- - Ce la faccio da solo.-

- Non è vero.- Mi guardò con una rabbia che non mi sarei mai aspettata

da parte sua in quel momento. Un ringhio minaccioso gli uscì dalla gola.

Stronzo!

- Arrangiati allora!- dissi stizzita, e me ne tornai in

cucina, lasciandolo lì.

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Mi raggiunse circa venti minuti dopo. Stavo

apparecchiando in tavola perché dopo la pessima esibizione di arroganza da parte sua non mi sognavo neanche di

portargli il pranzo a letto. Che venisse a prenderselo se aveva fame, io non sono la schiava di nessuno.

Era riuscito a indossare il pantalone grigio fumo del pigiama che gli avevo lasciato sul letto.

Si sorreggeva allo stipite della porta della cucina, tanto stupidamente orgoglioso da continuare a non chiedere

aiuto. Era evidente perfino a me che si reggeva in piedi a stento, eppure preferiva fare il duro, come se poche ore

prima non fossi stata presente e cosciente alla tortura che aveva subito.

Lo fissai, ancora un po’ accigliata, ma non dissi niente, mi limitai a guardare lo sforzo crescere nei suoi occhi

stanchi. Mi accorsi solo osservandolo che teneva un piede

sollevato da terra. Sì, è vero, mi sono sentita stupida e in colpa. Avrei

dovuto accorgermene prima, ma lui avrebbe potuto dirmelo che era rimasto ferito a una gamba.

Gli indicai la gamba flessa con un cenno del capo. - Il ginocchio.- spiegò.

- Perché non me l’hai detto? Ti avrei aiutato.- Non rispose.

- Niente risposte, niente domande.- dissi, voltandogli le spalle per continuare ad apparecchiare. Non avevo

intenzione di ricominciare a parlare da sola. Se non voleva partecipare alla conversazione allora non ci sarebbe stata

nessuna conversazione. Portai in tavola la padella con la pasta asciutta. Mi

dispiaceva vederlo lì in piedi, immobile, ma se avesse voluto il mio aiuto avrebbe dovuto chiedermelo, io non avevo

intenzione di farmi aggredire di nuovo senza motivo.

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Un po’ stronza? Io? Decisamente sì.

Seduta al mio posto, iniziai a riempire il piatto di Manuel, guardandolo di tanto in tanto, poi misi un po’ di

pasta anche nel mio e cominciai a mangiare.

Saltellò fino alla sedia di fronte a me appoggiandosi alla parete. Io mangiavo in silenzio, ma non sono mai stata

brava a tenere la bocca chiusa quando sono in compagnia di chicchessia.

Non avevo molta fame, infatti avevo finito prima ancora che Manuel infilzasse con la forchetta i primi fusilli.

Ne osservai un momento le smorfie di dolore ogni

qualvolta portava la forchetta alla bocca, poi dissi - Lo so

che sono stata io a proporti di non parlare di quello che è successo, ma…-

Mi fissò senza sollevare la testa, continuando a soffiare sul boccone di fusilli fumanti - Ma?-

- Non capisco quello che sta succedendo. Riesco a stento ad accettare quello che sei.-

- Hai paura?- - Sì! Chi non ne avrebbe?- Mi alzai per iniziare a

sparecchiare, ma per arrivare al lavandino fui costretta a passargli accanto, allora mi fermò, trattenendomi per un

braccio. - Non avresti mai dovuto venire a conoscenza di certe

realtà. Era mio compito impedirlo. Non ci sono riuscito e per questo ti chiedo scusa, ma non posso riportare indietro il

tempo, Iris.- - Vorrei solo smettere di avere paura di voi.- confessai.

Mi lasciò il braccio e riprese a mangiare. - È successo tutto così in fretta che non ho avuto neanche

il tempo di rendermi conto di cosa stava accadendo davvero. I miei incubi peggiori stanno prendendo forma

davanti ai miei occhi e non posso mandarli via, non posso svegliarmi. L’unico modo che ho per non mettermi a

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gridare è fingere che tutto questo non sia mai successo, che

non stia accadendo a me. Poi però…ti guardo e…- - …e l’incubo torna.- concluse.

Annuii, liberandomi il braccio per raggiungere il piano cottura della cucina, dove posai il mio piatto ancora quasi

pieno. Gli davo le spalle perché in quel momento sarebbe stato

troppo difficile per me affrontare il suo sguardo. Gli avevo appena confessato di avere paura di lui, dei suoi amici, dei

suoi nemici e di tutto ciò che rappresentava. Sentii la sua sedia scivolare sul pavimento, ma non lo

sentii alzarsi. Si era solo messo più comodo. - Samuel ti ha detto perché mi sono riunito a loro?-

chiese. Mi voltai - So solo che sei stato lontano per molto

tempo.- Teneva le braccia incrociate sul petto nudo. Le spalle

sfioravano la parete, ma solo quel tanto da permettergli di non toccarla con le ferite - Hai saputo cos’è successo a

Castel Sant’Angelo qualche anno fa?- - A Roma? Parli dell’esplosione che ha distrutto le statue

e fatto quasi crollare il ponte?- Annuì.

- Ne hanno parlato tutti i telegiornali per mesi. È stato un attentato terroristico.-

- Ti sbagli.- disse serio - I terroristi non c’entrano niente con quella storia.-

Per un momento ripercorsi con la mente quei mesi di terrore. Fin dal principio si era parlato di terrorismo. La

città era stata messa in stato d’allerta per quasi un anno. Il turismo era stato ridotto all’osso, il Vaticano era aperto al

pubblico solo per le festività religiose più importanti. I politici viaggiavano scortati da mattina a sera. L’esercito era

stato mobilitato in tutte le sue forze, rendendo la vivibilità

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cittadina impossibile. Mi era capitato di andare a Roma per

lavoro in quel periodo e in una sola giornata ero stata fermata sei volte dalle autorità locali. Fu un anno davvero

difficile per tutti. La nazione viveva in uno stato di panico costante e anche l’economia ne aveva risentito molto. Da

allora il tasso di criminalità, solo nella capitale, era triplicato. Anche il resto della penisola non se la passava

meglio, ma per un motivo sconosciuto, Roma sembrava il cuore pulsante di quel virus di morte che aveva investito

l’Italia negli ultimi due anni e mezzo. - Vuoi forse dire che è opera vostra?- chiesi cercando di

nascondere l’orrore. - C’è una battaglia in corso.- dichiarò - E negli ultimi

mesi alcuni dei nostri si stanno alleando con le forze del male per eliminare una banda di fanatici sanguinari.-

- Alleati? In che senso?- - Nel senso che il Bene e il Male si sono uniti per

combattere insieme lo stesso nemico.- Mi accorsi che stavo scuotendo la testa inconsciamente.

Il cellulare sul tavolo squillò facendomi trasalire. Lo lasciai squillare.

- Lo so che è un concetto difficile da comprendere, Iris. Non ho votato a favore per questa soluzione così estrema,

ma l’alternativa sarebbe stata lasciare agli umani la facoltà di prevalere sul divino, e questo è inaccettabile.-

- Il Bene e il… Male… insieme.- balbettai - Contro chi?- Non rispose, si limitò a guardarmi dritto negli occhi.

- No!- protestai appena capii che il nemico eravamo Noi. - È necessario!- disse con una calma raccapricciate.

- Ma perché?- - Non potresti capire.-

- Dimmi perché!- strillai. - Perché si è oltrepassato il limite. Quegli umani stavano

sconvolgendo gli equilibri cosmici. Hanno innescato un

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meccanismo distruttivo che se non fossimo intervenuti in

tempo avrebbe portato l’uomo stesso all’estinzione.- - State punendo i colpevoli con la morte?-

- La morte è il male minore.- - State uccidendo quegli uomini?-

- Per salvaguardare un bene più prezioso.- - Cosa c’è di più prezioso della vita?-

- La vita di molti.- Lo disse con una intensità che mi fece accapponare la

pelle - La morte di pochi in cambio della vita di molti?- - Esattamente!-

- Sei tornato per questo? Vuoi dare il tuo contributo a questa guerra?-

Scosse la testa - Sono tornato perché la situazione ci è scappata di mano.- rispose tetro.

Rabbrividii. - Abbiamo appoggiato la scelta degli Ancharos perché ci

sembrava la più giusta, ma non avevamo previsto che l’alleanza avrebbe traghettato tanti di quei demoni sulla

terra da non riuscire più a gestirli. Ne abbiamo perso il controllo. Sono in troppi per noi quattro soltanto. Hanno

iniziato a ribellarsi alle nostre leggi. Gli umani sono creature dotate di una straordinaria fonte di energia per gli

immortali. I demoni si nutrono di questa energia, si fortificano. Per questo motivo sono sempre più restii a

tornare indietro. Ci aggrediscono perché sanno che vogliamo rigettarli nell’inferno dal quale sono venuti.-

- Credevo foste immortali.- - Lo siamo.-

- Ma…- - Anche se non posso morire non significa che non possa

essere messo fuori gioco. Possono impedirmi di agire e ogni giorno che mi tengono fuori combattimento è un giorno in

più che utilizzano per immagazzinare energia e fuorviare

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l’uomo e, voi umani, non avete di certo bisogno di loro per

appoggiare il Male, siete già creature tendenzialmente malvagie.-

- Grazie per il complimento.- - Non voleva esserlo.-

- Lo so!- Ci fissammo a lungo. Fui io la prima a distogliere lo

sguardo dai suoi occhi. - Sei tornato per aiutare Samuel e Rachael, quindi. Volete

liberare la terra dai demoni che si sono ribellati al vostro comando, e Demian è uno di questi.-

Annuì. - Allora, perché mai Samuel ha lasciato che fuggisse?-

- Anche i Demoni sono Angeli, Iris.- - E questo che significa?-

- Demian era uno di noi. In un tempo molto lontano, quando l’uomo ancora non era ciò che è, anche Demian era

un figlio di Dio. Abbiamo condiviso la gioia della luce dell’Altissimo per molto tempo. Gli Angeli sono stati creati

da sfere di energie divine. Demian è stato generato dalla stessa sfera di energia che ha creato Samuel, Daniel,

Rachael, Uriel e me. Siamo legati dalla stessa aura. Anche se qualcuno di noi si è concesso al nemico, il nostro legame

è indissolubile, va al di là del bene e del male. Non saprei come spiegartelo meglio.-

- Siete come fratelli.- - Se ti è più semplice comprendere in questi termini,

allora sì, siamo fratelli.- Aveva perfettamente ragione, facevo fatica a capire. Se

non avessi assistito personalmente a certe scene probabilmente sentendolo parlare di Angeli e Demoni in

combutta contro gli esseri umani lo avrei giudicato un pazzo visionario. Tendo a negare le realtà negative finché

mi è possibile, l’ho fatto anche quando ho perso il bambino,

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per un lungo periodo ho rifiutato la realtà, facendomi

ancora più male. Gli eventi negativi della vita però, ti cambiano, e non è sempre un miglioramento. Nel mio caso

lo è stato. Oggi so che il Male esiste e che non lo si può eliminare semplicemente negandolo.

Quel pomeriggio, in cucina, con le mani tremanti sul bordo del lavandino, abbandonai la realtà menzognera in

cui avevo vissuto per quasi trent’anni e abbracciai l’incubo. Perfino oggi mi sento come la protagonista di un film gotico

in cui il copione si scrive da solo, ora per ora, come per magia.

Se non suonasse così melodrammatico, affermerei senza esitazione che quel pomeriggio la mia ingenua natura

mortale morì, lasciando il mio corpo alla mercé di uno spirito estraneo e consapevole.

A cosa serve fingere che i mostri non esistono se poi rischi di trovarteli davanti pronti a farti del male?

La consapevolezza mantiene in vita anche l’uomo più sprovveduto.

Ci hanno creato un mondo sorretto da pilastri di menzogne. La natura è uno schermo protettivo che

impedisce all’uomo di vedere il divino e finché gli scienziati sono occupati ad esplorare l’universo, gli immortali non

corrono il rischio di essere scoperti e ostacolati. Ci si può opporre a Dio? Si può vincere il divino? Si può!

Qualcuno ci ha provato, ma non è sopravvissuto abbastanza per raccontarlo. Perfino la lotta eterna fra Bene e Male è

un’umana fantasia. Quando comprendi questo, diventa tutto più chiaro, si spacca la cupola di cristallo che ci separa

dal divino e diventa tutto visibile. Spaventosamente visibile. Si può tornare indietro e tornare a non vedere, a non

credere, a non sapere? No! Assolutamente no! Si può solo imparare a convivere con questa nuova realtà, si può solo

imparare a non dare troppo nell’occhio, a non fissare

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stupidamente il vuoto che per te vuoto non è, si può

imparare a non impazzire. Io ho dovuto imparare in fretta. Un Angelo mi ha

infettata col suo sangue divino e da quel giorno un esercito di demoni ribelli ha iniziato a darmi la caccia. In una

settimana ho dovuto imparare a difendermi, perché se non puoi uccidere il tuo nemico, devi almeno saperti concedere

la possibilità di rallentarlo per poter fuggire. Ho dovuto imparare a riconoscerli fra la folla di umani inconsapevoli.

Ho dovuto imparare a nascondere le mie tracce per non rendergli troppo facile uccidermi. Ma soprattutto, ho dovuto

imparare a lasciare che il Male faccia il suo corso. Non si può salvare il mondo intero dal Male, specie se il Bene non

alza un dito per contrastarlo. Ci sono degli equilibri cosmici che devono essere

salvaguardati prima ancora della vita di un mortale. Questa è la lezione più difficile per me da apprendere, perché non

riesco a starmene in disparte a guardare. Il mio cellulare squillò di nuovo.

Manuel non si mosse per passarmelo, nonostante fosse a pochi centimetri da lui. Disse solo - Attenta a quello che

dici.- Sembrava una minaccia. Era una minaccia?

Probabilmente sì. Risposi, cercando invano di far smettere il tremore alla

mano. Era Michele - Iris?-

Ero così sconvolta che, dalla voce incerta, Michele non mi aveva neanche riconosciuta - Sì.-

- Va tutto bene, piccola?- - Certo.-

Non mi credé. - Bruno mi ha detto che mi hai cercato.- dissi.

- Ti ho chiamata proprio per questo. Volevo essere certo

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di trovarti stavolta. Ti devo parlare.-

- Questo non è il momento più adatto.- - Sei in compagnia?-

- E se anche fosse?- mi alterai. - Sei sola o no?- percepii gelosia nel tono della sua voce,

lo stesso che usava quando stavamo ancora insieme. - Credevo non ti riguardasse più quello che faccio della

mia vita.- lo punzecchiai. - Non mi interessa infatti.-

- E allora che vuoi?- - Voglio solo parlarti.-

- Non oggi.- - Perché no?-

- Devo lavorare.- - Non ti ruberò così tanto tempo.-

- Ho detto No!- - Smettila Iris.- vociò, poi, recuperata la calma, aggiunse -

È importante.- - Ti do solo cinque minuti, non uno di più.-

- Me li farò bastare.- Sentii il citofono suonare.

- Sono sotto casa.- disse con noncuranza. - Scendo subito.-

- No. Sto già salendo io.- - Ma…-

Riattaccò. Per una manciata di secondi dimenticai Manuel seduto a

due passi da me. Si mosse e mi voltai a guardarlo un istante prima che mi investisse il panico più distruttivo.

- Devi sparire.- dissi allarmata. Manuel mi scrutò un momento, poi sorrise - Dove credi

che possa andare conciato così?- - Trasformati!-

Scosse la testa - Non ci pensare neanche.-

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Dopo l’incontro con Samuel non credevo che Michele

avrebbe visto di buon occhio un altro uomo mezzo nudo in casa mia. Non volevo tornare con lui, non ero ancora

pronta a perdonarlo, ma non volevo neanche precludermi la possibilità di farlo in futuro, quindi farmi trovare in

compagnia di due uomini diversi a distanza di poche ore non andava a mio favore.

- Non fartelo ripetere di nuovo, Manuel. Togliti dai piedi.-

- Mi occorre energia per trasformarmi, non ne ho la forza.- spiegò, sembrando perfino sincero.

- Allora chiuditi in camera da letto.- Il campanello trillò.

Manuel fece per alzarsi, ma gli sfuggì un gemito. Non ottenendo risposta col campanello, Michele bussò al

portone. - Un momento!- dissi per farmi sentire.

Manuel mi porse una mano per farsi aiutare. Aveva gli occhi lucidi.

- Fa così male?- chiesi permettendogli di appoggiarsi a me.

Annuì a denti stretti. - Mi dispiace.-

Lo accompagnai lentamente fino in camera mia. Aspettai che si mettesse a letto e corsi ad aprire il portone.

Michele era appoggiato alla parete di fronte, con le mani incrociate sul petto, visibilmente seccato dall’attesa - Perché

ci hai messo tanto?- Avevamo troppa confidenza per le formalità - Sono a

casa mia, ci metto tutto il tempo che voglio. Se non ti sta bene, conosci la strada. - gli indicai le scale, anche se sapevo

che, se avesse dovuto scegliere, avrebbe usato l’ascensore - Quanta ostilità! Ho interrotto qualcosa?-

Mi conosceva troppo per non sapere che quando sono sul

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piede di guerra è perché mi sento a disagio per qualche

motivo. - Posso entrare o devo dare qualche altro minuto al tuo

amico per nascondersi?- - Non so di cosa stai parlando.-

Michele si staccò dal muro per avvicinarsi - Non mentire con me, Iris. Non lo sopporto, non da te.-

Abbassai lo sguardo involontariamente. Accidenti a me! - I cinque minuti stanno passando. Di’ quello che devi dire e

vattene.- - Non mi fai entrare? Dobbiamo proprio parlarne qui

fuori?- Mi scansai dalla porta e lui mi passò davanti lanciandomi

uno sguardo carico di malizia. Mi precedette in soggiorno, ma non si mise a sedere sul

divano. Rimase in piedi al centro del salone, guardandosi intorno con i sensi in allerta.

- Ti ho detto che non c’è nessuno.- mentii. - Non ti credo, comunque veniamo a noi.-

Mi appoggiai alla porta scorrevole aperta del soggiorno - Sei qui per questo.-

Sbuffò senza preoccuparsi di nascondere un certo nervosismo, ma non ribatté - Sto per partire!- disse tutto

d’un fiato. Raggelai e se ne accorse, anche perché non riuscii a

parlare. - Mi trasferisco a Milano. Un’importante casa editrice mi

ha offerto di collaborare a un loro nuovo progetto sperimentale e ho accettato.-

- Quando?- riuscii a chiedere. - Fra due settimane.-

Fece qualche passo verso di me, ma io indietreggiai fino a toccare la parete del corridoio. Ero arrabbiata.

Sapeva benissimo che questa notizia mi avrebbe ferita,

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conosceva i miei sentimenti, sapeva che nel profondo del

cuore provavo ancora qualcosa di forte per lui. Perché aveva voluto assistere di persona alla mia reazione?

- Ci godi a vedermi stare male?- - Non volevo che lo sapessi da qualcun altro.- rispose con

sincerità. - Avrei di gran lunga preferito non saperlo affatto.-

Avanzò ancora e io non mi mossi. Mi prese il viso fra le mani e me lo sollevò affinché lo guardassi negli occhi.

Trattenevo a stento le lacrime. Non volevo che mi vedesse piangere per lui. Non più.

Posò la sua fronte sulla mia, guardandomi come solo lui mi aveva guardata - Vieni via con me. Possiamo

ricominciare da capo. Dimentichiamo il passato, Iris. Ho sbagliato, sono stato uno stupido a buttare via la persona

più importante della mia vita solo per un capriccio, lo so, l’ho sempre saputo, ma vorrei che mi dessi la possibilità di

rimediare.- Scossi la testa, non riuscendo più a trattenermi - Non

posso. Non ci riesco.- - È questo posto, amore mio. Ci sono troppi brutti

ricordi. Andiamo via.- - Milano non basterà a cancellare quello che è successo.-

Mi afferrò le spalle con delicatezza - Forse chiederti di dimenticare è sbagliato, però…se solo mi dessi la possibilità

di provarci, ti dimostrerei che non sono quell’uomo schifoso che ti ha fatto del male. Io non sono così, Iris, e tu lo sai. Lo

sai che quello non ero io.- Uno starnuto risuonò dalla camera da letto. Michele si

voltò di scatto in quella direzione, subito dopo tornò a fissare me. La sua espressione implorante era svanita nel

nulla, lasciando spazio alla collera. Perfino la stretta sulle spalle si fece più decisa. Se ne accorse e mi lasciò, infilando

le mani nelle tasche dei jeans.

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Conoscendolo, mi aspettavo che si fiondasse in camera

per prendere a pugni l’intruso, ma non lo fece. Forse era davvero cambiato. Indietreggiò da me di poco più di un

metro e mezzo. I suoi occhi, un attimo prima colmi di tenerezza, fiammeggiavano di rabbia. Il respiro accelerato

gonfiava il torace muscoloso sotto la t-shirt di cotone. - Non saltare subito a conclusioni affrettate.- dissi,

lanciando qualche occhiata alla porta della mia camera da letto.

- Affrettate? Potresti forse giurare che non c’è un uomo in camera tua? Perché è questa la mia conclusione affrettata.-

Merda!

- E io che credevo di…- - Michele…-

- Mi sento così stupido. Spero ti sarai divertita almeno.- - Non è come credi.- mi avvicinai, ma mi scansò - Non

hai capito niente.-

- Ho capito che sto solo perdendo tempo.- si avviò verso l’uscita.

Lo seguii - No, aspetta. Lasciami spiegare.- lo implorai. Si voltò come una furia, afferrandomi per i polsi, così

forte da farmi male - Sta’ lontana da me!- sillabò, mollando poi la presa per uscire sbattendosi la porta alle spalle.

Maledizione!

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Camminavo senza prestare attenzione ai passanti sul

marciapiede del corso. Il modello in scala del progetto per la scenografia dell’Otello pesava troppo perfino per me, che

per il lavoro che faccio, ho i muscoli delle braccia molto allenati.

Ero a corto di fondi e avevo dovuto optare per materiale più economico, ma anche più pesante.

Rodolfo mi aspettava nel suo studio ed ero già in ritardo di quasi due ore.

Era passata una settimana dall’aggressione di Manuel che, nel frattempo, era guarito alla perfezione, tornando

perfino a rompere le scatole tutto il giorno con le sue prediche morali.

Sono una peccatrice! Questo è il verdetto! E allora? Sopravvivrò alla scioccante rivelazione, sempre che prima

non mi ammazzi qualche Demone incazzato con Manuel e i suoi “fratelli”.

Sembrerà impossibile da credersi, ma in una settimana ho imparato a maneggiare abbastanza bene una pistola.

Niente di straordinario, se si tiene conto del fatto che maneggiarla non significa necessariamente saperla usare.

Ho una pessima mira. Rischio di mancare il bersaglio perfino se me lo trovo a mezzo metro di distanza. Samuel

dice che per il momento è già un miracolo che riesca a sparare senza farmi scappare l’arma dalle mani, e se lo dice

lui non posso che credergli. Rachael non è ottimista come lui, ma riconosce di aver notato grandi miglioramenti negli

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ultimi giorni. Solo Manuel storce ancora il naso. È un

perfezionista e per quanto lo riguarda mi vede come una sciagura piombata fra capo e collo a complicargli

un’esistenza già sufficientemente complicata. L’episodio con Demian sembrava dimenticato, o almeno

accantonato per fare spazio a problemi più gravi. Uno di questi problemi è la mia nuova capacità di vedere i demoni

e gli immortali in genere. Ce ne accorgemmo quando una mattina, uscendo con Manuel per andare a correre, notai

una donna che normalmente non avrei dovuto vedere. Se

escludiamo veggenti e sensitivi, vedere anime erranti non è

una prerogativa dei comuni mortali.

Mi hanno spiegato che il contagio mi ha resa più ricettiva all’essenza spirituale delle forme del creato.

Bella consolazione!

Ora quando vado in giro per le strade sembro una pazza. Scanso figure inumane invisibili al 98% della popolazione

mondiale, scappo da creature mostruose che tentano

continuamente di catturarmi, sento voci provenire dal nulla e quel che è peggio, vivo costantemente nel terrore di essere

avvicinata e, Dio non voglia, toccata da quegli esseri orrendi.

Rachael è convinta che non resisterò alla pressione. È sicura che prima o poi vedrò qualcosa di talmente

spaventoso per la mia mente umana da non riuscire a riprendermi più dallo shock.

Incoraggiante!

Spero solo che si stia limitando a prepararmi al peggio e che non creda davvero in quello che afferma, altrimenti

sono proprio nei guai. Infilai il portone del palazzo inciampando nelle gambe di

un uomo addormentato sullo zerbino sul marciapiede. Non l’avevo visto subito e quando me ne accorsi stavo

già perdendo l’equilibrio. Il progetto non mi cadde solo

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perché andai a sbattere contro il portone recuperando un

minimo di equilibrio. - Accidenti a te!- sbraitai.

Due ragazzini che stavano uscendo dallo stabile mi fissarono incuriositi. Una ragazza che parla da sola non si

vede tutti i giorni. Si dissero qualcosa e poi scoppiarono a ridere, guardandomi di tanto in tanto con la coda

dell’occhio. Il demone sullo zerbino si alzò per stiracchiarsi i muscoli

che non aveva - Guarda dove metti i piedi, Saphiros. - mi rimproverò - Per poco non mi passavi addosso.-

Esistono due tipi di Demoni: quelli semimortali e quelli puramente spirituali. I Demoni dotati di un corpo fisico

sono quelli che interagiscono direttamente con gli umani, pur celando la loro reale identità, i Demoni spirituali invece

sono visibili solo da menti eccelse e possono interagire fisicamente solo con queste, mentre per il resto dei mortali

sono assolutamente inoffensivi, pur influenzandone i propositi e le azioni.

Eliminare un Demone semimortale significa uccidere il suo corpo fisico e relegarlo allo stato spirituale per il resto

dell’eternità. Sarebbe magnifico se si potesse eliminarlo definitivamente, ma il massimo che si può fare è

traghettarlo all’inferno e sperare che nessuno lo rispedisca da questa parte.

- Ringrazia che non si sia rotto niente o la terra non sarebbe stata abbastanza grande per nasconderti.- risposi.

Si portò una mano al petto - Uh! Che paura.- poi rise. - Togliti dai piedi.-

- Perché, se no che cosa fai?- Mi stava sfidando, ma non raccolsi la provocazione,

anzi, gli diedi le spalle per raggiungere l’ascensore che era appena tornato dal secondo piano dopo che l’avevo

chiamato involontariamente, sbattendoci contro con una

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spalla mentre cercavo di non cadere. Pessima mossa!

Nel mentre che varcavo la soglia della porta dell’ascensore, il demone si fiondò su di me e con uno

spintone mi mandò a sbattere contro lo specchio all’interno, che cedette alla forza dell’urto, rompendosi dove lo avevo

colpito con la schiena. Il compensato con il modello della scenografia si

rovesciò schiantandosi a terra. Senza pensarci un attimo di più sfilai una bomboletta

pressurizzata dalla tasca della borsa e spruzzai una nuvola di Acqua Santa sul Demone, che si ritrasse coprendosi il

viso con le braccia per ripararsi dalle gocce acide che gli bruciarono le carni immateriali.

- Maledetta!- strillò svanendo in una fiammata. - E la prossima volta pensaci bene prima di metterti sulla

mia strada. Dillo anche ai tuoi amici di starmi alla larga, se

non vogliono finire i loro giorni a rimpiangere di non poter morire.- gli urlai di rimando.

Non desideravo veramente che spargesse la voce fra i suoi simili, non sapevo neanche come mi era venuto in

mente di minacciarlo così. Infatti l’ultima cosa che mi ci voleva in quel momento era dover affrontare una folla di

demoni vendicativi. Avevo già abbastanza guai per conto mio.

Usare materiali più resistenti ha i suoi vantaggi dopotutto. L’impatto non aveva creato danni irreparabili al

progetto, o almeno, niente che non potesse essere riassemblato con un po’ di colla a caldo.

Iniziavo già a non poterne più di tutti quei dispetti. Se almeno avessi potuto evitare i demoni immateriali avrei

dimezzato i miei problemi, e invece, grazie al contagio di Manuel, oltre la mortalità, sembrava non essermi rimasto

niente di umano.

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Tutta quell’apprensione mi stava incattivendo. Ero

diventata troppo suscettibile, pronta a fuggire al primo soffio di vento improvviso. L’adrenalina era diventata la

droga più pregiata per il mio cervello. Povera me!

Lo studio di Rodolfo occupa tutto il quinto piano

dell’edificio. L’ascensore si apre proprio sulla reception dove Teresa, la segretaria, occupa diligentemente la sua

postazione alla scrivania di mogano davanti al computer sempre acceso e in funzione. Come al solito uno dei due

telefoni squillava con insistenza. Teresa cercava di svincolarsi da una conversazione alquanto accesa con

l’interlocutore del telefono occupato, ma discutere con un trillo continuo nelle orecchie non è il massimo.

Appena mi vide sbucare dall’ascensore mi fece cenno di avvicinarmi, pur senza perdere il filo del discorso che stava

affrontando. Senza replicare, mi avvicinai facendo spazio

sul mobile lungo la parete per appoggiare il progetto e dare un’occhiata più attenta ai danni. Il telefono squillava ancora

dopo cinque minuti. Possibile che quel tipo non avesse di meglio da fare che chiamare e richiamare di continuo? Se

dopo la terza volta non risponde nessuno, non si dovrebbe immaginare che chi stai cercando è occupato o assente?

Non potendone più afferrai la cornetta e risposi - Studio Veronesi, mi dica.-

- Mi dica?- rispose la voce rabbiosa di un uomo - Mi prende in giro? Sono quasi due ore che aspetto di parlare

con Rodolfo, e non si azzardi a dire che è ancora in riunione, perché questi giochetti con me non attaccano.-

Scambiai un’occhiata con Teresa, che si strinse nelle spalle.

- Provo a controllare. Attenda un momento in linea.- dissi premendo il pulsante d’attesa prima che potesse

replicare o sbraitare contro la persona sbagliata.

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- Rodolfo è in ufficio?- chiesi a Teresa fregandomene che

fosse ancora occupata a telefono. Se era abituata a mettere in attesa i clienti, era un problema suo e di Rodolfo, ma io

non ero disposta a ricevere lo stesso trattamento. Non ero un cliente, non pagavo per i loro servizi, erano loro a pagare

me per i miei. Non ottenendo risposta dalla ragazza, presi il mio

progetto e mi diressi all’ufficio, solo allora Teresa si staccò dal ricevitore per dirmi di non entrare perché Rodolfo era

occupato. Non me ne curai e spalancai la porta per fare spazio al piano di compensato.

Come immaginavo, non c’era nessuno con lui. Era così concentrato al tavolo da disegno da non accorgersi neanche

del mio ingresso. Un momento di pura ispirazione. Glielo leggevo nello sguardo. Emanava energia creativa.

Capii perché avesse dato l’ordine di non essere disturbato per nessun motivo al mondo, ma ormai era tardi e

soprattutto non avevo tempo da perdere, quindi lascia il progetto sulla scrivania insieme a un appunto per Rodolfo e

me ne andai. Alle quattro Manuel sarebbe passato a prendermi per un allenamento speciale sull’uso dei miei

nuovi poteri ed erano quasi le tre del pomeriggio.

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- Ti dico che ne ha tutte le caratteristiche!- dissi convinta.

Peccato che Manuel non era del mio stesso avviso, e fra i due a sbagliarmi potevo essere soltanto io.

Mi fissava in volto, incuriosito. Era quasi buffo vederlo così concentrato - Tu non sei normale, Iris.- non voleva

essere un complimento e il tono della sua voce non lasciava adito a fraintendimenti - Devi avere qualche recettore

difettoso. Non c’è altra spiegazione.- Eravamo seduti al tavolino di un bar, sul marciapiede del

corso, in pieno centro cittadino. Eravamo lì da oltre due ore e Manuel cercava inutilmente di insegnarmi a riconoscere

un immortale abilmente immerso in una folla di gente comune.

Fino ad allora ero riuscita a percepire la vicinanza di un Demone grazie alle fitte alla mano e al braccio che

avvertivo ogni volta che si ne avvicinava qualcuno a meno di cento metri da me. Manuel però mi stava insegnando a

riconoscere tutti gli Immortali, non solo i Demoni,

soprattutto in virtù del fatto che gli umani erano costretti a fronteggiare due fazioni nemiche, non una soltanto, e il

nostro compito da lì a qualche giorno, sarebbe stato proprio quello di ristabilire una parvenza di equilibrio fra le parti.

Era scontato infatti, che gli umani non avrebbero mai potuto neanche sperare di vincere contro l’esercito

Immortale che si stava preparando ad annientarli, se non tutti, in buona parte.

- Non abbiamo tutto il giorno.- brontolò Manuel -

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Eppure non è così difficile. Ora che puoi vederli, sentirli,

dovresti individuarli al primo colpo d’occhio. È così evidente la differenza.-

Da almeno mezz’ora stavamo esaminando il tizio in un gruppo fermo sul marciapiede di fronte. La mano non mi

formicolava, il che stava a significare che non si trattava di un Demone, però aveva un tatuaggio sul collo, alla base

dell’orecchio sinistro, il palmo della mano destra fasciato da una garza, occhiali da sole scuri, e se non bastasse, si

percepiva un pesante flusso energetico provenire dalla sua direzione. Dagli indizi e dalle direttive di Manuel, poteva

trattarsi solo di un Ancharos. Eppure lui si ostinava a dire che mi sbagliavo.

- È uno di loro ti dico.- insistei. - No! Affatto.- Si stava innervosendo.

Io invece avevo già perso le staffe da più di un quarto d’ora - Ci sono tutti i segni, Manuel. A meno che tu non mi

abbia riempito la testa di fandonie inutili.- - Una fasciatura e un tatuaggio ti sembrano sufficienti per

un giudizio irrevocabile?- - Sento premere la sua energia contro la pelle.-

Bevve un sorso di succo d’ananas ghiacciato. Aveva una maniera deliziosa di succhiare il liquido dalla cannuccia e

non riuscivo a non guardarlo mentre lo faceva. Quando se ne accorgeva smetteva di bere, imbarazzato. Fu così anche

in quell’ultima occasione, ma quando mi scoprì di nuovo a fissarlo invece che imbarazzato si mostrò contrariato e

affatto disposto a subire ancora. Distolsi subito lo sguardo. Era riuscito ad imbarazzare

me. - Non credi che se noi riusciamo a percepire la sua

energia lui riesca a sentire la nostra?- chiese serio. - Certo che sì.-

- Che cosa hai fatto tu appena l’hai sentita?-

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Rimasi a pensarci un momento, non capivo dove volesse

arrivare. Bevve un altro sorso, ma stavolta non si preoccupò di

osservare se lo stessi fissando o no. - L’ho cercato!- risposi.

Annuì - Ti sei voltata a cercarlo.- - Sì.-

-E ti sembra che lui si sia mai voltato a cercarci?- - Direi di no.-

- Noi siamo in due, Potremmo avere dei propositi ostili, eppure lui non ci ha degnato della minima attenzione. Non

ti sembra strano?- - Siamo troppo vicini per lui.- osservai - Può

tranquillamente ascoltare la nostra conversazione e agire di conseguenza.-

Scosse la testa. - Perché no?-

- Se non ti fossi soffermata alla pura apparenza, ti saresti accorta che c’è lì in mezzo qualcuno che ci ascolta, ma ci

sta anche tenendo d’occhio da più di mezz’ora.- Mi voltai di scatto nella loro direzione per individuare il

nostro uomo. Manuel sorrise - Beh, noto che la discrezione è proprio il

tuo forte.- Il gruppetto era composto da otto giovani, cinque ragazzi

e tre ragazze. Due delle donne e uno degli uomini ci davano le spalle. Il mio sospettato era l’uomo in questione. Gli altri

ci erano frontali, seduti o appoggiati a una panchina. Sembravano tutti occupati ad ascoltare una delle ragazze di

spalle, tranne uno: la ragazza appoggiata alla panchina. Mi voltai talmente all’improvviso che non le diedi il tempo di

fingersi indifferente. Per un momento ci scambiammo un’occhiata poco

amichevole. La sua energia aumentò contro la mia pelle,

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forse in risposta all’aumento involontario della mia.

All’apparenza non dimostrava più di vent’anni. Non era un’Ancharos – o come lo chiamerei io, un Angelo della

morte -, perché le donne non ereditano il dono, lo possono solo ricevere o trasmettere ai propri eredi maschi, ma sono

estremamente rari i casi di trasmissione a soggetti femminili.

Non era un Demone, non era un Ancharos, non era un Saphiros e di sicuro non era un Nephilim.

- Che cos’è?- chiesi. - È una della stirpe dei Custodi. Un Nimhiim-

- Un Angelo Custode?- - Non nel senso che intendete voi umani.- rispose - È più

corretto dire che è un Immortale preposto a proteggere gli umani dagli attacchi dei Demoni.-

- Capisco! Quindi non esistono creature immortali che ci proteggono dai pericoli di tutti i giorni. Sono fantasie.-

- Non proprio. Alcuni di noi hanno deciso di dissociarsi dalle direttive generali per dedicare la propria esistenza a

salvaguardare la sopravvivenza degli umani. Quelli potresti definirli Angeli Custodi a tutti gli effetti, ma non i Nimhiim,

questi sono tutt’altra cosa.- La ragazza Nimhiim si staccò dal gruppo per

raggiungerci. Non sembrava contenta dei nostri discorsi. Non sembrava contenta di me.

Manuel senza che glielo chiedesse, si spostò sull’altra

sedia, lasciandole un posto libero per accomodarsi con noi e lei lo fece.

Da lontano l’avevo giudicata una bella ragazza, ma da vicino mi accorsi di quanto fosse perfetta, una perfezione

tipicamente sovrannaturale. - È lei?- chiese a Manuel indicandomi.

Maleducata, non si era neanche degnata di salutare. Manuel le sorrideva, apparentemente divertito. Non molto

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più tardi capii che si conoscevano già.

- Proprio così.- rispose posandomi un braccio attorno alle spalle. un gesto troppo amichevole da parte sua per non

risultare teatrale e finto. - Non dovresti esibirla in pubblico. La stanno ancora

cercando.- Mi stavano cercando? Chi?

La fronte di Manuel si increspò - Con me è al sicuro.- - Ora che sanno cos’è non si faranno tanti scrupoli,

Manuel. Si dice che stanno già elaborando un piano per attaccare il prima possibile. È una preda troppo ghiotta per

lasciarsela scappare.- Non capivo se scherzassero o se davvero non si

rendessero conto che c’ero anch’io lì con loro, che era di me che stavano parlando.

- Andrà tutto bene.- rispose Manuel, sfilando il braccio dalle mie spalle - La stiamo preparando anche a questo.-

La ragazza mi guardò con attenzione - Non mi sembra molto sveglia però.-

Brutta stronza!

- È solo all’inizio, Sandra. Fra qualche giorno sarà

pronta.- Non riuscii a tacere oltre, infatti mi feci avanti col busto

sul tavolino per raggiungere entrambi, che mi sedevano di fronte - Pronta per cosa?-

- Ti vogliono morta, tesoro.- rispose lei, quasi ridendomi in faccia, poi, guardando Manuel con la coda dell’occhio

aggiunse - Non te l’hanno detto?- Fulminai Manuel con un’occhiataccia.

Lui sollevò le mani in segno di resa. Mi stava prendendo in giro e non sembrava preoccuparsene affatto - È solo

un’ipotesi. Ci stiamo solo preparando al peggio.- - E questo dovrebbe rassicurarmi?- chiesi.

- Non era mia intenzione farlo.- rispose lui - Se vogliamo

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una chance di riuscita dobbiamo puntare sulla tua forza di

volontà. Per sopravvivere devi aver voglia di vivere, se no è tutto tempo e fiato sprecato, moriresti comunque al primo

passo falso.- Discorso brutale il suo, ma in fondo aveva ragione, per

sopravvivere dovevo pensare di poter fare affidamento solo su me stessa o avrei rischiato di puntare la mia vita

esclusivamente sulla loro protezione. L’avrei fatto se avessi avuto la certezza che erano creature invulnerabili, ma avevo

avuto abbastanza prove per sapere che erano tutt’altro che infallibili.

Sandra mi colse di sorpresa quando mi afferrò una mano con gentilezza. Mi ritrassi di scatto, ma osservandone

l’espressione pacifica del volto gliela restituii. Se la mise fra entrambe le mani e chiuse gli occhi come a

voler percepire qualcosa che con la vista non avrebbe potuto. - Il suo potere cresce molto velocemente.- disse

continuando a tenere gli occhi chiusi e il volto dritto avanti a me - Se continua di questo passo, nel giro di due settimane

ne accumulerà abbastanza da sfamare tutti i Demoni del quartiere.-

Sfamare?

