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a.s. 2016/2017 - Prof. Monti - Immanuel Kant 1 Immanuel Kant 1724 – 1804 1. LA VITA L’indirizzo critico iniziato dall’Empirismo, riconoscendo e segnando alla ragione alcuni limiti, limiti che l’Illuminismo aveva fatto suoi , diventa con Kant una svolta decisiva nella storia del pensiero. La costruzione di una filosofia critica, cioè di un pensiero che si sforzi di delimitare i confini e le possibilità effettive delle facoltà umane , è il compito proprio di Kant, che da un lato si pone come punto di confluenza e di rielaborazione della cultura precedente e, dall’altro, si configura come punto di partenza di nuove esperienze speculative. Kant nasce da una famiglia di origine scozzese e viene educato nello spirito religioso del pietismo (presso il Collegium fridericianum). Uscito dal collegio nel 1740, Kant studiò filosofia, matematica e teologia all’Università di Konigsberg, dove ebbe come maestro Martin Knutzen che lo avviò a studi di matematica, filosofia e fisica newtoniana. Dopo gli studi universitari fu precettore privato in alcune case patrizie. Ottiene la libera docenza nel 1755 e per 15 anni insegna a Konigsberg. Solo nel 1770 viene nominato professore ordinario di logica e metafisica in quella università, posto che mantiene fino alla morte. - La vita di Kant è priva di avvenimenti drammatici e di particolari passioni , con pochi affetti e amicizie, interamente concentrata in uno sforzo continuo di pensiero. Egli non fu però estraneo agli avvenimenti del suo tempo . Il suo ideale politico , come lo delineò nello scritto Per la pace perpetua, era una costituzione repubblicana “fondata in primo luogo sul principio della libertà dei membri di una società, come uomini; in secondo luogo sul principio di indipendenza di tutti, come sudditi; in terzo luogo sulla legge dell’uguaglianza, come cittadini”. Negli ultimi anni Kant fu preso da una debolezza senile che lo privò di tutte le sue facoltà . Negli ultimi mesi aveva perduto sia la memoria che la parola. 2. GLI SCRITTI Nell’attività letteraria di Kant si possono distinguere tre periodi. Nel primo, fino al 1760, prevale l’interesse per le scienze naturali . Nel secondo, fino al 1781, prevale l’interesse filosofico e si determina l’orientamento verso l’Empirismo inglese e il Criticismo . Il terzo periodo è quello della filosofia trascendentale. L’opera principale del primo periodo, che compare anonima nel 1755, è Storia universale della natura e teoria del cielo, descrive la formazione dell’intero sistema cosmico, a partire da una nebulosa primitiva, in conformità delle leggi della fisica di Newton. Descrive la formazione delle stelle fisse e la molteplicità dei sistemi stellari. Poi descrive lo stato primitivo della natura, la formazione dei corpi celesti, la causa dei loro movimenti e delle loro relazioni sistematiche, per ciò che riguarda e la costituzione dei pianeti e l’intero universo. Poi si studiano le analogie dei pianeti per fare un confronto tra gli abitanti dei vari pianeti. Kant sviluppa le ipotesi alla base di questo testo in modo puramente meccanico: la materia primitiva ha già in sé la legge che deve portarla all’organizzazione dei mondi e rivela quindi un certo ordine che consente di riconoscere l’impronta del suo Creatore .

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Page 1: 1a - IMMANUEL KANT - introduzione e Critica della ragione pura · La Critica della ragion pura apparve nel 1781. Qui Kant ha condotto a termine “il risultato di una meditazione

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Immanuel Kant 1724 – 1804

1. LA VITA L’indirizzo critico iniziato dall’Empirismo, riconoscendo e segnando alla ragione alcuni limiti, limiti che l’Illuminismo aveva fatto suoi, diventa con Kant una svolta decisiva nella storia del pensiero. La costruzione di una filosofia critica, cioè di un pensiero che si sforzi di delimitare i confini e le possibilità effettive delle facoltà umane, è il compito proprio di Kant, che da un lato si pone come punto di confluenza e di rielaborazione della cultura precedente e, dall’altro, si configura come punto di partenza di nuove esperienze speculative. Kant nasce da una famiglia di origine scozzese e viene educato nello spirito religioso del pietismo (presso il Collegium fridericianum). Uscito dal collegio nel 1740, Kant studiò filosofia, matematica e teologia all’Università di Konigsberg, dove ebbe come maestro Martin Knutzen che lo avviò a studi di matematica, filosofia e fisica newtoniana. Dopo gli studi universitari fu precettore privato in alcune case patrizie. Ottiene la libera docenza nel 1755 e per 15 anni insegna a Konigsberg. Solo nel 1770 viene nominato professore ordinario di logica e metafisica in quella università, posto che mantiene fino alla morte. - La vita di Kant è priva di avvenimenti drammatici e di particolari passioni, con pochi affetti e amicizie, interamente concentrata in uno sforzo continuo di pensiero. Egli non fu però estraneo agli avvenimenti del suo tempo. Il suo ideale politico, come lo delineò nello scritto Per la pace perpetua, era una costituzione repubblicana “fondata in primo luogo sul principio della libertà dei membri di una società, come uomini; in secondo luogo sul principio di indipendenza di tutti, come sudditi; in terzo luogo sulla legge dell’uguaglianza, come cittadini”. Negli ultimi anni Kant fu preso da una debolezza senile che lo privò di tutte le sue facoltà. Negli ultimi mesi aveva perduto sia la memoria che la parola.

2. GLI SCRITTI Nell’attività letteraria di Kant si possono distinguere tre periodi. Nel primo, fino al 1760, prevale l’interesse per le scienze naturali. Nel secondo, fino al 1781, prevale l’interesse filosofico e si determina l’orientamento verso l’Empirismo inglese e il Criticismo. Il terzo periodo è quello della filosofia trascendentale. L’opera principale del primo periodo, che compare anonima nel 1755, è Storia universale della natura e teoria del cielo, descrive la formazione dell’intero sistema cosmico, a partire da una nebulosa primitiva, in conformità delle leggi della fisica di Newton. Descrive la formazione delle stelle fisse e la molteplicità dei sistemi stellari. Poi descrive lo stato primitivo della natura, la formazione dei corpi celesti, la causa dei loro movimenti e delle loro relazioni sistematiche, per ciò che riguarda e la costituzione dei pianeti e l’intero universo. Poi si studiano le analogie dei pianeti per fare un confronto tra gli abitanti dei vari pianeti. Kant sviluppa le ipotesi alla base di questo testo in modo puramente meccanico: la materia primitiva ha già in sé la legge che deve portarla all’organizzazione dei mondi e rivela quindi un certo ordine che consente di riconoscere l’impronta del suo Creatore.