Manuel sfilò una banconota da venti dalla tasca e fece

segno di avvicinarsi alla cameriera all’interno del bar. Mentre aspettavamo che ci raggiungesse, gli squillò il

cellulare. Osservò il numero e scambiò un’occhiata con Sandra. Rispose, ma lo mise in vivavoce.

- Stefano?- disse. - Ciao Manuel.-

- Mi fa piacere risentirti dopo tutto questo tempo. C’è

anche Sandra qui con me.- - Salutamela allora. È da un po’ che non sento neanche lei.-

- Ti ha sentito, sei in vivavoce.- Stefano tacque per un momento, poi disse - Meglio così.

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Almeno non sarò costretto a ripetermi.-

L’espressione di Manuel si fece più attenta - Va tutto

bene, Stefano?- - Non proprio.-

- Che cos’è successo?- - Lo sai che non chiederei il vostro intervento se non fosse

assolutamente necessario.-

- Alessandro come sta?- - Fin troppo bene, ma ultimamente sta dando fuori di matto. Ha

preso questa faccenda un po’ troppo seriamente. Non vuole sentire

ragioni. È deciso ad eliminarli tutti.-

Manuel sospirò scuotendo la testa contrariato - Non può

farlo. Non troverà aiuto sufficiente. Gli Ancharos sanno a cosa vanno in contro se osano contravvenire alle regole.

Arioch è stato chiaro.- - Beh! Lo sai anche tu che fra Alessandro e Arioch non corre

proprio buon sangue.-

- Fra tuo fratello e il mondo intero non corre buon sangue, Stefano.-

- Ha le sue ragioni per sentirsi un po’ diffidente, non ti pare?-

- Sono incidenti di percorso che possono capitare a chiunque.- si intromise Sandra.

- Sì! Però intanto è a lui che è capitato, non a voi.-

Manuel si accigliò a quella risposta - Non l’ha obbligato

nessuno a premere quel grilletto, Stefano. Sappiamo tutti com’è andata. Ha fatto fuoco volontariamente, e da quel

giorno non ha più smesso.- Sandra posò una mano sull’avambraccio di Manuel -

Calma, ragazzi.- - Lo so anch’io che ha perso il controllo. L’odio e la vendetta gli

hanno annebbiato la mente. Non avrà pace finché non li avrà eliminati tutti.-

- È pazzo se crede che glielo lasceremo fare.- - È diventato troppo forte, Manuel. Non dimenticare che solo tre

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anni fa è stato in grado di contrastare Gabriel da solo, e non era neanche ancora in possesso di tutti suoi poteri.-

- Tuo nonno e tuo zio non possono fermarlo? Sono sangue puro quanto lui.-

- Non vogliono.-

- Perché?- chiese Sandra senza nascondere la propria preoccupazione.

- Sono convinti che la sua sia una nobile causa.-

- Ma è una follia.- sbottò Manuel. - Ascolta, Manuel. Neanche io sono poi così contrario a quello

che fa Alessandro. Ero con lui quando è successo tutto. Ho sparato

io per primo e non mi sono mai pentito d’averlo fatto. Lo

conosciamo tutti il Clan. Per voi forse non è importante perché non siete nella loro lista nera, ma noi sì, lo siamo tutti. Sono d’accordo sul fatto che Alessandro dovrebbe usare metodi meno violenti, questo sì, ma i propositi li appoggio in pieno.-

Manuel si stava innervosendo, e non poco - Se sei d’accordo con lui, Stefano, allora perché cerchi il nostro

aiuto?- - Perché non ottenendo l’aiuto dei nostri, sta traghettando da

questa parte un vero e proprio esercito di Demoni. Temo che questi,

terminata la loro missione distruttiva, possano ribellarsi e rivelarsi un nemico perfino peggiore del Clan. Finché si combatte contro gli umani il vantaggio è sempre assicurato, ma una lotta interna fra

immortali sarebbe davvero un problema per tutti.-

- Vuoi che rispediamo all’Inferno i Demoni che tuo fratello ha traghettato sulla terra per eliminare i membri del

Clan?- - Esattamente!-

- Mi stai chiedendo di assecondare la sua pazzia, Stefano.-

- Ti sto chiedendo di fare semplicemente il tuo lavoro, proprio come noi facciamo il nostro.-

- Non ci contare!-

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- Vuoi dire che lascerete gli umani in pasto ai Demoni?-

- Invece di cercare degli spazzini che ripuliscano la

spazzatura che crea tuo fratello, trovate una soluzione per fermarlo.-

- Il Gran Consiglio ha votato a favore.-

- Solo perché tuo nonno e tuo zio sono due dei sette

membri e gli unici sangue puro rimasti del consiglio. Si comprano i voti con la paura degli altri membri.-

- Ma… come osi?-

- Non fare l’offeso, Stefano. Lo sai anche tu che è così.- Sentimmo Stefano sbuffare all’altro capo del telefono -

Che cosa vuoi che faccia?-

- Non è che tu possa fare molto per fermare Alessandro, ma almeno prova a parlargli, chissà che non ritrovi la

ragione.- - È tutto inutile.-

- L’unico appoggio che posso offrirti per il momento è provare a farlo ragionare.-

- Fallo in fretta allora, perché domani notte ha in programma di dare inizio alle danze.-

- Ha puntato il dito su qualche Agente in particolare?-

- No!- rispose secco - Hanno deciso di radere al suolo l’intero

quartiere.-

Manuel balzò in piedi furibondo - Stai scherzando!- - Ti sembra che scherzerei su una cosa del genere?-

- Ma dovete fermarlo. Ci sono anche dei bambini lì.- - È per questo che ho chiesto il vostro intervento. Se non

eliminate i Demoni che ha assoldato, fra qualche ora si scatenerà

l’inferno.-

- Maledizione.- imprecò.

Finita la telefonata, Sandra si portò una mano alla bocca. Era sconvolta - Dobbiamo fare qualcosa.-

Manuel liquidò la cameriera lasciandogli l’intera banconota da venti euro, poi mi tirò su tenendomi per un

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braccio.

Sandra si alzò a sua volta scuotendo ripetutamente la testa. Lo sguardo perso nel vuoto.

- Non abbiamo margine di tempo per agire e loro sono in troppi.- disse Manuel. Non l’avevo mai visto così infuriato -

Solo per riunirci tutti per prendere una decisione ci vorrebbe una settimana. Conosco Alessandro, starà pianificando

quest’operazione da anni. Difficilmente permetterà che qualcosa vada storto. Ha studiato tutto nei minimi dettagli,

sono sicuro che è pronto a qualsiasi intromissione e ha preso le sue precauzioni per portare a termine il lavoro.

Stefano ci ha avvertiti troppo tardi. Non c’è proprio niente che possiamo fare ormai.-

Ero inorridita - Ma non ci provate neanche? Lascerete che uccida tutta quella gente?-

Nessuna risposta. - Manuel?-

Mi rispose Sandra al posto suo - Certo che ci proveremo, ma non servirà a niente.-

- Potreste avvertire del pericolo gli abitanti del quartiere.- - Non è sufficiente.- rispose Manuel.

- Perché?- Di nuovo nessuna risposta.

- Manuel, perché? Rispondi. Ho il diritto di sapere.- - Alessandro è il discendente umano diretto dell’Angelo

di tutti i Mali. Non c’è Demone all’Inferno in grano di opporsi al suo volere. I suoi poteri sono così distruttivi che

riuscirebbe a radere al suolo una città anche da solo. Nessuno può fermarlo se lui non vuole. È troppo forte per

chiunque di noi.- Non varcavo la soglia di una chiesa da non so più quanti

anni, eppure a quelle parole non riuscii a trattenermi dal farmi un segno di croce - Stai forse dicendo che per quelle

persone non c’è via di scampo?- guardai Sandra accanto a

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me - È così?-

Nessuno dei due trovò il coraggio di rispondermi.

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20

Quando arrivammo noi, il quartiere era una grande

torcia ardente. Le fiamme si innalzavano alte rilasciando una fitta nube di fumo che sembrava riuscire a sfiorare il

cielo nero. Per le strade, le macchine ribaltate consentivano il

passaggio solo appiedati, i cassonetti della spazzatura capovolti vomitavano il lerciume dove capitava. Perfino

alcuni alberi erano stati sradicati dal terreno dei giardini delle villette e giacevano abbandonati nel punto in cui erano

stati scagliati, che di solito corrispondeva alla vetrata di qualche abitazione.

Nell’aria, oltre al fumo, al tanfo di carburante e al lezzo di spazzatura non si riusciva a non percepire l’odore di

sangue fresco, e la puzza di morte sembrava quasi palpabile. I cadaveri giacevano dove meno ce li aspettassimo,

mentre i sopravvissuti scappavano da una parte all’altra isterici, impazziti. Ma non rimanevano sopravvissuti a

lungo. Perché appena uscivano allo scoperto venivano immancabilmente intercettati dal nemico ed eliminati.

Erano fortunati se li uccidevano subito senza diventare prima la sadica pedina di una tetra partita al gatto col topo.

Fatta eccezione per i bambini, che vagavano disorientati in quel mattatoio umano, non si facevano prigionieri.

Se avessi dovuto figurarmi l’Inferno l’avrei dipinto in quel modo.

Mi tenevo stretta al braccio di Manuel, stando ben attenta a rimanere almeno un passo dietro di lui.

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Avevo la nausea, ma volevo provare a fare la dura una

volta tanto. I Demoni saltavano con estrema agilità da un tetto

all’altro. probabilmente avrebbero potuto librarsi in aria senza difficoltà se fosse stato necessario, ma non ero sicura

di voler assistere anche a quella scena. Le grida dei residenti si facevano sempre meno

numerose, ma mano che aumentavano i caduti. Dalla veranda di una villa sulla nostra sinistra uscì un

giovane non molto più alto di un metro e settantacinque. I capelli gli ricadevano sulle spalle con morbide onde scure.

Non saprei descrivere a parole lo splendore del suo viso e la crudeltà dei suoi occhi. Se il male avesse un volto, sarebbe il

suo. Reggeva in mano una pistola, ma ciò che mi stupì di più

fu il gladio nel fodero applicato alla cintura del jeans d’alta sartoria che indossava con estrema eleganza.

La camicia, aperta sul davanti a rivelare il torace scolpito, era sporca di sangue e aderiva al corpo sudato.

Mentre lasciava la villa infatti, stava cercando di scollarsela dalla schiena.

Senza notarci, in mezzo alla strada, si diresse verso di noi. Io mi strinsi forte al braccio di Manuel, ma

guardandomi mi fece capire che sarebbe stato più opportuno lasciarlo libero di muoversi nel caso la situazione

fosse precipitata. Lasciai il braccio, ma non mi mossi di un centimetro da

lui. Sentivo di tanto in tanto lo spostamento d’aria dei demoni che sfrecciavano alle mie spalle. Non avevo il

coraggio di voltarmi nel terrore di scorgere qualcuno che mi stava fissando con le fauci spalancate e sporche di sangue.

Manuel fece un passo avanti e io lo imitai sfiorando il petto contro la sua schiena.

- Halixos!- disse a voce abbastanza alta da sovrastare il

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frastuono di quel caos - Potevi esserci solo tu dietro tutto

questo.- L’altro sollevo lo sguardo dalla camicia e ci rivolse un bel

sorriso. Un sorriso? Dov’erano le telecamere? Perché nessuno si

decideva a sbucare fuori con un gran cartello di quelli di Screzi a Parte?

- Manuel, sei venuto a darci una mano? Arrivi tardi però.-

- Non ti sembra di esagerare un pochino?- Scosse la testa con una tranquillità che mi fece tremare.

- Immaginavo!- Il ragazzo si fece avanti tendendo il braccio. Manuel gli

afferrò l’avambraccio in segno di saluto. Sentii Manuel rilassarsi- Di’ un po’, come sta la tua

signora?- chiese come se avesse appena incontrato un vecchio amico - È da un po’ che non la si vede in giro.-

Si guardò intorno, poi si strinse nella spalle - Era qui nei dintorni qualche minuto fa.-

- Thomas?- Sorrise - È cresciuto! Dovresti passare a casa a trovarci

uno di questi giorni.- Manuel asserì con una convinzione che non mi piacque

affatto, poi aggiunge - Che cosa stai combinando, Alex?- - Sto proteggendo la mia famiglia.-

- Ci sono altri modi per farlo.- Si incupì - Non nel mondo in cui vivo io.-

- Un tempo eri neutrale. Da quando sei passato dall’altra parte?-

- Sono ancora neutrale, Manuel.- Un grido d’orrore si levò poco distante. Mi aggrappai

inconsciamente alla maglietta di Manuel. - Guardati intorno, Alex. Ti stai facendo prendere la

mano.-

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Scosse la testa, contrariato - Faccio solo il mio lavoro.-

- E da quando il tuo lavoro è diventato uccidere i mortali in massa?-

- Questi non sono mortali.- - E dai… non fare finta di non capire quello che intendo.

Negli ultimi mesi hai traghettato sulla terra più Demoni di quanti ne siano stati eliminati negli ultimi sei secoli. Non

puoi controllarli tutti. Stanno creando troppo scompiglio.- Il volto di Alex si scompose in un ghigno troppo

affascinate per i miei deboli ormoni mortali - Non è colpa mia se invece di desistere il Clan si rafforza con sempre

nuovi adepti.- - E non ti sei mai fermato a chiederti il perché?-

- Che vuoi dire?- dall’espressione curiosa sembrava davvero non capire a cosa si riferisse.

- Stai passando dalla parte sbagliata, Halixos. Ti stai lasciando manovrare. La gente è terrorizzata e il Clan usa a

suo vantaggio la paura contro di voi per richiamare sempre nuovi adepti fra le sue schiere.-

Alex strinse forte la mano destra a pugno. Sul suo viso perfetto si formò una ruga fra gli occhi.

Dal fondo della strada vidi arrivare una donna. Si muoveva con la stessa indifferenza di Alex. Come se fosse

cieca all’orrore che la circondava. Era bellissima. Non più alta di me, indossava un top allacciato al collo e

completamente aperto sulla schiena, una minigonna di jeans non troppo aderente e stivali di pelle. Alla cintura, una

pistola nel fodero e una spada identica a quella di Alex. Si strofinava sul braccio sinistro un panno raccolto chissà

dove. Cercava di ripulirselo dagli schizzi di sangue. Non ci accolse con la stessa cordialità del suo compagno

però. Si limitò ad affiancarlo, tenendo le mani nelle tasche posteriori della gonna, osservandomi come se fossi una

creatura venuta da un altro pianeta.

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- Piacere di rivederti, Celine.- la salutò Manuel.

Lei sorrise - Succede troppo di rado.- aveva un delicato accento inglese.

- Preferirei fosse accaduto in circostanze diverse.- La ragazza scambiò uno sguardo veloce con Alex, poi

sorrisero entrambi scambiandosi anche un fugace bacio a fior di labbra.

- Dovresti passare a casa.- disse lei. - L’ho già invitato io, angelo mio.- la informò Alex.

- Lo so, tesoro, ma in queste cose sai essere poco convincente.-

Un altro grido improvviso mi fece sobbalzare andando a sbattere contro Manuel, che si voltò a guardarmi cercando

di rassicurarmi con un sorriso. Come se fosse bastato. - Come mai da queste parti?- continuò Celine.

- Stavo proprio dicendo a tuo marito che abbiamo l’impressione che stiate calcando un po’ troppo la mano. Ci

sono troppi demoni in giro. Ci rendete il lavoro difficile.- - È solo un contrattempo temporaneo.-

- E di quanto tempo stiamo parlando?- - Il tempo necessario.- intervenne Alex.

- Non riuscirai mai a riportarli tutti indietro. Lo sai anche tu.-

- Siete qui per questo, no?- - Basta con questa guerra, Alex. Non porterà la vittoria a

nessuno.- - Dici?- chiese in tono di sfida.

Manuel si irrigidì di nuovo - Sì.- - Ascoltami bene, Manuel. Non credere che non capisca

il tuo punto di vista, ma se con quello che faccio riuscirò a garantire anche un solo giorno in più alla mia gente allora

sarà comunque una grande vittoria per me.- - Il Clan si può sconfiggere anche senza il bisogno di

questa sterminazione di massa.-

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- Libero solo il mondo da una setta di assassini.-

- Non è compito tuo.- - E di chi è?- tuonò Celine - Parli bene tu. Questi figli di

puttana non danno la caccia a te o alla tua famiglia. Io ho un figlio da proteggere e non mi interessa se per farlo dovrò

uccidere uno o mille di questi pezzi di merda.- - Belle zanne, Celine.- osservò Manuel, spingendomi

dietro di sé senza farsi notare - Da quant’è che ti sono spuntate?-

- Vaffanculo!- - Dico davvero! Ti donano molto.-

- Basta così.- si intromise Alex - E tu smettila di punzecchiarla.-

- Finché non toccate i bambini non mi interessa quello che fate con gli Agenti del Clan, Alex, ma smettila di

sputare demoni sulla terra e tieni d’occhio quelli che hai assoldato, perché siamo stanchi di rimediare alle loro

magagne. Se è vero che sei ancora dei nostri allora sappi che il Capo ne ha quasi abbastanza. È stato chiaro. Traghetta

solo un altro demone da questa parte e ti toglierà i poteri. Sai cosa accadrà se dovesse farlo, vero? Sempre che non

passi prima dall’altra parte, è chiaro. Ma se guardo questo macello mi convinco sempre di più che tu abbia già varcato

la soglia da un po’, amico.- Un boato ci fece voltare tutti sulla destra. Una villetta era

letteralmente esplosa in aria. I detriti arrivarono fino a noi, costringendoci a spostarci.

- È quasi l’alba.- osservò Alex. - Proprio così. È ora che ce ne andiamo tutti a dormire.-

Per la prima volta Alessandro posò il suo sguardo su di me, fissandomi curioso, come se mi avesse appena notata.

Fece un cenno con la testa verso di me. Manuel si spostò di lato per mostrarmi ai suoi “amici”.

Io stavo tremando come una foglia e non mi sarei stupita

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se avessi vomitato addosso a qualcuno di loro da un

momento all’altro. - È carina!- esclamò Celine - Non è vero, amore?-

- Certo, cara.- la assecondò - Come mai è qui?- chiese poi, piuttosto serio, quasi lo infastidisse la mia presenza.

- Devo chiederti il permesso?- domandò Manuel. - No, ma preferirei che lasciassi i Comuni fuori dalle mie

faccende. Non so se mi spiego.- poi lo vidi annusare l’aria con un certo interesse - Oh! Ma certo. Non avevo capito,

scusa.- Non capii perché, ma Manuel sorrise.

Alex scambiò un altro dei suoi sguardi enigmatici con Celine. Lei annuì divertita, poi si fece avanti tendendomi il

braccio. Non volevo stringere quella mano sporca di sangue, ma da un’occhiata di Manuel capii che non potevo

rifiutarmi, così l’afferrai con decisione. - Piacere di conoscerti.- disse nel tono più amichevole

che riusciva ad avere in quel momento - Manuel non ci ha mai parlato di te. Devi essere… nuova.- lo disse come se

stesse parlando di una macchina appena comprata e portata ad esibire agli amici.

Manuel intervenne avvolgendomi un braccio attorno alla vita - Lei è Iris.-

- Bel nome.- disse Alessandro porgendomi anche la sua di mano.

Celine si accoccolò al marito, che la strinse a se - Dobbiamo andare, amore. -

Il cielo si stava tingendo di arancione. - Ti aspetto a casa allora.- disse ancora Alex. Mi guardò,

immobilizzandomi - Tutti e due.- aggiunse. - Senz’altro.- rispose Manuel. - Adesso lasciala stare

però.- Sorrise sarcastico e appena distolse i suoi occhi dai miei,

sentii come se una pesante coperta si svolgesse dal mio

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corpo permettendomi di muovermi di nuovo.

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Alessandro Renzi!

Chi è? Alessandro è un ragazzo di ventisette anni, figlio di una

delle più illustri famiglie di Ancharos presenti sulla terra. Suo nonno e suo zio sono due dei sette membri del Gran

Consiglio della loro stirpe, nonché due dei rari discendenti di sangue puro del ceppo dei nocchieri ancora esistenti.

Gli Ancharos sono gli Angeli della Morte. Discendenti mortali della schiera degli Angeli che si ribellarono a Dio

scatenando una guerra che li vide perdenti contro le forze Celesti.

L’esercito ribelle, capeggiato dal migliore degli Angeli di Dio, per punizione fu scagliato sulla terra a servizio degli

umani, lontano dalla grazia divina. L’unione fra i mortali e queste meravigliose creature immortali diede origine a varie

stirpi di creature molto speciali, tra le quali i giganti, i Nephilim, e a generazioni di grandi stirpi di uomini ed eroi.

Gli Ancharos sono uno di questi ceppi ereditari. Discendenti semi-immortali di tre di questi Angeli ribelli,

sono stati preposti al servizio della Morte per garantire l’equilibrio delle forze energetiche sulla terra, decretando la

morte fisica di uno o più umani allo stremo della propria energia vitale.

Fin dall’antichità però, il terrore dell’uomo nella morte, ha portato alla nascita di una Setta di mortali che da allora

ha avuto come unico scopo nella vita quello di ostacolare il compito degli Ancharos per garantirsi l’immortalità fisica

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sulla terra.

La faida fra le due fazioni, col tempo, si è fatta sempre più agguerrita fino a portare entrambi i gruppi ad affrontarsi

in campo aperto in vere e proprie battaglie all’ultimo sangue.

L’odio di Alessandro nei confronti del Clan nemico deriva proprio da questa ostilità. Cresciuto in un periodo in

cui la sua gente era costretta a nascondersi al mondo per non rischiare la morte per mano di quei fanatici assassini, è

stato spesso costretto a rinnegare il proprio essere per non subire il disprezzo degli uomini che li additavano come i

peggiori dei Demoni. Di certo, non sarebbe arrivato a tanto se una sera,

rientrato a casa dopo mesi di prigionia e torture nelle celle del covo nemico, non avesse trovato il cadavere ancora

caldo di sua moglie in un lago di sangue, sgozzata come un animale all’età di soli diciannove anni.

Gli anni che seguirono alla sua morte avevano reso Alessandro una autentica macchina di morte pronta a fare

fuoco al più banale pretesto. Una bomba che era rimasta inesplosa per anni e che lo sarebbe rimasta ancora, se un

membro del Clan sotto copertura non avesse usato le sue debolezze per carpire i segreti della sua gente e ritorcere

quelle informazioni contro la sua famiglia e suo figlio, di neanche tre anni.

Erano passati quattro anni dal giorno in cui Alessandro aveva ucciso la traditrice e dichiarato guerra al Clan. Anni

di sommosse e battaglie intestine, che seminavano sempre più cadaveri lungo le strade della città.

Adesso era arrivato il giorno della resa dei conti però. Si sentiva pronto a mettere fine alla guerra una volta per tutte e

per farlo aveva reclutato un esercito di Demoni che in una sola notte era riuscito a dare alle fiamme un intero quartiere

e uccidere più di quattrocento persone.

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Raccapricciante, eppure era solo l’inizio.

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Dell’aggressione mi ricordo solo che stavo aprendo la

porta del mio appartamento, qualcuno alle mie spalle che mi premeva un panno umido sul naso e il bruciore alla gola

al petto. Sono certa d’aver perso i sensi poco dopo e da quel momento i miei ricordi ricominciano dall’istante in cui mi

svegliai in una sontuosa camera da letto. Se fossero trascorse ore o giorni dallo svenimento non avrei saputo

dirlo, scoprii solo qualche giorno dopo di essere rimasta priva di conoscenza per più di due giorni, ma questo non

era importante allora e non lo è adesso. La stanza era molto spaziosa, ad occhio mi era sembrata

circa un trenta metri quadrati. Mi spettavo di vedere sbarre alle finestre e porte chiuse, invece la grande porta-finestra

era aperta sul balcone e la porta della stanza oltre a non essere chiusa a chiave non aveva neanche uomini armati di

guardia a sorvegliare che non uscissi. I pilastri del letto a baldacchino erano in legno

magistralmente lavorato a motivi floreali. Non avevo mai visto un lavoro così minuzioso prima di allora.

Si vedeva la luna piena dalla finestra. Uscii sul balcone per dare un’occhiata intorno. Dopotutto non avevo idea di

dove fossi. La mia stanza affacciava su un vero e proprio parco

privato. La villa era enorme, di un bianco così candido da sembrare surreale, perché nessuna abitazione può

mantenere quel colore nel tempo. Ero al secondo dei tre piani della costruzione e sulla mia

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destra si vedevano altre due finestre illuminate dall’interno.

Per il resto, esclusi i lampioni in ferro battuto lungo i viali del parco, la villa era immersa nel buio. I casi erano due: o

era tardissimo e quasi tutti stavano dormendo, o stavo

guardando dal lato sbagliato della casa. In entrambi i casi, per la mia salute mentale, avevo bisogno di sapere che ora

era. Uscii dalla stanza cercando di scorgere qualche

movimento sospetto lungo il corridoio. Mi sembrava troppo assurdo che qualcuno si fosse preso la briga di rapirmi per

poi non preoccuparsi affatto di impedirmi di fuggire.

Ero stata alloggiata nell’ultima stanza in fondo a sinistra

del corridoio. Dalla curvatura delle pareti, si capiva che le stanze erano disposte in semicerchio. Ciò poteva significare

solo una cosa: la scala doveva trovarsi al centro del percorso. Non è né intuito né eccesso di acume, è

semplicemente una questione di proporzioni e armonia geometrica.

La scala che cercavo era enorme. I corrimano erano in spesso legno intagliato e il tappeto azzurro sui gradini era

così pregiato da mettermi a disagio. L’idea di dover calpestare quella cascata di stoffa meravigliosa mi

inquietava. Era talmente intatto da lasciare perfino ipotizzare che non ci avesse mai camminato sopra nessuno

prima ad allora. Mi schiacciai contro il corrimano per evitare di calpestare

il tappeto e presi a scendere un gradino dopo l’altro sulla sottile porzione di scala priva di rivestimento.

Raggiunto il piano di sotto mi ritrovai nell’androne dell’ingresso. Il portone d’entrata era dritto davanti a me.

Sulla sinistra si apriva un salone dal lusso imbarazzante. Un’eleganza che non avevo mai visto neanche in

televisione. Sulla destra invece, un arco nella parete delimitava una zona meno formale, ma non meno raffinata

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della casa. C’era un atrio di modeste dimensioni attorno al

quale si aprivano tre ambienti diversi: un’enorme cucina, una sala da pranzo molto spaziosa e un salotto classico,

compreso di divano, camino, televisore, stereo e quant’altro si può trovare nel salotto di un comune mortale.

Perché non sono scappata subito invece di ficcanasare in giro?

Perché il portone era chiuso a chiave. Dopotutto, come vidi dall’orologio a parete in cucina, erano le tre e mezza del

mattino. Il grande salone che ho nominato poco prima sembrava

più una sala per ricevimenti e banchetti e probabilmente era proprio in quelle occasioni che veniva utilizzato. C’era solo

una porta sul fondo, ma era chiusa, mentre una porta finestra scorrevole si affacciava sul lato posteriore del parco.

Pensai di uscire da lì, ma quando provai a raggiungere il salone, una violenta scossa al braccio mi annunciò che non

ero sola, infatti mi voltai d’istinto e vidi Alessandro tranquillamente appoggiato al passamano della scalinata.

Braccia conserte, vestito di tutto punto, come se fosse appena rientrato da un ricevimento di gran classe, mi

fissava curioso. - Vai da qualche parte?- chiese accennando un mezzo

sorriso. - Allora sei stato tu?- replicai un po’ accigliata.

- Non per i motivi che credi, tesoro.- - Non chiamarmi così.-

Scese gli ultimi quattro gradini, ma non si avvicinò oltre - Voi Comuni siete proprio degli ingrati, sai? Più vivo in

questo mondo e più mi convinco che il nostro lavoro non è poi così malvagio.-

- Siete gli schiavi della Morte, che cosa può esserci di più malvagio e distruttivo di questo?-

- Io non sono lo schiavo di nessuno!- puntualizzò

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contrariato - Semmai sono un suo…dipendente.-

- Fa differenza?- - Molta più di quanto immagini.-

- Che cosa vuoi da me? Credevo che Manuel fosse tuo amico, come hai potuto tradirlo così?-

Si trattenne educatamente dal ridermi in faccia - Manuel sa che sei qui.-

- Che cosa?- chiesi indignata. - È stato lui a chiedermi di portarti qui. È preoccupato

per te. La situazione con Demian sta degenerando e ha ritenuto più opportuno proteggerti fino a quando non

saranno riusciti a trovare una soluzione.- Mi rifiutavo di credere che Manuel fosse stato così

meschino da farmi prelevare in quel modo, foss’anche per proteggermi. Il rapimento era stato troppo violento perché

fosse un’idea sua.- È una menzogna! Manuel me ne avrebbe parlato. Gli sarebbe bastato spiegarmi la situazione e sarei

venuta qui di mia spontanea volontà.- Scosse la testa lentamente - Doveva sembrare un

rapimento. Demian non sa del mio accordo con Manuel. È convinto che abbia delle pretese su di te e finché crederà

questo non oserà affrontarmi direttamente, neanche se sei tu la posta in gioco.-

- Non ti credo!- - Fa come ti pare. Puoi perfino andartene se vuoi. Ho già

rispettato la mia parte dei patti. La tua vita non mi è più cara di quanto lo sia stata la mia in passato, quindi a te la

scelta. Se vorrai restare sarai la benvenuta in casa nostra, se no, tanti cari saluti, quella è porta.-

- Fai sul serio?- - Perché dovrei mentirti? Se proprio lo vuoi sapere, sei

più un peso che altro, ma devo questo piccolo favore al nostro Manuel e non gli negherò il mio aiuto per una

questione di così poco conto per me. Te lo ripeto, Iris, che

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tu resti o meno, a me non fa nessuna differenza. Non ti

pregherò di rimanere e non sprecherò il mio tempo per trattenerti con la forza. Questo è quanto. Quello che dovevo

dirti te l’ho detto ed ora, se vuoi scusarmi, andrei a letto, è stata una giornata lunga oggi e domani non sarà certo

migliore di questa.- mi diede le spalle per risalire la scala, ma a metà altezza si fermò di nuovo, pur senza voltarsi a

guardarmi - C’è il bambino che dorme di sopra, ti sarei grato se quando tornerai nella tua stanza stessi attenta a non

fare troppo rumore.- Non ribattei perché dal tono avevo intuito che si trattava

di un ordine più che di una semplice richiesta, ma prima che raggiungesse la cima della scala, non so neanche con quale

coraggio, dissi - Io so chi sei!- Si voltò lentamente per incrociare il mio sguardo. I suoi

occhi rilucevano di un rosso diabolico. Rabbrividii e se ne accorse, ma non mi mossi, non so se

per paura che potesse balzarmi addosso al primo movimento improvviso, per pura stoltezza, o per effetto del

potere che poteva e riusciva ad esercitare su di me. Manuel mi aveva raccontato qualcosa della sua storia. La

sua non era stata una vita facile fino ad allora. Il suo rancore era perfino giustificato, ciò nonostante, non potevo

ignorare la natura malvagia della sua vera identità. Mi aspettavo una qualunque reazione da parte sua alla

mia insolente affermazione, ma non fece niente, sempre che quello sguardo potesse definirsi niente.

Rimase fermo a guardarmi per qualche minuto. Si aspettava che aggiungessi qualcosa? Pretendeva che dessi un

senso a quelle parole? Non ne ho idea, ma per fortuna, quando si accorse che non avrebbe ottenuto altro da me, si

decise a parlare - Meglio! Molto meglio così. Almeno sono sicuro che non farai sciocchezze.- detto questo non mi

prestò più la minima attenzione e sparì nel corridoio sulla

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sinistra per raggiungere sua moglie, a letto, nella loro

camera accanto a quella del bambino. Non mi è mai piaciuto il buio, nonostante abbia da

sempre avvertito qualcosa di oscuro in me. Michele era spaventato da questo mio lato tenebroso, non era mai

riuscito a conviverci davvero. Non capiva perché mi elettrizzasse l’ignoto, il mistero sotto ogni sua forma e

sfaccettatura. Era preoccupato nel vedermi andare in contro ai miei peggiori incubi a braccia aperte.

Io non ho mai saputo dare una spiegazione razionale a questi miei comportamenti. So solo che una parte della mia

anima è strettamente legata al mondo delle ombre, nonostante l’altra parte di me ne sia terrorizzata, come se

già sapesse a cosa andrà incontro proseguendo per quella strada.

Da bambina mi affascinava ascoltare storie di vampiri, licantropi, streghe, demoni e quant’altro, anche se poi

trascorrevo notti e notti senza chiudere occhio per il terrore che, dal pavimento, qualche mano spettrale potesse

afferrarmi un braccio o un piede accidentalmente scivolato oltre il bordo del letto.

Non sono mai stata una credente molto praticante, ma una credente convinta sì, e anche se per un lungo periodo

sono stata in lite con Dio, nel profondo del mio essere non ho mai smesso davvero di credere.

Chissà cosa avrebbe pensato Michele in quel momento se mi avesse vista in quell’enorme casa, alle quattro del

mattino, circondata da ostili creature semi-immortali? Chissà se avrebbe tentato di portarmi in salvo da lì o se se la

sarebbe data a gambe per la paura? Rimuginavo su questo e molto altro, mentre mi aggiravo

furtiva fra i sentieri battuti del bosco del parco. Mi limitavo a percorrere quelli illuminati dai lampioni da esterno,

evitando a malincuore quelli tenuti completamente al buio.

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Se solo avessi avuto una torcia con me, probabilmente avrei

imboccato, incuriosita, proprio questi ultimi. L’intero parco era tenuto in perfette condizioni. Perfino il sottobosco dava

l’impressione di essere spazzato di tanto in tanto. Mi chiedevo quanti giardinieri avessero alle loro dipendenze

per poter curare l’intera area. Non meno di dieci, questo è certo.

Grilli, civette, ranocchiette e usignoli erano le uniche creature a tenermi compagnia. Doveva esserci uno stagno

artificiale o qualche fonte d’acqua per ospitare le piccole rane che gracidavano allegre nell’oscurità. Ma non avevo

incontrato niente di simile fino ad allora. Di sicuro doveva trovarsi nella porzione al buio del parco, e non molto

lontano, perché riuscivo a sentirle abbastanza vicine a me. La tentazione più grande fu quella di rientrare in casa a

cercare una pila a batterie, una candela, qualunque cosa che mi permettesse di infrangere le tenebre e scoprire cosa mi

nascondevano. All’improvviso mi accorsi che avrei potuto attendere che

facesse giorno, non mancava neanche molto all’alba. Così decisi di girovagare un altro po’ in attesa delle prime luci.

Stanca di camminare, non so a che ora perché non avevo con me un orologio, mi sedetti su una panchina di pietra

lucida. I grilli e le civette non cantavano più, ma le rane le sentivo ancora, e perfino più vicine, sulla mia destra.

Soffermandomi ad ascoltare meglio per capire esattamente da quale direzione giungesse il loro chiacchiericcio, sentii

anche una malinconica melodia provenire dalla stessa direzione.

Senza accorgermene, mi ero già alzata in piedi e avevo iniziato a fare i primi passi verso il folto nero del bosco. Il

braccio mi formicolava man mano che mi avvicinavo alla musica, segno che c’era qualcosa di pericoloso nelle

vicinanze, ma non ero affatto spaventata da ciò, o almeno

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mi sembrava di non esserlo in quel momento. I poteri di

Manuel avevano affinato la mia vista, permettendomi di vedere un po’ meglio anche di notte. Non erano immagini

distinte, più che altro macchie confuse, ma che almeno mi permettevano di non andare a sbattere contro il tronco di un

albero o inciampare in qualche masso. Inoltrandomi di molto nella boscaglia, riuscii a scorgere

una flebile luce non lontana, dritta davanti a me. La musica era cessata, chiunque fosse stato il proprietario della mano

che dava un senso a quel flauto, doveva essersi accorto della mia presenza ancor prima che io mi accorgessi della sua.

Il braccio era intorpidito da un misto di formicolio e fastidio quasi doloroso. Ero tentata di tornare indietro, ma

un’energia più forte del mio istinto di sopravvivenza mi spingeva in avanti.

Dopo qualche minuto di indecisione, scelsi di assecondare quel richiamo, ma appena mossi il primo passo

verso la luce, una mano mi afferrò inaspettatamente la spalla, terrorizzandomi al punto da gridare.

Riconobbi Alessandro anche al buio. Indossava solo il pantalone di un pigiama di seta e mocassini da camera. Dai

capelli scarmigliati dedussi che doveva essersi alzato dal letto in tutta fretta, ma i suoi occhi erano tutt’altro che

assonnati o stanchi. - Che ci fai qui?- mi chiese con tono duro.

Indugiai nel rispondere, perché non avevo idea se fosse più saggio mentire o dire semplicemente la verità - Non

riesco a dormire e stavo prendendo un po’ d’aria. Credevo si potesse.-

Mi scrutò a lungo, scuotendo la testa di tanto in tanto. - Non ti sto mentendo!- precisai.

- Non del tutto.- - E tu invece, che ci fai qui?-

Sorrise, uno dei sorrisi più belli che mi sia mai capitato di

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vedere - Mi sembra ovvio.-

- Ovvio?- - Potresti tornare nella tua stanza per favore? È quasi

l’alba.- - E con questo?-

- Preferirei che non uscissi all’aperto da sola di notte. Ricorda che Demian deve credere che sei mia prigioniera,

non mia ospite.- Ipocrita! - Perché non ammetti semplicemente che non

vuoi che veda cosa c’è dall’altra parte del bosco?- - Perché so che non ho bisogno di dirtelo e, soprattutto,

perché ho dato la mia parola che sarei stato quantomeno gentile con te, almeno finché rimarrai qui con noi.-

- Lo hai promesso a Manuel?- - No!-

- E a chi allora?- La mia insistenza non giovava molto al suo umore, e non

si preoccupò di non darlo a vedere - Torna nella tua stanza, Iris. Non costringermi a ripetertelo di nuovo. È

un’esperienza che vorrei risparmiarti.- - Che cosa c’è lì in fondo? Dimmelo e ti prometto che

non tenterò di scoprirlo da sola.- Sembrò pensarci un istante, ma finì per sbuffare e

scuotere la testa con decisione. Mi prese per mano e mi guidò con sé fino al sentiero illuminato, solo allora mollò la

presa e tornò a guardarmi. Non mi piacque quello che vidi, anche se non era la prima volta che lo vedevo in quello

stato. Il rosso acceso dei suoi occhi rendeva il suo sguardo malvagio e pericoloso, ma più di tutto la sua espressione era

resa maggiormente infernale dalle zanne che gli erano spuntate in bocca. Lo avevo visto così solo la notte in cui

aveva dato alle fiamme il quartiere degli Agenti del Clan. Mi aveva fatto paura allora, in compagnia di Manuel, ma in

quel momento, da sola con lui, mi sentii quasi mancare. Era

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la creatura più spaventosa e al contempo affascinante che

avessi mai incontrato. Ancora oggi non capisco come si possa essere stupendi e pericolosi allo stesso tempo.

Vedevo il suo torace nudo dilatarsi per accogliere ossigeno e ritrovare una parvenza di calma interiore.

Mi fissava, collerico, e io non riuscivo a pensare ad altro che a come sarebbe stato eccitante se mi avesse presa lì, in

quel preciso momento. Dal punto del parco in cui ci trovavamo, si riusciva a

vedere il retro della villa. La luce di una delle stanze al primo piano era accesa e mostrava la sagoma di una figura

esile alla finestra. - La tua signora ti tiene d’occhio.- osservai.

Alessandro rise, accentuando i deliziosi canini affilati - Non sta tenendo d’occhio me.- spiegò - Non si fida ti te.-

- E tutto ciò ti diverte?- non c’è niente di più pericoloso di una donna gelosa del proprio uomo, soprattutto se la donna

in questione ha molto poco di umano. Ripensando alla storia di Celine mi chiesi se il contagio

avrebbe mutato anche me come era successo a lei. Manuel non sapeva rispondere a questa domanda o forse non

voleva, ma non aveva mai nascosto la sua preoccupazione in proposito, anzi, diventava sempre più nervoso ad ogni

nuova manifestazione di potere da parte mia. - Andiamo!- disse Alessandro prendendomi per mano.

Appariva molto più tranquillo, per mia fortuna, anche se il suo aspetto era rimasto immutato.

Non ero stanca, non avevo sonno e non volevo tornare a chiudermi in quella stanza non mia, ma non riuscii a

rifiutarmi di seguirlo. Lo odio quando usa i suoi poteri su di me. Potrebbe costringermi a fare qualsiasi cosa e al

contempo farmi credere che sia la cosa giusta.

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23

Chiusa in quella stanza mi sentivo soffocare, e non per

via il caldo estivo, anche perché, in casa Renzi, l’aria condizionata rimaneva in funzione ventiquattrore al giorno

per mantenere la temperatura interna costante, in modo da non far ammalare il bambino. Ho sempre sofferto un po’ di

claustrofobia, e anche se la stanza che mi avevano assegnato era grande quasi quanto il mio intero appartamento, il solo

sentirmi in trappola mi faceva mancare il respiro. Frugare in giro era inutile, la camera era immacolata.

Ipotizzai perfino che fossi la prima ad abitarla. Dopotutto c’erano così tante camere in quella villa che non mi stupivo

all’idea che alcune non fossero mai state occupate prima. Mi sentivo confusa e sempre più disorientata mentre

girovagavo come un animale in gabbia. L’alba fu la mia salvezza. Le prime luci del mattino

fecero brillare le tende di seta preziosa e mi tornarono alla mente le parole di Alessandro quando mi aveva fatto

promettere che me ne sarei stata buona fino all’alba. Ero vincolata alla luce del giorno. Almeno finché fossi

rimasta lì con loro. Era l’unica condizione. - La notte non è stata creata per gli umani, ma per

permettere agli immortali di uscire allo scoperto senza pericolo.- aveva detto Alessandro prima di tornare a

dormire. Eppure nelle ultime settimane io avevo visto più

immortali di giorno che di notte. Prima di conoscere Manuel non credevo neanche che potesse esserci tutto

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questo movimento intorno a noi dopo il crepuscolo.

Andavo a lavorare tranquillamente di notte, convinta di dovermi difendere solo dai balordi fatti di carne e ossa. In

effetti era così, e lo sarebbe stato ancora, se Manuel non mi avesse mai infettata col suo sangue rendendomi uno dei cibi

più ghiotti del pianeta terra per gli immortali. La mia energia vitale è diventata così ricca che adesso mi vedevo

costretta a nascondermi perché i demoni mi davano la caccia per appropriarsene. E non si accontentano di una

piccola sottrazione, noooo, volevano tutto, e ciò implicava la mia morte. A fronte di tutto ciò avrei dovuto sentirmi

terrorizzata, invece non lo ero affatto. Non lo ero? Perché non ero spaventata all’idea di morire? C’era qualcosa di

pericoloso in me, di autodistruttivo. E mi faceva più paura constatare di non avere paura che pensare di essere

risucchiata viva da un demone. Stavo impazzendo, non c’erano dubbi in questo. Se non

fossi tornata al più presto alla mia vita d’un tempo, avrei dato di matto.

Mi catapultai fuori dalla stanza quando iniziai a sentire i primi passi in corridoio. Erano le sei e trenta. C’era

qualcuno fuori dalla mia porta, bisbigliavano, eppure riuscivo a sentirli come se stessero parlando a voce alta. I

miei nuovi poteri crescevano, ma, esclusa la vista, erano limitati alle ore del giorno, perché calato il buio svanivano

del tutto, lasciandomi quasi svuotata, sola. Uno dei due uomini fuori la porta era senza dubbio

Alessandro, discutevano di un ricevimento al quale, per quel che potevo sentire, lui non voleva partecipare. L’altro

anche se parlava piano, sembrava molto contrariato e non dimostrava di avere il minimo timore nel rivolgersi così ad

Alessandro. Senza badare troppo alla forma e alle buone maniere,

aprii la porta di scatto, ritrovandomeli davanti entrambi. Mi

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fissarono. Lo sguardo furente rivolto si di me, ma non ne

ero io la causa, quindi non ci badai. - Posso uscire adesso?- chiesi ad Alessandro.

- Fa come ti pare.- rispose brusco, poi tornò a concentrarsi sulla figura autoritaria davanti a sé.

Era un uomo di quasi cinquant’anni, solo un po’ più alto di Alessandro. Nonostante fossero appena le sei e mezza del

mattino, era già vestito di tutto punto. Pantaloni scuri, camicia e cravatta. Sul viso aveva un pizzetto accennato e

due baffetti sottili ad incorniciare le labbra. Gli occhi, di un marrone molto scuro, erano severi e poco rassicuranti.

Erano ancora bloccati davanti la mia porta quando feci per passare nel minuscolo spazio a disposizione per

sgattaiolare via. Nessuno dei due si spostò di un millimetro, anzi, continuarono a discutere, almeno fino a quando

Alessandro alzò la voce, inferocito, per intimare all’uomo di smetterla di assillarlo. Ebbe la brillante idea di gridare

proprio mentre ero incastrata fra lui e la parete. Raggelai, immobilizzandomi sul posto. Per un momento pregai Dio

di rendermi invisibile abbastanza da passare inosservata, ma Dio non ascolta mai le mie preghiere, infatti, Alessandro mi

guardò come se fossi uno scomodo intruso indesiderato. Però si spostò per lasciarmi passare, e io affrettai il passo per

raggiungere le scale e togliermi di mezzo prima che tutta quella rabbia si rivoltasse anche su di me.

C’era una strana atmosfera in quella villa. Molto pesante. La concentrazione di potere fra quelle mura era soffocante.

Oltre a Celine, intuii che Alessandro non fosse l’unica creatura semiimmortale ad abitare quella casa.

Scesi la scalinata centrale quasi di corsa. Sentivo delle presenze di sotto, presenze puramente umane e volevo

ricongiungermi al più presto ai miei simili. Il salone dei ricevimenti era deserto come lo avevo

lasciato la prima volta che l’avevo visto, mentre la sala da

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pranzo aveva il lungo tavolo semi apparecchiato per la

colazione e due donne si davano da fare con la lucidatura delle posate d’argento che posizionavano man mano

accanto ai piatti. Dalla cucina proveniva profumo di caffè, toast e brioche

calde. C’era posto per tredici a tavola. Compresa la servitù e la

security, quindi, in villa, ogni giorno dovevano convivere dalle venti alle trenta persone.

Impressionante! Ma chi era tutta quella gente?

- Buon giorno, signora.- disse una delle cameriere quando sollevò lo sguardo verso la porta dove ero ferma a guardare.

Dimostrava oltre trent’anni, ma era una donna ben curata e dai movimenti eleganti. L’altra, altrettanto a modo, non ne

dimostrava neanche venti. - Buon giorno.- risposi all’unisono con una voce alle mie

spalle. Mi voltai di scatto e vidi una donna distinta sui settant’anni che mi fissava con una certa curiosità.

Mi scansai su un lato per farla passare, ma lei non si mosse. Preferiva starsene ferma a guardarmi. Forse la

inorridivano i miei abiti strappati e i capelli legati senza alcuna cura. Avrei voluto dirle che la maglietta me

l’avevano rovinata gli scagnozzi di suo nipote, perché se facevo due più due riuscivo solo a pensare che quella donna

fosse la nonna di Alessandro o quanto meno una zia. Avrei anche voluto dirle che non mi avevano di certo dato il

tempo di prendere il beauty con le mie cose prima di trascinarmi lì con la forza, altrimenti mi sarei data una

sistemata prima di presentarmi in pubblico. Non dissi niente di tutto ciò, mi stava mettendo troppo a disagio e io quando

mi sento osservata divento un riccio taciturno e imbarazzato.

Per fortuna arrivò Celine a liberarmi da quell’imbarazzo.

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Non aveva l’aria allegra e divertita che le avevo visto sul

viso la notte che ci conoscemmo. Era preoccupata. Salutò con garbo la donna, mostrandosi perfino un po’

sottomessa alla sua autorità. - Che sta succedendo là su?- le chiese, continuando a

tenere lo sguardo su di me. Sembrava volermi spogliare con gli occhi, e non mi sarei stupita se ci fosse riuscita davvero.

- Lo sa com’è fatto Alex.- rispose - È il signor Roberto che sembra non averlo ancora capito. Più continuerà ad

insistere e più non otterrà niente da lui.- Roberto! Manuel mi aveva detto qualcosa di questo

Roberto, quando mi aveva parlato di Alessandro. Era suo padre e tra lui e il figlio non correva buon sangue. Vecchi

rancori, aveva spiegato Manuel, ma senza aggiungere di più.

Il pettegolezzo è peccato, dice. Stronzate!

Uno dopo l’altro arrivarono tutti gli altri. Nessuno si premurò di presentarmeli, fui costretta a capire da sola nomi

e gradi di parentela carpendo le informazioni dai loro discorsi.

Facemmo colazione alle sette e trenta in punto, ma prima la Signora ordinò a Celine di prestarmi qualche

vestito per presentarmi alla sua tavola abbigliata in modo appropriato. Già non sprizzava simpatia, ma con quella

mossa perse definitivamente ogni speranza di entrare nelle mie grazie.

Compresa me, gli altri dodici intorno alla tavola erano: Tommaso Renzi, il capostipite della famiglia: Sergio e

Roberto Renzi, i suoi figli; Emilia, sua moglie. Alessandro, Celine e il loro bambino, Thomas; Beatrice, la seconda

moglie di Roberto e madre di Stefano, fratellastro di Alessandro. Infine, ultime solo in ordine di presentazione,

Patrizia, moglie di Sergio e le sue due figlie gemelle Sara e

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Daniela.

Non sono superstiziosa di solito, ma…dico…Tredici a tavola?

A colazione si parlò del più e del meno, questioni familiari di ordinaria amministrazione. Nessuno mi chiese

niente, mi rivolsero a turno qualche sguardo furtivo, ma nessuno si prese la briga di parlare con me. Se erano decisi a

fingere che non fossi lì con loro, ci stavano riuscendo alla grande.

Thomas era uno splendore. Aveva i colori di sua madre, ma lo sguardo magnetico l’aveva ereditato tutto da

Alessandro. Bellissimo già a sei anni, avrebbe fatto strage di cuori in futuro.

Fra tutti, Celine fu quella che mi prestò maggiore attenzione. È vero che si limitava a fissarmi, ma lo faceva in

un modo così intenso da inquietarmi. Se la signora Emilia mi spogliava con gli occhi, Celine mi divorava.

Ben presto, uno dopo l’altro, lasciarono la casa per dare inizio alle varie occupazioni quotidiane.

Rimasta da sola, la casa mi sembrò ancora più grande e sinistra. Cosa si aspettava Manuel da me? Per quanto ne

sapevo quella diatriba avrebbe potuto protrarsi per anni. Credeva davvero che rinunciassi alla mia vita per

assecondare un suo capriccio, una sua paura? Mi tentò a lungo il pensiero di tornarmene a casa mia,

approfittando dell’assenza di Alessandro, ma non avevo idea di dove fossi e senza un’auto o un passaggio, non avrei

saputo come tornarci. Affacciata alle vetrate della sala ricevimenti, notai un

gazebo che non avevo visto col buio. Era rivestito sui cinque lati con un telo sottile per tenere via gli insetti. All’interno si

scorgeva un salottino in vimini con soffici cuscini bianchi. Probabilmente ci si riunivano nel pomeriggio per

prendere il tè.

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Spinta dalla curiosità di frugare in giro in cerca di altri

dettagli sfuggiti durante la notte, uscii dalla portafinestra sul retro.

Non c’erano nuvole in cielo, ma il sole del mattino non era ancora troppo intenso. Il momento del giorno ideale per

fare una passeggiata nel parco. Mentre mi avvicinavo al gazebo, scorsi una piccola figura

in movimento accovacciata sull’erba, fra i divani di vimini e il tavolo. La seta non mi permetteva di identificarla, così

entrai per curiosare. Era Thomas, seduto a giocare con due eserciti di

soldatini. Sorrise, appena mi vide. Un sorriso che avrebbe sciolto

anche il ghiaccio più antico. - Ciao, piccolo.-

- Buon giorno, signora.- rispose con educazione. Povero tesoro - Come mai non ci sono i tuoi amichetti

qui a giocare con te?- - Sono andati in vacanza con i loro genitori.-

- E tu?- Mi scrutò come se avessi parlato in un’altra lingua.

- Tu ci vai mai in vacanza con i tuoi?- Finalmente capì e scoppiò a ridere - Noi andiamo sempre

in vacanza. Vediamo sempre tanti posti nuovi. L’ultima volta siamo stati dove ci sono le tigri e i leoni.-

- In africa?- - Sì, e dopo abbiamo visto le piramidi e i faraoni morti in

Egitto.- - Avete visto le mummie.-

- Sì.- - E ti hanno fatto paura?- Solo a me poteva venire in

mente di fare una domanda così stupida. E infatti… - No, perché? A te fanno paura? Quelli sono solo i corpi,

le loro anime non sono più lì.-

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Il piccolo già la sapeva lunga. Sarebbe stato difficile

prenderlo in castagna. Soprattutto perché arrivò una donna a disturbare la nostra innocua chiacchierata. Sulla

cinquantina, capelli mossi, di media lunghezza, tinti di castano scuro ramato, un pochino in carne, ma non troppo.

La carnagione olivastra e i lineamenti gentili la rendevano, tutto sommato, una donna molto piacente.

Chiamò Thomas dalla porta-finestra sul retro, ma il bambino non sembrava voler far scoprire il proprio

nascondiglio. A dimostrazione di ciò, si nascose sotto uno dei divani, subito dopo aver sbarazzato il prato dai

soldatini, ora riposti diligentemente in una piccola sacca di tela dalla tinta mimetica.

Per non tradire la sua ritirata, uscii dal gazebo per farmi vedere dalla donna, che si stava dirigendo proprio verso di

noi. - Buon giorno.- la salutai.

- Buon giorno, Signorina.- - Ho sentito che sta cercando Thomas.-

- L’ha visto?- - Qualche minuto fa l’ho visto giocare lì intorno.- e le

indicai il bosco. La donna sembrò vacillare un momento quando i suoi

occhi si posarono in quella direzione, poi disse - Non credo proprio, Signorina. Deve aver visto male.-

- Le dico che era lui.- - Le assicuro che è impossibile.-

- Perché mai? Ai bambini piace giocare nei boschi.- - Le ripeto che non è possibile.- disse con maggiore

fermezza. - Perché no?-

- Perché Thomas non gioca mai lì. Lo conosco da quando è nato. Senza offesa, ma credo proprio di saperne

più di lei che è qui da qualche ora.-

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- Cosa c’è di così pericoloso in quel bosco da non poter

permettere a un bambino di sei anni di giocarci?- - Non c’è proprio niente lì. Dico solo che a Thomas non

piace, quindi quello che ha visto non poteva essere lui. Probabilmente lo ha confuso con uno dei giardinieri.-

Si stava innervosendo e non me la sentii di indagare oltre. Non con lei almeno. Thomas mi sembrava più incline

a parlare, quindi non dovevo fare altro che allontanarla da lì. - Probabilmente.- convenni - Ha ragione. Adesso che ci

penso bene, quello che ho visto aveva i capelli molto più scuri di quelli del bambino.- feci una breve pausa, sperando

che credesse che ci stessi pensando su, poi aggiunsi - Io sono qui da un’oretta e, se quello che ho visto non era lui, non mi

sembra di averlo visto nei dintorni.- Non credo di essere stata molto convincente in

quell’occasione. La donna mi fissò con una certa diffidenza, tuttavia prese comunque per buona la mia versione, o

almeno finse di farlo, e rientrò in casa. Dopo aver atteso che svanisse completamente alla vista,

tornai al gazebo da Thomas, ma non c’erano tracce del bambino.

- Perfetto!- bofonchiai. Quel furbetto doveva aver approfittato del diversivo con

la sua tata per sgattaiolare via.

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24

I boschi di notte fanno sempre un po’ paura, perché

siamo danneggiati psicologicamente dalle fiabe ascoltate durante l’infanzia. Ci si aspetta sempre di veder sbucare un

lupo, un orso, o chissà quale altra spaventosa creatura della notte. Perfino l’innocuo verso di un gufo, che se la canta e

se la suona nella più totale indifferenza, ci fa venire la pelle d’oca. Semplice istinto o paranoia?

Mentre avanzavo lungo il sentiero del bosco del parco di villa Renzi, mi ripetevo quasi ad alta voce che non c’erano

lupi né orsi lì, che il buio non era altro che una condizione fisica della rotazione terrestre e in quanto tale non poteva

farmi alcun male. Camminavo molto lentamente, sempre pronta a darmela

a gambe al primo rumore sospetto. Ma se avevo così tanta paura, che cosa ci facevo lì da sola alle due del mattino?

Eppure Alessandro era stato chiaro. Non mi voleva lì, soprattutto di notte. Non mi voleva lì da sola.

Le parole della tata di Thomas, Margherita, mi avevano incuriosito davvero fino a quel punto? Ero davvero disposta

a rischiare la vita per placare la mia insana curiosità? A quanto pare sì.

Dovevo aver perso la ragione in quel periodo, non potrei pensare altrimenti. Un esercito di demoni mi stava dando la

caccia per risucchiare la mia energia vitale intrisa di poteri divini e io invece di nascondermi, me ne andavo a zonzo da

sola in un bosco infestato da chissà quali creature spettrali. Forse il contagio mi infondeva una naturale

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consapevolezza verso il sovrannaturale, perché al contrario,

conoscendomi, sarei impazzita dal terrore. In circostanze normali, infatti, non mi sarei neanche sognata di

avventurarmi volontariamente fra quella strana gente senza mettermi a gridare in preda al panico.

Mi sentivo come il topo catturato dalla melodia del pifferaio magico. Dovevo sapere.

Continuai a camminare, sempre seguendo la musica che

si faceva pian piano più vicina, fino a tornare ad intravedere la fioca luce immersa fra gli alberi del bosco.

Riconosciuto il punto esatto in cui la notte prima ero

stata trattenuta da Alessandro, mi fermai per guardarmi

intorno e accertarmi che nessuno tentasse di nuovo di ostacolare la mia avanzata. La musica si fermò con me, ma

al suo posto mi invase una folata di vento caldo. Una pura ondata di Potere, che mi penetrò fin dentro il midollo.

Indietreggiai di un passo, senza riuscire a trattenere un tremito che mi scosse il corpo.

Alla prima seguirono subito una seconda e una terza ondata, sempre più profonde, soffocanti, e infine un grido

straziante riecheggiò nel bosco, rimbalzando di tronco in tronco e il braccio iniziò a farmi così male che me lo portai

al petto per trovare sollievo stringendolo con l’altra mano. Quanta sofferenza era racchiusa in quel lamento. Un

dolore che spazzò via dal mio cuore tutta la paura. Ripresi ad avanzare senza ulteriori indugi. Quasi

correvo, per raggiungere al più presto quel grido d’aiuto. Non dovetti correre molto però, perché presto raggiunsi

quello che sembrava essere il centro perfetto del bosco. Una spaziosa area circolare, priva di alberi, con al centro una

singolare costruzione in pietra a forma di torre cilindrica, alta poco meno di un abitazione di due piani. Non c’erano

accessi visibili alla torre, anche se l’ingresso era reso ugualmente proibitivo da un fossato scavato tutto intorno e

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pieno di acqua. Alcuni merli sulla sommità erano stati

scheggiati dalle intemperie, ma già di per sé, l’intera costruzione appariva alquanto antica, probabilmente

edificata nel tardo medioevo. Solo sul secondo dei due piani, la torre era fornita di quattro alte e strette feritoie

rettangolari, e proprio da quella rivolta verso di me proveniva la luce che vedevo dal fondo del bosco.

Girai attorno alla torre più di una volta per cercarne l’ingresso, ma senza successo.

Non poteva provenire da lì l’urlo che avevo sentito. Nessun essere umano sarebbe riuscito a passare attraverso

quelle strette fessure. Un rumore improvviso fra i cespugli mi fece voltare di

scatto, allarmata. Una volpe sbucò dal fondo, scomparendo velocemente nelle tenebre della notte.

Tirai un sospiro di sollievo mentre tornavo ad occuparmi della torre, e fu in quel momento che con la coda

dell’occhio scorsi un ombra muoversi all’interno e attraversare la feritoia, nascondendo la luce per un istante.

L’ondata di Potere tornò insieme al dolore al braccio. Lo spavento fu tale e improvviso che per qualche minuto

rimasi impietrita con lo sguardo fisso nello stesso punto. Credo perfino di aver smesso di respirare per un po’.

L’unica cosa certa era che chiunque ci fosse lì dentro, non poteva avere niente di umano e, soprattutto, riuscivo a

sentirlo distintamente, non c’era niente di buono nel suo animo.

- Un demone!- esclamai a me stessa, ad alta voce. La parola “Demone” fece sgorgare dalla torre una nuova

raffica di ondate calde. L’ululato di un lupo risuonò poco distante e tutta una

serie di fruscii sinistri invasero il bosco di spaventosi rumori. Senza pensare, mi misi a correre per lasciare subito quel

posto. Li sentivo correre dietro di me, chiunque essi fossero.

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Sentivo il loro fiato sul collo e non avevo il coraggio di

voltarmi a guardare. Non volevo vedere. Per niente al mondo avrei voluto vedere.

Correvo tanto da sentire i muscoli delle gambe bruciare per lo sforzo. La paura, più dello sforzo, mi mozzava il fiato

e se non fosse stato per la mia nuova vista, avrei finito col fracassarmi contro un albero a causa del buio pesto che

normalmente non mi avrebbe permesso di muovere un solo passo senza inciampare o sbattere da qualche parte.

Sentivo i loro passi avvicinarsi, le loro zampe calpestare il fogliame accumulato al suolo.

- Manuel!- gridai. Per quanto potessi correre non trovavo l’uscita. Vedevo il

chiarore delle luci dei lampioni del viale principale, ma più tentavo di raggiungerle più sembravano distanti. E quelle

cose continuavano a corrermi dietro, e si facevano sempre più vicine.

- Manuel!- gridai ancora più forte. Il cuore mi martellava il petto. Mi bruciava la gola. Il

braccio mi faceva impazzire. Non potevo resistere ancora per molto, perfino la corsa stava rallentando per lo sforzo.

Presto mi avrebbero raggiunto. Lo sapevo, me lo sentivo. Avrebbero solo dovuto attendere che cedessi alla fatica, e io

lo sapevo che sarebbe bastato un niente, lo sapevo che se mi fossi fermata anche solo un istante a riprendere fiato sarebbe

finita. Eppure avevo bisogno di riprendere a respirare in un modo o nell’altro. Vedevo sempre più sfocato. Per la paura

non mi ero neanche accorta di stare piangendo a dirotto. Vedevo ormai soltanto qualche ombra scura e indistinta,

tanto che inciampai rotolando a terra. Ecco, è finita!

Chiusi gli occhi così forte da sentire male, nell’attesa di sentire quelle creature infernali sul mio corpo. Ero talmente

sconvolta che riuscivo solo a pregare Dio che facessero in

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fretta, che non mi facessero soffrire a lungo.

Non passò che qualche secondo da quando ero caduta a terra, che sentii un ruggito di inaudita ferocia molto vicino a

me. Non volevo guardare il mostro che stava per divorarmi, eppure aprii gli occhi lo stesso. Una lucente pantera nera era

acquattata accanto a me in posizione di attacco. Manuel.

Ringhiava verso qualcosa davanti a sé, e quando sollevai appena la testa per guardare vidi solo una densa e informe

nuvola di fumo sospesa a mezz’aria. Non osai muovermi oltre, ma rimasi a guardare Manuel

farsi avanti verso il nemico e balzargli addosso con l’agilità propria dei felini. Appena lo raggiunse però, la nuvola si

diradò spandendosi nell’aria fino a scomparire del tutto. Mi alzai a sedere, sempre con lo sguardo fisso su di lui,

che mi guardava con sguardo carico di collera. Mi ringhiò perfino, poi si incamminò lungo il sentiero, fermandosi

dopo qualche passo per guardare indietro e accertarsi che lo seguissi. Mi scortò fino alla porta finestra della villa dalla

quale ero uscita - Torna subito dentro.- lo sentii dire rabbioso nella mia mente, dopodiché prese le sembianze di

corvo e volò via lasciandomi lì inebetita come una stupida. Mi svegliai disturbata da un trambusto proveniente dal

piano terra. La sveglia sul comodino segnava le sei e mezza del mattino. Avevo dormito appena due ore, però non mi

sentivo assonnata, ero stranamente vigile e pronta ad affrontare una nuova giornata.

Il vociferare al piano di sotto si faceva sempre più agitato. Anche concentrandomi, non riuscivo proprio a

cogliere i loro discorsi, anche se ne riconoscevo le voci alla perfezione.

Mi infilai addosso la t-shirt e i jeans che avevo buttato a terra prima di coricarmi e uscii dalla stanza per ascoltare

meglio.

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Era la prima volta che sentivo Manuel usare un tono così

severo. Alessandro non era da meno, però sembrava più controllato o, quantomeno, più incline a controllare la

rabbia del momento. - Avresti dovuto stare più attento.- diceva Manuel.

Dalla mia postazione, accovacciata sui gradini della scala principale per non farmi notare, potevo vederli entrambi, in

piedi nella sala dei ricevimenti. - Non sono la balia di nessuno, io. Ti avevo promesso

che l’avrei ospitata in casa mia per tenerla lontana da Demian, ma non mi sembra proprio di averti mai promesso

protezione o altro.- - Come posso occuparmi di Demian se qui dentro è

perfino più pericoloso che fuori. Non avrei chiesto il tuo aiuto se fossi stato certo di poter risolvere la questione da

solo, ti pare?- Stavano litigando a causa mia. Manuel riteneva

Alessandro responsabile per l’aggressione di quella notte, quando invece avrebbe dovuto prendersela solo con me.

- Devo chiuderla a chiave in camera sua, Manuel? È questo l’aiuto che vuoi da me? Devo mettere delle guardie

armate fuori dalla sua porta?- - Devi solo tenerla lontana da quel maledetto.-

- Le ho detto di non andare nel bosco, non mi ha ascoltato. Non ti aspettare che mi metta a fare il suo cane da

guardia, perché ho già ben altre questioni di cui occuparmi, senza dover pensare anche a una mortale ficcanaso.-

- Le tue questioni possono attendere.- rispose secco, Manuel - Anzi, sarebbe anche il caso che ci dessi un taglio

con questa storia. Li hai puniti abbastanza. Hanno capito la lezione e non è necessario portare a termine una missione

quando il nemico ha alzato bandiera bianca.- - Non ti immischiare in questa faccenda.- sbraitò - Erano

i patti: io tenevo i demoni lontani da quella lì e tu non

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ficcavi in naso nelle mie faccende. Prendere o lasciare.-

- Come fai a dormire dopo quello che fai? Come riesci a guardarti allo specchio?-

- Ci riesco benissimo, e ci riuscivo ancora meglio prima del tuo ritorno.- tacque un istante, la sua espressione da

astiosa si fece tremendamente seria, poi aggiunse - Perché sei tornato, Manuel? Perché, dopo tutto questo tempo?-

Infine la rabbia riaffiorò nei suoi occhi - Chi ti ha mandato? - gridò - Quella ragazza è solo un incidente di percorso,

vero? Tu sei tornato per un altro motivo. Tu sei qui per me, Manuel. Ammettilo! Arioch ti ha ordinato di tornare per

opporti a me, non è così?- i suoi occhi acquistarono lentamente la loro malvagità - Abbi almeno il coraggio di

ammetterlo.- gridò furioso. - E se anche fosse?- rispose Manuel col suo stesso tono -

Ti meraviglieresti se fosse così? Guardati! Guarda cosa sei diventato. Stai scivolando pericolosamente nel baratro

dell’Inferno e non fai niente per frenare la tua caduta. Sì è vero, Arioch mi ha ordinato di tornare, ma io l’ho fatto solo

per aiutarti, non per annientarti. Ero tuo amico in passato e lo sono ancora, ma non posso continuare a permettere che

continui a falciare vite umane solo per vendetta. Questo proprio non posso farlo.-

Alessandro si mosse, stizzito, per raggiungere la vetrata. Manuel lo seguì di qualche passo, scomparendo anche lui

dalla mia vista. Mi stavo sporgendo un po’ in avanti per non perderli di vista, ma una voce parlò silenziosa alle mie

spalle. - Non dovresti essere qui, anzi, io al posto tuo per un po’

eviterei di farmi vedere in giro.- Mi voltai. Era Stefano. - E perché mai?- chiesi a voce

bassa come la sua. - Perché in questo momento la tua presenza non è molto

gradita.-

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- Non è gradita ad Alessandro, vorresti dire.-

- Beh!- sorrise - Puoi biasimarlo? Dopo averti ospitato a casa nostra, si deve anche sentire accusare di averti quasi

lasciata ammazzare l’altra notte, quando lui ti aveva espressamente chiesto di stare lontana dal bosco, soprattutto

da sola.- Mi rimisi a sedere sul gradino, pensando al pericolo reale

che avevo corso. Era la prima volta che mi rendevo davvero conto della gravità di quello che avevo fatto.

- Se non fosse stato per i tuoi nuovi poteri, non saresti mai riuscita a fuggire.- continuò - Per non parlare

dell’intervento tempestivo di Manuel. Non ti rendi neanche conto di quanto sia stata vicina alla morte stanotte, mia

cara.- Feci di no con la testa fra le mani.

- Sei stata una vera sciocca a credere che Alessandro sarebbe corso di nuovo in tuo aiuto.-

- Non l’ho mai creduto.- replicai. Si mise a sedere accanto a me - E allora si può sapere che

cosa ti è passato per la testa? Se vuoi morire dillo subito, risparmieresti un sacco di rogne a tutti.- si rimise in piedi e

tornò di sopra senza aggiungere altro. Dalla sala dei ricevimenti non giungeva più alcun

rumore. Che se ne fossero andati mentre ero distratta a parlare con Stefano? Mi sporsi per controllare, ma non

vedendo niente, scesi qualche altro gradino. - Non mi sono mai piaciute le spie.- sentii dire ad

Alessandro, a voce abbastanza alta da far capire che stava parlando con me - Vieni avanti.-

Ormai ero stata scoperta, quindi mi raddrizzai, sbucando fuori dal passamano della scalinata. Ora riuscivo a vederli

entrambi a ridosso della vetrata che dava sul parco sul retro. Manuel mi guardò e inarcò le sopracciglia scuotendo la

testa. - Credevi davvero che non ti avessimo sentita? Allora

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non ti ho insegnato proprio niente.- disse esasperato.

- Io…veramente…non…mmmm- - Ce la fai a inserire qualche verbo fra un mugugno e

l’altro?- protestò Alessandro, continuando a darmi le spalle. Avanzai fino a trovarmi quasi al centro della stanza. Non

osavo fare un passo di più. Percepivo un’intensa concentrazione di potere nell’aria, e ne ero spaventata.

Volevo provare a scusarmi per averli messi tutti in difficoltà, però Manuel non me ne diede il tempo.

Mi fissò con severità e disse - Raccogli le tue cose. Ce ne andiamo.-

- Io…- - Non te lo sto chiedendo, Iris.- mi interruppe alzando la

voce. - Non vengo da nessuna parte con te in questo stato.- mi

ribellai. Alessandro rise. Rideva di me o di Manuel?

Probabilmente di entrambi. - Te la sei scelta proprio bene.- affermò - Docile come

piace a te.- Manuel rispose con un ruggito soffocato, che divertì

Alessandro ancora di più. - Sarei intervenuto comunque.- disse - Volevo solo darle

una lezione e lasciare che capisse quanto può essere pericoloso fare di testa sua.-

Manuel mi rivolse uno sguardo sempre più accigliato. Conoscendolo, chissà quante me ne avrebbe dette se ci

fossimo trovati da soli. - Per me può restare.- continuò Alessandro - Ti ho dato la

mia parola che ti avrei aiutato e lo sto facendo, ma a modo mio.-

- È solo… un’umana.- precisò Manuel, pronunciando

l’ultima parola con un certo disprezzo - I tuoi modi sono troppo pericolosi per lei.-

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- Jury è sotto controllo.-

- Non mi è sembrato proprio.- rispose Manuel - Ha troppo potere sulla sua mente.-

- Le basterà rimanere a distanza di sicurezza da lui e non le accadrà niente.-

- È un Ribelle, Alessandro. È troppo forte per quelli come te. Lascia che ce ne occupiamo noi.-

- No!- - Tu non sei uno di loro.-

- Per quanto possa sembrarti ripugnante, nelle mie vene scorre il loro stesso sangue, Manuel. Ho delle responsabilità

nei loro confronti.- - Non è vero. Le anime della tua gente sono state lavate

dal peccato. Portando avanti il compito che vi è stato

assegnato avete la possibilità di fare ammenda. Vi è concesso il perdono, e tu, con la tua inutile faida stai

mandando a monte il sacrificio di tutti quelli che prima di te

hanno lottato per ottenerlo.- - Tu non…-

- … Non riuscirai a tenerlo rinchiuso lì dentro per sempre.- lo interruppe Manuel - Troverà il modo di uscire,

in un modo o nell’altro e cosa accadrà se tu non sarai qui per impedirlo? Te lo sei chiesto? Tu non sei immortale,

Alessandro.-

- Altri, dopo di me, si occuperanno di lui, e per fare questo devo portare a termine la mia missione ed eliminare

il Clan fino all’ultimo dei suoi membri.- - Non ci riuscirai mai. Non ne hai il tempo.-

- Me lo farò bastare.- - Alessandro!-

- Adesso basta!- strillò - Non voglio più sentire una parola. Non vuoi aiutarmi? Bene! Farò da solo, ma almeno

smettila di provare a farmi cambiare idea, perché non accadrà mai.-

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- In questo caso allora non mi lasci altra scelta, lo sai,

vero?- Una strana luce rossastra filtrava dal pugno chiuso di

Alessandro - Vorrà dire che avrò un nemico in più fra i tanti.-

- Non puoi vincere contro di me. Non puoi uccidermi.- - Ma posso farti male.- gli ricordò con cattiveria - Tanto

da farti maledire la tua tanto cara immortalità.- Manuel tornò a fissarmi.

Ero così presa da tutta la discussione che non capii subito che le minacce di Alessandro erano andate a segno, quindi

notando l’espressione dura di Manuel, credendolo ancora in collera con me dissi - Avanti, parla!-

Questo fece tornare in secondo piano tutto il resto e riaffiorare in superficie la mia situazione - Non ti azzardare

a parlarmi in quel modo.- mi rimproverò - Dopo quello che hai fatto…- non continuò, si stava accalorando troppo. Lo

dimostravano i ruggiti soffocati che gli nascevano istintivamente dalla gola. Riuscivo a percepire il suo potere

crescere e rafforzarsi intorno a noi. - Non è il caso di perdere la calma, adesso.- intervenne

Alessandro - È stato solo un piccolo incidente.- si voltò a guardarmi - Non è vero?-

Annuii. - Perfetto!- riprese - Adesso che ci siamo chiariti

possiamo chiudere questa discussione.- si tirò distrattamente indietro i capelli, scoprendo il volto per intero. La sua

bellezza mi mozzava il fiato. Manuel si accorse che lo stavo fissando, ma fece finta di

niente, anche se sul suo viso notai un barlume di gelosia. Non che avesse niente da invidiargli, ma erano così diversi

l’uno dall’altro… Era una gara di fascino fra tenebre e luce. Sarebbe stato

come scegliere fra il tramonto e l’alba, fra sole e luna, ma è

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impossibile se la tua anima è attratta dalla luce quanto dal

buio. Per quanto ne sapevo la nostra copertura era saltata. Non

avrebbe avuto alcun senso restare ancora lì, ma secondo Alessandro, i seguaci di Demian non erano abbastanza forti

da affrontare lui e la sua famiglia e Manuel, suo malgrado, era d’accordo con lui.

Non dovendomi più preoccupare di nascondere la loro complicità, accompagnai Manuel fino alla moto

parcheggiata accanto alla grande fontana di pietra al centro dell’atrio asfaltato sul davanti della villa.

- L’hai fatta lucidare?- dissi osservando con stupore il nero scintillante del veicolo.

- Non ci provare, Iris.- mi rispose con freddezza - Non credere che basti così poco per farmi dimenticare quello che

hai fatto.- - Ma perché,- protestai - che cosa ho fatto di tanto grave?

Credevo di essere al sicuro qui.- Inaspettatamente, Manuel mi afferrò con forza per le

spalle e mi voltò verso di lui in modo che potessi guardarlo dritto negli occhi. Il viola delle sue iridi era più acceso e

luminoso del solito. - Finché Demian non la smetterà di darti la caccia, non c’è posto in terra dove tu possa sentirti al

sicuro.- Dannazione!

Manuel si accorse che quelle parole mi avevano turbata e cercò di rassicurarmi - Stiamo facendo tutto il possibile per

rintracciarlo. Voglio provare quantomeno a parlare con lui e convincerlo a rinunciare a questa follia.-

- Perché Samuel non lo ha eliminato quando ne ha avuto l’occasione?- protestai. - Lo ha lasciato scappare, ben

sapendo quello che ti aveva fatto e quello che dopo avrebbe fatto a me.-

- Ha avuto le sue ragioni se si è comportato così. Non sta

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a te giudicare il suo operato.-

Che ipocrita - Voi tutti, invece, potete giudicare il mio, vero? Sarete anche immortali, Manuel, ma non siete

infallibili.- Montò in sella e infilò il casco, lasciando la visiera alzata

- Diventi sempre più insolente, lo sai? Questo tuo modo di fare inizia ad irritarmi davvero.-

Sentivo le mascelle contratte dall’ira che si stava impossessando di me - Io irrito te?- gridai - Ma se da

quando ho avuto la sfortuna di incontrarti non hai fatto che procurarmi problemi.-

- Sei stata tu a venirmi addosso con la macchina.- precisò.

- Solo perché sei sbucato dal niente e hai attraversato la strada senza la minima attenzione.-

- Stavo solo facendo il mio lavoro.- - Ah, sì!-

- Sì!- - Credevo che il tuo lavoro fosse eliminare i demoni che

il tuo amico sta traghettando sulla terra, e non andare a caccia di cinghiali.-

- Niente è ciò che sembra, Iris.- rispose serio. Lo sfogo aveva esaurito ogni energia. Per quanto potessi

gridare, per quante accuse potessi rivolgergli, Manuel avrebbe sempre avuto una risposta valida per ritorcermele

contro. Era visibilmente arrabbiato con me, eppure qualcosa mi

diceva che le mie scappatelle notturne non avevano niente a che fare con la sua collera. Che non digerisse la mia

umanità era indiscutibile quanto un’operazione matematica, ma c’era qualcos’altro ad innervosirlo quella mattina,

qualcosa di molto più umano, qualcosa che il solo pensarlo mi faceva venire i crampi allo stomaco.

- Smettila di guardarmi in quel modo.- mi rimproverò.

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Non mi ero neanche accorta di avere ancora lo sguardo

fermo su di lui. Abbassai gli occhi dal suo viso, ma il resto del suo corpo mi appariva altrettanto attraente. Mi sentii

avvampare le guance. - Iris?-

- Quando potrò tornare a casa mia?- chiesi per guidare subito il discorso su altro.

- Spero presto. Non mi fido di Jury.- Era la seconda volta che sentivo pronunciare quel nome,

quindi chiesi - Ma chi è questo Jury?- - Non è importante che tu lo sappia. Cerca solo di tenerti

lontana da lui.- - Come faccio a evitarlo se non so chi è?-

Con un movimento troppo veloce perché lo vedessi, mi mise un braccio intono alla vita e mi attirò a sé. Si sfilò il

casco e con estrema delicatezza posò la sua fronte sulla mia. Profumava di buono, ed io in quel momento, fra le sue

braccia, avrei rinunciato alla mia umanità pur di fermare il tempo in quel preciso istante.

- Promettimi che starai attenta.- disse dolcemente. - Te lo prometto.- risposi meccanicamente, con un filo di

voce appena. - Non posso fermare Demian se devo preoccuparmi di

proteggere te. Lo capisci questo, vero?- Annuii. Avevo il cuore così in accelerazione che non

sarei riuscita a parlare neanche se avessi voluto aggiungere di più.

Con la stessa delicatezza, si staccò dalla mia fronte, ma solo per posarci le labbra con un tenero bacio.- Ti porterò

molto presto via da qui. Te lo prometto.- Non riuscii a trattenere un sorriso - Sarò qui ad aspettarti

quando tornerai.- Sorrise a sua volta e mi lasciò andare per riinfilare il

casco, questa volta però tirò giù anche la visiera, segno che

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stava per andare via, infatti mise in moto, ma prima che

potesse muoversi gli afferrai una mano e ne baciai il dorso soffermandomi qualche istante più del necessario con le

labbra sulla sua pelle liscia.

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25

La sagoma scura rimase immobile davanti la feritoia.

Nonostante fosse buio pesto e l’interno della torre fosse illuminato, la fessura della finestra era così stretta da non

permettermi di metterne a fuoco la figura. Sentivo i suoi occhi fissi su di me, benché i miei sensi

non più completamente umani non riuscissero a percepirlo. Il suo potere aleggiava nell’aria come fitta nebbia invisibile,

me lo sentivo strisciare addosso, ma senza realmente riuscire a toccarlo.

Come per le notti precedenti, aveva smesso di suonare subito dopo aver raggiunto il suo scopo, trascinarmi con la

forza abbastanza vicino a lui da poter manipolare la mia mente con la sua.

Un brivido freddo mi risalì all’improvviso lungo la schiena, facendomi rabbrividire.

Manuel. Pensai del tutto inconsapevolmente. Mi voltai di

scatto a cercarlo, e come immaginavo, lo vidi appollaiato sul ramo più basso di un albero di quercia dietro di me.