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Nel 1756 compaiono: Terremoti, Teoria dei venti e Monadologia physica, dove alle monadi di Leibniz sostituisce minuscole monadi fisiche. Nel 1759 un saggio sul Movimento e la quiete e lo scritto sull’Ottimismo. Nel secondo periodo prevalgono in Kant gli interessi filosofici e si delineano temi e motivi che confluiranno nel Criticismo. In La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche critica il valore della logica aristotelico-scolastica paragonandola ad un colosso “che ha la testa nelle nuvole dell’antichità e i piedi d’argilla”. Nell’Unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio Kant chiama la metafisica “abisso senza fondo”, “oceano tenebroso senza sponde e senza fari”. Successivamente, nello scritto La ricerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale Kant definisce la metafisica “niente altro che una filosofia sui primi fondamenti della nostra conoscenza”. Kant è deciso sostenitore dell’applicabilità del metodo matematico alla filosofia, ma egli vede anche le differenze fra le due discipline. “La metafisica è senza dubbio la più difficile di tutte le conoscenze umane; perciò essa non è stata ancora scritta”. Tuttavia la certezza della metafisica deve essere della stessa natura di quella della matematica e la filosofia si può realizzare nella certezza riducendo l’esperienza a regole e leggi. Solo, mentre la matematica parte da definizioni, la filosofia vi arriva alla fine, quando è giunta al chiarimento dei dati sensibili. In altre parole la filosofia deve far proprio, secondo Kant, il metodo adottato da Newton nelle scienze naturali. Nella Notizia sull’indirizzo delle sue lezioni Kant dice che è necessario non già imparare la filosofia, ma imparare a filosofare: il metodo dell’insegnamento filosofico deve essere quello della ricerca. A questo punto è assai deciso il suo distacco dal dogmatismo della scuola wolffiana e la sua adesione allo spirito di ricerca e all’empirismo dei filosofi inglesi. Ne i Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica fa la satira delle visione spiritistiche del filosofo e mistico Swedenborg e delle dottrine che ne sono a fondamento. La metafisica di Wolff e di Crusius sono assimilate alle visioni di questi. Queste teorie sono infatti chiuse in un proprio mondo, mondo di sogno, che esclude l’accordo con gli altri uomini, mondo costruito con poco materiale di esperienza e tanti concetti surrettizi. Di fronte alla vanità di questi sogni, Kant ritiene che la metafisica debba in primo luogo considerare le proprie forze e perciò “conoscere se il compito è in proporzione a ciò che si può sapere e quale rapporto ha la questione con i concetti dell’esperienza sui quali devono basarsi tutti i nostri giudizi”. La metafisica è la scienza dei limiti della ragione umana. Per essa importa più conoscere bene e mantenere i propri possedimenti che andare in cerca di ulteriori conquiste. I problemi che la metafisica deve trattare sono quelli che stanno a cuore all’uomo e che cioè si limitano ai confini dell’esperienza. La dissertazione Forma e principi del mondo sensibile e intelligibile che Kant presentò per la nomina a professore ordinario di logica e metafisica nel 1770, segna la soluzione critica al problema dello spazio e del tempo. Kant comincia con lo stabilire la distinzione fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale. La prima, che è dovuta alla ricettività (o passività) del soggetto, ha per oggetto il fenomeno, cioè la cosa come appare nella sua relazione al soggetto. La seconda, che è una facoltà del soggetto, ha per oggetto la cosa così come essa è, nella sua natura intelligibile, cioè come noumeno. Nella conoscenza sensibile, poi, si deve distinguere la materia dalla forma. La materia è la sensazione, la modificazione dell’organo di senso che testimonia la presenza di ciò che la causa. La forma è la legge, indipendente dalla sensibilità, che ordina la materia sensibile. La conoscenza sensibile, anteriormente all’uso della facoltà logica dell’intelletto, si chiama apparenza; e la conoscenza riflessa che nasce dal confronto, fatto dall’intelletto

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logico, di molteplici apparenze, si chiama esperienza. Gli oggetti dell’esperienza sono i fenomeni. La forma, cioè la legge che contiene il fondamento del nesso universale del mondo sensibile, è costituita dallo spazio e dal tempo. Tempo e spazio non derivano dalla sensibilità, ma essa li presuppone. Tempo e spazio sono intuizioni che precedono ogni conoscenza sensibile e indipendenti da essa, quindi sono pure. Perciò non sono realtà oggettive, ma solo condizioni soggettive e necessarie, alla mente umana, per coordinare a sé, in virtù di una legge, tutti i dati sensibili. Questi chiarimenti sulla conoscenza sensibile rimarranno pressoché immutati nella Critica della ragion pura. Quanto alla conoscenza intellettuale, Kant ritiene ancora che essa, pur nell’ambito di una serie di limiti, abbia la possibilità di cogliere le cose uti sunt, ossia come sono nel loro ordine intelligibile, a differenza della sensibilità, che percepisce uti apparent, come appaiono. Lasciando cadere questa distinzione, che lo riconnetteva alla filosofia tradizionale e insistendo sempre di più sui limiti dell’intelletto, Kant finirà in seguito per porsi nella prospettiva criticista. - Nei dieci anni che seguirono la Dissertazione, Kant andò elaborando la sua filosofia critica. Nel frattempo pubblicò pochissimo, nulla che riguardasse i temi della sua meditazione. La Critica della ragion pura apparve nel 1781. Qui Kant ha condotto a termine “il risultato di una meditazione di dodici anni in quattro o cinque mesi circa, quasi di volo, ponendo bensì la massima attenzione al contenuto, ma con poca cura della forma e di quanto occorre per essere facilmente inteso dal lettore”. La seconda edizione apparve nel 1787 e contiene importanti rimaneggiamenti ed aggiunte rispetto alla prima, soprattutto per ciò che riguarda la parte centrale e più difficile, la deduzione trascendentale. La Critica della ragion pura apre la serie delle grandi opere di Kant. Nel 1783 usciva i Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza, esposizione in forma più breve e popolare della stessa dottrina della Critica. Seguono: Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Critica della ragion pratica (1787), Critica del giudizio (1790); La religione nei limiti della semplice ragione (1793), La metafisica dei costumi (1797), Antropologia dal punto di vista pragmatico (1798). Negli stessi anni in cui apparivano le sue opere fondamentali, Kant pubblicava articoli, opuscoli, recensioni e chiarimenti del suo pensiero su punti particolari. Possiamo ricapitolare così la via seguita da Kant fino al raggiungimento completo del punto di vista trascendentale (vedremo che cosa questo significhi!) della sua filosofia. Negli studi giovanili di filosofia naturale, Kant si è venuto familiarizzando con la filosofia naturalistica dell’Illuminismo ispirata da Newton. Questa filosofia, col suo ideale di una descrizione dei fenomeni e con la rinuncia ad ammettere cause e forze che trascendono questa descrizione, gli ha prospettato l’esigenza di una metafisica che si costituisse in base agli stessi criteri limitativi. Successivamente, e per la prima volta nella Dissertazione del 1770, il suo punto di vista critico si chiarisce come punto di vista trascendentale, limitatamente alla conoscenza sensibile. La validità di questa conoscenza viene fondata sui suoi stessi limiti. Dal 1781 in poi, il punto di vista critico viene esteso a tutto il mondo dell’uomo.

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3. IL CRITICISMO COME “FILOSOFIA DEL LIMITE” E L’ORIZZONTE STORICO DEL PENSIERO KANTIANO La filosofia di Kant è detta Criticismo perché, contrapponendosi all’atteggiamento mentale del dogmatismo – che consiste nell’accettare dottrine senza interrogarsi sulla loro reale consistenza – fa della critica lo strumento per eccellenza della filosofia. - Criticare, nel linguaggio kantiano e conformemente all’etimologia greca, vuol dire giudicare, distinguere, valutare, soppesare, ossia indagare programmaticamente circa il fondamento di una esperienza umana qualsiasi, chiarendone le possibilità (cioè le condizioni che ne permettono l’esistenza) la validità (cioè i titoli di legittimità o di non legittimità che la caratterizzano) e i limiti (i confini di validità). Nell’istanza critica di Kant, risulta dunque centrale e qualificante l’aspetto del limite. La critica kantiana non nascerebbe affatto se non ci fossero, in ogni campo, dei limiti da fissare. Per cui il Criticismo si configura come una filosofia del limite. Questa filosofia del finito non equivale tuttavia, nelle intenzioni esplicite di Kant, ad una forma di scetticismo: tracciare il limite di un’esperienza significa garantire nel contempo, entro il limite stesso, la sua validità. L’impossibilità della conoscenza di trascendere (ovvero “andare oltre”) i limiti dell’esperienza diventa allora la base dell’effettiva validità della conoscenza; l’impossibilità della vita pratica di raggiungere la santità diventa la norma della moralità che è propria dell’uomo. Kant si propone di rinunciare ad ogni evasione dai limiti dell’uomo e, come egli stesso riconosce, deve questa rinuncia a David Hume, il quale ha rotto il suo “sonno dogmatico”. Il Criticismo si inserisce nello specifico orizzonte storico del pensiero moderno e risulta definito da quelle due coordinate di base che sono la Rivoluzione scientifica da un lato e la crisi progressiva delle metafisiche tradizionali dall’altro. Questa situazione si era ripercossa sull’etica, che tradizionalmente veniva dedotta dalla metafisica, facendo sorgere il problema di una morale autonoma rispetto a speculazioni ontologiche (morali di carattere utilitaristico). Nello stesso tempo, la riflessione sull’arte e sul gusto, nonché sulla sfera sentimentale dell’uomo, tendeva a produrre una serie di interrogativi circa la loro struttura e validità. Tutto ciò spiega come a un certo momento dello sviluppo della filosofia moderna sia potuto sorgere il Criticismo, che si interroga in profondità sui fondamenti del sapere, della morale e dell’esperienza estetica e sentimentale, concretizzandosi nei tre capolavori di Kant. Da questo punto di vista, il kantismo può essere considerato come una prosecuzione di quell’indirizzo critico che l’empirismo inglese aveva seguito fin da Locke, riconoscendo i limiti della ragione e del mondo umano, e che l’Illuminismo aveva difeso e propagandato nel ‘700. - Attenzione però: 1. Kant rifiuta gli esiti scettici dell’empirismo; 2. si distingue dall’Illuminismo per una maggiore radicalità di intenti: l’Illuminismo aveva portato davanti al tribunale della ragione l’intero mondo dell’uomo, Kant si propone di portare davanti a questo tribunale la ragione stessa. Ma Kant, anche in questo andare oltre l’Illuminismo, è sempre figlio dell’Illuminismo, in quanto ritiene che i confini della ragione possano essere tracciati solo dalla ragione stessa, che, essendo autonoma, non può assumere dall’esterno la direttiva e la guida del suo procedimento. Per Kant i limiti della ragione tendono a coincidere con i limiti dell’uomo.

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4. IL PROBLEMA GENERALE DELLA “CRITICA DELLA RAGION PURA” Come si è accennato, la Critica della ragion pura è una analisi critica dei fondamenti del sapere. E, dato che ai tempi di Kant la conoscenza si articolava in scienza e metafisica, la sua opera segue un’indagine valutativa di queste due attività dell’uomo. Agli occhi di Kant la scienza e la metafisica si presentavano in modo molto diverso. La prima appariva come un sapere fondato e in continuo progresso; la seconda, con il suo voler andare oltre l’esperienza verso l’assoluto, il suo sostenere con i vari filosofi soluzioni antitetiche agli stessi problemi, con le sue contese senza fine, non pareva affatto aver trovato il cammino sicuro della scienza. Tuttavia, poiché il pensiero scettico di Hume aveva minato alla base i fondamenti non solo della metafisica, ma anche della scienza, si profilava, secondo Kant, la necessità di un riesame globale della struttura e della validità della conoscenza, esame che fosse in grado di rispondere in modo esauriente circa lo statuto di scientificità (ovvero di conoscenza certa) di questi due campi del sapere. Kant respinge lo scetticismo scientifico di Hume, ritenendo il valore della scienza come un fatto ormai stabilito, ma ne condivide lo scetticismo metafisico, sebbene l’importanza e la nobiltà della metafisica (di cui si dichiara innamorato deluso) lo porti ad indagare più esaurientemente la natura di quel “perenne anelito” che porta l’uomo a trascendere l’orizzonte del verificabile per avventurarsi negli spazi della metafisica. “... e così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, appena che la ragione si innalzi alla speculazione”. Dunque, da un lato Kant vuole stabilire come la matematica e la fisica siano possibili come scienze, e dall’altro come sia possibile la metafisica in quanto scienza, o perlomeno come disposizione innata della mente. Mentre nel primo caso si tratta di giustificare una situazione di fatto, chiarendo le condizioni che rendono possibili la matematica e la fisica, nel secondo si tratta di scoprire se esistano condizioni tali che possano legittimare le pretese della metafisica di porsi come scienza, oppure se sia condannata alla non-scientificità.

5. LA SCIENZA E I “GIUDIZI SINTETICI A PRIORI” Kant è convinto che la scienza offra il tipico esempio dell’esistenza, nell’ambito della conoscenza umana, di principi che sono verità universali e necessarie, che valgono ovunque e sempre allo stesso modo. Infatti, pur derivando in parte dall’esperienza e pur nutrendosi sempre di essa la scienza presuppone, alla propria base, alcuni principi immutabili che ne fungono da pilastri. Tali sono assiomi della fisica come: “ogni evento dipende da cause”, “ogni oggetto dell’esperienza è nello spazio e nel tempo”. Kant denomina principi di questo tipo giudizi sintetici a priori. Giudizi poiché consistono nell’aggiungere un predicato ad un soggetto; sintetici perché il predicato dice qualcosa di nuovo e in più rispetto al soggetto; a priori perché essendo universali e necessari non possono derivare dall’esperienza, la quale, come già insegnava Hume, insegna che un evento in passato è di fatto seguito a una certa causa, non che debba necessariamente seguire da questa. Per Kant i principi della scienza, dunque, non sono né giudizi analitici a priori, né giudizi sintetici a posteriori. I primi sono enunciati a priori, senza bisogno dell’esperienza, in quanto in essi il predicato non fa che esplicitare, con un processo di analisi, quanto è già implicito nel soggetto. Ad esempio: “i corpi sono estesi”. Tali giudizi, pur universali e necessari, sono infecondi. I secondi sono giudizi nei

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quali il predicato dice qualcosa di nuovo, aggiungendosi o sintetizzandosi al soggetto in virtù dell’esperienza. Ad esempio: “i corpi sono pesanti”. Questi giudizi sono fecondi, ma non hanno universalità né necessità dato che poggiano solo sull’esperienza. Invece i principi della scienza sono al tempo stesso fecondi, cioè sintetici, e necessari ed universali, cioè a priori. I giudizi analitici a priori richiamano la concezione razionalistica della scienza, i giudizi sintetici a posteriori invece richiamano l’interpretazione empiristica. Per Kant, quindi, la scienza è feconda in senso duplice: sia per il contenuto, che le deriva dall’esperienza, sia per la forma, che le deriva dai giudizi sintetici a priori. La scienza è la somma di tali principi e dell’esperienza, che forma un sapere fecondo, ma anche universale e necessario. Quando si afferma che per Kant ogni giudizio scientifico è sintetico a priori significa che per lui i vari giudizi scientifici si basano su giudizi sintetici a priori. La proposizione “il calore dilata i metalli”, ad esempio, pur formulata in base all’esperienza presuppone il principio di causalità. I giudizi sintetici a priori, in altre parole, sono la spina dorsale della scienza, l’elemento senza il quale essa sarebbe costretta a muoversi sempre nell’incerto e nel relativo. Il ricercatore humiano, senza tali principi, brancola sempre nel buio.

6. LA NUOVA TEORIA DELLA CONOSCENZA E IL “COPERNICANESIMO FILOSOFICO” DI KANT Dopo aver messo in luce che la scienza poggia su giudizi sintetici a priori Kant si trova di fronte al complesso problema di spiegare la provenienza di questi. Infatti se tali principi non derivano dall’esperienza, da dove vengono? Per rispondere, Kant elabora una nuova teoria della conoscenza intesa come sintesi di materia e forma. Per materia della conoscenza intende l’insieme delle impressioni sensibili, particolari e mutevoli, che vengono ai nostri sensi dall’esperienza (elemento empirico o a posteriori). Per forma intende l’insieme delle modalità primitive attraverso cui la mente umana percepisce e pensa la realtà (elemento razionale o a priori). Kant ritiene che la mente filtri attivamente i dati empirici attraverso schemi o forme che le sono innate e che risultano comuni ad ogni soggetto pensante. Come tali, queste forme sono a priori rispetto all’esperienza e sono universali e necessarie perché tutti le possiedono e le applicano allo stesso modo. Possiamo ricorrere all’esempio classico che paragona queste forme a priori a delle lenti colorate o ad occhiali permanenti. Ma l’esempio più azzeccato ed attuale è quello tratto dall’informatica: la mente kantiana è simile ad un computer, che elabora la molteplicità dei dati che le vengono forniti dall’esterno, mediante una serie di programmi fissi, che ne rappresentano gli immutabili codici di funzionamento. Pur mutando costantemente le informazioni, non mutano mai i loro schemi di ricezione. Ma se in noi esistono determinate forme a priori, universali e necessarie (che per Kant, come vedremo, sono lo spazio, il tempo e le dodici categorie) attraverso cui incapsuliamo i dati della realtà, resta spiegato perché si possano formulare giudizi sintetici a priori intorno ad essa senza timore di essere smentiti dall’esperienza: Se io portassi sempre lenti azzurre, potrei dire con certezza che per me il mondo sarà sempre azzurro. Ogni evento dipenderà da cause e sarà nello spazio e nel tempo, poiché io non percepisco le cose se non attraverso la causalità e mediante spazio e tempo. Questa nuova impostazione del problema della conoscenza implica immediatamente taluni importanti conseguenze. In primo luogo quella rivoluzione copernicana che Kant si vantò di aver compiuto in filosofia. Come Copernico aveva ribaltato i rapporti tra la Terra e il Sole