Jeans firmati, camicia stirata e scarpe da ginnastica. Sembrava pronto per un appuntamento.

- Che ci fai lassù?- - Ti tengo d’occhio.-

- Mi spii vorrai dire.- Si strinse nelle spalle per manifestare la propria

indifferenza alle mie accuse. - E ti sei messo così in tiro solo per me?- chiesi

ammiccando. Sapevo che quei modi di fare lo mettevano a

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disagio, così approfittai dell’occasione per una piccola

vendetta privata. - Ero fuori a cena.-

- Compagnia noiosa, se hai preferito venire fin qui a farmi da balia.-

- Affatto!- rispose secco, molto molto seriamente - Mi ha chiamato Stefano per avvisarmi che Alessandro è fuori con

Celine, mentre tu, come al solito facevi di testa tua.- guardò in direzione della sagoma alla finestra - o meglio…di testa

sua.- - Quand’è che la smetterai di rimproverarmi per qualsiasi

cosa? Non ci riesci proprio a scendere da quel piedistallo, vero? Avrò anche i miei difetti, ma neanche tu sei perfetto,

tesoro.-

- è vero, ma ci vado molto vicino, mentre tu, mia cara, per

quanto possa lavorarci, ne resterai sempre troppo lontana.- - Sei proprio stronzo quando ti ci metti, lo sai?-

Rise di gusto - Vedo che hai capito al volo quello che intendevo dire.-

Ho sempre detestato che si ridesse di me, e Manuel lo faceva troppo spesso. Si prendeva gioco della mia fallibile

umanità.

Rideva ancora quando feci un passo in avanti per allontanarmi da lui. Fu una mossa sbagliata però, perché

saltò subito giù dalla quercia e in un istante me lo trovai addosso. Fu così veloce che non riuscii a vederlo.

Non rideva più adesso, era spaventosamente serio - Che cosa credi di fare?-

- Voglio solo andare via.- riuscii a balbettare. - Ma quella è la direzione sbagliata.-

- Tanto a te che cosa importa?- Mi guardò senza rispondere, probabilmente la risposta

che gli frullava nella mente in quel momento era più velenosa del silenzio.

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- Non avrei mai dovuto portarti qui.- disse con una certa

rabbia nella voce - Jury è troppo pericoloso per te.- - Io sto benissimo.-

- Sì, per ora, ma cosa succederà se la prossima volta né io né Alessandro saremo qui per fermarti?-

- Non ci sarà una prossima volta.- - Oh, sì che ci sarà. Non puoi resistere al suo richiamo.-

- Mi credi così debole?- - Conosco lui, Iris. Conosco la sua forza.-

- Ma se è così pericoloso, perché invece di tenerlo rinchiuso qui non lo eliminate come fate con tutti gli altri?-

- Perché lui non è come tutti gli altri. È un Ribelle, un’Immortale.-

- E’ come te, Rachael e gli altri?- - Esattamente.-

- Ma è malvagio.- - è…- si fermò un istante a pensare - è semplicemente…

diverso.- Quell’ultima parola fu accompagnata da una folata di

vento caldo che gli mosse i capelli all’indietro. - Era lui?- chiesi dopo aver avvertito l’entità del suo

potere. Manuel annuì - Andiamocene da qui.- disse porgendomi

la mano - Ci siamo trattenuti anche troppo.- Lo scrutai un momento in viso, sorpresa - Hai… hai

paura di lui!- - Ma che sciocchezze! Certo che no. Non potrebbe farmi

alcun male.- - Ma potrebbe farne a me.- osservai - Tu hai paura che

possa fare del male a me. -

Perché ostinarsi a nasconderlo? Perché non poteva semplicemente ammettere che gli piacevo? Non ci sarebbe

stato niente di male, in fondo. I sentimenti non sono qualcosa che si può scegliere di non provare. Quando

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accade, accade e basta, e per gestirli basta avere la maturità

per ammetterlo, senza troppi giri di parole. Come poteva pretendere di nasconderlo a me? C’ero

anch’io quella mattina nel bosco quando gli avevo rubato un bacio senza la più piccola difficoltà. Non aveva risposto

al bacio, questo è vero, però non se ne era neanche sottratto. - Hai mai baciato una donna, Manuel?- chiesi

all’improvviso, dando voce e forma ai miei pensieri. Lui trasalì, com’era da immaginarsi, rimanendo un

momento a guardarmi sorpreso, perplesso. Rispondere a domande così dirette non è mai stato il suo

forte. - Non hai molte risposte fra le quali scegliere.- incalzai.

- Perché lo vuoi sapere?- - Neanche rispondere a una domanda con un’altra

domanda e fra le tue scelte.- Il viola già intenso dei suoi occhi, si infiammò nel buio. -

Sei sempre la solita.- mi rimproverò. Una nuova raffica di potere mi si avvolse addosso,

schiacciandomi il vestito sulla pelle, ma non ne era Jury l’artefice, era Manuel.

- Voglio solo sapere se sono stata io la prima.- - E sarai anche l’ultima.- disse fissando l’ombra scura alla

finestra della torretta. - Addirittura!-

Mi fissò dritta negli occhi - Ascolta, Iris. Quel giorno non ho detto niente solo perché conosco quale effetto la nostra

presenza crea in voi mortali, ma non credere che l’episodio possa in qualche modo ripetersi senza ripercussioni come la

prima volta.- - Balle!- sbottai - Lo volevi tanto quanto me. L’ho sentito

benissimo. Mentre mi stringevi fra le braccia il tuo potere mi scivolava dentro e io riuscivo a sentire… riuscivo a sentirti.-

- Hai proprio una fervida immaginazione.-

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- La stessa che usi tu per negare quello che è successo

davvero.- - Non è successo niente.- ribadì alzando un po’ la voce.

Ed io ne approfittai per infliggere il colpo di grazia - Credevo che mentire fosse peccato.-

Alla parola peccato reagì come non gli avevo mai visto

fare prima. Mi ringhiò contro con la ferocia tipica di un predatore pronto all’attacco. I canini erano diventati vere e

proprie zanne, gli occhi… fuoco liquido su di me. Balzai all’indietro terrorizzata e lui fece altrettanto.

Il corpo gli tremava tutto, emanando ondate di potere

nero contro di me. Indietreggiò piano, un passo dopo

l’altro, fino a toccare con la schiena il tronco della quercia alle sue spalle. Nonostante riuscissi a notare lo sforzo che

faceva per riprendere il controllo di sé, non riusciva a smettere di digrignare i denti contro di me. Un ruggito

soffocato gli usciva dalla gola di tanto in tanto, come se cercasse la strada per liberarsi in tutta la sua ferocia.

Le unghie, ora artigli affilati, erano conficcate nella corteccia del tronco per tenersi saldo a qualcosa che gli

impedisse di saltarmi addosso. - Scappa!- riuscì a dire fra un ringhio e l’altro. Gli occhi

chiusi dallo sforzo di resistere. Sentivo il cuore in gola, una persona normale fugge di

fronte al pericolo, ma il mio istinto di sopravvivenza è difettoso. Rimasi immobile ad osservare Manuel perdere

totalmente il controllo. La pantera che è in lui si materializzò da una nuvola di vapore che trascinò via da

Manuel ogni residuo di umanità. Era enorme, proprio come l’avevo vista la prima volta che era saltata alla gola di quel

demone lacerandogli la carne a morsi. -Maledizione!- imprecai.

Un ruggito si spanse nel bosco, spaventando gli uccelli,

che volarono via con un gran frullare di ali.

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Se solo fossi riuscita a dire qualcosa, forse sarei riuscita a

calmarlo. Se, se, se… troppi se. Quasi mi fossi appena destata da uno stato ipnotico,

tornai improvvisamente a percepire i miei muscoli. Fremevano per l’eccesso di adrenalina nel sangue.

- Scappa, stupida!- sentii risuonare nella mia testa. La

paura per il pericolo aveva aperto i contatti uditivi fra me e lui.

- Dove vuoi che vada?- gridai in preda al panico, poi, con la coda dell’occhio scorsi la torretta sulla mia sinistra. Senza

neanche pensarci mi precipitai in quella direzione e nello

stesso istante in cui mi mossi, sentii uno spostamento d’aria

accanto a me. L’istinto animale di Manuel lo aveva fatto partire all’inseguimento della sua preda.

Riuscii appena in tempo a tuffarmi nell’acqua del fossato, che circondava per intero la piccola costruzione, e a

raggiungere l’altra sponda. - Via da lì.- gridò Manuel nella mia testa.

- Sta lontano da me!- urlai a mia volta, inferocita.

Il fossato, che in un primo momento aveva frenato il suo inseguimento, divenne in un lampo niente altro che un

misero salto. Appena mi accorsi che Manuel stava per saltare dalla mia parte mi schiacciai contro la parete

circolare della torre, il più lontano possibile da lui. Ciò non gli impedì di saltare, ma appena le zampe toccarono la

pietra della piattaforma, una nuvola di fumo scuro si manifestò fra me e lui, assumendo pian piano la forma

umana di un uomo. Un giovane dai capelli lunghi di un grigio ghiaccio quasi luminoso. Tratti perfetti, tipici di ogni

immortale che mi era capitato di vedere fino ad allora. Indossava una tunica corta, nera con motivi in oro. Sandali

di cuoio come il cinturone allacciato in vita. Un fodero vuoto per ospitare una spada molto simile a quella che

avevo visto usare da Samuel e Rachael, pendeva allacciato

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alla cintura.

Jury! Pensai, e lui sembrò avermi letto nel pensiero,

perché si voltò lentamente a guardarmi, pur senza perdere

d’occhio Manuel. La sua espressione tetra mutò per un

istante in un accenno di sorriso. I suoi occhi… Dio onnipotente! Le iridi dei suoi occhi erano mercurio liquido.

Mai visto niente di simile. Un nuovo ruggito di Manuel fece distogliere la sua

attenzione da me. Mi voltai anch’io a guardare la pantera, ma non c’era

più. Al suo posto c’era una creatura straordinariamente

divina. Ogni fascio di luce della sua aura emanava pura

immortalità. -Manuel!- sussurrai, quasi col timore di scatenare

l’irreparabile solo pronunciando il suo nome. Manuel mi guardò, rivestito di una tunica corta come

quella di Jury, ma bianca. Sandali di cuoio, cinturone e fodero con all’interno la sua spada. Ali bianche,

immateriali, enormi, rilucevano alle sue spalle. Pur con lo sguardo fisso su Jury, mi tese una mano.

Dovevo afferrarla o dovevo solo limitarmi a raggiungerlo? Avevo paura a toccare quell’arto luminoso.

Tesi il braccio per afferrare la sua mano, ma Jury lo frenò afferrandomi il polso bagnato. Mollò la presa

all’improvviso, come se avesse appena impugnato dei carboni ardenti, e, infuriato, digrignò i denti mostrando

canini appuntiti tanto quanto quelli di Manuel. Fu allora che Manuel balzò in avanti e lo afferrò per la gola,

mandandolo a sbattere con la schiena contro la parete della torre.

- Non t’azzardare più a metterle una mano addosso. Se ci riprovi te la strappo via a morsi.-

Lo sguardo di Jury trasudava disapprovazione e disprezzo per quelle parole. Eppure non rispose alle

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minacce.

- Iris?- disse Manuel - Via da qui.- Colse un mio momento di esitazione come ribellione per

quello che era accaduto poco prima e strillò - Obbedisci!- Feci come mi aveva detto, rituffandomi in acqua per

tornare dall’altra parte del fossato, mentre lui continuava a tenere Jury fermo per la gola.

Ero ancora abbastanza spaventata da mantenere aperti i contatti con la voce di Manuel, infatti lo sentii sussurrare -

Sta lontano da lei.- - Potrei dire la stessa cosa.- rispose. La voce di Jury era

quanto di più ipnotico avessi mai sentito - Solo un attimo fa stavi per sbranarla. Se non fossi intervenuto io cosa sarebbe

successo? Non prendiamoci in giro, fratello, accanto a te è in pericolo tanto quanto con me.-

- Io riesco a controllarmi, tu no. Per questo sei qui.- - Non ancora per molto.-

- Halixos è ancora dalla nostra parte. Non ti libererà mai.-

La risata ipnotica di Jury risuonò nella mia testa direttamente dall’udito di Manuel - Posso accontentarmi di

molto meno, credimi.- Vidi Manuel sbattere con forza Jury contro la parete di

roccia - Ultimo avvertimento: Sta lontano da lei!- sillabò per

dare maggiore enfasi alle sue parole. Ero così attenta a quello che accadeva da non sentire

l’arrivo di Alex. Mi posò una mano sulla spalla e rimase fermo e in silenzio ad osservare tutta la scena. La sua

presenza mi tranquillizzò al punto da interrompere il contatto con Manuel. Usai i miei nuovi poteri per ascoltare

a distanza, ma ora parlavano in una lingua a me sconosciuta. Potevo quindi solo vederli, ma non avevo idea

di cosa si stessero dicendo. Alex invece li capiva benissimo e da come scuoteva la testa di tanto in tanto, potevo solo

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intuire che non si stessero dicendo niente di buono.

All’ennesimo scossone di Manuel, Alessandro mollò la presa sulla mia spalla e con un semplice salto da fermo,

atterrò sulla piattaforma della torretta con una facilità raccapricciante. Si avvicinò ai due e tolse con decisione Jury

dalle mani di Manuel. Disse qualcosa ad entrambi in quello stesso strano linguaggio che stavano usando. Quando

terminò il suo discorso, Jury accennò un mezzo inchino e sparì avvolto nella nuvola di fumo che lo aveva condotto lì,

mentre Manuel, mugugnando parole incomprensibili, si dissolse nel nulla. Non glielo avevo mai visto fare prima e

ne rimasi shockata. Alessandro mi riaccompagnò nella mia stanza e appena

mi lasciò da sola scoppiai in un pianto incontrollato. Non riuscivo a credere che Manuel fosse stato capace di

disdegnare con tanta freddezza il nostro bacio. Eppure ero così stupidamente certa d’aver percepito qualcosa di più

della semplice indifferenza che aveva poc’anzi proclamato. Possibile che si fosse trattato solo di un abbaglio?

Col cavolo! No che non lo era. Voleva rinnegare tutto per sentirsi la coscienza pulita?

Che lo facesse con se stesso, ma non sarebbe di certo riuscito ad intrappolare anche me nella sua trama di

inganni.

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26

Mi svegliai di soprassalto. Uno dei soliti incubi, pensai.

Da quando avevo messo piede in quella villa non ero più riuscita a chiudere occhio senza vedere o udire qualcosa di

inquietante, per quanto fosse solo nella mia testa. Raramente riuscivo a ricordare il soggetto dei miei incubi,

ma la tetra sensazione che mi lasciavano era sufficiente a spaventarmi tanto da non desiderare scavare a fondo per

riportarli alla memoria. Guardai fuori dalla finestra – avevo lasciato aperto le

tende per far passare un po’ d’aria in quella notte afosa. Fuori era ancora buio, eppure non poteva mancare molto

all’alba, visto che era già molto tardi quando ero rientrata. Uscii sul balcone e mi accomodai sulla poltrona di vimini

vicino alla ringhiera. Da lì riuscivo a vedere il parco in tutta la sua maestosità, illuminato a zone da costosi lampioncini

da giardino. Tra le zone in ombra c’era anche la porzione di bosco in cui sorgeva la prigione di pietra di Jury. Mi

chiedevo quale grave reato gli fosse costata quella crudele ed eterna reclusione.

Che fosse davvero così pericoloso? Quanto lo era più degli altri?

Avevo visto sia Manuel, che Alessandro all’azione e non mi erano mai sembrati degli agnellini indifesi. Il pensiero

che Jury potesse essere perfino peggiore, mi fece rabbrividire.

Per distogliere l’attenzione da quei brutti pensieri, distolsi lo sguardo dal bosco e lo posai sul cielo stellato.

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Le illuminazioni, seppur modeste, e l’imminente arrivo

dell’alba, le nascondevano in parte alla mia vista, ma qualcosa non riuscì a sfuggirmi: un’ombra in movimento

che sembrava provenire dal tetto. Rimasi a lungo a fissare immobile quello stesso punto,

senza più scorgere il minimo movimento. E se mi fossi sbagliata? Pensai. E se fosse un demone? Pensai

subito dopo, alzandomi di scatto dalla poltrona per rientrare

in stanza e sbarrare le porte. Non che una porta chiusa e quattro mura potessero essermi di grande aiuto contro

quelle creature infernali. Sarebbe stato molto più saggio

correre a chiamare Alessandro, piuttosto, ma non mi

andava di fare la figura della codarda visionaria davanti a lui, quindi non lo feci. Tuttavia, pensare a quell’essere

diabolico in agguato fuori dalla mia finestra mi mandava fuori di testa. Avrebbe dovuto spaventarmi, invece mi

scoprii profondamente infastidita, al pari di quando so di avere un grosso ragno nelle vicinanze e non posso stanarlo

perché si è rifugiato in una fessura troppo stretta. Io detesto i ragni. Da bambina ne ero terrorizzata, mi bastava sapere

di averne uno in casa per togliermi il sonno. Crescendo però, ho imparato ad affrontare il problema da sola e, pur

continuando ad averne timore, repulsione, il più delle volte finisce con la morte del ragno per avvelenamento da

insetticida. Nel corso degli anni ho imparato che l’unico modo per

smettere di avere paura di qualcosa è eliminarla, e quello stesso istinto di sopravvivenza mi scaturì dal profondo

anche quella mattina. Se volevo dormire sonni tranquilli quel demone, o qualunque cosa fosse quella creatura lì

fuori, doveva essere eliminata in modo definitivo. Per quanto ne sapevo, tutti i demoni dell’inferno mi

stavano dando la caccia, a causa del potere del mio sangue misto. Volevano nutrirsi della mia energia vitale ricolma di

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puro potere divino. Tuttavia, sapevo anche che questa mia

condizione non sarebbe mai cambiata se prima non avessi trovato un modo per liberarmi di quell’inumano veleno che

mi infettava il sangue. Non volevo passare il resto della vita a nascondermi da

loro. Proprio no! Quindi tanto valeva imparare a convivere

con la consapevolezza di dover passare il resto dei miei giorni a guardarmi le spalle.

E cosa si fa quando il tuo esercito è spacciato e il nemico avanza? Cerchi di arrecare quantomeno qualche danno e

trascinartene all’inferno con te più che puoi.

Attraversai tutta la stanza a grandi falcate e posai

l’orecchio alla porta per essere sicura che non ci fosse nessuno nei paragi. Non si sentiva volare una mosca, così

feci girare molto lentamente la chiave nella serratura per non fare rumore e abbassai la maniglia con la stessa

attenzione. Il corridoio era illuminato anche a quell’ora del mattino. È da questi piccoli dettagli che si vede chi ha

problemi di soldi e chi no. Feci capolino dalla stanza guardandomi a destra e a sinistra. L’intero piano sembrava

deserto. Proprio quello che speravo. Se Alessandro o chiunque altro mi avesse scoperta a dare la caccia da sola a

un demone mi avrebbe presa per matta prima e rinchiusa in qualche stanza dopo, sorvegliata a vista fino all’arrivo di

Manuel. Sapevo che la villa era di tre piani, le camere da letto

erano al primo, ma dov’erano le scale che portavano al secondo piano?

Doveva pur esserci un modo per accedere ai piani superiori, anche perché mi rifiutavo di credere che tutti gli

abitanti di quella casa ci arrivassero volando. Benché non mi stupiva pensare a questa eventualità per Alessandro e

Celine - e solo perché glielo avevo visto fare personalmente -, non riuscivo a pensare lo stesso per Stefano e gli altri

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componenti della famiglia. Eccezion fatta forse

esclusivamente per il capofamiglia. Il dottor Tommaso Renzi mi inquietava forse anche più di Alessandro.

Ma allora dov’erano quelle dannate scale? Mi guardai inutilmente intorno, alla fine, rassegnata,

scesi al piano terra per andare a prendere qualcosa da bere in cucina.

Da sola, la cucina era più grande di tutto il mio appartamento. Bastava questa infantile consapevolezza ad

accrescere il nervosismo che stavo cercando di reprimere dopo che era sfumato miseramente il mio piano di

sterminio. Presi solo un bicchiere d’acqua fresca di frigorifero. C’era

del latte, vari cartoni di spremute di frutta, ma in quel momento desideravo soltanto spegnere velocemente quello

strano fuoco che mi ardeva nello stomaco. Era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere, non mi ero mai

sentita così prima di allora. Era come se dentro di me qualcosa di mostruoso mi incitasse ad armarmi e

combattere, come se la sua unica valvola di sfogo fosse uccidere. Ero spaventata di me stessa, ma allo stesso tempo,

quasi inconsapevolmente, continuavo a guardarmi intorno in cerca di un’arma.

Che fosse tutto lo spirito di morte che aleggiava in quella casa la causa di tutto? In fin dei conti alloggiavo nella

dimora di uno dei più potenti signori della morte che la terra abbia mai ospitato. L’unico angelo mortale in grado di

avere un controllo diretto sui demoni dell’inferno. Forse il mio nuovo sangue percepiva il suo influsso di morte e ne

rimaneva condizionato al punto da cancellare perfino la paura di affrontare una di quelle creature crudeli da sola.

Prima di lasciare la cucina afferrai uno dei grossi coltelli appuntiti nel cassetto sotto il lavandino. Non che una

semplice arma umana potesse uccidere un immortale e

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tanto meno un demone mortale, ma gli avrebbe

quantomeno fatto abbastanza male da farlo fuggire. Questo era quello che speravo almeno.

Cos’è che aveva detto Manuel sul metodo di mettere fuori uso un demone?

Ah sì: “Ci sono tre modi per difendersi da un demone: croce

benedetta, acqua santa e ostia consacrata.”

Era stato anche molto chiaro nello specificare che i demoni non possono essere uccisi in quanto creature

immortali, perfino quelli dotati di carne e sangue umano potevano perdere solo la loro vita terrena, ma rimanere pur

sempre attivi come demoni di puro spirito. I demoni di spirito però sono più facili da mettere fuori gioco, perché

possono essere rispediti all’inferno, nel quale resteranno imprigionati fino a quando un Ancharos non li ricondurrà

volontariamente o no nella dimensione terrena. Solo la stirpe dei Saphiros, gli Angeli come Manuel,

Samuel, Rachael e Daniel hanno potere sufficiente ad

eliminare in modo definitivo un demone. Sono così potenti da riuscire a disintegrarne l’aura malefica, così che il loro

spirito non riesca più a rigenerarsi e tornare in vita – se di vita si può parlare-.

Io non sono un Ancharos e tanto meno un Saphiros, benché scoprissi sempre più di frequente di possedere nuovi

poteri, eppure mi stavo tormentando il cervello per trovare un modo per salire sul dannato tetto di quella villa e

affrontare da sola un Demone che, molto probabilmente, avrebbe fatto di me carne da macello prima ancora che

riuscissi ad accorgermi della sua presenza. O il contagio di Manuel era così contro natura da

portarmi lentamente alla follia o il mio corpo ne era intriso a tal punto da farmi diventare sempre più simile a lui,

perfino nelle intenzioni. Il suo scopo divino, dopotutto era garantire agli umani una vita il più possibile priva di

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condizionamenti esterni da parte del Male.

I Demoni sono sulla terra per tentare l’uomo a compiere le azioni più ignobili per allontanarlo dalla grazia divina e

nutrirsi dell’energia di quelle anime impure per accrescere il proprio potere. Molti Angeli, nel corso dei millenni, si sono

uniti alla stirpe dei Caduti, o Ribelli che dir si voglia, corrotti da quello stesso potere e una libertà di azione che

Dio non gli avrebbe concesso. Di duecento immortali inviati sulla terra, solo in quattro non si erano lasciati

tentare, e in quattro soltanto avevano in mano le sorti dell’intero genere umano. Per fortuna, dai duecento erano

nati discendenti mortali o perlomeno semiimmortali che avevano dato vita a nuove stirpi di uomini e donne dotate di

poteri divini in grado di fornire un aiuto concreto ai quattro Saphiros. Ognuna di loro aveva un compito specifico da

assolvere e tutte facevano capo a due importanti figure: Arioch e Marioch, i due Angeli preposti fin dalla creazione

al controllo e alla gestione di tutte le cose terrene, animate e inanimate.

Manuel mi aveva raccontato di come circa tre anni prima, Alessandro si fosse ribellato al loro comando,

sfidandoli apertamente. Quel gesto gli era costato caro, ma nonostante tutto, da quell’episodio, Alessandro si era

scavato un varco verso le fiamme dell’inferno. C’era qualcosa di malvagio nei suoi occhi. Io non avevo

avuto modo di conoscerlo prima dell’Incidente, ma mi era

stato assicurato da Manuel, che un tempo quegli stessi occhi avevano brillato di una luce diversa.

Lasciai la cucina con il coltello in mano. Non avevo ancora ben chiaro in mente cosa farne, ma di sicuro se

qualcuno di quei Dannati avesse osato mettermi una mano addosso, sarebbe stato costretto a raccoglierla a terra con

l’unica mano rimastagli attaccata al braccio. Non avevo possibilità di vittoria, ma questo non significa

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che non avrei lottato per provarci.

Attraversai di nuovo la sala da pranzo, esaminando attentamente le ombre intorno a me. Sembrava tutto

tranquillo, eppure sentivo strisciarmi addosso un potere così denso da solleticarmi la pelle. Mi accostai schiena al muro

per non dovermi guardare le spalle e proseguii in quel modo fino alla grande scala all’ingresso. Sentivo l’acciaio nel mio

pugno farsi sempre più caldo. Il potere mi sfiorava, come raffiche di vento morbide, ora un braccio, ora la guancia,

ora la nuca, facendomi venire la pelle d’oca. D’un tratto non mi sentii più così coraggiosa. Riuscivo a

tollerare il pensiero di uno scontro a mio assoluto svantaggio contro una creatura immortale, ma dover

affrontare un nemico invincibile che non ero neanche in grado di vedere era davvero troppo per me.

Guardavo dritto davanti a me. Fissavo il portone chiuso calcolando quanto tempo avrei impiegato a raggiungerlo se

qualcosa di ostile fosse sbucata fuori all’improvviso. Tre, quattro secondi al massimo. La chiave era infilata nella

serratura – qualcuno doveva essere rientrato da poco, tanto da non aver ritenuto necessario togliere la chiave vista l’alba

imminente. – però di sicuro doveva essere chiuso, quindi ai quattro secondi avrei dovuto aggiungerne almeno altri

quattro alla mia fuga. Otto, dieci secondi. Troppi per salvarti la vita. Davvero troppi.

Mentre riflettevo se fuggire dal portone e sperare che Manuel o Alessandro corressero in mio aiuto come sempre

o tentare di tornare nella mia stanza, scorsi con la coda dell’occhio un’ombra avvicinarsi alla mia sinistra. Mi voltai

in quella direzione, ma non vidi nulla, proprio come sul terrazzo. Nei brevissimi istanti che seguirono, impugnai con

maggior forza il coltello d’acciaio, presi un paio di respiri profondi e mi precipitai su per le scale nella speranza di

riuscire a raggiungere la mia stanza prima che quella cosa

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mi prendesse.

Ero certa che me la sarei sentita piombare addosso da un momento all’altro. Già sentivo i suoi denti affondare nella

mia carne, il sangue sgorgare abbondante sulla pelle, il dolore lancinante. Tuttavia non accadde nulla, nonostante

mi voltassi continuamente per accertarmi di non averlo alle calcagna. Eppure ero sicurissima che fosse il suo il fiato che

sentivo strisciarmi sul collo. La porta della mia stanza era ancora mezza spalancata

come l’avevo lasciata uscendo. Mi infilai dentro, lasciando che sbattesse alle mie spalle, prima di far girare due volte

per intero la chiave nella serratura. Avevo ancora i palmi delle mani contro la porta quando la sentii vibrare contro la

pelle, scossa dai colpi leggeri di qualcuno che stava bussando.

Fu così improvviso che mi spaventai, indietreggiando di scatto per allontanarmi il più possibile dalla porta, ma poi

sentii una voce familiare provenire dall’esterno, una voce amica.

- Iris, va tutto bene lì dentro?- - Sto bene!- risposi a fatica, con la voce affannata dalla

corsa e dalla paura. E Alessandro dovette accorgersene perché chiese con

gentilezza - Posso entrare?- Esitai, non potevo avere la certezza che lì fuori ci fosse

davvero Alex e non un demone che stava camuffando la propria voce per trarmi in inganno.

Stavo diventando sempre più sospettosa. - Iris!- disse - Tranquilla, sono io.-

Mi fermai, raggelata - Che motivo hai di precisarlo? Chi altri dovresti essere?-

- Non fare la sciocca. Lo so che sei spaventata, ma io sono l’ultima persona che devi temere in questo momento,

credimi. E adesso, per favore, apri questa porta.-

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Indietreggiai - No!-

Seguì un tetro silenzio dall’altra parte, perfino più snervante della paura stessa.

Per un momento arrivai a credere che ci avesse rinunciato e fosse andato via, ma quando stavo per trovare

il coraggio di avvicinarmi alla porta per sincerarmene, riprese a parlare - Se fossi il Demone che hai avvertito in

casa poco fa, non avrei difficoltà ad abbattere la porta a mani nude, una porta di legno come questa, per quanto

resistente, non è che un sottile foglio di carta per noi. Che senso avrebbe starmene qui a perdere tempo. L’alba è

troppo vicina per stare a giocare al gatto col topo, ti pare? Quindi molla la presa su quel cassettone e apri questa porta

per favore.- Rabbrividii - E tu come fai a sapere che sono vicina al

cassettone?- - Apri, Iris.- sembrava esasperato - Non fartelo chiedere

di nuovo … … per favore.- Non sapevo cosa fare. Ero così spaventata che avevo

difficoltà a compiere perfino i movimenti più banali. - Voglio tornare a casa mia.- strillai isterica fra un singhiozzo

e l’altro - Non l’ho chiesto io di venire qui, mi ci avete trascinato con la forza, così come non ho chiesto di

diventare questa specie di mostro in cui mi avete trasformata. Ridatemi la mia vita. Lasciatemi andare.-

Non avevo ancora finito di parlare quando mi sentii afferrare alle spalle, per la vita. Strillai.

Alessandro mi teneva stretta e immobile con un solo braccio, mentre l’altra mano stringeva il polso destro, che

reggeva ancora il coltello d’acciaio che non ricordavo più di impugnare. Le sue labbra, vicinissime al mio orecchio

sinistro sussurrarono così silenziosamente che feci fatica a sentire le sue parole - Va tutto bene! Ci sono qui io adesso.

Nessuno ti farà del male.-

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Stringendo più forte la presa sul polso mi costrinse a

mollare il coltello, che cadde a terra con un tonfo. - Portami via da qui.- dissi esausta.

- Non posso.- sussurrò ancora. A quella risposta scoppiai a piangere mi abbandonai

completamente fra le sue braccia. Se non mi avesse sorretta sarei caduta a terra, invece Alessandro mi sollevò di peso e

mi adagiò sul letto. Rimase lì seduto accanto a me, aspettando con pazienza che sfogassi col pianto la mia

disperazione.

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27

Mi svegliai tardi quella mattina. Naturalmente

Alessandro non era lì con me. Contro la porta c’era ancora la sedia che avevo puntellato sotto la maniglia la sera prima,

quando cercavo di sfuggire a un demone che, molto probabilmente, era solo nella mia testa.

Negli ultimi giorni non avevano fatto altro che ricordarmi di essere la preda più ambita del popolo degli

inferi, senza preoccuparsi minimamente dell’effetto psicologico che quegli avvertimenti potevano avere sulla

mia mente. Ero spaventata come non mai e questo a nessuno

sembrava importare più di tanto. La verità, è che ero sola. Se Manuel non fosse riuscito a

estirpare il suo veleno dal mio sangue, non ci sarebbe stata più pace per me su questa terra. Dovevo accettare il fatto di

essere condannata a nascondermi per il resto dei miei giorni o decidermi ad affrontare seriamente il nemico e vendere

cara la pelle. Ci avevo provato quella notte. Miseramente, ma era già un passo avanti.

Lasciai la mia stanza soltanto dopo una lunga doccia che aveva lavato via gli ultimi rimasugli di incertezza.

Incrociai Stefano mentre usciva di casa in compagnia di una ragazza. Me la presentò col suo solito fare cortese, ma

non si trattennero oltre, perché avevano un qualche impegno in città ed erano già in ritardo per colpa di lei,

Clarissa. Dopo aver salutato entrambi, passai in salotto, dove

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trovai Celine intenta a guardare Thomas, disteso sull’ampio

tappeto persiano vicino al camino spento, occupato a disegnare su un costoso blocco di fogli per carboncino. Io

avevo sempre fatto i salti mortali per permettermene qualcuno quando frequentavo l’accademia d’arte. Smisi di

comprarli quando non fu più indispensabile farlo. Erano davvero fuori portata per me, ma non per i Renzi. Sempre

che esista qualcosa che non possano permettersi. Celine sollevò appena la testa, quando si accorse della

mia presenza. Non era un mistero che non le andassi a genio. Mi aveva dimostrato fin da subito la sua insofferenza

alla mia presenza in casa sua. Non credo che fosse gelosa o che temesse che potessi in qualche modo competere con lei

e portarle via il suo Alex, però, qualunque fosse il motivo che la indisponeva nei miei confronti, non si era mai

preoccupata di celarlo. Lasciai la stanza senza esserci neanche realmente

entrata, non avevo voglia di scontrarmi con nessuno, tanto meno con lei. Avevo già abbastanza nemici dai quali

guardarmi le spalle, aggiungermene di nuovi sarebbe stata una pessima mossa.

Il signor Tommaso mi sfrecciò davanti senza neanche guardarmi. Aveva una valigetta di pelle in mano e un

ragazzotto che non avevo mai visto, lo seguiva come un cagnolino, appuntando scrupolosamente su un taccuino

firmato gli impegni per la giornata che gli stava comunicando il dottore.

Questo mi fece ricordare i miei di impegni, quelli che da giorni avevo completamente rimosso dalla mente, come se

prima del rapimento non avessi mai avuto una vita precedente al mio arrivo in quella casa.

Corsi su per le scale stranamente deserte. Non ero più né triste né in collera, mi sentivo solo molto padrona di me

stessa, libera, come non mi ero più sentita da molto tempo.

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Non si può dire che indugiai nel fare le valige, perché

praticamente non ne avevo. Ero stata trascinata lì con la forza, dopotutto. Raccattai solo il mucchietto di abiti che

indossavo il giorno del mio arrivo. Mi fece uno strano effetto lasciare quella stanza. Era

forse l’unico posto, oltre casa mia, in cui riuscivo a sentirmi al sicuro, ma era appunto a casa che tornavo, quindi mi feci

coraggio e varcai la soglia della camera da letto convinta che fosse l’ultima volta che lo facevo.

Mentre scendevo le scale mi chiedevo se fosse doveroso o quantomeno giusto avvertire Alessandro della mia partenza.

Era stato molto premuroso e protettivo con me, si meritava che sparissi come una ladra?

Ero arrivata agli ultimi gradini quando Celine mi si parò davanti.

- Dove credi di andare tu?- ringhiò, e non uso un eufemismo, liberò proprio un ringhio animale.

- Me ne vado!- risposi guardandola dritto negli occhi, ricambiando la stessa ostilità.

- Non che mi dispiacerebbe, ma non posso proprio lasciartelo fare. Alessandro tornerà nel pomeriggio, se per

lui va bene, tornatene pure da dove sei venuta, ma senza il suo permesso, mi dispiace per entrambe, ma non vai da

nessuna parte.- Strinsi con forza il fagotto di stracci al petto - Io adesso

me ne torno a casa mia.- dissi senza mostrare la minima paura - Che ti piaccia o no.-

Sorrise beffarda - Non credo proprio.- - Togliti da davanti e lasciami passare, Celine.-

- No!- Infastidita, le diedi uno spintone, che la fece arretrare di

un paio di passi. Non se l’aspettava, anche se credevo che fosse già sulla difensiva.

La sua reazione, d’altro canto fu immediata. Mi si lanciò

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addosso, facendomi cadere all’indietro e sbattere la nuca sui

gradini più in alto. L’impatto non fu così violento da farmi perdere i sensi o procurarmi danni di alcun tipo, anche se il

colpo lo sentii e fece male. Faceva male soprattutto la sua mano stretta intorno al mio collo. La faccia era così vicina

alla mia da riuscire a sentire il profumo fresco del suo alito. - Non ci provare mai più, umana.-

- Non sono più umana di quanto non lo sia tu.- risposi con la voce strozzata - Eppure non molto tempo fa sei stata

umana quanto me.- - È passato tanto tempo invece, e tu non sei nelle

condizioni di giudicarmi.- - Dici?- con una mano stretta intorno al suo polso, mi

puntellai sull’altro gomito e raccolte le forze riuscii a mettermi a sedere, spingendola via.

Mi guardò con un po’ di sorpresa, ma cercò di nasconderlo.

- Non sei l’unica ad aver ricevuto in cambio qualche potere supplementare come conseguenza del contagio.- dissi

massaggiandomi il collo arrossato - Ricordati chi sono e perché sono qui.- dissi minacciosa, senza neanche rendermi

conto del perché avessi pronunciato proprio quelle parole. I suoi occhi si tinsero di un rosso diabolico nel mentre

che mi fissavano con ferocia - Sei solo una sciocca! Ma è solo questione di tempo e Manuel riparerà al danno

commesso.- Dal giorno dell’incidente, fu solo in quel preciso

momento, sentendo pronunciare quelle parole, che mi resi conto che, in fondo, non ero poi così sicura di voler

rinunciare a quella mia nuova condizione e tornare alla vecchia vita di un tempo.

Celine dovette scorgere l’esitazione nel mio sguardo o semplicemente leggermi nella mente, sempre che ne fosse

capace, perché aggiunse - Non crederai davvero che…- rise

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forte - Manuel non lo farà mai. Non lo conosci abbastanza

se credi che lascerà che il suo marchio ti scorra nelle vene. Gli comporterebbe troppo sacrificio. Dovrebbe passare

molto del suo tempo ad istruirti per imparare quantomeno a sopravvivere, e lui non resta mai più di qualche mese nello

stesso posto, non in forma umana almeno. È troppo ligio ai suoi doveri per farsi distrarre da una inutile mortale. È uno

dei quattro Saphiros, ora secondo soltanto a Daniel in quanto a forza e poteri. Non perderà il suo tempo con te,

sciocca. Ha uno scopo ben più grande da portare a termine, anziché fare da babysitter a una creatura inferiore come te.-

- Ti credi forse migliore di me?- questa volta fui io a ridere, ma era una risata nervosa - Sarà pure come dici tu, e

con questo? Resta il fatto che finché il suo veleno scorrerà nelle mie vene, avrò sempre più potere di te. Io ho il

marchio di un immortale, un sangue puro, non quello di un

bastardo, come certa altra gente che conosco e che si da tante arie per niente.-

Dal fondo della sala dei ricevimenti giunse una voce maschile che identificai solo dopo aver visto a chi

apparteneva - Starei attenta a quello che dico, al posto suo, signorina.- Sergio, il primogenito di Tommaso, si fece

avanti verso di noi. Celine indietreggio di un passo a testa bassa.

- Non è mai prudente dare del bastardo all’uomo che ti ospita in casa sua.-

Merda!

- Soprattutto se da quello stesso uomo dipende tutta la

tua vita.- - Io… non volevo offenderla, signore. Mi dispiace.-

- No che non le dispiace, così com’è vero che aveva tutta l’intenzione di offendere un attimo fa.-

Feci per giustificarmi, ma mi interruppe subito - Io…- - La nostra casata è fra le più potenti presenti su questa

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terra. Per secoli…mi correggo…millenni, il sangue della

nostra famiglia non è mai stato insozzato con mescolanze impure con comuni esseri umani.- le ultime parole le

pronunciò lanciando uno sguardo a Celine, che tornò con lo sguardo a terra - Celine non mente su Manuel per ferirti, ti

mette solo di fronte a una cruda verità che farai bene ad accettare prima che il suo dono, quello che ora vedi come

tale, finisca col farti ammazzare. Tu odori di immortalità, Iris, e i demoni lo sentono come lo sto sentendo io adesso.

Per chi si nutre di vita, come noi, risulti molto…come dire…appetitosa. E scoprire che sei solo un’umana non fa

che aumentare la fame.-

Indietreggiai anch’io quando vidi che si faceva avanti. - La nostra famiglia è l’unica che possa tenere quell’orda

di demoni lontana da te. Nonostante per tutti noi sia una vera tortura averti qui con noi e vederti girare per casa come

la più pregiata delle droghe. Abbiamo accettato di aiutarti e tu… piccola insolente… osi darci dei bastardi. Non farlo mai

più.-

Non sapevo davvero cosa rispondere. Aveva ragione, dopotutto. Scusarmi non era servito, fuggire sarebbe stato

inutile, che altro mi era rimasto da fare per uscire da quella situazione?

Non riuscivo a guardarlo negli occhi, ero troppo imbarazzata. Per fortuna giunse in mio soccorso la signora

Beatrice, la madre di Alessandro e Stefano. - Va tutto bene, qui?- chiese fingendo di non aver

ascoltato ogni singola parola. Sergio la guardò con un velo di risentimento per la sua

intromissione, ma non reagì con ostilità, dopotutto era la moglie di suo fratello.

- Va tutto benissimo.- rispose a denti stretti. - Roberto ha bisogno di te in clinica, Sergio.- disse lei -

Sono venuta apposta per dirti che ha chiamato e ha chiesto

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di te, al più presto.- lo guardava fisso negli occhi mentre

parlava. Era chiaro a tutti che stesse mentendo spudoratamente e che quella fosse solo una scusa per

allontanarlo da me, ma né Sergio né Celine batterono ciglio. Il cognato annuì in silenzio, avviandosi verso l’uscita.

- Lo accompagni tu Thomas a lezione di karate?- chiese a Celine - Rischia di fare tardi se non va a prepararsi.-

- Ci penso io.- rispose subito la ragazza. Quando Sergio aprì il portone d’ingresso per uscire si

trovò davanti Manuel, dallo sguardo tutt’altro che amichevole.

Rimasero lì sulla porta entrambi. Nessuno dei due sembrava voler cedere il passo all’altro o volgere lo sguardo

altrove che non fossero gli occhi dell’avversario. Credevo che a momenti si azzuffassero, ma bastò che

Beatrice si facesse avanti ad accogliere Manuel, perché questi si scostasse dall’entrata per lasciar uscire Sergio, che

gli passò davanti urtandolo di proposito. - Figlio di puttana.- sentii pronunciare nella mia testa.

Perché, se ancora non lo sapeste, gli angeli dicono le

parolacce. Mi raggiunse a grandi falcate. Mi strinse a sé con un

abbraccio di un’intensità che non avevo mai sentito prima da parte sua - Stai bene?- mi sussurrò all’orecchio.

- Hai sentito tutto?- - Quel poco che mi hai permesso di sentire mi è bastato.-

Lo guardai, perdendomi un momento nella profondità del suo sguardo - E adesso?-

- Adesso ti porto via da qui.-

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Tornammo a casa in moto. Mi fece indossare l’unico

casco che aveva e non ci scambiammo una sola parola per più di un’ora di viaggio. Solo quando fummo sotto casa mia

e potei sfilarmi il casco dalla testa ritrovai la forza di parlare. Ero ancora scossa per quello che era successo, ma

la vicinanza di Manuel riusciva ad attenuare la tensione. - Celine mi odia.- constatai.

- Non le piaci, tutto qui.- rispose prendendomi per mano affinché lo seguissi di sopra.

- Io non le ho fatto niente, te lo giuro.- - Non è per qualcosa che hai fatto a lei. È la tua aura in

generale a non piacerle.- Lo fissai un po’ accigliata e un po’ confusa.

- La tua aura è come un libro, o un cd, se preferisci, su cui è impressa tutta la tua vita passata. Lei grazie ad Alex

ha ereditato tutti i suoi poteri e fra questi c’è anche quello tipico degli Ancharos di poter leggere le auree di tutte le

creature di Dio.- Adesso ero solo accigliata - Ma non è violazione della

privacy?- Manuel sorrise - Fa differenza?-

Riprese ad avanzare verso il portone del palazzo, ma dovette fermarsi perché io non ero ancora pronta a seguirlo.

- Quindi nella mia aura c’è qualcosa che non le piace.- osservai - C’è qualcosa nel mio passato, che la infastidisce.-

- Probabilmente.- Lo guardai dritto negli occhi e chiesi seria - Che cos’è?-.

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- Non è a me che devi chiederlo.-

- Però tu lo sai, vero?- - Dobbiamo proprio parlare di questo adesso?-

Annuii risoluta. Lui sbuffò - Sei proprio sicura di volerlo sapere?-

- Assolutamente.- - Potrebbe ferirti.-

- Dimmelo!- - E va bene! Celine ti ritiene responsabile della morte di

tua sorella, nonché della perdita di tuo figlio.- Devo imparare a dare retta ai consigli prima o poi. Se

l’avessi fatto quel giorno mi sarei risparmiata quella coltellata allo stomaco.

- Non ci pensare adesso però.- aggiunse Manuel per riportare la mia attenzione su di lui e distoglierla dai sensi di

colpa del passato - Quello che pensa Celine non ha nessuna importanza. Non deve averne per te. È così ostile solo

perché nel profondo del suo cuore si sente essa stessa l’unica responsabile per la morte di sua sorella. Le ricordi Molly e

questo la infastidisce.- - Non ho ucciso io Rossana.- farfugliai con un filo di

voce. - Lo so, ma non possiamo occuparci di questo adesso.

Non si può rimediare al passato, quindi lasciatelo alle spalle e pensa a garantirti un futuro.-

Mi tirò verso di sé e stavolta mi mossi per seguirlo. Claudio, il portiere della mia palazzina, era in cortile a

sistemare l’aiuola. Sollevò un braccio per salutarmi quando mi vide. Io risposi meccanicamente al saluto, invece

Manuel sembrò perfino non vederlo. Quando fummo sull’ascensore mi lasciò la mano.

- Non ce la fai proprio ad essere più gentile, vero?- lo rimproverai.

- Cos’ho fatto di sbagliato?- chiese incuriosito.

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- Potevi almeno degnare di uno sguardo quel

pover’uomo. Se proprio non volevi salutare potevi fare almeno un cenno con la testa, sarebbe stato sufficiente a

non farti apparire scontroso e maleducato.- - Ma di che cosa stai parlando?-

- Parlo dell’indifferenza che hai verso gli uomini. Sei così pieno di te da sentirti in diritto di poter ignorare il genere

umano come fossero delle inutili sottocategorie?- - Sono delle sottocategorie.- puntualizzò - E sono altri gli

Angeli preposti alla loro protezione, io ho ben altro da fare.-

- È comunque molto scortese da parte tua. Non è forse

stato detto “Ama il prossimo tuo come te stesso” ?-

Mi guardò con severità - Io seguo regole diverse da quelle degli umani, Iris. Io devo amare e servire Dio prima di

chiunque altro. Non c’è un me stesso da appagare e amare,

figuriamoci qualche insignificante mortale.- Feci per replicare, ma non me lo permise.

- Non parlare di cose che non sai, Iris. Ti eviterai un sacco di guai in futuro.-

Era la seconda volta quel giorno che mi veniva così gentilmente chiesto di farmi gli affari miei e mi innervosì.

Non riuscivo a capire perché tutto a un tratto Manuel fosse diventato così freddo con me. Era stato così

premuroso in villa dai Renzi, che proprio non riuscivo a darmi una spiegazione per quel repentino cambio d’umore.

È anche vero che lo conoscevo ormai abbastanza da sapere che riusciva a passare dalla dolcezza alla rabbia in un

istante, però di solito c’era sempre una motivazione che scatenava tutto. Iniziai seriamente a pensare che fossi io

quel motivo. Dopotutto era con me che si comportava in quel modo, e se non ero presente, accadeva per ragioni che

riguardavano me. Aveva discusso con Samuel a causa mia, era arrivato a

minacciare Alessandro per lo stesso motivo, per non parlare

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della rissa scampata con Sergio e la zuffa con Jury. Da

quando mi conosceva non faceva che azzuffarsi con persone che stimava e conosceva da sempre per proteggermi dalle ire

dei suoi amici. Non mi stupiva quindi che di tanto in tanto riversasse un po’ di quella rabbia anche su di me. Gli stavo

creando solo guai. Percorremmo il corridoio del mio piano in silenzio.

Manuel mi precedeva di qualche passo e non sembrava avere alcuna intenzione di voltarsi, quindi rimandai le

chiacchiere a un momento migliore. Si frugò nelle tasche in cerca delle chiavi di casa. Le

trovò, la infilò nella toppa e prima di aprire si voltò verso di me.

- Che c’è?- chiesi brusca, in reazione al suo sguardo. La mia reazione lo infastidì ancora di più, tanto che

rinunciò a parlare ed entrò in casa, lasciandomi lì sul pianerottolo a guardarlo imbambolata.

Sbuffai ed entrai anch’io. Sono quasi certa che mi abbiano sentita urlare in tutta la

città. Mi bastò dare un’occhiata al salotto per capire cosa stava per dirmi un attimo prima. Era tutto sotto sopra.

Sembrava la tana di un animale selvatico. Il divano era ridotto a brandelli di stoffa strappati via a unghiate e

abbandonati sul pavimento. Al tavolinetto era stata spezzata una gamba e non si erano neanche presi la briga di

rimetterlo in piedi. Il mobile basso di mogano sembrava un tiro al bersaglio di quarta mano e lo schermo della TV aveva

uno squarcio nel centro così grande da riuscire a vedere il fondo anche a una certa distanza. Non avevo idea di che

fine avesse fatto il tappeto e, nello stato in cui ero, non osai chiederlo. La cucina non era ridotta meglio e c’era un

odoraccio di carne in putrefazione in tutta la casa. - Che cosa hai combinato.- strillai.

Manuel se ne stava a debita distanza, massaggiandosi la

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nuca con aria colpevole.

- Quanto sono stata via? Neanche una settimana. Nessuno riuscirebbe a ridurre un appartamento in queste

condizioni in così poco tempo.- Non riuscivo a smettere di strillare - Di’ qualcosa.-

- Non è come pensi!- Dio onnipotente! Quant’è snervante quella frase quando

esce dalle labbra di qualcun altro. - Almeno non prendermi per il culo!- gridai ancora,

sempre più furiosa - Ti rendi almeno conto dei danni che hai fatto?-

- Ehi!- si alterò - Guarda che non sono stato io.- Era un pessimo bugiardo - Ah no?-

- Non serve che mi guardi in quel modo. È la verità.- - E chi sarebbe stato allora? Sentiamo!-

Non rispose. - Manuel!- strillai esasperata.

Per non rischiare di lanciargli contro qualcosa me ne andai in camera da letto. Naturalmente il letto era sfatto e le

lenzuola non erano state cambiate. Era un disastro anche lì. Lo scaffale della libreria era a pezzi e c’erano i miei libri

sparsi senza cura per tutta la stanza. Almeno in quel caso c’era stato un minimo tentativo di rimettere in ordine, ma

fallito miseramente. Non avevo il coraggio di andare a guardare in che condizioni fosse il bagno e non ci andai, ma

non potevo rimanere neanche lì dentro senza che mi prendesse un attacco isterico in mezzo a tutto quel caos.

Tornai in salotto. Manuel intanto aveva aperto le finestre per far entrare un po’ d’aria pulita e uscire la puzza. Lo

trovai nell’altra stanza, che infilava in un sacco della spazzatura i resti della mia cucina.

- Posso sapere cos’è successo qui dentro?- - Ti ricomprerò tutto. Avevo in programma di rimettere

tutto a posto prima del tuo ritorno, ma…-

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- Sai quanti soldi ci vogliono per ricomprare tutto?-

Ci pensò su un momento, poi scosse la testa. Non riusciva neanche a guardarmi.

- Solo qui in cucina ci sono danni per oltre mille euro. Il salotto è completamente distrutto e c’è da ritinteggiare la

pareti per lavare via tutte quelle macchie di non voglio neanche sapere cosa. Li hai tutti questi soldi?-

Fece ancora di no con la testa. - Certo che non li hai! E non li ho neanch’io. Per questo

dovevi pensarci un milione di volte prima combinare tutto questo casino.-

- Mi dispiace!- - Non mi basta!- risposi, tornando ad alzare il tono della

voce - Che cosa me ne faccio di un “mi dispiace” ? Casa mia è distrutta.-

Lasciò andare la spazzatura e si alzò per fronteggiarmi - Ho già detto che ti ripagherò tutti i danni.-

- E come?- lo affrontai. - Troverò il modo!-

Scossi la testa, esausta. Sentivo già il panico impadronirsi di me e non potevo permettermelo, non avrei retto a un

altro attacco. Dovevo cercare di restare calma. L’ultima volta che mi ero sentita così e avevo lasciato che il panico

prendesse il sopravvento, avevo ucciso il mio bambino e l’esaurimento nervoso che ne era seguito mi aveva quasi

mandato al manicomio. Per fortuna ero riuscita ad uscirne, ma da quel giorno avevo giurato a me stessa che non

sarebbe più successo e invece eccomi lì, di nuovo in preda al panico.

- Vattene!- dissi piano, cercando di mantenere la calma. - Iris.-

- Lasciami da sola per favore.- - Fatti almeno dare una mano a rimettere in ordine.-

- ESCI SUBITO DA CASA MIA!- gridai a un

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centimetro dalla sua faccia.

Stavo ancora urlano quando Manuel si trasformò in corvo e volò via dalla finestra gracchiando.

Con quell’ultimo sfogo avevo dato fondo alla mia scorta di autocontrollo. Mi lasciai cadere a terra in ginocchio,

afferrandomi il viso fra le mani e iniziai a piangere. Come avevo fatto a cacciarmi in quella situazione? Cosa

avevo fatto di male per vedere la mia vita andare a rotoli giorno dopo giorno. Forse Celine aveva ragione a

disprezzarmi. Chi meglio di lei sarebbe stata in diritto di giudicare gli sbagli che avevo fatto in passato. Neanche la

sua vita era stata delle migliori, eppure non si era mai arresa. Avrebbe potuto perdersi d’animo quando

Alessandro l’aveva lasciata da sola con suo figlio ancora in grembo. Avrebbe potuto farsi travolgere dalla follia e dalla

disperazione quando gli Agenti del Clan avevano catturato Alessandro facendo perdere ogni traccia di lui per quasi tre

mesi. Tutti continuavano a ripeterle che fosse morto. La esortavano a dimenticarlo, a voltare pagina, se pur con la

morte nel cuore, ma lei non aveva mai dato retta a quelle voci, non si era mai lasciata convincere. Aveva lottato con

tutte le sue forze per ritrovare il suo amore, incurante della propria incolumità, arrivando a dare perfino la vita per lui.

Io non avrei mai avuto il coraggio di fare quello che ha fatto lei. Ho sempre lasciato che gli eventi della vita mi

travolgessero senza opporre la minima resistenza. Mi ero limitata ad accettarli, come se non fosse possibile ribellarsi e

mutare il corso del destino, combattere per cambiare le cose. Avevo permesso ai sensi di colpa di allontanarmi dalla

mia famiglia, alla rabbia di uccidere mio figlio. Mi ero lasciata portare via Michele senza battere ciglio da quella

lurida stronza. Sì, Celine aveva proprio tutte le ragioni per disapprovare

il mio operato e disprezzarmi.

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Era ora di smetterla di piangermi addosso e riprendere in

mano la mia vita una volta per tutte. Da quel giorno avrei venduto cara la pelle prima di permettere a qualcuno di

farmi ancora del male. Demone o umano che fosse, avrebbe dovuto passare sul mio cadavere prima di dirsi vincitore.

Mi asciugai il viso bagnato di lacrime e mi rimisi in piedi. Basta piangere! Iris Florio non avrebbe più permesso a

nessuno di farla piangere così.

Da quella posizione, riuscivo a vedere la mensola, stranamente ancora intatta, su cui tenevo il telefono. La

segreteria lampeggiava. C’erano dei messaggi registrati.

Manuel non andava ancora molto d’accordo con la

tecnologia, altrimenti li avrebbe ascoltati. Sarà anche un Angelo puro, ma la curiosità ha sempre il sopravvento su di

lui. Ero tentata di cancellarli senza sapere di chi fossero. Volevo davvero dare un taglio al passato e ricominciare

tutto dall’inizio. Mi presi qualche momento per decidere cosa fare, nel frattempo mi armai di coraggio e pazienza e

iniziai a rimettere in ordine quel casino. Iniziai dalla cucina, che, con tutti quei cocci sparsi sul pavimento, era quella

messa peggio. Ci vollero tre grandi sacchi della spazzatura per buttare via tutto. Si era salvato molto poco dalla furia

del ciclone che l’aveva investita: posate, pentole, padelle, scodelle e recipienti di plastica. Tutto il resto, tutto ciò che

non fosse fortemente infrangibile era andato a pezzi e finito nella spazzatura. La puzza di carne putrefatta veniva dal

frigo staccato dalla corrente, che ne aveva mandato a male il contenuto. Avrei dovuto comprare litri e litri di aceto per

mandare via quell’odoraccio, sempre che non si fosse impregnato ai mobili. Il pavimento poi, era tutto

appiccicaticcio. C’erano peli e sporcizia incollati a quello strato di sudiciume e, come se non bastasse, lo sgrassatore

che avevo nel mobile sotto il lavandino era quasi finito. Ce ne sarebbe voluto un bidone per lavare via tutto.

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Diedi una prima passata alle mattonelle giusto per

togliere il grosso dello sporco, ma camminandoci sopra, le suole delle scarpe incontravano ancora qualche resistenza.

Ci avrei pensato dopo a dare qualche altra passata. Ero già stanca morta e non avevo ancora neanche fatto metà del

lavoro. Mi spostai in salotto. Lì c’era poco da ripulire. Serviva solo un camion della spazzatura che portasse via

tutto. Il divano era da buttare, così come la TV e il mobile. Forse il tavolinetto si poteva recuperare, ma per il nervoso

mandai al diavolo anche lui e finii di romperlo buttandoci sopra la TV, che con l’impatto sputò fuori il telecomando.

Qualcuno doveva averglielo lanciato contro rompendo lo schermo.

Cercando di non lasciar trapelare le emozioni che mi possedevano in quel momento, chiamai Filippo.

- Ciao, tesoro. Dimmi.- rispose quando sentì che ero io al telefono.

- Avrei bisogno di un favore.- - Anche due.-

- Dovrei gettare delle cose, puoi mica venire qui a casa con il furgone di tuo padre?-

- Quando?- - Anche subito se è possibile.-

- Adesso adesso non posso, ma fra un paio d’ore sono libero.-

- Va benissimo.- - Ci vediamo dopo allora. Ti faccio uno squillo quando

parto dall’officina.- - Ok! Grazie mille.-

- Di niente, tesoro. È un piacere.- Visto che per il momento non avrei potuto fare molto lì

in soggiorno, andai a rimettere in ordine la camera da letto. Era la stanza meno disastrata dell’appartamento, infatti mi

bastò sostituire le lenzuola e sistemare i vestiti sparsi in giro.

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Qualche scaffale della libreria si era salvato, così portai

quelli rotti in salotto e sistemai alla meglio i libri sugli altri. Mentre mi passavano sotto mano, da un volume di arte

bizantina scivolò fuori la copia dell’Otello che avevo tanto cercato poche settimane prima. E io che ero convinta che ce

l’avesse ancora Michele! Chissà come c’era finita lì dentro? Anche se ormai non aveva più importanza.

Stavo ancora sistemando gli ultimi libri quando il citofono trillò. Non aspettavo visite e a quell’ora poteva

essere solo Filippo. Lo feci salire e mi aiutò a portare tutto giù fino al

furgone. Non fece domande - non era da lui -, e io lo apprezzai molto per la sua discrezione. Si sarebbe occupato

di tutto perché io non avrei saputo dove far sparire quella roba, ma prima di rimettersi al volante mi abbracciò con

affetto e mi sussurrò con dolcezza - Stai attenta.- Mi tornò il groppo in gola, ma riuscii a trattenermi. Non

volevo che si preoccupasse. Non potevo rischiare di coinvolgere anche lui in questa storia.

Lo salutai con un bacio sulla fronte e me ne tornai a casa. Solo quando mi richiusi il portone alle spalle mi concessi il

lusso di lasciarmi travolgere da una nuova ondata di sconforto. Lo avevo represso per tutto il giorno. Ero stata

brava dopotutto, potevo anche concedermeli un paio di minuti di debolezza, no?

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29

Erano le nove passate. Il sole ormai tramontato aveva

lasciato il suo posto alla luna e alle sue ombre. Io ero ancora seduta a terra con la schiena contro il portone. Non ero

ancora pronta ad alzarmi, ma volevo accendere le luci e il bagliore rosso pulsante della spia della segreteria mi

infastidiva. - Accidenti a te!- farfugliai sbuffando mentre mi alzavo

dal pavimento. C’erano quindici messaggi registrati. Non ne avrebbe

potuti contenere di più. Spinsi il polpastrello sul pulsante e la microcassetta si riavvolse. Prima di premere “Play” feci

un lungo sospiro per lavare via l’angoscia. Non è mai stato così difficile ascoltare la segreteria come quel giorno.

I primi cinque messaggi erano di Gian, che mi voleva a lavoro tre giorni addietro. Il sesto era di mia madre. Si

premurava di ricordarmi di non acquistare un regalo troppo stravagante per il matrimonio di Fabiana, mia cugina. Ad

essere precisi aveva usato la parola “strano”, stravagante è una traduzione più garbata che ho usato io. Fabiana si

sarebbe sposata il 12 di settembre. Mancava ancora più di un mese e già mi martellavano con inutili raccomandazioni,

come se fossi ancora una bambina. E poi chi se ne frega del regalo? Se non le fosse piaciuto non sarebbe stato un

problema mio. Poteva anche non invitarmi, visto che non ci vedevamo da più di tre anni. Per di più, a causa sua ero

perfino costretta a tornare in Sicilia, cosa che avevo sempre cercato di evitare il più possibile fin da quando ero partita

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per Roma per terminare gli studi d’arte. È vero che a Roma

non ci vivevo più da quasi un anno, e che tutto quel caos non mi mancava affatto, però tornare a Palermo non mi era

mai sembrata un’alternativa. Nemmeno una volta. Mandai al diavolo Fabiana e il suo dannato matrimonio. Ero già

stanca di ascoltare, tanto che avevo già l’indice posato sul pulsante di stop, ma quando sentii la voce di Michele nel

messaggio successivo, non riuscii più a premerlo. Erano suoi i restanti nove messaggi. Michele odiava i telefoni

eppure aveva alzato la cornetta nove volte e parlato perfino da solo con la segreteria.

- Iris…sono io.- lungo silenzio. Sospiro. - Sei in casa? Ti

prego rispondi se ci sei.-

Secondo messaggio: - Iris? Lo so che non sei a lavoro. Sono

passato da Gian. Non ti vede e non ti sente da due giorni. Stai bene? Richiamami appena senti il messaggio.-

Terzo: - Iris mi sto preoccupando. Sono passato anche a casa,

ma che fine hai fatto? Stai bene?-

Quarto messaggio: - Se non rispondi entro domani mattina

chiamo la polizia. Se non vuoi parlare con me lo capisco, ma almeno fammi sapere che stai bene.-

Quinto messaggio: - E va bene! Nasconditi pure se vuoi. Io

domani devo partire. Vado a Milano, ricordi? Te ne avevo parlato.

Lo so che l’ultima volta che ci siamo visti non è andata come avrei voluto. Sono stato impulsivo e… …stupido. Non avevo il diritto di prendermela così. Non sei più la mia ragazza e avresti tutte le ragioni se volessi rifarti una vita con qualcun altro. È solo che… mi

sono ingelosito e non ci ho visto più. Mi dispiace. -

Sesto: - Mi manchi tanto, amore. Non mi va di partire senza di

te. … … …Lascia almeno che ti saluti.-

Settimo: - ………………………-

Ottavo messaggio: - Ti prego, Iris, rispondi. Sono due giorni

che non chiudo occhio. Non riesco a dormire, sono troppo preoccupato.-

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Ultimo: - Iris, io devo andare. Non posso rinunciare a quel

posto a Milano, lo sai vero? Non mi fa stare bene il pensiero di lasciarti così. Spero solo che non sia successo niente di grave. … …

senti… per precauzione ti lascio il mio nuovo numero. L’ho cambiato perché col trasferimento voglio tagliare i ponti con questo schifo di gente, ma non con te. Tu sei l’unica cosa bella che abbia colorato la mia vita in questi ultimi anni, e lo sai che non lo dico

tanto per dire. Mi consci troppo bene per sapere che sono sincero. Chiamami appena puoi. … Ti prego. E… se puoi…perdonami.-

Segnai il suo nuovo numero sul cellulare e riavvolsi la

cassetta per riavviare la segreteria. Sentirlo continuava a sconvolgermi.

Senza volerlo mi ritrovai a pensare alla sua voce, alla sua pelle liscia, ai suoi occhi, le labbra gustose. Scossi la testa

per scacciare i ricordi. Non potevo e non volevo perdonarlo per quello che era successo. Non potevo tornare indietro e

cancellare tutto, sarebbe stato come uccidere il mio bambino una seconda volta. Il suo viscido tradimento era

stato la sola causa di quella perdita. Era stato quel tradimento a farmi fuggire via dalla festa di Teresa e

investire Manuel dando inizio a tutto. Dovevo continuare a pensare che fosse così, o sarei sprofondata di nuovo nel

senso di colpa. Avevo bisogno di un anello a cui incatenare la mia rabbia, o sarei stata perduta.

Scossi di nuovo la testa. No non ero ancora pronta a perdonare. Un giorno forse, ma non quel giorno.

Il mio appartamento spoglio era deprimente, ma almeno

ero riuscita ad eliminare gran parte della puzza. Ci sarebbero volute settimane prima che l’ambiente fosse

tornato ad avere l’odore di un tempo. Manuel non era

tornato a casa per tutto il giorno e, conoscendolo, mi avrebbe lasciata da sola anche per la notte.

Era già buio. Troppo buio per non avere paura delle creature della notte in agguato. Richiusi tutti le finestre e

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abbassai gli avvolgibili. Non volevo correre il rischio che

entrasse qualcuno e tanto meno voltarmi per caso e scorgere un demone alla finestra.

Io odio avere paura!

Rimettendo in ordine, in camera da letto avevo trovato un borsone sportivo. Non era mio, ma non credevo neanche

che Manuel ne avesse uno. Era più probabile che fosse di Samuel, perché gliene avevo già visto uno simile nel

bagagliaio della sua auto. Lo avevo aperto, nel pomeriggio. Dentro c’erano armi e munizioni a prova di demone.

Samuel aveva progettato dei proiettili che all’impatto con il

bersaglio rompevano una piccola capsula di vetro

contenente Acqua Santa. Non avrebbero ucciso un demone con quelli, neanche se lo avessero ricoperto di proiettili, ma

il colpo avrebbe creato abbastanza dolore da rallentarlo, se non immobilizzarlo, dando loro il tempo di tagliargli la

testa con la spada. Era la spada infatti, la loro, l’unica vera arma in grado di eliminare un demone nel corpo e nello

spirito. Per sempre. Ma per “morire” doveva essere tranciata

loro di netto la testa. Impresa ardua perfino per un Saphiros

come loro. Quindi: Croci benedette, Acqua Santa, e ostie consacrate non erano altro che diversivi. Innocui aiuti per

usare la vera arma di distruzione. C’erano tre pistole diverse e un fucile nel borsone. Otto

pugnali di varie forme e dimensioni. Una scatola di proiettili per ogni arma da fuoco. Ventuno sfere di vetro

piene di un liquido trasparente: Acqua Santa. Un sacchetto pieno di dischetti di ostia. Una faretra con delle frecce

lunghe e sottili, e tutta una serie di piccoli dischi di metallo con spuntoni acuminati. E ancora cinture con ganci, lacci di

cuoio e fondine per inserire le armi. Un magnifico arco in metallo finemente lavorato, leggerissimo, probabilmente

grafite o qualche lega che non conosco, in vernice nera metallizzata, era appoggiato al borsone.

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Non avevo mai visto tutte quelle armi in una volta.

Che ci faceva quell’arsenale in casa mia? Avevo deciso che avrei chiesto spiegazioni a Manuel

appena fosse rientrato, ma si stava già avvicinando la mezzanotte e non avevo la più pallida idea di che fine

avesse fatto. Ero stanca e assonnata, ma non avevo intenzione di

andare a dormire. Non potevo permettermelo, visto che ero da sola e che il nemico era ancora dietro l’angolo ad

aspettare una mia mossa falsa. Tuttavia, senza TV e nessuno con cui parlare, era difficile rimanere sveglia tutta

la notte, così feci l’unica cosa saggia che mi venne in mente in quel momento. Afferrai la cornetta del telefono e digitai

un numero che ormai sapevo a memoria. Gian rispose quasi subito. Mi aspettavo una sgridata per non essermi fatta viva

per giorni, invece fu felice di sentirmi. Gli chiesi se avesse bisogno d’aiuto al ristorante e per non ricevere un rifiuto mi

offrii di aiutarlo gratis, per farmi perdonare. Naturalmente accettò la mia proposta al volo.

Mi cambiai alla svelta e per non correre rischi presi in prestito qualche arma dal borsone di Manuel. Allacciai un

pugnale alla caviglia e infilai una delle pistole nei jeans. Per fortuna Manuel mi aveva insegnato a caricarne una e a

mettere e togliere la sicura per evitare che esplodesse nei pantaloni. Infatti presi proprio la pistola con la quale mi

aveva fatto esercitare il più delle volte. Se la mira era rimasta quella di allora, non avrei avuto scampo neanche

con un lanciarazzi in mano. Povera me! Nello zainetto poi, infilai qualche sfera di vetro e altri due pugnali. Mi sentivo

più armata di Rambo quella sera quando mi chiusi la porta di casa alle spalle per avventurarmi fra i demoni a spasso

nella notte. Avevo tutti i sensi in allerta grazie ai miei nuovi poteri. Riuscivo a fiutarne l’odore da lontano e cambiare

direzione prima che mi sbucassero davanti. Per fortuna il

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loro spirito emanava una traccia di energia inconfondibile.

Alcuni di loro sembravano così… umani… che se non fosse

stato per il loro potere viscido che mi strisciava addosso non

li avrei mai riconosciuti.

Fermai l’auto nel parcheggio del ristorante riservato ai dipendenti. Dalla vetrata riuscivo a vedere Gian e miei

colleghi in fermento. C’era il pienone. Ultimamente capitava sempre più spesso. Segno che gli affari andavano

alla grande. Per un momento, quando chiusi l’auto e si spensero le luci all’interno, rimasi al buio. Un brivido mi

attraversò la schiena. Era potere? Non potevo esserne

sicura. Impugnai una delle bolle di vetro piene di Acqua

Santa, attenta a non rompermela fra le mani, e attesi un istante, col respiro così affannoso da mozzarmi il fiato. Mi

sentivo osservata da cento occhi alle mie spalle e non avevo il coraggio di voltarmi per il terrore di vedere qualcosa che

non sarei più riuscita a dimenticare. Nello stato in cui ero mi aspettavo di sentire la voce di

Manuel risuonarmi nella mente da un momento all’altro, invece… ero sola.

Non ho paura. Non ho paura. Ripetevo a me stessa,

provando a darmi la spinta necessaria a voltarmi. Ma che fine aveva fatto Manuel?

Quando ripresi un minimo di controllo da accorgermi d’avere ancora le chiavi della macchina in una mano, riaprii

velocemente lo sportello e mi infilai dentro facendo scattare tutte le sicure. Era stato un errore, uscire da sola, un enorme

errore. La sciocchezza peggiore che potessi fare.

Le mani mi tremavano così forte che non riuscivo ad infilare la chiave nel quadro, anzi, mi cadde e dovetti anche

abbassarmi a cercarla. Si era infilata da qualche parte sotto il sedile. Accesi la luce interna dell’auto. Doveva pur essere

lì da qualche parte. Non poteva essere sparita nel nulla. Ero così nervosa da non vedere che era proprio lì in bella vista,

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al centro del tappetino ai miei piedi.

Sbuffai nel vederla - Sei una stupida, Iris.- bofonchiai. Tornai a sistemarmi sul sedile per mettere finalmente in

moto e tornare a casa, ma nel dare un’occhiata allo specchietto retrovisore, vidi un uomo seduto dietro di me,

che mi fissava con un sinistro ghigno sulle labbra. Demian. Gridai, ma mi posò, fulmineo, una mano sulla bocca per

farmi tacere. Immobilizzata con la nuca contro il poggiatesta del

sedile, armeggiai con le mani libere per aprire lo sportello. - Sta buona!- disse lui. La sua voce era roca e profonda,

quasi come se fosse possibile che al suo interno racchiudesse altre voci.

Appena riuscii a coordinare i movimenti e a trovare il pulsante della serratura automatica spalancai lo sportello

con uno spintone. Un’ondata di potere mi investì facendomi rabbrividire ancora di più. Quanti ce n’erano là fuori?

- È inutile che ti agiti tanto, ragazzina. Tanto non verrà nessuno in tuo aiuto stavolta. Manuel e gli altri sono

occupati a sventare un attacco di demoni che sta creando scompiglio in una palazzina di studenti. Non metteranno

mai in pericolo la vita di quei ragazzi per correre da te. Sei solo una dei tanti. Una pedina sacrificabile allo scopo.-

Avevo ancora la bocca tappata e non potevo rispondere. - Il nostro caro Manuel ha fatto proprio un bel guaio

stavolta. Fa tanto il moralista, il …divino… ma lui non è

migliore di noi. Desiderare un’umana non è meno peccaminoso di possederla. Strano che si ostini a non

capirlo. La prima volta che si è invaghito di una donna mortale ha sopperito al desiderio di averla fuggendo. È

fuggito da tutto, preferendo la forma ferina, piuttosto che affrontare la realtà.- rise - Tutti quei secoli passati a

nascondersi, ad insozzarsi l’anima… per lei. Non è servito a niente. La natura umana non può fuggire all’amore, e lui è

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stato il primo fra tutti noi a scoprirlo.- sentendo che facevo

fatica a respirare mi tolse la mano dalla bocca, tenendomi comunque ferma allo schienale del sedile stringendomi le

spalle - A causa di quella donna, da leader qual era, si è trasformato nell’ultimo degli angeli. Il più potente dei

Cherubini, scelto per comandare l’esercito Celeste per ostacolare il Male sulla terra, si è ridotto a vivere come un

animale, contravvenendo agli ordini e fregandosene delle proprie responsabilità. Mentre noi altri ci lasciavamo

corrompere dalle tentazioni del mondo, lui si nascondeva da una misera mortale.- si lasciò sfuggire un sospiro

angoscioso - È talmente attaccato alla sua virtù da dimenticare i suoi compagni e abbandonarli alle fiamme

dell’Inferno. Da quando ha ricevuto spoglie mortali non ha fatto altro che desiderare di tornare indietro. Non rinuncerà

mai alle sue ali, ragazza. Fuggirà via di nuovo, alla prima occasione, e ti lascerà qui da sola ad affrontare i tuoi

demoni, come ha fatto con noi.- - Perché mi racconti tutto questo?- ansimai.

Si avvicinò con le labbra al mio orecchio - Perché mentre ti strapperò la vita voglio che tu abbia ben chiaro chi sia il

responsabile della tua rovina. Perché mentre assaggerai le pene dell’inferno, voglio sentirti maledire il suo nome e

incatenarlo a questa terra che tanto odia.- mi affondò gli artigli nelle spalle strappandomi uno strillo.

- Chiamalo, ragazza. Invoca il suo nome.- mi affondò i denti nel collo con una violenza tale che sembrava voler

strappare via la carne. Un dolore lancinante mi paralizzò. Fece così male che

non riuscii neanche a gridare, ma fu un attimo. Perché all’improvviso sentii la sua bocca lasciare il mio collo e con

la coda dell’occhio lo vidi volare fuori dallo sportello aperto. Non mi ero neanche accorta del frastuono che c’era intorno

a noi.

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Manuel premeva Demian con la schiena a terra,

tenendolo fermo con un ginocchio sul petto. Il sangue mi colava caldo sulla pelle.

Samuel e Rachael combattevano a mani nude contro un folto gruppo di demoni armati di zanne a artigli acuminati.

Tutti e tre erano avvolti da un leggero bagliore diffuso dello stesso colore dei propri occhi. Brillavano di luce propria.

Come Manuel quando si era scontrato con Jury l’ultima volta.

Quando Alessandro sbucò dalle ombre per aiutarmi ad uscire dalla macchina, mi spaventai e gridai di nuovo.

Ormai il panico aveva preso il sopravvento, conducendomi per mano lungo il sentiero della follia.

- Sono io.- disse piano - Andiamo, ti porto via da qui.- Feci di no con la testa. Ero troppo terrorizzata.

Si chinò su di me e mi mise un braccio dietro la schiena - Tieniti.- disse sollevandomi - Non possiamo restare qui.-

Mi aggrappai a lui come se fosse l’unico appiglio alla mia sanità mentale e lasciai che mi portasse via senza protestare.

Dentro di me, ne ero certa, ero preoccupata per Manuel e gli altri. Dovevo esserlo. Non poteva essere altrimenti,

anche se non lo dimostrai.

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30

L’auto di Alessandro aveva il suo stesso profumo, o forse

era lui a passare tanto di quel tempo in macchina da impregnarsi dell’odore di quella tappezzeria costosa? Non

saprei dirlo con certezza, perché non gliel’ho mai chiesto. - Puoi rallentare per favore?- chiesi col pugno stretto

attorno alla maniglia, mentre con l’altra mano premevo una maglietta di Alessandro contro la ferita sul collo. Bruciava

come se al posto del panno ci fossero dei carboni ardenti. Mi guardò un po’ accigliato, ma pochi secondi dopo

l’auto rallentò e il paesaggio intorno riprese le proprie sembianze.

Eravamo fuori città, diretti all’imbocco dell’autostrada. - Dove stiamo andando?-

- Ti riporto a casa. Qui è troppo pericoloso per te.- Mi drizzai sul sedile, stizzita - No!- protestai.

- Non è il momento di fare i capricci, Iris. È una questione di vita o di morte.-

- É della mia vita che stiamo parlando. Lasciate che sia io

a decidere cosa fare.- - No!- accelerò di nuovo.

- Voglio tornare a casa mia.- - Ci tornerai quando sarai al sicuro. Adesso è fuori

discussione.- disse serio. Troppo serio per continuare a replicare.

- A casa tua non ci torno.- dissi smorzando i toni - Tua moglie mi odia e la tua famiglia non è affatto contenta di

avermi lì con voi. Mi sento un’intrusa, una prigioniera.-

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La corsia del telepass era occupata da un’auto in panne e

dovemmo fermarci in coda in attesa che finissero di togliere la macchina dalla strada.

Alessandro approfittò del contrattempo per fermarsi un momento a fissarmi. Dio, che occhi!

- Hai ragione.- disse con indifferenza - La tua presenza in casa nostra non è gradita. Per ovvie ragioni.-

Per ovvie ragioni? Per un attimo pensai d’aver capito male, che il dolore e la paura mi avessero annebbiato il

cervello. - Sei una minaccia per noi. Ogni giorno in più che resti in

casa nostra metti in pericolo la mia famiglia.- Sentii un’ondata di lacrime risalire agli occhi dal

profondo del cuore - Ma io… non capisco.- - Noi non siamo immortali come Manuel, Iris. Demian è

molto potente e ha dalla sua una schiera di seguaci immortali. Sono demoni. E per quanto io possa avere un

qualche controllo su di loro per diritto di nascita, non posso tenerli a bada tutti insieme. Per arrivare a te, sarebbero

capaci di tutto, anche ribellarsi a me e, in quel caso, mi troverei costretto a dover scegliere se proteggere te o la mia

famiglia.- distolse lo sguardo da me, per concentrarsi sulla piccola folla diradarsi dalla nostra corsia - Se le cose

dovessero andare male…- riprese dopo un attimo di silenzio - Non posso abbandonarli per te, lo capisci, vero?-

- Io…- non sapevo proprio cosa rispondere. Mi guardò, sforzandosi di sorridere - Sono sicuro che

andrà tutto bene. Dacci solo il tempo di risolvere questa situazione e ti prometto che ti riaccompagnerò

personalmente a casa tua.- - Non voglio che la tua famiglia sia in pericolo a causa

mia.- - Stanno bene. Tutti quanti. E non sta a te preoccuparti di

questo.-

Page 319: 2-Temptation - Cassidy McCormack

- E invece sì.- eravamo ancora fermi e spalancai lo

sportello per uscire dall’auto. La mia fuga fu accompagnata dai clacson delle auto

dietro di noi. - Iris, torna subito in macchina.- tuonò Alessandro alle

mie spalle. Mi voltai solo un istante. Era sceso dalla macchina e mi

stava venendo dietro. - No!- strillai accelerando il passo - Dovete lasciarmi in

pace. Tutti quanti.- Qualcuno uscì da una Punto grigia e iniziò ad imprecare

verso di noi. Era notte fonda. La corsia era stata liberata dall’auto in panne e ora eravamo noi ad ostruire il

passaggio. All’improvviso la terra mi tremò sotto i piedi. Così forte da costringermi a fermarmi per non perdere

l’equilibrio. Grida spaventate si innalzarono tutt’intorno. E in molti si riversarono fuori dalle auto.

Istintivamente mi voltai a cercare lo sguardo severo e fermo di Alessandro. Era a meno di un metro da me e nel

buio della notte i suoi occhi rilucevano come stelle incandescenti.