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(per comprendere i moti del sole e dei pianeti basta invertire il nostro punto di vista, immaginando che non sia il sole a muoversi, ma noi) Kant ribalta i rapporti fra soggetto e oggetto, affermando che non è la mente che si modella passivamente sulla realtà bensì la realtà che si modella sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo. - In secondo luogo, la nuova ipotesi gnoseologica comporta la distinzione kantiana fra fenomeno e cosa in sé (o “noumeno”). Il fenomeno è la realtà quale ci appare tramite le forme a priori. Come tale il fenomeno non è illusorio, poiché è un oggetto reale, ma è reale solo nel rapporto con il soggetto conoscente. La cosa in sé è la realtà considerata indipendentemente da noi e dal modo con cui conosciamo. La cosa in sé costituisce una sorta di x sconosciuta.

7. I GRADI DELLA CONOSCENZA E LA PARTIZIONE DELLA “CRITICA DELLA RAGION PURA” Kant articola la conoscenza in tre gradi fondamentali: 1) la sensibilità, mediante la quale gli oggetti ci sono dati attraverso i sensi e in modo immediato o intuitivo, seppure già filtrato dalle forme a priori di spazio e tempo; 2) l’intelletto mediante cui noi pensiamo i dati sensibili mediante i concetti puri o categorie; 3) la ragione (in senso stretto) attraverso cui la mente, andando oltre l’esperienza, tenta di fare metafisica, cioè di spiegare globalmente la realtà tramite le tre idee di anima, mondo e Dio. Su questa tripartizione della facoltà conoscitiva in generale (la ragione in senso largo) è basata anche la divisione della Critica. La dottrina degli elementi si propone di scoprire, isolandoli, quegli elementi formali della conoscenza che Kant chiama puri o a priori, e la dottrina del metodo, che consiste nel determinare l’uso possibile degli elementi a priori della conoscenza, cioè il metodo della conoscenza medesima. La dottrina degli elementi si ramifica in estetica trascendentale e logica trascendentale. La prima studia la sensibilità e le sue forme a priori di spazio e tempo, mostrando come su di essa si fondi la matematica. La logica trascendentale si sdoppia in analitica trascendentale, che studia l’intelletto e le sue forme a priori, le dodici categorie, mostrando come su di essa si fondi la fisica, e in dialettica trascendentale, che studia la ragione (in senso stretto) e le sue tre idee di anima, mondo e Dio, mostrando come su di essa si fondi la metafisica, la quale non ha valore di scienza.

estetica trascendentale

a) dottrina degli elementi Analitica

Logica trascendentale

Dialettica

b) dottrina del metodo

Nella filosofia del Medioevo erano denominate trascendentali le proprietà ontologiche che si riteneva costituissero il fondamento o la possibilità del reale (l’Essere, l’Uno, il Bene…). Nella Critica con “trascendentale” si intende soprattutto la determinazione e lo studio

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filosofico delle forme a priori, che rappresentano a loro volta ciò che fonda o rende possibile la conoscenza. Possiamo ora interpretare il titolo del capolavoro di Kant in questo modo: “esame critico generale delle possibilità, della validità e dei limiti che la ragione umana possiede in virtù dei suoi elementi puri a priori”. Come tale, la Critica rappresenta un’analisi delle autentiche possibilità conoscitive dell’uomo, ossia una specie di mappa filosofica della potenza e dell’impotenza della ragione, in quanto depositaria di principi puri o a priori.

8. L’ESTETICA TRASCENDENTALE: LA SENSIBILITÀ E LE SUE FORME A PRIORI DI SPAZIO E TEMPO Come si è detto, nell’Estetica Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori. Kant considera la sensibilità recettiva, perché essa non genera i suoi contenuti ma li accoglie dalla realtà esterna o dall’esperienza interna. La sensibilità però non è solo recettiva, ma anche attiva, in quanto organizza le intuizioni empiriche, cioè la materia della conoscenza, tramite lo spazio e il tempo, che costituiscono le forme pure (=a priori) delle intuizioni empiriche. Lo spazio, che è la forma del senso esterno esprime l’ordine della coesistenza delle cose, cioè il loro disporsi l’una accanto all’altra. Il tempo, che è la forma del senso interno, esprime l’ordine della successione dei nostri stati d’animo, ossia il loro disporsi l’uno dopo l’altro. Tuttavia, visto che i dati forniti dal senso esterno giungono a noi solo attraverso il senso interno il tempo si configura anche, indirettamente, come la forma del senso esterno, ovvero come la maniera universale tramite la quale percepiamo tutti gli oggetti. Se non ogni cosa è nello spazio (ad esempio i sentimenti non “stanno” nello spazio), ogni cosa è nel tempo. Kant cerca di giustificare l’apriorità di spazio e tempo sia con argomenti teorici generali (nella cosiddetta “esposizione metafisica”) sia con argomenti tratti dalla considerazione delle scienze matematiche (“esposizione trascendentale”). Nella prima di queste due esposizioni Kant fa emergere il proprio punto di vista sia confutando la visione empiristica, per la quale spazio e tempo sono nozioni tratte dall’esperienza (Locke), sia la visione oggettivistica, che considerava spazio e tempo come cose a sé stanti o recipienti vuoti (Newton), sia la visione relazionistico-concettualistica, che considerava spazio e tempo come concetti esprimenti i rapporti fra le cose (Leibniz). Contro Locke: spazio e tempo non derivano dall’esperienza, perché per fare una qualunque esperienza dobbiamo già presupporre le rappresentazioni originali di spazio e tempo. Contro Newton: se spazio e tempo fossero “recipienti vuoti” dovrebbero continuare ad esistere anche se non contenessero nulla, ma come concepire qualcosa che “senza un oggetto reale, sarebbe tuttavia reale”? Spazio e tempo sono, invece, quadri mentali all’interno dei quali connettiamo i dati fenomenici. Come tali essi, pur essendo “ideali” o “soggettivi” rispetto alle cose in se stesse, sono tuttavia “reali” ed “oggettivi” rispetto all’esperienza fenomenica, ossia alle cose quali appaiono a noi. Contro la terza interpretazione citata, quella di Leibniz, Kant dice che spazio e tempo non possono essere guardati alla stregua di concetti, in quanto essi hanno una natura intuitiva e non discorsiva, perché noi, ad esempio, non astraiamo la nozione di spazio dalla constatazione dei vari spazi, ma intuiamo i vari spazi come parti di un unico spazio. - Crollata la concezione greco-medievale dei luoghi naturali, nasceva il problema di reperire un punto di riferimento rispetto al quale si potesse parlare di moto locale. Infatti, in relazione a che cosa si dice che un corpo è in quiete o in moto? Perché si sostiene che è la nave ad allontanarsi dalla riva e non la riva dalla nave? Per risolvere questi problemi, senza ricorrere ad una interpretazione relativistica del moto locale (sostenuta da Leibniz e dimostrata poi da Einstein, ma lontana dalla mentalità prevalente dell’epoca) Newton era ricorso alla teoria dello spazio assoluto. Kant, pur simpatizzando talora per Leibniz, aveva alla fine accolto le