Quell’espressione malvagia sul suo viso mi fece davvero paura. Anzi, ne ero terrorizzata, ma allora… dov’era

Manuel? Perché non riuscivo a sentirlo? - Torna in macchina…- disse serio - …per favore.-

- Ci tornerò solo se mi prometti che mi riporterai indietro.-

Scosse semplicemente la testa - Manuel sta bene. Riportarti indietro significherebbe mettere in pericolo sia te

che lui. È questo che vuoi?- - Smettila di leggermi nella mente.-

- E tu smettila di fare la stupida e risali in macchina.- mi rimproverò.

Esitai un momento appena, ma bastò a fargli perdere la

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pazienza. Mi afferrò un polso per tirarmi verso di lui e quel

banalissimo contatto, per un eterno istante, mi catapultò fra le fiamme dell’inferno. E non lo dico in senso figurato. Vidi

le fiamme e tutto il resto. La desolazione, la paura, il dolore…tutto quanto. Non fece resistenza quando con uno

strattone mi liberai il braccio dalla sua stretta. Il polso mi bruciava come se ci avessero appena posato

su un ferro rovente. L’impronta della sua mano impressa sulla pelle.

Dal suo sguardo pentito mi resi conto che quello che era appena accaduto non era stato intenzionale.

- Iris, io non ... Mi dispiace.- Feci qualche passo verso la macchina, prima di dire -

Tornerò indietro, Alessandro. Con o senza di te.- Non osavo voltarmi a guardare l’espressione del suo volto. Lo

conoscevo abbastanza ormai da sapere che vi avrei trovato quegli occhi diabolici che mi terrorizzavano. Nonostante

ciò aggiunsi - Se vuoi fermarmi ti consiglio di uccidermi adesso, perché non esistono parole o minacce che possano

fermarmi.- Naturalmente non credevo a una sola parola che uscì in quel momento dalla mia bocca, ma dovevo provarle

tutte, perché sapevo che lui era troppo forte per me.

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31

Avevo il fiatone mentre mi avvicinavo a passo svelto

verso il luogo dello scontro. Alessandro alla fine aveva

ceduto alla mia insistenza, ma aveva parcheggiato dietro l’angolo per cogliere i nemici di sorpresa qualora la lotta

fosse ancora in corso. All’inizio credevo lo facesse per proteggere me, per nascondere la mia presenza il più

possibile, ma dovetti ricredermi quando iniziando a correre verso il parcheggio mi lasciò andare senza neanche provare

a fermarmi. Riuscivo a sentire solo i miei passi veloci sulla strada. Se mi fossi fermata, a quell’ora di notte, non avrei

udito altro che i rumori ovattati provenire dall’interno del locale di Gian, ma niente di più. E, benché dovessi

sentirmene rassicurata, era proprio quel tetro silenzio a preoccuparmi. Dov’era Manuel? Perché non riuscivo a

sentirlo? Quando raggiunsi il parcheggio, come avevo già intuito

dal silenzio, lo scontro era cessato. Non c’erano più tracce di demoni, né lì, né nelle prossime vicinanze, dato che non

riuscivo a percepire presenze oscure intorno a me. Samuel sedeva sul muso della mai auto, intento a legarsi

un pezzo di stoffa, strappato chissà dove, attorno alla coscia destra che sanguinava copiosamente macchiandogli i

pantaloni. Mi guardai intorno in cerca di Manuel, ma scorsi prima Rachael inginocchiata a terra a ripulire sui jeans la

lama della sua spada imbrattata di una sostanza fluida e più scura del sangue umano. Linfa di demone.

Manuel era qualche passo alla sua destra, seduto a terra a leccarsi, come un animale, un profondo squarcio sul

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braccio. Probabilmente il risultato di un morso di quelle

malefiche zanne appuntite che avevo avuto la sfortuna di sperimentare neanche un’ora prima.

Feci per avvicinarmi a lui, ma appena si accorse di me mi ringhiò contro come una belva inferocita.

Mi sentii tirare indietro. Era Alessandro, che intanto si frapponeva fra di noi.

- Cosa ti avevo detto?- mi disse - Stanno tutti bene, ora torna in macchina. E’ diventato troppo pericoloso per te

restare qui.- Una parte di me si rifiutava di credere che non fossi al

sicuro lì con Manuel e gli altri, visto che negli ultimi mesi erano state le uniche persone a preoccuparsi per me, anche

se definirle persone per loro risuona molto più come un offesa. Nonostante ciò, avvertivo un senso di pericolo

intorno, un’energia molto potente che mi premeva sulla pelle come la stretta di cento mani. Indietreggiai di qualche

passo, ma senza distogliere lo sguardo da Manuel. Mi stava fissando con i suoi intensi occhi intrisi di luce innaturale,

ma il suo sguardo non emanava niente di neanche lontanamente simile alla bontà. Era lo stesso sguardo di

Damian un attimo prima che lui stesso me lo togliesse di dosso.

Rachael mi si avvicinò lentamente. Non ne ebbi paura, neanche quando si abbassò con il viso vicinissima al mio

collo per annusare la ferita sanguinante. Manuel intanto si rimise in piedi, sempre gli occhi fissi su

di me. Rachael si fece da parte all’improvviso, come se le fosse stato ordinato di farlo da una voce che potesse udire

lei soltanto. Manuel fece un passo verso di me, ma Alessandro gli si

parò davanti impedendogli di avanzare oltre. - E’ stata una lunga notte. Torniamocene tutti a casa e

dormiamoci su.-

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Udimmo tutti Alessandro pronunciare quelle parole,

eppure Manuel sembrò non mostrare la minima attenzione a quello che disse, era totalmente concentrato su di me,

sentivo il peso della sua energia scorrere sul mio corpo come un vento caldo.

- Non avresti dovuto venire fin qui da sola a quest’ora. Hai idea di cosa sarebbe accaduto se non fossimo riusciti ad

arrivare in tempo?- mi sgridò. Ricordo che nella mia testa gli urlai contro che se la mia

vita era costantemente in pericolo era solo per colpa sua, ma in definitiva riuscii appena a balbettare qualche parola

insignificante. - Sei un’incosciente, una stupida ragazzina viziata.-

gridò. Alessandro gli posò una mano sulla spalla, ma lui la

respinse con violenza. - Manuel, adesso stai esagerando. Calmati, non è successo niente.-

- E poi a te cosa importa? - strillai - Fra tutti, qui, sono l’unica a rischiare qualcosa in questa vostra stupida faida.-

mi avvicinai - E non ti permetto di usare quel tono con me. Sei entrato nella mia vita senza chiedermelo, mi hai

stravolto l’esistenza invadendo la mia casa, devastando le mie certezze, accusandomi delle colpe più atroci, come se

dovessi pagare le colpe del mondo solo per avere la disgrazia di essere nata nelle sembianze di uno di quegli

esseri umani che disprezzi tanto. Non ti ho reso io ciò che sei. Se proprio vuoi incolpare qualcuno prenditela con il

Dio che ti ha creato, non con me. È Lui che ti ha gettato su questa terrà di maledetti e non si è più curato della tua sorte.

E se non fossi così accecato dal desiderio di tornare da Lui, ora non mi parleresti in questo modo, guardandomi come se

fossi la peggiore delle creature del creato. Non sono io la causa dei tuoi sbagli. Non pagherò io per gli errori del tuo

passato, Manuel. Damian mi ha detto che cosa hai fatto.-

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Al nome di Damian, fece un balzo furioso in avanti. Mi

sarebbe piombato addosso se Alessandro non l’avesse fermato.

- Tu non sai proprio niente ragazzina. Niente!- gridò, stretto nella morsa di Alessandro.

- Sei un codardo!- gridai a mia volta - Hai abbandonato i tuoi compagni nelle grinfie del Male per rimanere

aggrappato a una virtù che non ti appartiene. Sarai puro nella carne, Manuel, ma il tuo spirito è corrotto dalle stesse

pulsioni che ti ripugnano.- Al termine delle mie parole, un’onda di energia di

potenza inaudita sbalzò indietro di qualche metro sia me che Alessandro, che andò a sbattere con violenza la testa

contro le mura esterne del retro del locale di Giampiero. Quando riuscii a mettermi seduta, lui era ancora a terra

privo di conoscenza. Era troppo vicino a Manuel quando c’era stata l’esplosione e l’impatto con la sua energia doveva

essere stato troppo forte. Però era ancora vivo, percepivo chiaramente la sua energia vitale.

Non so quanto tempo sia rimasta senza conoscenza, ma quando mi ripresi, Manuel era seduto a terra, in fondo al

parcheggio, che si stringeva le tempie con le mani e Rachael era lì con lui.

Samuel invece era un po’ in disparte a confabulare con un tizio che non avevo mai visto prima. Non era umano,

non era neanche un demone però, ma allora chi era? Manuel fu il primo ad accorgersi che mi ero ripresa. Si

alzò a fatica, aiutato da Rachael e venne verso di me. Vederlo avvicinarsi mi mise talmente in allarme, che riuscii

a sentire nella mia testa la sua voce dirmi - Sta tranquilla, non

voglio farti del male.-

Lasciai che si avvicinasse, lasciai che mi si inginocchiasse accanto e che mi abbracciasse stretta a sé.

- Perdonami!- sussurrò, in modo che potessi sentirlo io

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soltanto, la voce rotta dal senso di colpa e la

preoccupazione. Avrebbe potuto uccidermi? Assolutamente sì, anzi, forse

non ero mai stata così vicina alla morte come in quella circostanza. Quasi uccisa dall’unica creatura alla quale

avevo affidato ciecamente la mia unica breve esistenza mortale.

Fu in quel preciso momento che mi svegliai. Chi era quella gente intorno a me? Angeli? Signori della

Morte? Creature immortali? Demoni infernali? Come ero riuscita a non vedere l’assurdità di tutto quello

che avevo vissuto nelle ultime settimane? Come ero riuscita a non impazzire davanti a una tale consapevolezza?

Probabilmente merito di un qualche sortilegio di quegli strani esseri, sortilegio che si spezzò nel momento stesso in

cui Manuel mi strinse a sé, lasciando in me tutti i ricordi che in un attimo ridestarono le paure e le angosce assopite con

l’inganno. Incapace di reggere tutto quell’orrore, mi aggrappai a Manuel e liberai un grido così forte da lasciarmi

completamente svuotata e persa quando riuscii a smettere. Non ricordo altro di quella sera.

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32

Mi risvegliai nel mio letto, ma mi sentivo come se avessi

partecipato a un lunghissimo brutto sogno. Uno di quei sogni così reali da lasciarti per un momento a pensare se sia

tutto vero o solo uno scherzo bizzarro dei un cervello troppo sotto pressione. Durò appena un attimo quella

sensazione di smarrimento, poi la coscienza mise a posto tutti i tasselli. Non avevo sognato. Era tutto vero e una

nuova ondata di terrore mi travolse, scatenandomi tremori in tutto il corpo.

Mi guardai un po’ intorno con i sensi all’erta per percepire presenze pericolose in casa, ma era tutto

tranquillo. Ero sola in casa. Ma dov’era Manuel? Possibile che mi avesse lasciata da sola? Possibile che mi avesse

abbandonata a me stessa proprio adesso che sapevo tutto? Forse credeva che ora che l’incanto era stato spezzato

potessi nuocere in qualche modo a lui e alla sua gente, ma non sarebbe stato sufficiente annebbiarmi la mente come

aveva già fatto in passato? Mi alzai per andare in bagno, ma neanche arrivai in

corridoio che sentii aprirsi il portone d’ingresso chiuso a chiave.

Mi nascosi quel tanto che mi permetteva di scorgere da uno specchio nel corridoio chi stava entrando con il mio

mazzo di chiavi in mano. Rachael.

Uscii allo scoperto e lei sembrò sinceramente contenta di vedermi.

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- Sei sveglia!- esclamò con il sorriso sulle labbra -

Pensavamo non ti svegliassi più.- Mi stropicciai gli occhi - perché, quanto tempo ho

dormito?- - Quattro giorni, ora più, ora meno.-

- Quattro giorni?- - Eh sì, dormigliona.-

Posò le buste della spesa sul tavolo della cucina nuova di zecca.

- Ti ho preso qualcosa da mangiare. Sarai affamata.- - Veramente ho lo stomaco sotto sopra.-

- Devi mangiare qualcosa. Ho promesso a Manuel che mi sarei presa cura di te.-

- Perché tu?- chiesi allarmata - Lui dov’è?- Rachael mi fisso con l’aria colpevole di chi aveva detto

una parola di troppo. - Rispondi, Rachael. Dov’è Manuel?-

- Iris…- non riuscì a continuare. - Dimmi cos’è successo. Dov’è?-

- Non posso, Iris. Mi ha fatto promettere di non dirtelo.- - Non mi interessa cosa hai promesso a lui.- mi alterai -

Voglio sapere la verità. Ne ho abbastanza di tutte queste continue menzogne.-

Sembrò pensarci su un momento, poi rispose - Mi dispiace, non posso proprio.- e svanì nel nulla impedendomi

di replicare alcunché. Ricominciare a vivere senza pensare a tutto quello che

era successo sarebbe stato assolutamente impossibile. Ero ancora costantemente in pericolo. C’era ancora un’orda di

demoni a darmi la caccia per motivi a me sempre più oscuri. Mi mandava in bestia che nessuno mi mettesse al corrente

della situazione. Manuel, Samuel, Rachael, Alessandro e la sua famiglia si erano presi l’onere di proteggermi e Damian

e i suoi sicari continuavano a braccarmi in ogni dove,

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approfittando della minima distrazione delle mie sentinelle,

per attaccare. Avevo intuito il forte rancore che Damian nutriva per

Manuel, ma cosa c’era davvero sotto? Possibile che ce l’avesse tanto con lui solo per essersi tirato indietro in

passato, lasciandoli soli a combattere una guerra persa? No, il suo disprezzo era troppo marcato per essere solo questo.

Ma allora di cosa si trattava? Avrei voluto parlarne con Manuel se non avesse avuto il

bruttissimo vizio di sparire quando le cose si mettevano male.

Erano trascorsi cinque giorni da quando mi ero risvegliata e Rachael, pur di evitare un confronto con me,

passava a casa mia solo di notte, quand’era certa che stessi dormendo. Per il resto della giornata, mi tenevano d’occhio

a turno, lei e Samuel, ma tenendosi a debita distanza da me. Di Manuel neanche l’ombra. Alessandro poi, non sapevo

neanche se si fosse ripreso o no dall’incidente della notte dello scontro con Damian e i suoi uomini.

Non conoscevo la strada per arrivare a casa sua, sapevo solo che la villa era immersa in un qualche immenso parco

verde alle porte di Roma. Riguardo a Manuel, ovunque fosse, era al sicuro, perché

non avevo più udito la sua voce nella mia mente da quella notte maledetta.

Una mattina mi alzai di buon ora, feci colazione e uscii per andare a correre sulla pista ciclabile sul lungofiume. La

mia vita da mortale ormai sembrava non avere più un senso logico. Avevo perso ogni ambizione personale, non cercavo

la compagnia di nessuno dei miei simili, non andavo più a lavoro, non chiamavo più neanche la mia famiglia da

settimane ormai, limitandomi a scrivere una mail a mio padre ogni tanto, giusto per non farli preoccupare al punto

da venirmi a cercare. Il mio unico pensiero, il mio unico

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scopo era diventato la ricerca della verità. Dovevo sapere

perché Damian desiderava la mia morte con così tanto ardore, dovevo sapere perché Manuel si affannava tanto a

proteggermi se allo stesso tempo non voleva avere niente a che fare con me. Dovevo sapere perché Alessandro aveva

accettato di fare accordi con Manuel per proteggermi. Da qualche giorno avevo preso l’abitudine ad uscire

armata e anche quella mattina portai con me la 9mm carica, contro qualsiasi imprevisto demoniaco.

La paura era diventata una consuetudine giornaliera, ma avevo imparato a conviverci senza farmi prendere dal

panico al minimo rumore. Avrei dovuto imparare a badare a me stessa prima o poi,

se volevo riprendermi in mano la mia vita e liberarmi della presenza costante di Rachael e Samuel alle mie spalle. Se

loro non volevano avere contatti con me, allora io non volevo neanche che sprecassero la loro esistenza a farmi da

balie. Gli attacchi demoniaci si erano ridotti di più della metà,

dagli inizi del mio risveglio. Probabilmente si era sparsa la voce della sorte toccata ai loro predecessori per mano di

Samuel e Rachael. Stavano dando loro del filo da torcere e sempre più demoni perivano nell’attacco, annientati dalle

loro spade. Damian conosceva bene la loro forza, essendo stato uno

di loro per tempi immemorabili. Nonostante ciò, continuava a mandare i suoi uomini a morte certa pur di

non perdere neanche un’occasione per averla vinta su di me. Con Manuel lontano dalla squadra, da più di un mese, a

cosa era dovuta la sua ostinazione nei miei confronti? Erano trascorsi due giorni senza attacchi, e ogni ora in

più che passava, aumentavano le probabilità di un attacco immediato.

Non potevo continuare a vivere così. La paura mi

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logorava la mente. Rischiavo di impazzire.

Dopo l’ennesimo tentativo di comunicare con Rachael o Samuel andato a vuoto, decisi di fare di testa mia. Avrei

parlato con Manuel in un modo o nell’altro. Che gli piacesse o no avrebbe dovuto trovare il coraggio di

affrontarmi e dirmi la verità o trovare un modo per rimettere tutto a posto una volta per tutte e rendermi la mia

vita. Lui mi aveva contagiata, lui mi aveva condannata a tutto quel terrore e sarebbe stato lui, in un modo o nell’altro

a dover trovare una soluzione. Corsi per un paio d’ore come di consueto anche quella

mattina. iPod a palla e pistola a portata di mano all’interno di un borsello sul fianco cucito a una cintura. Mi sentivo al

sicuro, anche perché sapevo che Samuel mi guardava le spalle. Ma era quella sicurezza a tenermi lontana da Manuel

e invece volevo trovare un rimedio per mettermi in contatto con lui. Mi venne un’idea, ma Samuel non mi avrebbe mai

permesso di metterla in atto. Sarebbe intervenuto prima che Manuel fosse riuscito a percepire le mie intenzioni.

Mi fermai all’improvviso voltandomi. Non riuscivo a vederlo, ma ne sentivo la presenza. Sapevo che era lì da

qualche parte. - Maledizione, Samuel.- gridai - Vieni fuori o lasciami in

pace.- Come immaginavo, non ottenni alcuna risposta, il che mi

mandò su tutte le furie. Senza pensarci un attimo, presi a correre lasciando la pista ciclabile e il fiume per immergermi

nel traffico del centro cittadino. Ero stanca e arrabbiata, profondamente arrabbiata.

In meno di mezz’ora raggiunsi la stazione centrale. Era piena di pendolari che ogni mattina prendevano un treno

per lavoro o studi vari. Corsi tra la folla, urtando qualcuno di tanto in tanto, ma senza fermarmi. Se conoscevo bene il

mio segugio aveva già intuito i miei piani e avrebbe fatto di

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tutto per fermarmi, ma non avrebbe potuto agire lì di fronte

a tutti senza uscire allo scoperto. Lo stesso ragionamento valeva anche Manuel però, quindi corsi lungo il

marciapiede di cemento fino a quando non fui abbastanza lontana e nascosta alla vista dei passeggeri in attesa. Saltai

giù dal marciapiede per raggiungere i binari e nello stesso momento in cui misi piede sulle rotaie, Samuel si

materializzò davanti a me. Mi afferrò il braccio per tirarmi via - Sei impazzita?- mi

sgridò - Vieni subito via.- Una voce alle sue spalle lo mise in allarme

costringendolo a voltarsi. Era un ferroviere. - Ehi, tu. Torna subito qui o chiamo la

vigilanza.- Non riusciva a vedere altri che me. Nel mentre che Samuel era voltato io corsi sull’altro

binario e con un gesto rapido tirai fuori la pistola per puntarla dritta al petto del ferroviere. L’uomo alzò le

braccia in segno di resa. - Decidi.- dissi a Samuel che era rimasto qualche metro

più avanti - Chi sei disposto a salvare dei due?- Il ferroviere era confuso e spaventato.

- Non fare la stupida, Iris. Non serve a niente.- - Devo arrivare a questo per poter parlare con voi?-

strillai. Fece per avvicinarsi e io lasciai partire un colpo che

sfiorò il ferroviere, immobilizzato dalla paura. Si udì il fischio del treno in arrivo.

- Dimmi dov’è Manuel e lo lascio andare. - - È andato via. Non so dove sia.- rispose senza perdere

d’occhio la direzione della canna della mia pistola - Metti giù quella pistola e vieni via da lì. Adesso!- cercava di

mantenere la calma, ma non ne aveva abbastanza per sembrare credibile.

- Scegli!- fu la mia risposta - Se provi a fare un passo

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avanti per salvare me, io uccido lui, altrimenti allontanati da

me, metti in salvo lui e lasciami qui.- - Non posso farlo. Manuel…-

Il treno fece capolino da dietro una curva. - Vieni via, Iris.-

- NO!- gridai in preda al terrore. - Iris! Porca puttana, vieni via da lì. Adesso!- ringhiò.

- Dimmi dov’è Manuel!- insistetti - Conterò fino a tre e poi premerò il grilletto. Quindi se devi prendere una

decisione fallo in fretta.- - Dannazione!- imprecò.

Il macchinista si era accorto della mia presenza sui binari e continuava a stordirmi con i fischi assordanti del treno,

come se in quel modo riuscisse a farmi togliere dalla traiettoria della sua corsa, visto che a poco sembravano

servire i freni per arrestarne l’andatura. - Uno…due…-

Samuel urlò - Iris, NO!- -…tre.- premetti il grilletto un istante prima che il treno

mi travolgesse e un attimo dopo che Samuel scaraventasse via il corpo paralizzato del ferroviere.

Il treno mi scorse davanti, fra i fischi dei freni e il panico generale di quanti erano accorsi a vedere il perché di tutto

quel trambusto. Ero riversa a terra, Manuel sopra di me, mi teneva ferma

per il polsi. I suoi occhi, fiamme vive, mi fissavano con ferocia demoniaca.

Per quanto riuscii a capire, la folla non riusciva più a vedermi. Io potevo vedere tutti loro, ma nessuno vedeva

me. Samuel era sparito.

Feci per togliermi Manuel di dosso e lui si alzò prendendo le distanze. Era davvero furioso.

Mi rialzai scrollandomi la sporcizia dai vestiti e feci per

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parlare, ma non me lo permise.

- Non voglio sentire una parola.- gridò - Ma che ti è saltato in mente? Sparare su un innocente a sangue freddo

per un tuo capriccio? Sei impazzita?- - Se tu non fossi scappato via…-

- Maledizione Iris, e maledetto il giorno che ti ho concesso di fuggire la prima volta che ti ho trovata…

umana.- la terra fu scossa da un tremito che mi fece

barcollare per rimanere in equilibrio - Prova a farmi un altro scherzo del genere e quant’è vero Dio ti uccido con le mie

mani prima di permettere che siano loro a prenderti.-

Ero talmente esterrefatta da quelle parole così cariche di

odio che la voce che mi uscì non fu che un sussurro - Ma come fai a disprezzarci così? Se è riuscito Dio a perdonare

gli uomini che hanno assassinato suo figlio, perché non puoi farlo tu?-

Le mie parole sembrarono toccarlo in qualche modo. Stette in silenzio alcuni istanti, poi, guardandomi dritta

negli occhi, rispose - Io non ti odio perché sei umana. Io ti odio perché sei Lei.- dopodiché svanì nel nulla così com’era

arrivato.

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33

Erano passati due mesi dall’incidente alla stazione. Le

parole di Manuel mi avevano ferita, lo ammetto. Sentirgli dire che mi odiava non era stato semplice da digerire, ma

almeno adesso sapevo la verità e, per assurdo, questa consapevolezza mi aveva dato la forza per andare avanti,

un appiglio per buttarmi tutto alle spalle e ricominciare. Di sicuro non sarebbe mai stato più lo stesso. Sapevo troppe

cose per poter fingere che andava tutto bene, ma riuscii comunque a ricreare una parvenza di normalità nella mia

vita. Ero solo più attenta, più all’erta al pericolo, ma per il resto, ero tornata a lavorare, avevo ripreso il progetto di

Rodolfo per la scenografia per le riprese dell’Otello e più di ogni altra cosa, ero tornata a dormire e mangiare

regolarmente. Tutto sommato non stavo affatto male. Manuel mi odiava. Samuel e Rachael continuavano a

farsi negare. Di Alessandro ancora nessuna traccia. Eppure mi sentivo bene. Non avere intorno quegli esseri surreali, mi

faceva ricordare qual è il mio posto nel mondo. Mi ero rassegnata all’idea che per il resto dei miei giorni

avrei dovuto costantemente guardarmi alle spalle e difendermi se necessario, che peraltro stava diventando una

pratica sempre più naturale, quasi ci trovavo gusto ad usare le armi. Era un piacevole sfogo alla frustrazione.

Sì, ne ero certa, potevo farcela. Avrei stretto i denti e sarei andata avanti a testa alta.

Se questo è il mio destino allora bene, non soccomberò ad esso.

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Per lavorare al progetto di Rodolfo era stato necessario

un mio trasferimento a Roma. Fare continuamente su e giù era troppo pericoloso. Tornavo a casa solo per il fine

settimana, così da poter andare a lavoro da Giampiero e risalire a Roma il lunedì mattina. Cercavo di tenermi

occupata il più possibile e funzionava benissimo al mio scopo di pensare il meno possibile ad angeli, demoni e

minacce di morte gratuite e costanti. L’unico tarlo nel pernottare a Roma, erano i continui

sogni indottimi da Jury. Per lo più si trattava del sogno ricorrente in cui mi ritrovavo improvvisamente catapultata

nel boschetto del parco della residenza dei Renzi, nei pressi della sua “prigione”. Fortunatamente, ero sempre del tutto

cosciente e consapevole di stare sognando e questo mi tranquillizzava molto, perché diversamente ne sarei stata

spaventata a morte. Le prime volte non capivo il senso di quelle intrusioni.

Jury non si faceva vedere e io per quanto potessi addentrarmi nella boscaglia non ero in grado di trovarne

l’uscita. Ci provai per un paio di notti ad uscire da lì, ma poi capii di non avere il comando della situazione e nelle notti

seguenti mi limitai a starmene seduta a fissare la torretta di pietra e ad ascoltarlo suonare il flauto.

Una notte però si decise ad uscire dal suo nascondiglio, attraversando la roccia come uno spirito immateriale. Bello

da mozzare il fiato. Come tutto ciò che è legato al male. Se ho imparato una cosa da tutta questa storia è che il male è

fascino, tentazione pura. I suoi capelli perfettamente in disordine, i suoi occhi di

ghiaccio, la sua bocca, la pelle di porcellana, il corpo di un dio greco, tutto di lui mi attraeva in modo assoluto, e questo

sì, mi spaventava molto. Non tentò neanche di varcare i confini della sua prigione

nonostante fossimo solo i protagonisti di un sogno

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immateriale ed io colsi il gesto come un monito per

mantenere le distanze a mia volta. Non parlò. Si limitò a fissarmi incuriosito, ogni volta

come fosse la prima volta, appoggiato con la schiena alla parete circolare della torre e le braccia incrociate al petto.

Attesi che dicesse qualcosa, che si decidesse a fare qualsiasi cosa, ma non accadde nulla.

Questa assurdità si ripeté per circa tre settimane. Tutte le notti la stessa identica scena. E ogni nuova notte fallivo nel

trovare il coraggio per rompere quel silenzio. E una notte finalmente si decise a parlare, e la sua voce…

non ricordavo la sua voce. Che Dio mi perdoni, in quel momento lo desiderai con la mente, il corpo e tutta l’anima.

- Ho notato che da qualche tempo vai a letto vestita come se dovessi uscire per un appuntamento. È un piccolo onore

che riservi a me? Allora per ringraziati domani sera ti porto a cena fuori. Voglio che ti fai bella solo per me per

l’occasione.- sorrise con malizia, mi mise in imbarazzo tanto da farmi arrossire e distogliere lo sguardo da lui, ma lo

adorai per questo. La notte seguente andai a letto vestita e truccata a

puntino. Mi sentivo un po’ stupida ad assecondare le sue bizzarre richieste, ma dopotutto, si era sempre comportato

in modo impeccabile ed ero sicura che se avesse voluto farmi del male l’avrebbe già fatto da tempo, avendo avuto

mille occasioni. Non ricordavo neanche più da quand’era che non uscivo per un appuntamento con un uomo.

Rischiavo di dimenticare cosa si provava. Quella sera ero agitata come una ragazzina al suo primo

appuntamento, e questo mi metteva a disagio, ma, che lo volessi o no, sarei stata comunque costretta a stare in sua

compagnia quella notte, quindi tanto valeva assecondarlo e stare a guardare dove voleva arrivare.

Mi chiamò a sé con la consueta puntualità. Come se

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fosse obbligato ad attendere la mezzanotte per operare i suoi

incantesimi, perché ormai era sempre più ovvio che era proprio di questo che si trattava.

Avevo indossato uno degli abiti da sera che avevo per le prime a teatro di un certo livello. Nero con corpetto senza

spalline e lungo fin quasi a terra. Il corpetto era di pizzo foderato e la gonna scendeva morbida lungo i fianchi

slanciando la figura senza nascondere le forme. Sandali di pelle con tacco a alto e un laccetto al collo di pelle nera con

cammeo in madreperla come unico gioiello. Capelli raccolti, profumo leggero e trucco sofisticato per

l’occasione. Tutto era curato nei minimi particolari. Differentemente dal solito, non mi ritrovai nel boschetto

quella notte, ma comodamente seduta su una panchina di marmo al di là del fossato della torre. Jury non c’era ancora,

ma l’attesa fu breve, perché si presentò dopo pochi minuti, vestito di tutto punto con un magnifico abito nero d’alta

sartoria. Si era perfino pettinato i capelli all’indietro e raccolti in una coda per l’occasione. Inutile dire che mi

lasciò senza fiato. Bello come il peccato. Rimasi incantata a fissarlo per un momento, mentre con

gesto aggraziato fece comparire davanti a sé un tavolo elegantemente imbandito e due sedie rivestite dal gusto

raffinato e palesemente costoso. Non riuscivo a credere a quello che stavo vedendo

eppure sembrava tutto così vero. Trasalii quando tese il braccio verso di me, come a volere

che gli afferrassi la mano. Sorrisi - Ma fai sul serio?-

- Te l’avevo promesso, no?- Per quanto si trattasse solo di un sogno, restava

comunque legato ai limiti della sua prigione. Non poteva oltrepassare il fossato.

- E come pensi che possa raggiungerti? A nuoto?-

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osservai.

- Vuoi concedermi l’onore di cenare con te questa sera?- Aveva i modi garbati tipici di un uomo dell’ottocento

britannico. Incantevole. Irresistibile. Feci solo sì con la testa e lui mi concesse un mezzo

inchino d’assenso, subito dopo mi ritrovai accanto a lui dall’altra parte del fossato.

- Ben venuta nella mia umile dimora, principessa.- sussurrò accennando un baciamano.

- Ci sono limiti a tutto questo?- chiesi visibilmente in imbarazzo - Potrei oppormi al tuo volere se lo desiderassi?-

- Lo desideri?- - Potrei?-

- In qualunque momento. Vuoi andare via? Vuoi che ti riporti a casa?-

Sorrisi intimidita - No. Non voglio.- Mi prese per mano - Quand’è così, permettimi di dire che

sei bellissima stasera. Sei sempre stata bellissima.- mi guidò

fino al tavolo per farmi accomodare. La cena fu deliziosa e Jury un perfetto gentiluomo d’altri

tempi. Parlammo di me, dei miei interessi, le mie passioni, il mio passato. Sembrava sinceramente interessato ad

ascoltarmi. Provai a chiedere qualcosa sul suo conto, ma senza

successo. Le mie domande rimbalzavano contro un muro di silenzi e indifferenza. Alla fine mi arresi all’evidenza e smisi

di chiedere. Mi fece bene parlare di me. Fu piacevole sfogarsi con qualcuno che non era lì per giudicarti, ma

semplicemente per ascoltare e comprendere. Finita la cena fece sparire tavolo e sedie e comparire un

grande tappeto con dei cuscini orientali, dove ci sedemmo. - Perché stai facendo tutto questo per me?- volli sapere.

- Non sto facendo niente di speciale. Volevo solo avere l’onore di passare una bella serata in tua compagnia.-

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- L’ultima volta che ci siamo visti, hai tentato di

uccidermi.- gli ricordai. - Ti sbagli! Non ho mai avuto alcuna intenzione di farti

del male. Forse dimentichi che se non fosse stato per me, Manuel ti avrebbe sbranata quella notte.-

- Manuel non mi farebbe mai del male.- Prendere le difese di Manuel lo innervosì. Si alzò in piedi

e prese le distanze da me. Stette in silenzio qualche minuto, poi disse - A Manuel non importa niente di te. A Manuel

non importa niente di nessuno.- Mi alzai a mia volta. Avevo tolto i sandali e rimasi sul

tappeto - Ma perché dite tutti la stessa cosa?- - Perché è la verità.-

- Quale verità? Dimmela.- - Io non devo dirti niente. E questa conversazione sta

andando troppo oltre.- - Jury…-

- No, Iris. Tu… non capisci. Non dovresti neanche nominarlo davanti a me, figuriamoci prendere le sue parti.-

- Io non prendo le parti di nessuno.- - Sei innamorata di lui! Ed è… inaccettabile.- sbottò -

Come puoi amarlo dopo tutto quello che ci ha fatto?- - Io…io…- io ero una stupida e non sapevo che cosa

rispondere. - Credo proprio che la serata possa dirsi conclusa.-

aggiunse rimaterializzandomi sull’altra sponda del fossato. - No, aspetta…-

- E stato un vero piacere Iris, grazie mille per la compagnia.- fece un mezzo inchino e svanì.

Un istante dopo mi risvegliai nel mio letto. Era l’alba.

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34

A chiunque chiedessi, nessuno a Roma sapeva o voleva

dirmi alcunché sulla famiglia Renzi. Una famiglia importante come la loro non poteva passare inosservata così

come volevano farmi credere. Perfino quando ne chiesi informazioni al Comune mi sballottarono come una pallina

da tennis da un ufficio all’altro senza mai dirmi niente di lontanamente significativo. Il massimo che riuscii a

ricavarne fu - Mi scusi, ma non siamo autorizzati a rilasciare simili informazioni ad estranei.-

Iniziavo davvero a perdere la pazienza. Da due notti andavo a dormire senza che Jury si

intromettesse nei miei sogni e questo mi mandava in bestia. Era chiaro che sapesse qualcosa e che non voleva dirmelo.

Se tutti si prendevano la briga di tenere la bocca chiusa poteva significare solo che si trattava di qualcosa di davvero

grosso. E più pensavo a questa probabilità, più accresceva in me

l’ostinazione di conoscere la verità. Inoltre avevo notato degli strani cambiamenti in me e ne

ero spaventata, perché sempre più di frequente ero soggetta a delle inquietanti visioni di battaglie, sangue, grida e morte

ovunque. Non c’erano momenti precisi, potevano presentarsi in

qualunque momento, che fossi in casa, su un autobus o a fare la spesa non faceva differenza.

Almeno di questo qualcuno doveva rendermene conto, no?

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Tornai a casa mia per recuperare dei testi che mi

servivano per il lavoro alla scenografia. Non mi ero illusa neanche un momento di potervi trovare Manuel, sapevo che

era impossibile anche solo pensarlo, eppure non lo nego, dentro di me lo speravo.

Non trovai Manuel, ma la segreteria telefonica lampeggiava. C’erano due messaggi. Il primo era di mia

madre. Mi avvisava che mio zio, che la settimana dopo avrebbe compiuto cinquant’anni, aveva organizzato una

festa di compleanno e voleva riunire tutta la famiglia. Il messaggio nascosto era “Non ti azzardare a fare come

l’ultima volta e prenota subito un aereo per tornare a casa quel giorno. Non accetto scuse.”

Come se non avessi già abbastanza problemi. Il secondo messaggio era di Michele. Da quando ci

eravamo lasciati, non era mai stato un bel momento vederlo, sentirlo o soltanto sentirlo nominare. Mi riportava

a galla tutta l’angoscia e il dolore che aveva seguito la rottura della nostra relazione.

Amavo Michele? In cuor mio non avrei mai smesso di farlo, ma non potevo tornare con lui. Si era rotto qualcosa

fra noi che niente e nessuno avrebbe potuto ricostruire. Mi chiamava per sapere se stavo bene, mi chiamava per

dirmi che lui stava bene. Milano gli piaceva. Il lavoro era un

sogno ed era riuscito a ricostruirsi una vita. Mi chiamava per dirmi che nonostante tutto c’era e ci sarebbe sempre

stato per me se ne avessi avuto bisogno, perché se il nostro amore era finito, il suo affetto sarebbe sempre rimasto

immutato. - Forse era destino che sarebbe dovuta andare così. Non lo so,

piccola, ma se c’è una cosa di cui sono assolutamente sicuro, è che ti voglio bene e che ti auguro tutta la felicità del mondo. E scusami se non sono stato in grado di renderti felice come ti avevo promesso. Il

mio unico rimpianto è tutto il dolore che hai dovuto provare a

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causa mia. Tornerei indietro se potessi, ma non posso cancellare i miei errori, né posso fare ammenda per quello che ti ho fatto. Posso

solo garantirti il mio affetto e la mia amicizia, nella speranza che tu riesca a perdonarmi un giorno. Stammi bene, tesoro. Spero di risentirti presto.-

Presi la segreteria telefonica e la scaraventai con forza

contro la parete. - E va bene!- gridai - E’ questo che vuoi? Sei contento

adesso? Era questo che volevi, no? Mi odi fino a questo punto? Quale imperdonabile torto ti ho fatto per meritarmi

tutto questo? Dov’è la tua misericordia? Non ne è rimasta neanche una briciola per me? Possibile che tu mi abbia già

giudicata e condannata all’inferno?-

Una forte fitta alla testa mi fece accasciare a terra. La battaglia imperversava, i due eserciti erano un

tutt’uno nella calca di corpi sudati e sporchi di sangue. Le spade ad ogni impatto liberavano scintille di fuoco. Il

rumore del combattimento era così assordante da non riuscire a distinguere gli ordini gridati dai comandanti delle

due fazioni, e i corpi così stretti l’uno all’altro da non riuscire a distinguerne i volti, sotto gli elmi dorati.

Io assistevo alla battaglia dall’alto. Non avevo un corpo a cui affidarmi, fluttuavo semplicemente come fossi parte

stessa del vento che infuriava sulla pianura disseminata del lamento dei corpi a terra dei feriti.

Aveva tutta l’aria d’essere una diatriba interna, poiché i soldati avevano tutti la medesima armatura, un esercito in

conflitto. Qualcuno doveva essersi ribellato ai superiori, scatenando la battaglia a cui stavo assistendo. Si riuscivano

a distinguere le due parti soltanto osservando i feriti. Perché le armature di molti di loro, man mano che cadevano

vittime delle spade nemiche, mutavano da color oro a color platino.

Senza volerlo, mi allontanai dalla battaglia per aggirarmi

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non vista fra le fila dei caduti. Non c’erano morti fra loro,

ma un lago di sangue si mescolava ad imbrattare il terreno. Dando uno sguardo allo scontro, mi resi conto che le

armature dorate stavano avendo la meglio. Erano in netta superiorità numerica ormai.

In quel mucchio di corpi però, due attirarono la mia attenzione. Non avrei saputo dire se appartenessero al

gruppo dei vincitori o dei vinti, riuscivo solo a notare come combattessero insieme, schiena contro schiena per

difendersi dal nemico, chiunque esso fosse. Erano stati accerchiati e nonostante questo non si davano per vinti. La

luce intensa del loro sguardo parlava da sola. Non si sarebbero arresi. Avrebbero combattuto fino allo stremo

delle forze proteggendosi a vicenda. Non avrebbero mai respinto il nemico, questo era più che evidente, eppure non

si arresero, neanche quando uno dei due cadde in ginocchio, trafitto al petto. L’altro combatté per entrambi.

La battaglia era agli sgoccioli ormai. Un folto gruppo di soldati dorati, iniziarono a soccorrere i compagni caduti e

catturare i nemici, privandoli delle armi e ammassarli tutti insieme guardati a vista da un manipolo di soldati armati.