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teorie di Newton ritenendo che solo esse fornissero una stabile piattaforma per la fisica e fossero in grado di risolvere i sopra citati problemi di dinamica. Rifiutando la concezione oggettivistica di spazio e tempo, tuttavia, Kant aveva pensato di salvarne l’assolutezza in modo soggettivistico, considerandoli condizioni a priori del conoscere, ovvero coordinate fisse e universali dell’esperienza fenomenica. Kant credeva di aver giustificato l’assolutezza di spazio e tempo che Newton aveva invano cercato nell’oggetto. Come si può vedere, il Criticismo risulta fortemente legato al quadro scientifico e alle dispute del tempo e molte sue dottrine si possono capire adeguatamente solo in relazione ad esse. Nella esposizione trascendentale Kant giustifica ulteriormente l’apriorità dello spazio e del tempo mediante talune considerazioni epistemologiche sulla matematica, volte, nel contempo, a dare una fondazione filosofica della medesima. Kant vede nella geometria e nell’aritmetica delle scienze sintetiche a priori per eccellenza. Sintetiche perché ampliano le nostre conoscenze oltre il già noto; “2 + 3 = 5” è sintetica e la cosa risulta evidente prendendo in considerazione numeri grandi. Inoltre le matematiche sono a priori in quanto i teoremi geometrici ed aritmetici vengono sviluppati indipendentemente dall’esperienza. Qual è il punto di appoggio nelle costruzioni sintetiche a priori delle matematiche? Per Kant esso risiede nelle intuizioni di spazio e tempo. La geometria dimostra le proprietà delle figure mediante l’intuizione pura dello spazio, senza fare ricorso all’esperienza. Analogamente, l’aritmetica determina le proprietà delle serie numeriche basandosi sull’intuizione pura del tempo, senza la quale lo stesso concetto di numero non sarebbe mai sorto. - Per quale ragione allora le matematiche, pur essendo una costruzione della nostra mente, valgono anche per la natura? Che cosa giustifica queste incredibile coincidenza, su cui fa leva la fisica? Galileo aveva risposto sostanzialmente che Dio, creando, geometrizza, postulando in tal modo una struttura ontologica di tipo matematico. Kant, avendo dichiarato non conoscibile la cosa in sé, non può certo supporre nulla del genere. Escludendo ogni garanzia di tipo metafisico o teologico, egli afferma che le matematiche si possono proficuamente applicare agli oggetti dell’esperienza perché questa, essendo intuita nello spazio e nel tempo, possiede già, di per sé, una configurazione geometrica ed aritmetica. Se la forma a priori di spazio con cui ordiniamo la realtà è di tipo euclideo, è chiaro che i teoremi della geometria di Euclide varranno anche per l’intero mondo fenomenico. Si noti che questa teoria di Kant, nonostante la sua forte originalità, porta ad assolutizzare la matematica in generale e la geometria in particolare, implicando che lo spazio dell’esperienza coincida con quello euclideo. Questo modo di pensare entrerà in crisi nell’800, in particolare con la scoperta delle nuove geometrie.

9. L’ANALITICA TRASCENDENTALE: L’INTELLETTO E LE SUE FORME A PRIORI La seconda parte della dottrina degli elementi è la logica trascendentale che – a differenza della logica formale della tradizione, che studiava i meccanismi generali del ragionamento – ha come oggetto di indagine i principi a priori del pensiero. La prima parte di questa logica è l’Analitica, che studia l’intelletto e le sue forme, determinandone il numero, la validità e gli ambiti d’uso. Kant denomina le forme a priori dell’intelletto con il termine aristotelico di categorie. Per Kant le categorie sono i modi attraverso cui vengono pensati, da parte dell’intelletto, i contenuti offerti dall’intuizione spazio-temporale della sensibilità. Infatti, mediante i sensi gli oggetti ci vengono dati, mentre tramite l’intelletto vengono pensati, secondo un processo tale per cui “Senza sensibilità, nessun oggetto ci

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verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche.” A differenza delle categorie aristoteliche, che hanno valore ontologico e gnoseologico, essendo a un tempo forme dell’essere e del pensiero, la categorie kantiane hanno una portata esclusivamente gnoseologica, in quanto rappresentano delle leggi di funzionamento della mente, che non valgono per la cosa in sé, ma solo per il fenomeno. Stabilito il concetto di categorie, la preoccupazione di Kant è quella di redigerne una tavola completa. Tale inventario viene fatto mediante un ragionamento di questo tipo: poiché pensare (e in particolare conoscere) è giudicare, e giudicare significa attribuire un predicato ad un soggetto, ci saranno tante categorie, ossia tante forme del pensiero e tanti predicati primi, quante sono le modalità di giudizio. Kant, poiché la logica greca aveva distinto i giudizi in base a quantità, qualità, relazione e modalità, fa corrispondere a ogni tipo di giudizio un tipo di categoria. QUANTITÀ (molteplicità, unità, totalità) QUALITÀ (realtà, negazione, limitazione) RELAZIONE (sostanzialità e inerenza, causalità e dipendenza, comunanza

o azione reciproca) MODALITÀ (possibilità e impossibilità, esistenza e non esistenza,

necessità e casualità)

È facile vedere come queste categorie kantiane entrino in azione in tutti i giudizi o le proposizioni in cui si concreta il nostro pensiero. Si parla sempre di una cosa o di più cose o di una totalità di cose (categorie della quantità); una cosa è reale oppure no, è o non è quella tale realtà (categorie della qualità)… e si parla sempre di relazione e di modalità. Perciò, pensare un oggetto significa sempre mettere in funzione una o più di queste categorie, mentre la percezione ci dà solo una determinata cosa nello spazio e nel tempo: per esempio la mela che è qui davanti a me. Già il pensare e il dire “C’è una mela” significa mettere in opera la categoria dell’unità, quella della realtà, della sostanzialità (perché si attribuiscono alla mela quei caratteri che ce la fanno riconoscere) e della modalità, perché dicendo che “c’è” non la si considera né possibile né necessaria, ma semplicemente “esistente”. Kant ritiene che le categorie non mancano mai alla conoscenza e che questa, come esperienza, è sempre sintesi, cioè unione, di intuizioni sensibili e di categorie. Kant ritiene pure che questo fatto è particolarmente evidente nella conoscenza scientifica, e specificamente nella fisica di Newton che egli tiene sempre presente. Formulata la tavola delle categorie, Kant doveva giustificare la loro validità e il loro uso. Questo è il problema che lui chiama deduzione trascendentale e che giudica il problema più difficile della Critica. Kant trae il termine deduzione dal linguaggio forense del tempo, nel quale, come del resto ancor oggi, rimandava alla “giustificazione di diritto di una pretesa di fatto” (ad esempio, il fatto che io possieda un oggetto ancora non prova che io abbia diritto ad esso). Analogamente, la deduzione delle categorie non consiste semplicemente nel far vedere che esse sono adoperate, di fatto, nella conoscenza scientifica. Bisogna invece giustificare che il loro uso è legittimo e determinare anche i limiti della validità di questo uso.

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Perché le categorie, pur essendo forme soggettive della nostra mente, pretendono di valere anche per gli oggetti? Che cosa assicura di diritto che la natura obbedirà ad esse, manifestandosi, nell’esperienza, secondo le nostre maniere di pensarla? Questo problema c’è solo nella gnoseologia di Kant. Se l’intelletto umano fosse il creatore dei propri oggetti o se, come voleva la tradizione, fosse passivo, cioè un intelletto che si limita a riflettere gli oggetti come essi sono, non nascerebbe mai il problema della deduzione. Il problema sorge dalla posizione di Kant, il quale sostiene che gli oggetti ci vengono dati dall’esterno attraverso una impalcatura mentale precostituita di forme a priori. Da ciò l’interrogativo circa la validità di queste forme rispetto agli oggetti. Ecco la soluzione di Kant. Tutti gli oggetti dell’esperienza, per essere pensati, devono riferirsi ad un unico centro mentale unificatore, che Kant – per meglio sottolineare come esso non si identifichi con la psiche di questa o quella persona, ma con l’identica struttura mentale che accomuna tutti gli uomini – denomina impersonalmente con il termine io penso. Ma poiché l’io penso unifica le percezioni, i dati dell’intuizione spazio-temporale, per mezzo delle categorie, che sono le forme mentali attraverso cui si opera nei giudizi, ne segue necessariamente che gli oggetti non possono venir percepiti spazio-temporalmente senza, con ciò stesso, venir categorizzati, ossia sottoposti alle forme a priori dell’intelletto. L’io penso si configura come il “principio supremo della conoscenza umana”, essendo la condizioni o la possibilità delle ricezione dei dati, ovvero ciò cui deve sottostare ogni realtà per poter entrare nel campo della nostra esperienza e divenire un oggetto per noi. Di conseguenza le categorie, che sono le maniere universali tramite cui l’io penso elabora l’esperienza, rappresentano le leggi stesse del mondo fenomenico, il quale non potrà che obbedire ad esse e di funzionare secondo la causa, la sostanza, ecc. Senza le categorie saremmo chiusi nel cerchio della nostra soggettività individuale e potremmo stabilire solo connessioni particolari e contingenti. Non potremmo dire che “i corpi sono pesanti”, ma solo che “ogni volta che porto un corpo, sento la sensazione di peso”. L’importanza della figura teoretica dell’io penso non fa certo di Kant un idealista nel senso della successiva filosofia romantica o di quella antecedente di Berkeley. L’io penso di Kant, a differenza ad esempio di quello di Fichte, non è affatto un io creatore. Tant’è vero che Kant insiste sul carattere formale e quindi finito dell’io penso, intendendo dire che la coscienza unificatrice non potrebbe unificare nulla se non le fosse dato qualcosa e questo qualcosa deve esserle dato dall’esterno, ovvero dall’esperienza. La coscienza non può creare il dato da sé, altrimenti sarebbe non finita ma infinita, non pensante ma creante, cioè si tratterebbe della coscienza non dell’uomo, ma di Dio. Proprio perché la coscienza, che esplica la sua funzione unificatrice mediante l’io penso, non crea il molteplice dei dati da unificare questi dati le vengono da fuori. Esiste dunque una realtà esterna, della quale la coscienza ha percezione, ma che non è creata da essa. Kant si schiera dunque contro l’idealismo, in particolare contro quello di Berkeley, che riduce la realtà a rappresentazione della coscienza. Altra conseguenza fondamentale del carattere formale e non creativo della coscienza è che essa non è la conoscenza dell’io. Mediante la coscienza so solo che io sono, che esisto, ma non che cosa sono. So che cosa sono quando la coscienza si applica in me ai dati fornitimi dall’esperienza interna, cioè al complesso delle mie rappresentazioni, sentimenti… La conoscenza che ognuno ha del proprio io è, come quella del mondo esterno, una conoscenza empirica e fenomenica cioè condizionata dai dati forniti all’esperienza, che la coscienza si limita ad unificare. *POTETE LASCIAR PERDERE QUESTA PARTE* - Se con la deduzione trascendentale Kant ha mostrato in generale come l’intelletto costituisca la realtà fenomenica tramite le categorie, con la teoria dello schematismo

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mostra come ciò possa avvenire in concreto. Infatti come è possibile che l’intelletto condizioni effettivamente le intuizioni, ovvero gli oggetti della sensibilità? Poiché sensibilità e intelletto sono facoltà eterogenee, quale sarà l’elemento mediatore che fa sì che l’intelletto possa applicare i propri concetti alle intuizioni, ossia condizionare gli oggetti mediante le proprie forme? Kant risolve la questione affermando che l’intelletto, non potendo agire direttamente sugli oggetti della sensibilità, agisce indirettamente su di essi tramite il tempo, che è il medium universale attraverso cui tutti gli oggetti sono percepiti. Se il tempo condiziona gli oggetti, l’intelletto, condizionando il tempo, condizionerà gli oggetti. L’intelletto, attraverso la facoltà che Kant chiama “immaginazione produttiva”, determina la rete del tempo secondo degli “schemi” che corrispondono ognuno a una delle categorie. Ad esempio, lo schema delle categorie di quantità è il numero, quello delle categorie di qualità è la cosa… Gli schemi sono perciò le categorie calate nel tempo, ovvero le regole attraverso cui l’intelletto condiziona il tempo secondo i propri concetti. Con queste teoria, Kant ha voluto dire che la mente non si limita a ricevere tutta la realtà attraverso la dimensione tempo, ma riceve il tempo stesso in determinate dimensioni, o schemi, che sono la traduzione, in chiave temporale, delle categorie. Noi non possiamo fare a meno di cogliere la realtà attraverso lo schema della successione irreversibile e quindi della categoria di causa. Per capire meglio la teoria kantiana del tempo, degli schemi e delle categorie, può essere utile tracciare un paragone, dato da Kant stesso, fra la mente umana e quella divina. Mentre l’uomo percepisce le cose in rapporto al tempo, Dio potrebbe concepirle meta-temporalmente, ossia nella dimensione dell’eternità, mentre l’uomo percepisce il tempo secondo lo schema della successione irreversibile e quindi della categoria di causa, Dio potrebbe intuirle in modo simultaneo e quindi non in rapporto di successione e di causa… Con la teoria dello schematismo la deduzione trascendentale raggiunge il suo coronamento, poiché con essa Kant ha definitivamente chiarito perché gli oggetti, pur non essendo creati dalla mente, nascano già, nell’esperienza, “sintonizzati” con il nostro modo di pensarli. - I principi dell’intelletto puro sono le regole attraverso le quali avviene l’applicazione delle categorie agli oggetti, e che si identificano quindi con le leggi supreme dell’esperienza e come assiomi di fondo del sapere scientifico. Rielaborando filosoficamente la fisica di Newton, Kant ne dà un elenco corrispondente ai quattro gruppi di categorie. Gli assiomi dell’intuizione (corrispondenti alle categorie della quantità); le anticipazioni della percezione (categorie della qualità); Le analogie dell’esperienza (categorie della relazione); infine, i postulati del pensiero empirico in generale (categorie della modalità). I principi dell’intelletto puro garantiscono la validità oggettiva dell’esperienza, sottraendola alla soggettività della percezione. Essi costituiscono la natura stessa. La percezione che si sottrae ad essi è un puro gioco dell’immaginazione e non ha altra realtà che quella del sogno. *POTETE LASCIAR PERDERE QUESTA PARTE* L’esito più rilevante e caratteristico dell’Analitica trascendentale è la dottrina dell’io come “legislatore della natura”. Definendo la natura, in senso galileiano, come la “conformità dei fenomeni a certe regole”, Kant distingue fra la natura in senso materiale, che è l’insieme dei dati e delle leggi particolari che derivano dall’esperienza e la natura in senso formale, che è l’insieme delle leggi universali e necessarie che derivano dalla struttura a priori della nostra mente e che essa impone ai fenomeni. L’io è il legislatore della natura in senso formale ovvero il soggetto delle relazioni generali che costituiscono il tessuto o lo scheletro dell’esperienza fenomenica. Le leggi della natura sono confermate: nessuna esperienza potrà smentirle, dato che esse rappresentano le condizioni stesse di ogni possibile esperienza. L’originalità del