Era il momento della resa, ma c’era ancora qualche stolto che credeva di poter rovesciare le sorti dello scontro, anche

se dovettero arrendersi molto presto all’idea di non avere più scampo. Le armature mutavano man mano che il

nemico si dichiarava sconfitto. I due soldati che avevano attirato la mia attenzione un attimo prima, intanto

continuavano a resistere. Attaccati ora da uno ora dall’altro gruppo. Li combattevano entrambi. In due soltanto contro

entrambi gli eserciti in lotta. Il soldato colpito al petto era riuscito a rimettersi in piedi. Si era perfino sfilato il pettorale

forato dell’armatura. La tunica imbrattata di sangue. Si premeva la ferita con una mano e con l’altra rispondeva ai

colpi dei nemici, pensando più a difendere il compagno che

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se stesso. Quel massacro sembrava non avere fine, ma

all’improvviso un grido straziante si alzò dalla mischia. Un grido così angosciante da farmi percepire il suo stesso

dolore. L’altro soldato era stato colpito. Trafitto su un fianco non riuscì a rimanere in piedi e si accasciò a terra

mentre il nemico si apprestava a dare il colpo di grazia. Fu allora che l’amico gli si parò davanti coprendone il corpo

con il suo. La battaglia poteva dirsi conclusa. Si erano arresi, e dopo

di loro anche il resto dei più temerari gettò le armi in segno di resa. Solo allora potei notare che l’ armatura dei due

soldati era diventata nera, non oro, non platino, ma un nero lucido come il petrolio. Nonostante ciò, furono condotti nel

mucchio degli sconfitti ad attendere la loro sorte. Poco più in là, in disparte, due soldati discutevano fra

loro in modo piuttosto animato. Uno di loro, preso dall’impeto della discussione, si sfilò l’elmo e lo lanciò con

forza contro una roccia. Manuel!?!

- Ma in questo modo non finirà mai, Gabriel.- gridò. - Sono gli ordini. Vuoi forse opporti ad essi?-

- Se accettiamo ne usciremo sconfitti tutti, lo sai, vero?- - Se questo è il Suo volere…-

Manuel abbassò lo sguardo a terra, rassegnato - Così sia.- Non so se svenni a causa della visione, ma quando

rinvenni ero a terra, nel corridoio del mio appartamento. Mi rialzai facendo molta attenzione, perché le gambe mi

tremavano e rischiavo di cadere. Guardai l’orologio. La visione che mi era sembrata durare ore, nella realtà non

aveva rubato che qualche manciata di minuti. Mi distesi in po’ sul divano in soggiorno ad attendere che la testa

smettesse di girare, ma seguirono altre e altre visioni, alcune brevi e sfocate, altre fatte solo di suoni e rumori, altre più

dettagliate e altre ancora di qualche attimo appena. Quando

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rinvenni sentii il cervello andare a fuoco e l’unica cosa che

riuscii a percepire fu la mia voce. Gridavo… un nome…sempre lo stesso… ADRIEL!

Mi misi a sedere, ero madida di sudore e il cuore sembrava impazzito. Di fronte a me, poggiato alla parete

con le braccia conserte c’era Manuel. Non so come feci ma gli fui addosso in un lampo. Neanche lo percepii il mio

corpo alzarsi dal divano. Il mio avambraccio contro la sua gola. Sentivo dentro di

me una forza innaturale - Come hai potuto tradirci così?- gridavo, ero fuori di me. Neanche mi rendevo conto del

perché dicessi quelle cose. - Ho soltanto obbedito agli ordini. Sei stata tu sola

l’artefice della vostra condanna.- - Condanna? È una maledizione!- strillai.

Mi spinse via con forza ponendosi sulla difensiva - Sì, una maledizione che ci ha macchiati tutti a causa tua.

Avresti dovuto saperlo che se l’avesse scoperto ci sarebbero state delle conseguenze, ma non ve ne è importato niente.-

- Tu solo sapevi la verità.- Mi fissò esterrefatto - È questo che credi? Pensi davvero

che sia stato io a tradirvi?- - E chi altri potrebbe essere stato?- ringhiai - Io mi fidavo

di te. Eri il più caro fra i miei fratelli, mi sono confidata con te, e invece…-

Batté un pungo contro la parete, ne venne via un gran pezzo d’intonaco - La tua sporca verità non è uscita dalle

mie labbra. Non l’avrei mai fatto. Stupida sciocca che non sei altro.-

- E allora com’è andata?- - NON LO SO!- gridò.

- Allora perché non me l’hai detto subito quando ci siamo rivisti invece di portare avanti questa messa in scena

fino ad oggi? Perché?-

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- Perché volevo proteggerti. Perché non faccio altro da

quel dannato giorno. Perché l’unico modo per tenerti lontana da lui era tenerti all’oscuro di tutto. Ecco perché!-

C’era una gran confusione nella mia testa. Era come se mi fossi sdoppiata in due entità distinte, ma legate l’una

all’altra e non riuscivo a venirne fuori. Avevo recuperato dei ricordi che in apparenza non mi appartenevano, ma che

sapevo essere miei, e lottavo per cercare di dare un senso a quella nuova consapevolezza.

Manuel fece un passo verso di me, ma lo respinsi - Dimmi che cosa è successo. Dimmelo Manuel, ho tutto il

diritto di saperlo.- - Per correre di nuovo da lui? Ho già assistito non so più

quante volte a questa scena ed è andata a finire sempre allo stesso modo. Questa volta no però. Non lascerò che ti faccia

del male di nuovo. Non me ne starò un’altra volta a guardare mentre ti rovini con le tue stesse mani.- la rabbia

gli aveva iniettato gli occhi di sangue. - Non è una tua scelta, Manuel.-

- Ma non capisci che la condanna è proprio questo?- strillò - Sei stata creata per un solo scopo, Uriel, amare Dio

e Dio soltanto. Tu non solo hai scelto di amare qualcun altro, ma lo hai amato anche più di quanto amassi Lui.

Potrai correre fra le sue braccia altre mille volte, e per altre mille volte ti sarà strappato via. Rassegnati e interrompi

quest’agonia.- - Per te è facile. Tu non sai cos’è l’amore, non l’hai mai

saputo. Sei sempre stato troppo attaccato a quelle maledette ali per lasciarti andare e scoprire cosa significa davvero

amare. Eri uno dei suoi prediletti, ma solo perché ti limitavi a piegarti al suo volere, qualunque esso fosse. Quello non è

amore, Manuel, è servilismo. Niente di più.- - Sta zitta.- sbraitò - Tu non sai niente. Per te si riduce

tutto a qualche flash di ricordi confusi e perlopiù inutili.

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Sono io che ho dovuto passare ogni singolo giorno dalla

caduta a fare i conti con la vostra volubilità. Io mi porto

nell’anima il rimorso di ogni singolo momento di quei

giorni, non tu? Tu non ricordi niente. Tu ti limiti a

ricominciare da capo, niente di più. Quindi non ti azzardare a fare la morale a me, che ti ho guardato le spalle per tutto

questo tempo.- - Te lo ripeto per l’ultima volta, Manuel: dimmi che cosa

è successo quella notte, o andrò a cercare le mie risposte da qualche altra parte.-

- Fallo! Usa i tuoi poteri e lascia che ti trovino. Sono

stanco di farti da balia. Forse, almeno così, questa storia

finirà una volta per tutte.- - Non mi perdonerai mai, vero?- chiesi con tutta la calma

di cui ero capace - Non mi perdonerai mai di aver scelto lui.-

Quella domanda lo lasciò per un momento senza parole. Non se l’aspettava - Non ti perdonerò mai per aver dato

inizio a tutto questo. No.- - Mi dispiace che abbiano punito anche voi altri, ma non

mi pento di niente. Rifarei tutto fino all’ultimo gesto.- - Lo so! Ed per questo che non ho mai smesso un solo

istante di credere d’aver fatto la scelta giusta.- - Non è giusto che paghiate per me.-

Mi diede le spalle - Non ha più alcuna importanza ormai. Quel che è fatto è fatto. Non si può tornare indietro.-

- Tu lo sai vero che lo troverò anche senza il tuo aiuto? Solo che potresti facilitarmi di molto le cose.-

- Non chiedermelo, Uriel. Non posso e non voglio farlo.- - Allora temo che non ci sia più altro da dire.-

- Credimi, soffro per quello che ti è stato fatto. Non ricordare nient’altro che il tuo amore per lui dev’essere

straziante, ma questa volta è diverso, questa volta non sarò tuo complice. Non starò più a guardare. Non ti ostacolerò,

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questo è certo, non ti chiederò di non farlo, perché so che

non mi daresti comunque ascolto, ma non chiedermi di aiutarti, perché non lo farò. Posso solo confidare nel suo

buon senso. Se ti ama come sostiene, saprà prendere anche per te l’unica decisione giusta.- tornò a guardarmi e

aggiunse - Va dunque, e che non debba mai pentirmi di quello che sto facendo.- dopodiché si dissolse nel nulla.

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35

Il laboratorio sapeva ancora di solvente e tela bagnata.

L’odore dei colori ad asciugare sulla tela, non ha uguali, è inconfondibile per chiunque l’abbia sentito almeno una

volta nella vita. Se mi chiedessero di descrivere l’essenza del concetto di colore, lo farei attraverso quell’odore pungente

che ti resta intrappolato nelle mucose nasali e non ne viene più via.

Avevo finito di dipingere un nuovo quadro appena due giorni prima, quando presa da una scintilla di ispirazione

ero tornata a casa da Roma, per mettermi all’opera. Quella mattina però, dopo le visioni, dopo aver parlato

con Manuel, più che una scintilla, avevo il fuoco dentro. Scartai senza curarmene più di tanto, il blocco di argilla

che era rimasto inviolato lì in un angolo da più di un anno e ne tagliai via un grosso pezzo, che coprii con un panno

umido prima di riavvolgere il blocco restante nella pellicola per conservarne l’umidità.

Non ricordo neanche quand’era stata l’ultima volta che avevo impastato l’argilla con le mani.

Lavorai alla mia creatura per tutto il giorno, procedendo un pezzo di argilla alla volta, immergendo le dita in

quell’agglomerato di materia senz’anima, lasciando che la mente si svuotasse per concentrarsi su un unico dettagliato

particolare: l’oggetto della mia creazione. Aggiungevo, toglievo, spianavo, accarezzavo l’argilla

come incantata. Un giorno intero per realizzare l’unico corpo, l’unico viso che conoscevo più di me stessa, l’unico

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corpo, l’unico viso che non mi era concesso avere, che non

avrei più rivisto: il MIO. Avevo solo un preciso ricordo del mio viso d’un tempo,

delle mie sembianze ultraterrene. Osservavo con meraviglia quella statua d’argilla davanti a me, le onde dei capelli sulle

spalle, la spada sul fianco, l’elmo dell’armatura sotto braccio, lo sguardo imponente di chi è abituato al comando,

ma al contempo così triste da straziare il cuore di chi l’osserva, né uomo né donna, solo un essere dall’aspetto

tanto meraviglioso quanto potente, e sapevo di essere io quella giovane creatura senza vita. Ed era proprio così,

perché quella statua senz’anima era tutto ciò che rimaneva della mia divinità. Un corpo svuotato del suo spirito. Un

corpo ingrigito dall’assenza di vita. Solo un prezioso scrigno svuotato del suo tesoro.

Non sapevo, o meglio, non ricordavo cosa fosse successo dopo la battaglia, ma dentro di me sapevo che niente

sarebbe più stato lo stesso e quella statua era tutto ciò che mi rimaneva di me stesso.

Mi sentii profondamente tradito dal mio Creatore. Punito per essere ciò che egli stesso aveva fatto di me. La

trovavo una condanna maledettamente ingiusta. Rimasi a rimirare per ore la mia antica immagine come

davanti ad uno specchio. Sembrava così reale. A volte perdevo talmente in senso del tempo e dello spazio da

aspettarmi per un attimo di vederla muoversi al contrario per imitare i miei gesti.

E più la fissavo, più il ricordo di ciò che ero stato riaffiorava dentro di me. Ricordai la prima volta che ci fu

ordinato di scendere fra gli umani per istruirli e guidarli, metterli alla prova. Ricordai la prima volta che vidi la mia

immagine in uno specchio d’acqua. Ricordai l’emozione che provai nel vedere il vero aspetto dei miei compagni che

avevo sempre conosciuto solo come esseri di pura luce.

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Ricordai come mi sembrò più semplice la vita dei mortali,

come fosse più facile per loro ottenere l’amore del Creatore. Dopotutto non gli era richiesto altro che amarsi l’un l’altro

senza riserve. Ma soprattutto ricordai quanto fu difficile per noi altri non lasciarsi trascinare dai loro costumi, la loro

allegria, la loro spensieratezza, la loro totale assenza di responsabilità. Ognuno di noi era stato scelto per compiere

una missione fra i mortali e fu proprio la mia missione a portare alla ribellione. Per vivere fra gli umani in incognito,

dovemmo mischiarci ad essi, vivere come loro, agire e pensare in modo semplice come loro. E fu quel modo di

vivere, quel modo di pensare che ci fece abbassare la guardia e cadere vittime dei nostri stessi poteri.

In quel tempo il più potente fra noi, cadde vittima della voluttà dei mortali e si innamorò di me. Manuel era il suo

secondo e tentò di proteggermi quando gli venne proposto di schierarsi contro l’esercito di Michael per prendere il

comando assoluto sul creato. Prima di opporsi volle mettermi in salvo e chiese ad Adriel di portarmi via da

Sataniel, che nel frattempo aveva reclutato un folto numero di seguaci pronti a mettere mano alle armi, perché temeva

che un esito negativo della battaglia avrebbe irrimediabilmente condannato anche me alla severa

punizione che ne sarebbe seguita. Adriel obbedì agli ordini e trovò un modo per nasconderci. Naturalmente Sataniel

andò su tutte le furie, non avrebbe mai rinunciato a me e orami la sua sete di potere era cresciuta troppo per essere

sedata. Passarono anni prima che si diede inizio alla ribellione.

Manuel era l’unico a sapere dov’eravamo nascosti e di tanto in tanto veniva a portarci notizie. Eravamo ormai ricercati

da entrambi i fronti. Michael aveva ordinato il rientro immediato nelle schiere Celesti, mentre Sataniel non si

rassegnava all’idea di perdermi. E giurava vendetta su

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Adriel, credendolo unico responsabile della mia sparizione.

In tutto quel tempo che fummo costretti a vivere a stretto contatto, guardandoci le spalle l’un l’altro, accadde

qualcosa che non avrei mai creduto possibile accadere: mi innamorai di lui. Ma non l’amore tenue del Regno. Un

amore intenso, puro, incondizionato, a tratti folle e pericoloso. E in quel momento capii cosa nutriva per me

Sataniel e compresi che non ci avrebbe mai lasciati andare. Adriel non resistette a lungo a quel sentimento e finì col

caderne vittima tanto quanto noi. E fu l’inizio della disfatta. Tutto ciò che ricordavo era il giorno in cui Sataniel

ci trovò e Manuel per proteggermi rivelò il nostro nascondiglio a Michael. Fu l’inizio della battaglia. Fu

l’inizio della fine per la maggior parte di noi. Ricordavo la battaglia, ricordavo Adriel arrendersi e gettarsi con il suo

corpo sul mio per proteggermi. Ricordavo l’amore assoluto che sentivo per lui, ma non

ricordavo altro. Per quanto potessi sforzarmi, non riuscivo a ricordare cosa accadde dopo la cattura.

Attesi l’arrivo della mezzanotte come mai prima d’allora. E come è logico e altamente snervante, quando aspetti

qualcosa con trepidazione, il tempo non passa mai. Era già tardi quando mi decisi a uscire dal laboratorio, non

mancava molto alla fine ufficiale della giornata, però quel quindici minuti sembrarono anni. Ogni minuto un’eternità.

Feci una doccia, infilai un paio di jeans e una maglietta e andai a letto. Ero più che certa che sapesse e non avrebbe

perso occasione per parlarmi. Infatti, con la solita puntualità di chi non teme il tempo,

mi chiamò a sé come previsto. Lo trovai già fuori dalla torre ad attendermi. Aveva un

espressione estremamente seria, severa a tratti. Rimasi un po’ sulla difensiva - Hai saputo?-

Accenno un sì con la testa.

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- E non hai niente da dire?-

- Avrei preferito che non accadesse.- rispose. - Hai sempre saputo e non mi hai detto niente. Perché?-

- Credi che sia stato facile per me?- - Credo che sia stato comodo.-

- Comodo?- vociò. - E allora cos’altro, Adriel?-

- Difficile, straziante, dilaniante, doloroso, ma di sicuro non è stato comodo…Uriel.-

Mi avvicinai alla riva del fossato e con un salto fui

dall’altra parte. Ormai ero cosciente del mio corpo e dei

miei poteri. Mi avvicinai a lui più di quanto avessi mai

osato fare prima - Mi tieni qui con te per proteggermi, non è vero? Hai sempre voluto proteggermi.-

Non riusciva a guardarmi negli occhi, era come se temesse il mio sguardo - E cos’altro avrei potuto fare?-

mormorò. Mi avvicinai al suo orecchio e sussurrai - Avresti potuto

dirmi la verità.- Mi mise un braccio attorno alla vita e mi strinse a se. Il

suo viso meno di un centimetro dal mio, i suoi occhi dentro di me - L’ho fatto Uriel, non ricordo neanche più quante

volte l’ho fatto.- Lo baciai, me lo lasciò fare, e in quel bacio mise tutto se

stesso, tutto l’amore che era stato costretto a reprimere in secoli e secoli di lontananza. Ci baciammo ancora e ancora

e ogni secondo diventava tutto più familiare, come se quel momento l’avessimo già vissuto più e più volte.

- Dimmi cos’è successo, Adriel.- lo supplicai - Non saperlo mi sta facendo impazzire.-

Mi prese in braccio e mi portò con sé - il viso premuto sulla mia pelle - sul retro della torre. C’era una panchina di

marmo, si sedette tenendomi sulle sue ginocchia. Rimase ancora qualche minuto ad assaporare il mio odore, come a

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voler riconoscere in quel corpo estraneo tracce che potessero

identificarmi. - Sicura di volerlo sapere?- sussurrò nel mio orecchio.

- Sicura.- - E così sia.- mi abbracciò molto più stretta e iniziò a

raccontarmi tutto quello che era successo dal momento della cattura.

Dopo la disfatta delle schiere ribelli, Raphael pronunciò la condanna. Sataniel era riuscito a sfuggire alla cattura

rifugiandosi nell’Ade, ma fu bandito per sempre dal Regno e confinato a rimanere nelle fosse dell’Inferno per l’eternità.

Qualora ne fosse uscito, Michael aveva l’ordine preciso di passarlo a fil di spada ed eliminarlo per sempre. Solo due

Arcangeli possiedono la spada che può dare la morte ad una creatura immortale e sono i più temuti fra noi. Michael è

uno di questi. Il resto dei ribelli, fu risparmiato, ma gli furono strappate le ali e gettati fra i mortali. Molti di loro

raggiunsero Sataniel nell’Ade per stare al suo servizio. Altri chiesero clemenza al Creatore e si misero al suo servizio

come tramiti fra il Regno e i mortali, in attesa della redenzione, se mai ce ne sarà una. Altri ancora, accettarono

la punizione con umiltà, e si unirono ai mortali in paziente attesa del Giudizio.

- Non posso credere che Damian sia passato dalla sua parte.- esclamai inorridita - Non l’avrebbe mai fatto senza

esserne costretto.- - L’ha fatto per te. Per poter cercare te.- rispose serio -

Quando ci arrendemmo, Raphael disse che per noi la punizione sarebbe stata diversa. Non ci eravamo ribellati

come gli altri e non avevamo combattuto contro di loro se non per difenderci. Nonostante ciò, fummo accusati di un

grave, gravissimo torto. Eravamo contravvenuti allo scopo primo della nostra esistenza. Amarci come ci amavamo…-

si corresse - Amarci come ti ho sempre amato, è un

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imperdonabile mancanza agli occhi del Creatore, che ti

ritenne l’unica vera responsabile della ribellione.- si fermò un momento. Ricordare gli provocava più dolore di quanto

ne recasse a me, ma riuscì comunque a continuare - In nome di quell’amore, decretò la sua sentenza per voce di

Raphael. Ti condannò alla mortalità persistente, costringendoti a nascere in un corpo mortale, crescere e

morire per l’eternità. In questo modo sarebbe riuscito a nasconderti a me e a chiunque avesse osato cercarti. C’era

solo un modo per scioglierti dalla condanna, dannarti l’anima alle fiamme dell’inferno, ma Lui sapeva…eccome

se lo sapeva che gli unici che volevano trovarti erano gli unici che non avrebbero mai voluto farti una cosa del

genere. Quanto a me, mi fu dato un corpo mortale, mi gettarono fra gli uomini e mi condannarono a vivere per

l’eternità lontano dalla luce. Un solo raggio di sole può darmi alle fiamme ed incenerirmi in meno di un secondo.

Lui sapeva che non avrei mai smesso di cercarti e ha fatto sì che la mia anima fosse dannata dal più immondo dei

peccati: per sopravvivere avrei dovuto sacrificare una vita umana, avendo come unica fonte di sostentamento il

sangue umano. Uccidere o morire, questa è la mia maledizione. Mi lasciò la possibilità di scegliere fra la

mortalità e l’amore. Io scelsi l’amore e lo rifarei ogni singolo istante della mia esistenza, né vivo né morto.- mi mostrò i

canini appuntiti - Vedi questi? Con un morso posso uccidere o peggio, infettare la mia vittima e condannarla al mio

medesimo supplizio. E l’ho fatto, pur di restare in vita e cercarti, pur di provare a riuscire a tenerti con me,

foss’anche solo per un minuto. Sapessi quante volte sono stato sul punto di renderti la pace e arrestare il tuo ciclo di

morte per tenerti con me.- si portò le mani alle tempie, come a voler impedire ai ricordi di venire a galla.

- E perché non l’hai fatto se sapevi di potermi liberare?-

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chiesi stizzita.

Mi prese il viso fra le mani e mi baciò teneramente la fronte - Perché non ho mai avuto il coraggio di legarti alla

mia stessa maledizione. Tu puoi ancora rivedere la Luce, Uriel. Quando Lui riterrà che tu abbia pagato abbastanza, ti

libererà da tutto questo. E potrai tornare a Lui senza macchia insieme ai nostri compagni. Per me invece non c’è

più speranza. Io sono dannato per sempre e non permetterò che accada lo stesso a te. Per sempre è tanto… troppo

tempo, amore. - Ma non voglio la Luce se non posso avere anche te.

Tienimi con te Adriel, prima che accada qualcosa che potrebbe dividerci ancora. Ti prego, non chiedermi di

rinunciare a te adesso che ti ho ritrovato.- Lo vidi alzare gli occhi al cielo - È quasi l’alba. Devi

andare adesso.- - No!- protestai - Non ancora.- Lo abbracciai, ci

baciammo ancora. - Non dipende da me, Uriel. Non ho poteri durante le ore

del giorno.- Iniziai a piangere - Voglio restare. Tienimi con te.-

Una delle sue lacrime mi bagnò il viso. Non ricordavo d’averlo mai visto piangere prima, neanche nelle situazioni

più disperate. Mi staccai da lui quel tanto che mi bastava a guardarlo negli occhi.

- Perdonami.- disse con la voce rotta dal pianto e mi abbracciò.

Un attimo dopo mi risvegliai nel mio letto. Stavo ancora piangendo.

Manuel era lì con me, seduto sul bordo del letto. Fu come vederlo davvero per la prima volta dopo tanto tempo.

Lo abbracciai e lui mi strinse forte a se. - Non avrei mai voluto che lo scoprissi così.- sussurrò con

dolcezza.

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- Che cosa gli ho fatto!?! Che cosa ho fatto a tutti voi?-

Mi strinse ancora più forte. Tremava. - Non ho portato che sofferenza nelle vostre vite. Avreste

dovuto abbandonarmi alla mia sorte e lasciare che pagassi.- Mi guardò dritta negli occhi - E come avrei potuto? Sei

una parte di me. La parte più importante.- Ognuno di noi è stato creato da sfere di energia in gruppi

di sei. Ogni due angeli legati per metà dalla medesima anima. Manuel è la mia metà, come Samuel lo è per

Rachael e Damian per Daniel. Ovunque vada, in qualunque corpo rinasca, non potrò

mai non riconoscerlo e sentirmi legato a lui. Manuel e gli altri per millenni avevano sfruttato questo

legame per trovarmi e proteggermi, ma questa continua ricerca non aveva fatto altro che rafforzare in lui il suo

legame con me. Un legame che era stato costretto di volta in volta a veder spezzarsi, una ricorrenza deleteria che l’aveva

portato a un isolamento volontario che aveva visto l’allontanamento di Damian, l’esilio forzato di Daniel e la

responsabilità della missione sulle sole spalle di Samuel e Rachael.

Era a questo che si riferiva Damian l’ultima volta che l’avevo visto. Era a causa mia che Manuel aveva lasciato il

comando abbandonandoli a se stessi tra le grinfie di Sataniel.

- Avresti dovuto lasciare che Adriel mi liberasse.- dissi asciugandomi una lacrima dal viso - Avrebbe liberato anche

voi.- Scosse la testa - Non hai idea di cosa stai dicendo.

Sarebbe troppo rischioso. Perderesti l’anima e l’immortalità insieme. E Se ti succedesse qualcosa? Sataniel non desidera

altro. È la sua unica possibilità per averti con sé. Se Adriel ti liberasse, saresti facilmente rintracciabile da Sataniel, che

non perderebbe tempo a scandagliare i suoi demoni per

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ucciderti. Dannare la tua anima è servirti a lui su un piatto

d’argento. Non permetterò mai che succeda una cosa del genere.-

- Sono pronta a rischiare.- - No. È escluso.-

- Liberami da tutto questo, Manuel.- lo supplicai. Prese le distanze alzandosi. Raggiunse la porta della

stanza e posò le mani sugli stipiti di legno. Lo sguardo a terra. La ragione in lotta con il proprio cuore.

- Io lo amo Manuel.- dissi tutto d’un fiato - Mi dispiace per questo. Mi fa male il pensiero di darti un dolore, ma il

mio amore per Adriel è l’unica cosa che mi resta di ciò che ero. Vorrei poterti dire che questa condanna ha cancellato

tutto e poter ricominciare da capo, ma non è così. Lo sappiamo tutti e due come andrà a finire. In un modo o

nell’altro tornerò da lui, continuerò a tornare da lui, che tu mi protegga o no, che tu provi ad ostacolarmi o no, io

tornerò da lui. Lasciami andare Manuel. Se mi ami, devi lasciarmi andare in contro al mio destino, qualunque esso

sia.- - L’ho già fatto.- mormorò senza guardarmi - Non sai

quante volte ho pregato Dio che mi cancellasse la memoria per non essere costretto a ricordare. Proprio come te. Ma

non mi ha mai dato ascolto.- la voce gli tremava. Mi alzai lentamente, e lo abbracciai posando la guancia

sulla sua schiena. Sentii il suo corpo irrigidirsi a contatto con il mio - Ci siamo amati in passato, vero?-

Non mi rispose. - Ti amo anche adesso, Manuel, e probabilmente mi

innamoro di te ogni volta che ti rivedo per la prima volta.- - Basta così, Uriel.- fece per andarsene, ma lo trattenni.

- Lasciami finire. Tu sei parte di me, Manuel, e questo l’amore per Adriel non potrà mai cancellarlo. “Se soffri

soffro con te, e quando il dolore diventerà insopportabile,

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sarò forte per entrambi.” Ricordi? Eri tu che me lo dicevi

quando credevo di non potercela fare. È vero, non sono cosciente di molte cose accadute nel corso del tempo, ma ho

dei vaghi ricordi che mi inseguono in ogni nuova vita.- lo voltai verso di me per guardarlo negli occhi - Ho sempre

creduto che fossero legati ad Adriel e invece, adesso lo so… eri tu…ci sei sempre stato tu accanto a me in tutto questo

tempo. E sei ancora qui. Sai che ti farò del male eppure sei qui con me. È il tuo amore che ci ha tenuto in vita entrambi.

E non ho paura di continuare a perdermi, perché so che tu mi ritroverai.-

Lo baciai, prima con dolcezza, poi sentendolo abbandonarsi a me, con passione, desiderio, e tutto l’amore

che avevo dentro. Si staccò un momento per guardarmi. Aveva le dita

intrecciate nei miei capelli - Mi dannerei l’anima mille volte... solo per te. Se servisse a tenerti con me.-

- Ma io sono qui… con te… adesso.- - E domani? E il giorno dopo ancora?-

Gli posai delicatamente l’indice sulle labbra - Shh! Perché pensare a domani… quando puoi avermi ora.-

Il suo sguardo mutò improvvisamente espressione. Mi scansò via, anche se con dolcezza. Era arrabbiato però e si

vedeva. - No, Uriel, maledizione.- imprecò - Lo stai facendo di nuovo.-

Non capivo - Che cosa?- Sembrava affranto, stanco - Non puoi farmi questo ogni

volta. Non… io non…- faceva anche fatica a continuare - Smettila di usare i tuoi poteri su di me.- era distrutto, ma

quelle ultime parole le disse con una rabbia che mi fece comprendere molti suoi comportamenti avuti in passato con

me. Quando credevo che si tenesse a distanza per disprezzo nei confronti di quelli della mia specie, non era altro che

timore di perdere il controllo standomi accanto. Non era

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stato l’odio a tenerlo lontano da me, ma l’amore. Dio! Quanto male gli ho fatto in tutto questo tempo!

Cercai di rimediare - Non ho mai avuto intenzione di usare i miei poteri su di te, Manuel, devi credermi.-

- Non è colpa tua. Non puoi sottrarti alla tua natura. Sono io che dovrei saper resistere, visto che è l’unica cosa

che mi si chiede di fare.- - E si può resistere alla Tentazione?- chiesi con le lacrime

agli occhi. Fissò per un momento in silenzio le lacrime scorrermi sul

viso, poi rispose con dolcezza - Se si può, che Dio mi perdoni, io non ne sono mai stato all’altezza.- e mi tirò a se,

mi strinse forte fra le braccia e mi baciò di nuovo, un bacio dal sapore dell’amore più antico del tempo.

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36

Raggiungemmo Roma in moto. Per quanto possa

ricordare, non ho mai provato tanta paura come in quell’ora scarsa di viaggio. Manuel è un pazzo spericolato e

zigzagando fra un auto e l’altra ho sentito scorrere in me tutta l’umanità di cui ero in possesso.

- Stai cercando di uccidermi?- gli strillai attraverso il casco. Non avrebbe mai potuto sentirmi naturalmente, ma

sapevo che la mia paura era sufficiente ad innescare i nostri contatti psichici, quindi mi sentì eccome, tant’è che per

ripicca o per gioco, accelerò. Oramai mi era fin troppo chiara tutta la situazione. Dal

momento in cui mi aveva ritrovata a quel pomeriggio, mi avevano solo riempito la testa di mezze verità. Si era

scusato con me assicurandomi che ogni più piccola decisione era stata presa per il mio bene, per proteggermi, e

gli credetti, lui giurò e io gli credetti. Chissà quante altre volte era successo?

- Sono sempre rinato nel corpo di una donna?- gli avevo chiesto quella mattina, stretta a lui sotto le coperte

accoglienti del mio letto. - Sei rinato così tante cose che neanche le ricordo tutte.-

- L’essere più difficile da trovare in cui mi sono reincarnato?- volli sapere.

- Più che difficile da trovare, sei stato difficile da prendere,- mi rispose con un mezzo sorriso, - ma in

compenso sei stata la farfalla più bella che abbia mai visto nascere su questa terra.-

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Mi sciolsi piano dalle sue braccia e mi tirai su fino a

trovarmi cavalcioni su di lui. Gli rivolsi un sorriso malizioso - Quindi non sono poi così male i corpi corrotti di questi

mortali, come li chiami tu. Mi hai visto anche in vesti peggiori.-

Mi cinse i fianchi e mi tirò giù verso di lui - In qualunque essere ti sia reincarnato è sempre stato il più perfetto della

tua specie. E non c’è essere in terra in cui non ti riconoscerei.-

Avevamo deciso di aspettare prima di metterci in viaggio. Arrivare a Roma prima del tramonto non avrebbe

avuto alcun senso. Quando raggiungemmo Villa Renzi ne rimasi incantata.

Non me la ricordavo così maestosa, anche se potevo ammirarne la magnificenza solo dalle mura e attraverso le

sbarre del cancello. - Me la ricordavo più piccola.- dissi scendendo dalla

moto per sgranchirmi le gambe intorpidite. - Non è poi così grande.- rispose Manuel di rimando,

sfilandosi il casco. Si avvicinò all’impianto della videosorveglianza e

premette il pulsante del citofono. Non vi fu alcuna risposta dall’altra parte.

Ci riprovò. Ancora niente.

- Forse non sono in casa.- osservai. Riprovò una terza volta, senza fare caso a quello che

avevo detto. Nessun risposta.

Stavo per parlare ancora quando Manuel si spostò fino al centro del cancello e con un leggero strattonamento fece

saltare la serratura. In meno di un minuto da quando varcammo la soglia

della cancellata, fummo accerchiati da un squadriglia di

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sorveglianti armati.

Manuel non sembrava minimamente preoccupato della loro presenza, ma si voltò a guardarmi e qualcosa nel suo

sguardo mi fece capire che aveva appena ricordato che ero mortale.

Mi prese per mano e mi fece un sorriso rassicurante, poi guardò l’uomo che sembrava al comando e con tutta la

calma di cui era capace disse - Lasciateci passare.- - Retrocedete.- fu la risposta - O saremo costretti a…-

Manuel non lo fece neanche finire di parlare. Con una velocità disumana gli fu addosso e lo disarmò e con la stessa

rapidità, usò i suoi poteri per disarmare gli altri cinque prima che aprissero il fuoco su di noi. Uno dopo l’altro si

accasciarono a terra esanimi. - Sono…- provai a dire.

- …solo svenuti.- mi anticipò. Corse a riprendere la moto e raggiungemmo l’ingresso della Villa senza incontrare

ulteriori ostacoli. Alessandro era fuori ad attenderci. - La pazienza non è mai stata il tuo forte, Manuel.-

furono le sue prime parole - Che cosa hai fatto ai miei uomini?-

- Li ho solo resi inoffensivi per un po’.- rispose gettando a terra uno dei fucili - Tieni questa roba lontana da me.- era

ostile, e Alessandro non era da meno. Dalla smorfia indignata di Alessandro capii che non

aveva gradito né l’intrusione né tanto meno la minaccia - Che cosa ci fai qui? O meglio…che cosa vuoi ancora?- poi

mi guardò, sembrò assentarsi per un momento, e un attimo dopo rispose - Oh, ma è tutto chiaro!- si fece molto serio -

Puoi scordartelo, Manuel. Potete scordarvelo tutti e due. E adesso, fatemi il piacere di uscire dalla mia proprietà.-

- Da oggi mi occuperò personalmente di tutta questa faccenda.- rispose Manuel - Ringrazio te e la tua famiglia

per averci reso questo servizio per tanto tempo, ma non è

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più necessario. Quindi lasciami fare il mio lavoro e tu

continua ad occuparti del tuo.- Ci misi un po’ più di lui a capire la situazione, ma non

mi ci volle poi molto per capire che stavano parlando di Adriel.

- Non prendo ordini da te.- fu la risposta di Alessandro, che nel frattempo aveva assunto un’espressione tutt’altro

che rassicurante. - Eh già! Tu predi ordini da qualcun altro, non è vero?

Beh, ti do una notizia che non piacerà a nessuno dei “due”…- gli si fece pericolosamente vicino - …Sono

tornato!- - Attento Manuel, ad avvicinarti così rischi di scottarti

con quelle fiamme che temi tanto.- disse con un ghigno, poi lo osservo un istante con attenzione, rise di gusto e aggiunse

- Ma a quanto vedo ci sei già dentro.- A quelle ultime parole, Manuel lo afferrò per il collo, ma

Alessandro lo spinse via senza troppa difficoltà. - Come ti permetti di venire a dettare ordini in casa mia?-

- Sono venuto a riprendermi solo ciò che mi appartiene e tu non hai nessun diritto di intrometterti. Gli accordi sono

stati presi con la tua famiglia, secoli prima che tu nascessi, quindi, moccioso, fatti da parte, se non vuoi che inizi a fare

sul serio.-

- Per quel che mi riguarda, gli accordi saltano qui, ora. E adesso ascoltami, perché non te lo ripeterò ancora: Fuori

dalla mia proprietà!- - Credi di potermi intimorire così? Le tue minacce non

hanno alcun effetto su di me. Qualunque cosa tu possa fare, non sarà mai abbastanza potente. Sei solo un mezzo-

sangue, non puoi nulla contro di me.- - Fossi in te non ne sarei così sicuro.- si voltò un

momento a guardarmi e quel semplice gesto, all’apparenza innocuo, fece andare Manuel su tutte le furie. Gli fu

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addosso in un attimo.

Volevo dividerli, ma quando mi avvicinai per separarli, non so chi dei due, nella foga della lotta mi spinse via

facendomi cadere. Possibile che in casa non ci fosse nessuno in grado di

fermali? Mi stavo rialzando lentamente da terra quando sentii la

voce di Adriel chiamarmi. - Vieni via da lì, Uriel. È pericoloso. Vieni da me.-

Senza più badare a quei due imbecilli, che nel frattempo continuavano a darsele di santa ragione, mi incamminai

lungo il sentiero del parco che porta al bosco. Il sole era tramontato del tutto e all’interno del fitto della

boscaglia era diventato difficile orientarsi. Le ombre assumevano forme inquietanti e ogni piccolo rumore mi

faceva accelerare il passo per raggiungere Adriel il prima possibile. Dovette avvertire la mia paura crescente perché

dal nulla apparve una piccola sfera di luce davanti a me. - Segui la luce.- mi disse la voce di Adriel.

Lo feci e in pochi minuti raggiunsi la torre. Adriel era fuori ad aspettarmi. Sorrise e tese le braccia

verso di me - Vieni qui, tesoro.- - Questo non è un sogno, Adriel. Non posso saltare

dall’altra parte. E se mi bagno con l’acqua benedetta del fossato non potrei avvicinarmi a te senza farti del male.- gli

feci notare. - Non pensare a me adesso. Pensa solo a raggiungermi.

Queste acque non sono una barriera solo per me, sarai al sicuro se…- ma non riuscì a finire di parlare, perché senza

che potessi accorgermene, un demone mi comparve alle spalle e mi immobilizzò.

Il mio primo istinto fu gridare. - Maledizione!- imprecò Adriel lanciandosi con forza

contro una barriera invisibile che gli impediva di

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raggiungermi. - Lasciala subito andare!- ordinò al demone

alle mie spalle. Non proverò neanche a descrivere l’aspetto mostruoso di

quella creatura e l’odore fetido che emanava il suo respiro sul mio collo.

Mi stringeva così forte sulla gola con l’avambraccio da lasciarmi appena prendere qualche boccata d’ossigeno.

Vedevo l’espressione preoccupata di Adriel e mi allarmai. Tentai di divincolarmi, ma ogni movimento mi faceva

mancare il respiro sempre di più. - Sei impazzito? Così l’ammazzi!- gridò Adriel.

La voce del demone era anche più mostruosa del suo aspetto, quando parlò mi fece accapponare la pelle - Eseguo

solo gli ordini del mio signore.- - Ucciderla non è fra questi, stupido!-

- No, infatti.- rispose un’altra voce dietro di me. Una voce che conoscevo troppo bene - È tenerla lontana da te.-

Alessandro si fece avanti con passo lento, ma deciso. Gli occhi del rosso acceso dell’inferno. Rise - Credevi davvero

che te l’avrei lasciato fare?- - Sei un bastardo!- fu la risposta che ottenne.

- E tu…- disse serio al demone - Allenta la stretta, non lo vedi che sta soffocando?-

Appena il demone obbedì agli ordini, un’ondata di ossigeno mi travolse mandandomi a fuoco la gola e i

polmoni. Appena ne fui capace chiesi - Dov’è Manuel, che cosa gli hai fatto?-

- Sta tranquilla, il tuo ragazzo sta bene, è solo stato…trattenuto da alcuni amici.-

- Non è il mio ragazzo.- puntualizzai. Adriel non sembrava minimamente scosso dalle

affermazioni di Alessandro, semmai rassegnato - Alessandro, lasciala andare. Non è la tua guerra questa.

Fatti da parte.-

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- Sì che lo è.-

- Non riuscirai mai ad eliminare il Clan, anche se Sataniel ti concedesse l’appoggio del suo esercito per intero.

Perché non metti una parola fine a tutta questa storia? Tua moglie e tuo figlio sono accanto a te. La tua famiglia è al

sicuro. Deponi le armi una volta per tutte, finché ti è ancora concesso di scegliere da che parte stare.-

- Taci! Tu non sai niente!- Gridò. Poi al demone - Portala in casa, ti raggiungo fra un minuto.-

Il demone mi sollevò di peso e io scalciai per liberarmi, ma senza successo - Alessandro, perché mi fai questo? Ti

credevo mio amico.- Si voltò a guardarmi - Te l’avevo detto, Iris, fra te e la

mia famiglia, scelgo la mia famiglia. Non farne una questione personale, non ho niente contro di te.- poi con un

cenno del capo fece capire al demone che poteva portarmi via.

Adriel non sapeva più cosa fare - Non farlo, Alessandro. Lasciala andare e prendi me. Fai in modo che non mi trovi,

se è questo che vuoi.- - Adriel, NO!- gridai.