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copernicanesimo filosofico di Kant sta nel fatto che egli, anziché cercare nella natura o in Dio la garanzia ultima della conoscenza, la scopre nella mente stessa dell’uomo. Le categorie funzionano solo in rapporto al materiale che esse organizzano, ossia in connessione con le intuizioni spazio-temporali cui si applicano. Considerate di per sé, senza essere riempite dai dati che vengono dall’esterno o dall’interno, sono vuote, esattamente come le intuizioni di per sé sono cieche. Ciò fa sì che esse risultino operanti solo in relazione al fenomeno. Questo è l’oggetto proprio della conoscenza umana, che è sempre sintesi di un elemento materiale e di uno formale. Il conoscere, dunque, non può estendersi oltre l’esperienza, in quanto una conoscenza che non si riferisca ad un’esperienza possibile non è una conoscenza, ma un vuoto di pensiero che non conosce nulla, un semplice gioco di rappresentazioni. Questo principio esclude che le categorie abbiano un uso trascendentale, per il quale vengono riferite alle cose in generale e in se stesse. Il loro unico uso possibile è quello empirico. La delimitazione della conoscenza al fenomeno – e quindi alla scienza, che è sempre conoscenza fenomenica – comporta un esplicito rimando alla nozione di “cosa in sé”, che pur non essendo conoscibile, si staglia sullo sfondo di tutta la gnoseologia criticista. Infatti Kant non ha mai pensato di ridurre tutta la realtà al fenomeno, in quanto egli afferma che se c’è un “per noi”, deve esserci anche un “in sé”, una x meta-fenomenica che diventa fenomeno solo in rapporto a noi. La cosa in sé costituisce dunque il presupposto o il postulato immanente del discorso gnoseologico di Kant. Kant sostiene questa idea fino alla fine dei suoi giorni, anche quando Fichte, trovando il concetto di cosa in sé chimerico e insostenibile, stava trasformando il Criticismo in idealismo, facendo dell’io il creatore della realtà. Per Kant la cosa in sé non può divenire, per definizione, un oggetto di esperienza possibile, risultando, di fatto, un noumeno, ossia (secondo l’etimologia greca) qualcosa di puramente “pensabile” o “ipotizzabile” però mai concretamente esperibile e conoscibile. Kant distingue fra un significato positivo ed uno negativo di noumeno. In senso positivo il noumeno è l’oggetto possibile di una conoscenza extra-fenomenica, a noi preclusa e invece propria di un ipotetico intelletto divino. Solo Dio potrebbe avere l’oggetto innanzi a sé con immediatezza, per il fatto di averlo creato. In senso negativo il concetto di noumeno è quello di una cosa in sé come di una x che mai può entrare in rapporto conoscitivo con noi ed essere da noi intuita. Questo è l’unico senso in cui noi possiamo adoperare legittimamente la nozione di noumeno. La cosa in sé per noi, più che essere una realtà, è un concetto, un concetto limite che serve ad arginare le nostre pretese conoscitive. Kant paragona la conoscenza fenomenica alla terra ferma di un’isola, mentre assimila il desiderio di varcare le soglie del fenomeno alle smanie di un navigante attratto dalla scoperta di nuove terre, ma destinato a vagare inutilmente per i flutti. - L’originalità della costruzione kantiana non esclude che essa, epistemologicamente parlando, presenti alcuni limiti oggettivi di fondo in relazione ai successivi sviluppi della scienza. Il Criticismo dà approdo ad una epistemologia assolutistica, che cerca di fondare una volta per tutte e rendere veri per sempre i principi della fisica e della matematica, ancorandoli alla struttura della nostra mente. Kant ha finito per dogmatizzare l’universo euclideo e quello newtoniano, ritenendoli naturali per il nostro intelletto. Questa ricerca di certezze epistemologiche – che lo allontana dalla inquietudine di Hume e lo avvicina alla mentalità tradizionale – anziché costituire la forza della sua filosofia si è rivelata, con il tempo, la sua trappola mortale. L’unità strutturale rigida che la scienza di allora riteneva propria del mondo, e della quale le categorie kantiane costituivano la controparte trascendentale, è stata infranta. Dall’800 ai giorni nostri c’è stata una tale rivoluzione nella scienza da mettere in crisi l’impalcatura di matematica e fisica “classica”. Ciò non esclude che, agli occhi degli scienziati e degli epistemologi, le dottrine di fondo della ragion pura – l’impossibilità di

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varcare i confini dell’esperienza e l’importanza del soggetto nella conoscenza – conservino la loro validità anche oggi.

10. LA DIALETTICA TRASCENDENTALE: LA RAGIONE E LE SUE TRE IDEE DI ANIMA, MONDO E DIO Nell’Estetica e nell’Analitica Kant ha terminato solo la prima parte del suo programma: la dimostrazione di come sia possibile il sapere scientifico come noi lo conosciamo (cioè l’individuazione delle sue forme pure: spazio, tempo, le dodici categorie). Nella Dialettica affronta il problema di capire se la metafisica possa anch’essa essere una scienza. Con Platone e anche con gli Stoici la dialettica ha accezione positiva: per Platone, ad esempio, è la scienza delle Idee, la scienza suprema. Kant qui però si rifà ad Aristotele, per il quale la dialettica denota sia il procedimento dimostrativo fondato su premesse solo probabili, sia l’arte sofistica di costruire ragionamenti capziosi su premesse che in realtà non sono affatto probabili, ma che vengono fatte apparire come tali. Kant si riallaccia a questa seconda accezione. Così per dialettica trascendentale egli intende l’analisi e lo smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica. Pur infondata, questa rappresenta “un’esigenza naturale ed inevitabile della mente umana”, di cui la filosofia critica intende chiarire la genesi profonda. La metafisica è un parto della ragione e la ragione, a sua volta, in partenza non è altro che l’intelletto stesso, il quale essendo la facoltà logica di unificare i dati sensibili tramite le categorie, è inevitabilmente portato a voler pensare, anche senza dati, simile alla colomba che presa dall’ebbrezza immaginasse di poter volare anche senza l’aria che, pur essendo un limite al volo, ne è anche condizione di possibilità. Kant ritiene che questo voler procedere oltre i dati dell’esperienza derivi dalla nostra innata tendenza all’incondizionato e alla totalità. La nostra ragione, mai paga del fenomenico, per forza di cose condizionato e relativo, è attratta verso il regno dell’assoluto e verso una spiegazione onnicomprensiva di ciò che esiste. La ragione è costitutivamente portata ad unificare i dati del senso interno mediante la nozione di anima, che è l’idea della totalità dei fenomeni interni, i dati del senso esterno mediante la nozione di mondo; infine, ad unificare dati interni ed esterni tramite la nozione di Dio. L’errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze di unificazione dell’esperienza in altrettante realtà in sé, dimenticando che noi mai abbiamo a che vedere con la cosa in sé, ma solo con il fenomeno. I metafisici sono quindi simili ai già citati navigatori dell’oceano burrascoso. La Dialettica trascendentale è l’impietosa denuncia dei naufragi della metafisica, cioè dei fallimenti del pensiero quando vuole procedere oltre l’esperienza possibile, guidato da un’illusione così forte che non cessa neppure quando si mostra come tale, nello stesso modo in cui la Luna appare all’astronomo più grande al suo levarsi, anche se egli sa bene che così non è in realtà. Per dimostrare l’infondatezza della metafisica, Kant considera le tre pretese scienze che ne costituiscono l’ossatura: la “psicologia razionale”, che studia l’anima; la “cosmologia razionale” che studia il mondo e la “teologia razionale” che studia Dio.

Kant ritiene che la psicologia razionale o metafisica sia sostanzialmente fondata su di un “paralogisma”, cioè su di un “ragionamento errato”, che consiste nell’applicare la categoria di sostanza all’io penso, trasformandolo in una realtà permanente chiamata “anima”. Invece l’io penso è per noi un noumeno e quindi non possiamo applicare ad esso alcuna categoria. Noi possiamo conoscere solo l’io fenomenico, ossia l’io quale appare attraverso le forme a priori. L’errore della metafisica è dunque quello di dare tutta una serie di valori positivi ad una x completamente ignota, dicendo che l’anima è immortale, incorruttibile…