- Conosco gli ordini di Sataniel, e se sei davvero disposto a tanto, allora ti supplico…- si lasciò cadere in ginocchio -

prendi me. Rinuncio a lei, ma tu non farle del male.- - Mi hai dimostrato di non poter contare sulla tua parola,

perché dovrei crederci adesso?- - Perché morirebbe per lei.- rispose Manuel al posto suo.

Doveva essere a solo qualche metro da noi, anche se non potevo vederlo perché il demone mi teneva così stretta che

mi impediva di voltarmi. Però potevo vedere l’espressione inorridita e terrorizzata al tempo stesso di Alesssandro.

Se ne accorse anche il demone, che si voltò verso Manuel, permettendomi di vedere che se ne stava fermo a

pochi passi da noi. Ma non era solo, aveva una pistola

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puntata alla testa di Celine, che a sua volta stringeva

Thomas fra le braccia. Era spaventata. - E tu, Alessandro…- disse Manuel - Sei davvero disposto

a sacrificare tua moglie e tuo figlio per questa guerra? Sei ancora dell’idea che i nostri antichi accordi debbano

considerarsi conclusi?- - Abbassa subito quell’arma.- rispose cauto.

- Eh no, amico, non ci siamo. Continui a darmi ordini. Ti rifiuti di capire chi sono e qual è il tuo posto qui.-

Celine tentò un passo in avanti e Manuel fece scattare la sicura della pistola. Ci fu un sussulto generale di tutti i

presenti. - Manuel, che stai facendo?- dissi con un filo di voce.

Non riuscivo a credere ai miei occhi. - Ristabilisco l’ordine.- rispose serio senza guardarmi, era

troppo intento a non abbassare lo sguardo da Alessandro. Non riuscivo più a capire se Alessandro fosse

semplicemente furioso o spaventato per la piega che avevano preso gli eventi.

- Manuel tutto questo non è necessario.- disse Adriel. Porta solo via Uriel da qui.

- No!- protestai - Non senza di te.- - Smettila!- mi riproverò.

Manuel mi diede man forte - Uriel ha ragione. Ce ne andremo da qui solo alle mie condizioni. Dico bene

Alessandro?-

Con un cenno del capo, Alessandro fece intendere al demone di lasciarmi andare. Lo fece e scomparì nel nulla un

attimo dopo. - Puoi portare la ragazza con te, ma lui resta qui.-

- A me sta bene.- disse Adriel. - A me no.- risposi io.

Alessandro mi guardò con tutto l’odio che aveva in corpo - Tu non capisci. Non posso lasciarlo andare, è pericoloso.

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E anche se volessi non potrei. Non ho pronunciato il

maleficio che lo tiene legato alla torre.- Cercai aiuto negli occhi di Manuel, ma non ci fu. Più

volte l’avevo sentito affermare che Adriel sarebbe stato un pericolo per molti se lasciato in libertà. Non mi avrebbe

aiutata in questo, ne ero certa. - Qualunque cosa sia, il sortilegio è legato all’acqua nel

fossato.- dissi - È Acqua Santa.- spiegò Celine, la voce le tremava - E

lui è un essere dannato, non può attraversarla.- - Dissacrate l’acqua allora.- risposi io.

Mi fissarono tutti come se avessi appena bestemmiato. Adriel tentò di farmi ragionare - Uriel, tesoro. Non

preoccuparti per me. Andate via piuttosto, prima che arrivino rinforzi.-

- No!- - Manuel, dannazione, portala via.-

Manuel annuì - Tu capisci perché non posso fare ciò che mi chiede, vero?-

- Sì.- rispose a testa bassa con la tristezza nel cuore - E adesso portala via.-

- Alessandro, mi dai la tua parola che ci lascerai andare senza ostacolarci in alcun modo?-

- Purché non ritrovi mai più nessuno dei due sulla mia strada.-

Manuel rimise la sicura alla pistola e si spostò verso di me. Appena si vide al sicuro, Celine corse fra le braccia di

Alessandro, che li strinse a sé sollevato. Avevano ottenuto tutti ciò che volevano, tranne me -

NO!- protestai con tutta la rabbia che avevo in corpo. Un’ondata di energia si propagò tutt’intorno facendo

oscillare gli alberi e increspare l’acqua. Gettandosi su di me Manuel gridò - Uriel non farlo.-

Alessandro fece stendere a terra Celine e il bambino e li

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coprì con il proprio corpo.

Avvenne tutto in una frazione di secondo, appena il tempo di una lieve folata di vento e la rabbia che avevo

dentro esplose come un vulcano, buttando tutto all’aria. La terra ai nostri piedi si aprì, la torre vacillò, sbriciolandosi,

mentre l’acqua del fossato venne risucchiata dalle viscere della terra apertesi nel suolo.

Non avevo idea di come avessi fatto, ma in compenso, dentro di me sapevo perfettamente cosa fare in seguito.

Manuel mi teneva a terra con la forza. - Lasciami!- strillai.

- No.- Cercai Adriel, credevo fosse libero ormai e invece lo vidi

incatenato polsi e caviglie a una porzione di parete rimasta in piedi. Indossava abiti settecenteschi, probabilmente

risalenti al periodo dell’ultima cattura, logorati dal tempo, ma di raffinata fattura. Sembrava privo di sensi. Esausto.

Profondamente sofferente. Era questo dunque che gli avevano fatto? Lo avevano

tenuto in vita per non permettergli di raggiungere gli inferi, ma l’avevano costretto alle catene per i secoli a venire.

- Che crudeltà è mai questa?- gridai - Manuel, lasciami subito.-

- Ma non capisci?- disse stringendo la presa ancora di più - Se lo liberi adesso renderai vani tutti i nostri sforzi di

ripulire il mondo da quelli come lui. Vuoi che torni la piaga del vampirismo tra i mortali? Vuoi essere la causa della

morte di innocenti per un tuo piacere passeggero?- la sua furia mi penetrava nella carne attraverso le sue mani.

Scoppiai in lacrime - Voglio solo poter stare con lui.- - E cosa accadrà quando invecchierai, quando morirai,

cosa ne sarà di lui? Perché sei una vera sciocca se credi che ti trasformerà. Non macchierà mai la tua anima. È solo

questione di tempo, Uriel e lo perderai di nuovo.-

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- Ma non vedi che sta soffrendo?- singhiozzai. Non

riuscivo a guardarlo, mi faceva troppo male vederlo in quello stato - Lasciami andare da lui, Manuel, ti prego.-

Vidi vacillare il suo autocontrollo per un momento, ma poi - Non posso.-

Alessandro che nel frattempo aveva fatto sedere Celine e Thomas a distanza di sicurezza da noi, aveva lasciato

Celine a tranquillizzare il bambino e ci aveva raggiunti - Fra non molto sorgerà il sole, Manuel.-

Il sole. Un brivido mi attraversò tutta la schiena - Dobbiamo portarlo via da lì.- esclamai in preda al panico.

Sentii nuova energia scorrermi dentro, quel tanto da riuscire a divincolarmi dalla stretta di Manuel e rimettermi

istintivamente in piedi, ma prima sfilai la pistola che aveva sul fianco. Me la portai fulminea alla tempia - Lasciami

andare da lui o mi ammazzo qui, adesso. E ricominciamo tutto da capo. È questo che vuoi?- ero così fuori di testa da

credere che fosse l’unica soluzione per farmi dare ascolto - è questo che vuoi?- ripetei con più decisione - Quante volte

ancora vuoi ritrovarti ad assistere a questa scena, Manuel? Ne vale davvero la pena? Per ottenere cosa, poi? Sai che è

solo questione di tempo e ci ritroveremo di nuovo qui a prendere le medesime decisioni. E invece possiamo mettere

fine a tutto. Se solo tu volessi potremmo mettere fine a questa maledizione.-

- Ti amo, Uriel.- rispose - ma non fino a questo punto. Non metterò mai in pericolo delle anime innocenti, neanche

per amor tuo.- - È questo il problema. Io lo farei per lui.- e puntai la

pistola verso Thomas - Tu non vuoi che mi danni l’anima, perché facendolo finirei dritta fra le braccia di Sathaniel e

non mi vedresti più. Alessandro non vuole che si liberi Adriel perché se mi trasformasse, arresterebbe la

maledizione incastrandomi in uno stato di non morte che

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impedirebbe a Sathaniel di avermi, nonostante la corruzione

della mia anima. Io sono disposta a dannarmela comunque l’anima, uccidendo un innocente se necessario, e né tu né

Alessandro ne uscireste vittoriosi.- tolsi la sicura alla pistola, poi con rabbia aggiunsi - Adriel è stato il solo a non

pretendere niente da me. È stato l’unico disposto a sacrificare se stesso per il mio bene, senza chiedere niente in

cambio. E ti aspetti che lo lasci lì a soffrire solo per poter sfamare la tua gelosia e la sua sete di vendetta? - poi mi

rivolsi ad Alessandro - Va subito a prenderlo e portalo qui da me. Non mi interessa come farai, lo voglio qui con me

adesso, o faccio fuoco su tuo figlio.- - Alex, fa come ti dice.- lo supplicò Celine, stringendosi

al petto il bambino. - Metti giù quella pistola!-

Manuel scosse la testa - Non sfidarla Alessandro, non sta scherzando.-

Adriel era così debole per la quasi totale assenza di nutrimento protratta nei secoli che quando Alessandro lo

liberò dalle catene non riuscì a reggersi in piedi da solo. Non compresi la forza di cui poteva essere capace un

mezzo-sangue come Alessandro, fino a quando non lo vidi sorreggere Adriel senza alcuna fatica e portarlo dall’altra

parte del fossato con il salto felino che gli avevo visto fare un attimo prima. Nessunissimo sforzo, solo puro potere.

Non era affatto contento, glielo leggevo in faccia e probabilmente stava tramando qualcosa, ma non si sarebbe

opposto finché non avesse saputo Celine e Thomas al sicuro. Dovevo approfittare di questo vantaggio.

Manuel mi stava lasciando fare. Sono sempre stata la sua unica debolezza purtroppo.

- Cercami del sangue.- dissi ad Alessandro. - Questo mai!- sbottò. Aveva perso la pazienza ormai.

Sentirsi comandato a quel modo da me lo mandava in su

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tutte le furie.

- Cosa credi di fare adesso? Hai usato i tuoi poteri, ormai sanno tutti chi sei. Ti staranno addosso non appena

lascerete questo posto. Ti daranno la caccia fino all’ultimo dei tuoi giorni, Uriel, che sia per catturare lui o per uccidere

te, se mai decidesse di trasformarti. Ormai non hai più scampo.-

- Sta zitto!- strillai. E sparai senza neanche guardare nella direzione di Celine. Nonostante l’esasperazione, non c’era il

minimo tremore nella mia mano. Il colpo non andò a segno, ma quel gesto servì a far tornare a mente a tutti chi era ad

avere il comando in quel momento. - Forse ti lasci ingannare dal mio aspetto, Alessandro, ma

non dimenticare chi sono veramente. E non osare mai più opporti a me. Sono stato chiaro? E a desso fa quello che ti

ho detto. In fretta.- Il sole stava per sorgere e dovevamo portare Adriel al

sicuro. Ma l’ego di Alessandro si ostinava a mettermi i bastoni fra le ruote. Infatti disse - Io non alzerò più un solo

dito per te.- mi si parò davanti, con il petto premuto contro la pistola - Avanti, spara. Vediamo cosa sai fare.-

Celine trattenne un grido e strinse forte a sé il bambino per non farlo guardare.

La situazione stava degenerando, e a questo punto intervenne Manuel per cercare di placare gli animi, ma io

ero troppo preoccupata per Adriel e non avrei ceduto all’insubordinazione di Alessandro, e Alessandro era troppo

orgoglioso per accettare la sconfitta e sottomettersi a me. Rischiava di finire in un lago di sangue da entrambe le parti.

- Adesso basta così.- ci sgridò - Non voglio più ascoltare una sola parola da entrambi.- mi sentii bruciare così tanto la

mano da dover essere costretta a lasciare andare la pistola. Alessandro si portò una mano alla tempia con una smorfia

di dolore e indietreggiò da me. Intanto Manuel continuava

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a parlare - Questa storia è andata fin troppo avanti.

Alessandro, prendi Celine e il bambino e tornatevene in casa. Subito.- l’ordine suonò così imperioso, categorico, che

Alessandro non tentennò un solo istante prima di obbedire, disse solo - Spero davvero che tu sappia quello che stai

facendo, Manuel.- Celine ne fu profondamente sollevata e si allontanò con lui lasciando che tenesse in braccio il

bambino al posto suo. Eravamo rimasti solo noi tre. Adriel gemeva riverso a

terra. Le prime luci dell’alba gli stavano arrossando le mani e il viso.

Manuel se ne accorse, lo sollevò da terra e mi disse severo - Prendi un taxi e torna subito a casa. Ti aspetto lì.-

- Avresti potuto fermarmi fin dall’inizio. Perché non l’hai fatto?-

Non rispose, invece svanì nel nulla insieme ad Adriel.

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Non mi resi conto di quanto fosse davvero grave la

situazione fino a quando non vidi Adriel adagiato sul mio letto. Non vi era che pelle attaccata a quelle deboli ossa

immortali. Manuel gli era seduto accanto. Non sembrava

minimamente preoccupato, ma c’era molta tristezza nel suo sguardo.

Appena si accorse della mia presenza si alzò per cedermi il suo posto.

- Come avete potuto fargli questo?- chiesi con un filo di voce rotta dalla commozione.

Adriel mi strinse debolmente la mano quando sentì la mia voce.

- Dovevamo fermarlo in qualche modo.- rispose Manuel - Tu non hai idea…-

- Guardalo!- gridai riversandogli contro tutta la collera, la frustrazione e la paura di quel momento. - Mi vuoi dire che

era davvero necessario arrivare a tanto?- - È un assassino, Uriel.- gridò di rimando - Il peggior

predatore che abbia mai calpestato il suolo terrestre. La sua Maledizione è una piaga per l’umanità e lui ne ha fatto un

mezzo per ottenere tutto ciò che vuole. Per riaverti è stato disposto a tutto.-

- E ti aspetti che gliene faccia una colpa?- - Mi aspetto che tu capisca.-

Guardai Adriel per un momento. Non riuscivo a vederlo in quello stato, soprattutto sapendo che ero io la causa di

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tutto il suo dolore. Una lacrima sfuggì al mio autocontrollo

e mi scese giù libera lungo la guancia. Manuel se ne accorse - Questa condanna non finirà mai!-

esclamò avvilito. - Sono così stanco di vederti soffrire ogni volta e non poter fare niente per evitare tutto questo.-

Quante altre volte ancora l’avremmo costretto ad assistere a questa scena? - E adesso cosa succede? Qual è la

prossima mossa?- - Non la prossima. L’ultima! È giunto il momento di

mettere fine a tutto questo una volta per tutte.-

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Procurarci del sangue per Adriel non fu facile e

immediato come credevo. Manuel e gli altri erano sempre più convinti che fosse una pessima idea rimetterlo in forze.

Da sempre era stato più forte di loro, e consentirgli di rigenerare i suoi poteri a pieno poteva essere solo l’inizio di

un ennesimo eccidio ingiustificato. La condanna di Adriel era stata molto severa, forse troppo per un cedimento

psichico al quale non si sarebbe potuto opporre. Io, Uriel, sono l’Angelo Tentatore. Creato per deviare la volontà di

chiunque io desideri far cadere nella mia rete. In passato, quando il tempo non era stato ancora creato dagli uomini,

non mi rendevo pienamente conto del mio essere. Mi limitavo a seguire i miei impulsi, ad agire per istinto, senza

sapere che quello stesso istinto era stato creato per corrompere gli animi dei servi del nostro Signore. Credevo

di essere come tutti gli altri miei fratelli, credevo che il mio unico compito fosse servire Lui sempre e comunque, che

questo fosse il mio compito, e invece sono stato creato per essere la più grande maledizione vivente per il genere

umano. Lo scoprii col tempo, quando mi fu comandato di andare sulla terra a corrompere gli uomini per decretare i

veri fedeli seguaci di Dio, ma quello stesso giorno, scoprii che il mio veleno aveva già agito contro i miei stessi fratelli.

Sono stato la miccia che ha scatenato la più estenuante guerra che vedrà mai occhio umano. Sono stato la chiave

che ha spalancato le porte degli inferi. Sono stato la causa della caduta e la severa condanna di molti dei miei fratelli.

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Nessuno ha più rivisto la luce da quel giorno. Nessuno.

La mia non è una condanna, è una Maledizione! - Che cosa ricordi?- mi chiese Adriel mentre gli collegavo

una nuova sacca di sangue alla canula sul dorso della mano. La sua voce era ancora così debole.

- Non molto.- risposi sedendomi sul bordo del letto accanto a lui. Dopo due giorni il suo aspetto era migliorato,

cominciavo a riconoscere i tratti del mio amore sotto quella pelle aggrinzita e secca. - Ho ricordi nitidi di tutto ciò che è

accaduto prima della caduta, mentre ricordo molto poco di tutto il resto.-

Mi carezzò la mano. La sua era ancora fredda come il ghiaccio. - Manuel?- domandò.

- Non lo vedo da un paio di giorni. Stanno tenendo d’occhio gli spostamenti degli uomini di Damian per

impedire attacchi a sorpresa. Sono tutti molto preoccupati che possano agire finché sei ancora troppo debole.-

- Non volevo che andasse a finire così.- Gli sfiorai le labbra con un bacio - Stai tranquillo, amore,

andrà tutto bene, te lo prometto.- È vero, mentii spudoratamente, ma in quelle condizioni

cosa avrei mai potuto dirgli? Era trascorsa solo una settimana dalla sua liberazione eppure già si sentiva l’odore

del sangue che aveva scatenato la rappresaglia di Sataniel. Alessandro era stato la prima vittima della sua collera. Non

seppi mai cosa fosse davvero successo, ma so che fu così tanto vicino alla morte fisica da scottarsi con le fiamme

dell’inferno, quel tanto che gli bastò a fargli capire una volta per tutte d’aver scelto di stare dalla parte sbagliata. So che

soffrì molto più di quanto un corpo umano riuscirebbe a sopportare, ma Alessandro, si sa, non è un uomo come gli

altri. Se la caverà anche stavolta. Rachael piantonava il mio appartamento giorno e notte,

pronta ad intervenire al minimo accenno di pericolo.

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Samuel aveva già catturato e costretto a parlare molti

demoni minori per farsi rivelare il nascondiglio di Damian, ma senza successo. Quei bastardi avevano preferito la morte

al tradimento. Manuel invece era occupato a raccogliere i pezzi dei

danni causati dalla liberazione di Adriel. Alessandro era vivo, ma non ancora del tutto al sicuro, e Manuel

sentendosi responsabile per il dolore che era stato costretto a subire a causa mia, non avrebbe permesso che gli

accadesse nulla di male. La realtà dei fatti, tuttavia, è che non avevamo la minima

idea di cosa fare e di come riuscire a prevenire la prossima mossa di Sataniel e dei suoi seguaci. L’unica cosa di cui ero

sicura era che il mio amore per Adriel andava ben al di là del mio amore verso Dio e solo questo, se non bastasse tutto

il resto, era sufficiente a legarmi all’Inferno irrimediabilmente.

Avevo già vissuto mille e mille vite, in mille e mille corpi e fattezze diverse ed ero stanca!

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La brezza fresca della sera mi faceva svolazzare i capelli

davanti gli occhi, costringendomi a scansarmeli dal viso. Adriel era in piedi dietro di me, seduta sul muretto di

cemento sul lungomare di Gaeta. Era la prima volta che usciva di casa dopo quasi due mesi di convalescenza. La

ripresa completa era stata lenta e dolorosa, ma eravamo riusciti a lasciarci quel brutto periodo alle spalle.

Sarà difficile dimenticare l’espressione incantata sul suo viso quando svoltato l’angolo ci trovammo di fronte il mare.

A dire il vero era da tutta la mattina che faceva facce strane per qualsiasi cosa vedesse di nuovo. Non aveva mai visto un

cellulare, una macchina, uno stereo, perfino la segreteria telefonica lo lasciò senza parole. Sembrava un uomo al

quale era stata donata la vista dopo una vita di cecità e solitudine. Ma il mare… il mare lo conosceva e rivederlo

dopo secoli di isolamento lo emozionò fin quasi alle lacrime. Era splendido avvolto nella sua felpa bianca con

cappuccio. Il jeans un po’ slavato di Michael gli calzava a pennello, solo le scarpe da ginnastica erano nuove. Gli unici

ricordi che avevo di lui erano con abiti antichi, vederlo vestito così me lo rendeva ancora più reale. Finalmente era

lì con me, e non avrei permesso a nessuno di portarmelo via di nuovo.

Avevo le sue braccia allacciate alla vita e con il mento sulla spalla sinistra, osservava immobile le onde che si

infrangevano sulla parete di scogli sotto di noi. A volte mi stringeva così forte da togliermi il fiato, ma lo lasciai fare

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senza lamentarmi. Quella sera, gli averi concesso qualunque

cosa pur di continuare a vedere il sorriso nei suoi occhi. Rimanemmo lì così, in silenzio per un po’, fino a quando

non decidemmo di fare una passeggiata. Mi sentivo così completa e al sicuro insieme a lui da non riuscire a pensare

ad altro che le sue dita intrecciate alle mie. Il profumo della sua pelle, trascinato dalle leggere folate di vento di tanto in

tanto, mi riportavano alla mente antichi ricordi privi di immagini. Attimi di flash improvvisi di istanti vissuti che

non riuscivo a riportare a galla, ma che sapevo essere lì a fare capolino dietro un angolo della memoria, a beffarsi di

me. - A cosa stai pensando?- mi chiese. Non mi accorsi che si

era fermato fino a quando non sentii il suo peso fare resistenza alla mia avanzata. Mi sorrideva in un modo così

tenero che avrei voluto solo che mi stringesse fra le sue braccia fino a consumarmi.

- Cerco di ricordare.- - Me?-

- È strano. Mi ricordo ogni istante vissuto con te, ma allo stesso tempo non c’è una sola immagine nella mia mente

che mi mostri quei ricordi. Non so se riesci a capire cosa intendo.-

- Credo di sì. E forse è un bene per te non ricordare. Non hai idea di quanto sia devastante dover convivere con i

ricordi.- - Dici? Hai mai vissuto con la perenne sensazione che ti

manchi costantemente qualcosa di indefinito. L’insoddisfazione di non riuscire a colmare quel vuoto ti

distrugge dentro, una vita dopo l’altra.- - Se lo dici tu…-

Mi stavo alterando e non volevo che la serata prendesse quella piega così spiacevole.

- Cambiamo argomento. È meglio.-

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- E se io non volessi?- era contrariato - Sono stato tagliato

fuori dai giochi per tanto tempo, Uriel, ma non ti dimenticare chi sono. So quanto è stata dura per te in tutto

questo tempo, o credi che non lo sappia? Pensi che per me sia stato facile starmene lì, giorno dopo giorno a cercarti? A

te almeno è stata data una vita mortale, che per quanto possa farti ribrezzo è pur sempre una vita. Io passo la mia a

nascondermi dalla luce, costretto a nutrirmi di quelli come voi per sopravvivere. Sai quante volte ho temuto di aver

scelto la vittima sbagliata? Sai quante volte ho avuto tanta repulsione per me stesso da volermi lasciare morire? Ma ho

mai avuto il coraggio di lasciarti. Non ho mai perso la speranza di riuscire un giorno a cambiare le cose e tenerti

con me. Neanche una volta. Mi sono aggrappato a quella speranza ogni singolo giorno. È stato il mio raggio di sole in

tutti questi anni. Ti ho vista crescere, piangere, sorridere e gioire di ogni nuova vita che ti veniva donata. E poi ti ho

vista morire, tutte le volte. Tutte le dannate volte sono stato lì con te o senza di te a vederti morire, consapevole di non

poter fare niente, consapevole che avrei passato il resto dei miei giorni a cercarti di nuovo. Ci ha condannati tutti Uriel.

Non paghi solo tu le conseguenze della ribellione, le paghiamo tutti e tutti a caro prezzo.-

- Non ho mai pensato il contrario.- - Allora non lamentarti di ciò che ti è stato concesso.-

Non replicai. Avevo ascoltato anche troppo senza uscirne un granché bene. Mi sentivo in colpa già prima di sentir

pronunciare quelle parole proprio da lui. Comunque riprendemmo la nostra passeggiata provando a fare finta di

niente e cancellare quegli cinque minuti per goderci il resto della serata, anche se ero sicura che ormai, per entrambi, il

buon umore era andato a farsi benedire. Mi portò a cena in un piacevole ristorante sulla costa. Gli

era piaciuto dall’esterno passandoci davanti e ricordando

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che io nel bene o nel male avrei dovuto mettere qualcosa

sotto i denti, mi convinse ad entrare. Mangiò qualcosa, pur non avendone bisogno, giusto per non dare nell’occhio, ma

non sembrò gradire, nonostante le portate di pesce fossero deliziose. Apprezzai il tentativo e quella sensazione di

gratitudine mi invase la mente come un fastidioso deja vu. - Cosa c’è che non va, Uriel?-

- Voglio ricordare.- Scosse la testa leggermente. Rassegnato. - Non si può.-

- Perché no?- - Perché ci abbiamo già provato più di una volta. Non

funziona.- - Proviamoci di nuovo.-

- No!- - Perché no?-

- È troppo rischioso.- - Voglio rischiare.-

- No! Non insistere per favore.- - Ti prego.-

- Non voglio farlo e tu non chiedermelo più.- Si stava alterando di nuovo.

- Che cosa mi stai nascondendo Adriel? Ho il diritto di saperlo.-

Alzò una mano che attirare l’attenzione del cameriere e chiese il conto.

- Adriel?- - Smettila Uriel. Smettila con questo terzo grado.-

I commensali alle nostre spalle si voltarono a guardarci di sottecchi.

- Non mi sembra d’averti chiesto poi chissà cosa.- dissi sottovoce.

- E invece non hai la più pallida idea di quanto mi stai chiedendo.-

- Di che…- mi fermai appena si avvicinò il cameriere con

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il conto. Adriel tirò fuori una banconota da cento dalla tasca

e il cameriere, restituitogli il resto, tornò alla cassa con i soldi lasciandoci di nuovo soli. - Di che rischio stiamo

parlando?- Adriel si alzò porgendomi una mano affinché lo seguissi

fuori dal locale senza fare ulteriori domande lì in pubblico. Rimanemmo in silenzio per un po’, ma fu lui a riprendere il

discorso. - Tutte le volte che ci abbiamo provato, tutte le volte che

mi sono lasciato convincere...- - Continua.-

- Era il lontano 3000 avanti Cristo, anno più anno meno, a quel tempo non è che si badasse molto al tempo come si fa

adesso, quando una gelida notte, in un vicolo buio di un villaggio in Turchia, vidi un ragazzo intirizzito dal freddo

accasciato a terra. Cercava di coprirsi il più possibile dal vento, stringendosi addosso un misero mantello di tela. Non

avrebbe sopravvissuto alla notte ed io ero così… affamato…-

- Perché cambi discorso adesso?- - Non pensai un solo istante alla possibilità di salvare

quel giovane, benché avessi tutti i mezzi necessari per farlo. Riuscivo a pensare soltanto alla fame opprimente che mi

infiammava la gola e lo stomaco. Non ne ebbi alcuna pietà quando conficcai le zanne nella carne tenera del suo

giovane collo. Nessuna. Mi nutrii del suo sangue come se fosse il miglior nettare che gli dei avessero mai assaporato e

mi piacque perfino farlo. Mi piacque la sensazione di potere e dominio che mi faceva sentire.-

Per un lungo momento sembrò quasi che non sarebbe riuscito a continuare. L’angoscia sul suo viso stava mutando

in una sofferenza così intensa che mi fece venire la pelle d’oca - E poi?-

- Nell’istante stesso in cui mi accorsi che non avrei potuto

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ottenere altro da lui, successe.-

- Che cosa?- - Fu un istante. Ma quel tanto che bastò a vedere

chiaramente cosa avevo fatto.- - Cosa Adriel?-

- Un istante prima di morire io vidi e mentre vedevo lui spalancò i suoi occhi su di me, mi afferrò una mano e con

un filo di voce sussurrò: Adriel!- - Oh mio Dio!-

Due grosse lacrime gli solcarono il viso. - È stata la prima volta che ti trovai dopo secoli passati inutilmente a cercarti

ed è stata l’unica volta che non sono riuscito a riconoscerti da subito. Credo sia successo perché la tua anima aveva già

parzialmente abbandonato il corpo mortale, ma fu allora che capii. Ogni volta, in ogni vita, tu riesci a ricordare tutto

solo a cavallo tra vita e morte, quando abbandoni la mortalità per riacquistare la tua vera forma divina. Hai idea

di quanto faccia male vederti morire mentre mi guardi, implorandomi di tenerti con me, di non lasciarti andare?

Tutte le volte è come quella prima volta. Da allora tutte le volte che ci abbiamo provato, tutte le volte che mi sono

lasciato convincere che sarei riuscito volontariamente a portarti al limite e riportarti indietro mi sei morta fra le

braccia, fino a quando ho giurato a me stesso che non te l’avrei più lasciato fare.-

- Trasformami!- esclamai tutto d’un fiato afferrandolo per un braccio.

- Scordatelo.- - Tanto è inutile girarci intorno, no? Devo morire per

tornare ad essere me stesso e devo continuare a vivere per poter continuare a stare con te. Quindi trasformami. Sei

l’unico che può mettermi nella condizione di non essere né vivo né morto e ridarmi la libertà.-

- Non lo farò mai!-

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- E invece sì. Tu hai il dovere di liberarmi da questa

maledizione se puoi.- Mi afferrò per le spalle stringendo forte - La mia anima è

perduta Uriel. Le fiamme dell’inferno sono l’unica luce che mi sarà mai concessa, ma tu… Tu puoi ancora rivedere la

luce. Finché Manuel riuscirà a tenerti lontana dal peccato, tu potrai ancora vedere la luce un giorno. La misericordia di

Dio ti ridarà la libertà che cerchi, nessun altro. Confido in questo ogni singolo giorno. Confido in quella misericordia e

devi farlo anche tu. Devi crederci Uriel, per tutti noi.- - Sono io la causa della vostra dannazione.- gridai tra i

singhiozzi - È colpa mia, ogni singola goccia di dolore che avete sofferto in tutti questi anni.- non riuscivo a smettere di

gridare - Dovresti odiarmi, Adriel, dovreste farlo tutti.- Mi strinse a sé contro la mia volontà - Ma che cosa dici?

Tu non hai nessuna colpa per quello che è successo, amore mio. Non puoi sentirti responsabile di nulla. Sei stato usato

come lo strumento che avrebbe dovuto mettere alla prova tutti noi. E noi soltanto abbiamo fallito. Non potevi sapere

che sarebbe andata a finire così. Abbiamo mancato verso Dio, abbiamo perso la sua fiducia, ma non siamo stati

abbandonati. Voglio credere che tutto questo abbia un senso. Non può averci fatto questo per niente.-

- Non voglio la vostra compassione, Adriel. Ho solo bisogno che qualcuno mi salvi. Ho bisogno che TU mi

salvi.- - Non puoi chiedermi di rinunciare a te proprio adesso

che ti ho ritrovata.- sussurrò con la voce rotta da un pianto represso a fatica.

Lo baciai, avevo il disperato bisogno di fondermi con la sua essenza, sentire quel senso di appartenenza che mi

legava a lui in modo così mistico e ossessivo. Mi sentii avvolgere dal suo potere, totalmente incapace di compiere il

minimo movimento, era come se il mio spirito avesse

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abbandonato quelle scomode spoglie mortali per

congiungersi al suo. Non era una sensazione piacevole eppure la percepivo così giusta, così naturale da far passare

in secondo piano il malessere fisico che mi procurava. E fu allora che agì, approfittando della nostra vulnerabilità di

quel momento. Mi trascinò via come una foglia al vento. Vidi il mio corpo accasciarsi a terra mentre venivo spinto

via, mentre Adriel fu sbalzato dall’altro lato della strada. Le sue mani erano così ardenti da farmi andare la gola in

fiamme. Mi teneva sospeso per il collo, guardandomi fisso negli occhi, gli occhi di un demonio.

La voce di Adriel mi giunse rabbiosa e lontana, nonostante fosse a pochi metri da noi - Sataniel!-

Gli rispose senza neanche voltarsi, per non perdere il contatto visivo, ma non saprei dire se stesse parlando con

lui o con me - Avrei dovuto eliminarti fin dal primo momento.-

Gli stringevo il polso, dimenandomi, ma non mollava la presa. Stavo andando a fuoco e riuscivo solo a gemere per il

dolore. Sentivo le forze abbandonarmi, e quando mi sentii al limite mi scaraventò a terra con tanta forza da creare una

profonda crepa sul marciapiede. Se l’avesse fatto mentre ero ancora nel mio corpo sarei morta all’istante, ma non era

questo che voleva. Nel momento in cui mi lasciò andare, Adriel gli fu

addosso. Vederli lottare mi procurò dei flash di ricordi del passato, e allora capii che non sarebbe mai finita.

- Adesso basta!- gridai, riversando su di loro un’ondata di potere che li costrinse a separarsi. Guardai Sataniel con la

stessa ferocia con la quale mi aveva guardato lui poco prima - Non ci lascerai mai andare, vero? Continuerai a darci la

caccia qualunque cosa facciamo, non è così?- Adriel provò ad avvicinarsi a me, ma lo respinsi via,

alzando una barriera di potere fra me e lui - Perché?-

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continuai - Dimmi perché, diavolo, non la smetti di

tormentarmi! Dimmelo!- strillai - Se non è per amore che fai tutto questo, allora perché?-

- Perché non avrò pace finché non mi sarò vendicato fino all’ultimo attimo d’inferno a cui mi hai condannato.-

A quelle parole non riuscii a fare a meno di urlare - Dio ti ha condannato!-

- E tu sei stato la mano che ha calato l’ascia sulle nostre teste.- ringhiò - Maledetto! Fosse anche l’ultima cosa che

farò, ti trascinerò all’inferno con me.- Ero furioso - Dunque è solo di questo che si tratta,

vendetta? Tutto il male, tutti i tormenti, non sono altro che un modo per vendicarti di me?-

- Sììì…- sibilò con malignità - ..e mi piace.- poi eruppe in una risata così fastidiosa, che Adriel non riuscì più a

trattenersi. Gli fu addosso in un attimo, ma Sataniel non si fece cogliere di sorpresa stavolta e materializzando in pugno

una grossa spada d’argento gliela conficcò nel petto arrestando la sua corsa - Non osare mai più avvicinarti a

me.- gli disse mentre, inginocchiato a terra, Adriel si contorceva dal dolore. Sataniel lo afferrò per i capelli per

farsi guardare in faccia mentre parlava - TU… tu vivi perché IO ti permetto di farlo. Non te lo dimenticare.- poi si rivolse

verso di me, ma non fece in tempo a parlare, perché una sfera di energia lo colpì con violenza mandandolo a sbattere

contro la parete di un palazzo. - E tu continui ad esistere perché LUI non ne ha ancora

abbastanza di te.- Non ricordavo il suono di quella voce, ma quando mi

voltai nella sua direzione, riconobbi Gabriel, in tutto il suo splendore, in piedi dietro di me. C’erano anche Manuel,

Samuel e gli altri, compreso Daniel. Non avevo mai visto Daniel nelle spoglie mortali, ma ne riconobbi lo spirito

fluttuare all’interno del suo potere. Perfino Alessandro, con

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i suoi uomini, svettava in allerta dai tetti dei palazzi, pronto

ad intervenire al primo accenno di ordine di Gabriel. Sataniel ringhiò, ma nonostante ciò fece qualche passo

indietro da Adriel. Rachael si avvicinò all’amico per sfilargli l’arma dal petto e Samuel lo aiutò a raggiungere gli altri.

Mi aspettavo l’arrivo di Damian e i suoi demoni da un momento all’altro, invece non accadde nulla. Era finita.

Sataniel si era arreso alla supremazia di Gabriel svanendo nel nulla, e noi eravamo salvi, almeno per quella volta,

probabilmente almeno per quella vita. Non riuscivo a crederci. Sentii sorgere sul viso un sorriso

immenso e corsi fra le braccia di Adriel, che mi venne incontro con gioia, nonostante il dolore. Mi strinse forte fra

le braccia e in quell’istante capii che me lo sarei fatto bastare. Non avrei rinunciato alla mia vita per rincorrere

un’utopia. Avrei assaporato ogni singolo giorno che Dio mi avrebbe concesso di passare insieme a lui, senza pretendere

niente di più. Volevo crederci perché lui ci credeva. Mentre mi teneva fra le braccia, cominciai a percepire

sempre meno il suo tocco e sempre di più il freddo dell’asfalto. Stavo tornando nel mio corpo mortale, ancora a

terra. Adriel se ne accorse, e vi si avvicinò un po’ barcollante. Si inginocchiò per sorreggermi, ma nell’istante

in cui mi sfiorò, qualcosa mi sollevò da terra e mi sbalzò via, con forza disumana, mandando le mie ossa a

infrangersi contro la parete di fronte. Il dolore fu allucinante. Sentii il cranio spaccarsi, le costole rompersi e

bucare i polmoni, il cuore quasi esplodere sotto la violenza dell’urto. Udii, ovattato, le grida dei presenti.

Adriel fu subito su di me, ma non mi guardava, cercava Sataniel con lo sguardo in tutte le direzioni, ma non riusciva

a vederlo, poteva solo udire la sua risata agghiacciante - Vigliacco!- gridò - Maledetto! E Maledetto colui che ti ha

creato e che ti permette ancora di fare del male.-

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A quelle parole seguì un mormorio agitato di tutti. Tutti

tranne Manuel, che era rimasto immobile, con lo sguardo perso su di me, lontano mille e mille miglia da noi, perso in

quel passato ricorrente che continuava a perseguitarlo. Il dolore mi fece uscire un rantolo dalla gola, mentre le

lacrime e il sangue di Adriel si mescolavano al mio. Adriel era a pezzi. - Uriel.- riusciva a stento a parlare -

Amore mio, di’ qualcosa. Parlami per favore.- Ma io avevo perso ogni controllo sul mio corpo,

percepivo solo suoni e dolore. - Mi dispiace, amore.- singhiozzava - Mi dispiace tanto.-

si copriva il volto con una mano, distrutto. - Guarda che cosa ti ho fatto? È tutta colpa mia! Perdonami. Ti prego,

perdonami.- Manuel lo affiancò, gli posò una mano sulla spalla e

strinse forte. Non riusciva a parlare, ma in quella stretta c’era tutta la sua sofferenza. Adriel posò il viso su quella

mano e continuò a piangere. Poi sentii la voce di Alessandro, ma senza vedere dove fosse - Ragazzi, è quasi

ora.- Lui sapeva. Sapeva già tutto da tempo, probabilmente, ed era lì per me.

A quelle parole Adriel si volto verso Gragriel, ancora in piedi non molto distante, e gridò rabbioso - Non startene lì

impalato come se non fossi in potere di fare qualcosa.- - Non è a me che devi chiedere di prendere certe

decisioni.- rispose lui con totale indifferenza - Se non era per proteggerla da Sataniel, allora che sei

venuto a fare, Gabriel?- lo rimproverò. - Per proteggerla da te.- disse secco.

Basta, avevo ascoltato abbastanza. Se dovevo morire, allora volevo morire in fretta e smettere di vedere, di sentire

sulla pelle il dolore che stavo procurando a quelle due anime in pena.

- Adriel!- disse Alessandro - Se vuoi dirle qualcosa,

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questo è il momento.-

- Oh DIO, No! Non farmi questo un’altra volta. Non adesso, è … troppo presto.- Il suo pianto mi stracciava il

cuore a morsi, non riuscivo a sopportarlo. Per fortuna intervenne Alessandro - Dai, non farti vedere così. La fai

solo stare peggio.- Da lontano mi giunse come un sussurro la voce di

Manuel, stava pregando, o sarebbe più giusto dire che stava implorando un segno di misericordia, un segno che non

arrivava e non sarebbe arrivato. Intanto Adriel si era accasciato col viso su di me,

disperato - Non chiedermelo, Alessandro, io… non posso. Non ne ho più la forza.-

Avrei voluto dirgli tante di quelle cose, per provare a farlo stare meglio, ma ero ormai aggrappata a quel corpo

con gli ultimi aliti di vita che avevo, e fu lì che come un lampo nella notte, ricordai tutto, e per un attimo fu come se

non avessi mai dimenticato. Tutte le mie vite passate, tutte le lotte, le gioie e i pianti vissuti con lui. Allora seppi che era

la fine, e lo sentì anche lui, perché mi strinse con più forza e inizio a urlare - NO Uriel, NOOO.- , ma erano lamenti

lontani, quasi impercettibili. Poi… il nulla.

FINE

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RINGRAZIAMENTI

Questa volta sarò breve. Voglio ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine e

che continuano ad esserci sempre, giorno dopo giorno.

Grazie di cuore!