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Anche la cosmologia razionale, che pretende di far uso della nozione di mondo, inteso come la totalità assoluta dei fenomeni cosmici, è destinata a fallire. La totalità dell’esperienza infatti non è mai una esperienza: possiamo sperimentare questo o quel fenomeno nella indeterminata serie regressiva o progressiva, ma mai la totalità dei fenomeni. In questo modo l’idea di mondo cade al di fuori di ogni possibile esperienza. Quando i metafisici pretendono di fare un discorso intorno al mondo cadono nelle cosiddette antinomie, che mettono capo ad affermazioni opposte fra le quali è impossibile decidere. La prima è quella tra l’infinità o la finitudine del mondo nei rispetti di spazio e tempo. La seconda antinomia è quella della divisibilità del mondo: si può sostenere sia che la divisibilità abbia un limite sia che non ce l’ha. La terza antinomia concerne il rapporto tra causalità e libertà: si può ammettere una causalità libera o una causalità deterministica. La quarta antinomia concerne la dipendenza del mondo da un essere necessario: tale essere si può ammettere o negare. Tra la tesi e l’antitesi delle antinomie non è possibile decidere. Il difetto è nella stessa idea del mondo, la quale essendo oltre ogni esperienza possibile non permette di volgersi dall’una o dall’altra parte. Le antinomie dimostrano l’illegittimità dell’idea di mondo. Tale illegittimità risulta poi evidente, se si osserva che la tesi delle antinomie suddette presenta un concetto troppo piccolo per l’intelletto, e l’antitesi troppo grande. Kant nota anche che le tesi sono proprie del pensiero razionalistico e metafisico, mentre le antitesi sono tipiche dell’empirismo e della scienza. Per ciò che riguarda terza e quarta antinomia, Kant puntualizza che le tesi valgono nel mondo dei fenomeni, nel cui ambito non si incontra mai né Dio né la libertà, mentre le antitesi potrebbero valere per la cosa in sé. Anche la teologia razionale, che si occupa dell’esistenza e dell’essenza di Dio, è priva di valore conoscitivo. Kant raggruppa le tradizionali prove dell’esistenza di Dio in tre classi: ontologica, cosmologica e fisico-teleologica. La prova ontologica, che risale ad Anselmo, ma che Kant considera nella forma cartesiana, pretende di inferire l’esistenza di Dio dal suo semplice concetto: in quanto essere assolutamente perfetto Dio non può mancare dell’esistenza. Kant rileva che non si può legittimamente saltare dalla possibilità logica alla realtà ontologica, in quanto l’esistenza si può constatare solo empiricamente. Kant sostiene che l’esistenza non è un predicato, tanto è vero se quando si è ben descritta un’entità in tutti i suoi caratteri ci si può ancora chiedere se esiste o no. La differenza fra cento talleri reali e cento pensati non risiede nella differenza delle loro proprietà, ma nel semplice fatto che gli uni non esistono e gli altri sì. La prova ontologica, quindi, è o impossibile (se da un’idea vuole derivare una realtà) o contraddittoria (se nell’idea già assume, sottobanco, l’esistenza che vorrebbe dimostrare). La prova cosmologica, che costituisce il fulcro delle vie tomistiche e che Kant riprende dalla filosofia del suo tempo, parte dall’esperienza del contingente, ossia di ciò che non ha in sé la propria ragion d’essere, e, tramite l’applicazione del concetto di causa, perviene all’esistenza del necessario. Secondo Kant c’è qui un uso non legittimo del principio di causa, in quanto esso pretende partendo dall’esperienza delle cose causate di innalzarsi oltre l’esperienza, fino a qualcosa di non causato. Ma il principio di causa può servire solo a connettere fra loro fenomeni, e non fenomeni con qualcosa che fenomenico non è. Il secondo limite è che dopo essersi elevati all’idea del Necessario, che pure non si sa bene cosa sia, l’argomento sostiene che il necessario si identifica con l’idea del perfettissimo, Dio, ricadendo nella prova ontologica. Dopo essere pervenuto a delle idee (Necessario e Dio), per di più forzatamente legate fra loro, l’argomento pretende di dimostrare delle realtà. Anche questo argomento, che in sostanza parte dall’esperienza per saltare oltre di essa, è fallace. La prova fisico-teleologica fa leva sull’ordine, sulla finalità e sulla bellezza del mondo per innalzarsi ad una Mente ordinatrice, identificata con un Dio creatore, perfetto ed infinito. Essa, rileva Kant, è la più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione, tant’è che ha trovato fortuna anche presso i critici ostili alla teologia tradizionale, ad esempio

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presso gli illuministi, che l’hanno espressa dicendo che se c’è un orologio deve esserci un Orologiaio. Ma anche questa prova, per Kant, presenta forzature logiche e l’utilizzo nascosto dell’argomento ontologico. Essa parte dall’idea dell’ordine del mondo, ma pretende di elevarsi ad una causa ordinatrice trascendente il mondo, dimenticando che l’ordine della natura potrebbe stare nella natura stessa. Per asserire che tale ordine non può scaturire dalla natura, infatti, bisogna ammettere non solo Dio come ordinatore, ma anche come creatore. Ma tale operazione si può compiere solo a patto di identificare la causa ordinante con l’Essere necessario, ricadendo nella prova cosmologica, la quale come sappiamo ricade nella ontologica. Inoltre, noi sappiamo che in questo universo c’è una certa misura o gradazione di ordine, ma relativa ai nostri parametri mentali e, in ogni caso, né infinita né priva di imperfezioni. Di conseguenza non abbiamo il diritto di dire che la causa del mondo è infinita e perfetta, e se ciò avviene è perché abbiamo saltato l’abisso tra finito e infinito. Anche questa prova non fa che partire dall’esperienza per saltare oltre essa. Attenzione, con queste critiche Kant non ha inteso negare Dio, ma piuttosto mettere in discussione la sua dimostrazione razionale e metafisica. In sede teorica, Kant è agnostico, in quanto ritiene che la ragione umana non possa dimostrare né che Dio esiste né che non esiste. Le idee della ragione pura, anche se non servono a conoscere alcun oggetto possibile, possono e debbono avere un uso regolativo, indirizzando la ricerca intellettuale verso quell’unità totale che rappresentano. Ogni idea è una regola per la ragione che spinge a dare al suo campo la massima estensione e la massima unità sistematica. L’idea dell’anima spinge a cercare i legami tra tutti i fenomeni del senso interno e a rintracciare in essi una sempre maggiore unità proprio come se fossero tutti manifestazioni di una sola sostanza semplice. L’idea cosmologica di mondo spinge a passare continuamente da una causa all’altra, proprio come se la totalità dei fenomeni costituisse un solo mondo. L’idea teologica, infine, addita all’intera esperienza come se fosse un ideale di perfetta organizzazione sistematica e ci fosse un solo creatore. Le idee, cessando di valere dogmaticamente come realtà, varranno in questo caso problematicamente, come condizioni che impegnano l’uomo nella ricerca naturale e lo sollecitano di evento in evento, di causa in causa, ad estendere quanto possibile il dominio della propria esperienza e di dare a questo dominio la massima unità. Si tratterà pur sempre di un’unità problematica, che mai potrà essere scambiata per una realtà.

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CENNI SULL’EMPIRISMO INGLESE (ripasso )

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INGLESE (ripasso...)I MAGGIORI ESPONENTI

JOHN LOCKE (1632 – 1704)JOHN LOCKE (1632 1704)GEORGE BERKELEY (1685 – 1753)DAVID HUME (1711 – 1776)

LE IDEE “IN PILLOLE”

L’EMPIRISMO, FRA ‘600 E ‘700, SI INNESTA SULLA SECOLAREL EMPIRISMO, FRA 600 E 700, SI INNESTA SULLA SECOLARE TRADIZIONE INGLESE (DA RUGGERO BACONE IN AVANTI).

IN ANTITESI AL RAZIONALISMO, L’EMPIRISMO ASSUME UN ÀATTEGGIAMENTO CRITICO NEI CONFRONTI DELLE POSSIBILITÀ

CONOSCITIVE DELL’UOMO.

LA RAGIONE UMANA È LIMITATA DALL’ESPERIENZA: ESSA È FONTE DI LA RAGIONE UMANA È LIMITATA DALL ESPERIENZA: ESSA È FONTE DI TUTTE LE CONOSCENZE UMANE E, PROPRIO PER QUESTO, NE DEFINISCE I LIMITI.L’UOMO PUÒ ACQUISIRE CONOSCENZE BEN FONDATE SOLO IN QUEI C Q S O C O SCAMPI E IN QUELLE SITUAZIONI CHE RIENTRANO NEI LIMITI DELLE SUE ESPERIENZE, REALI E POSSIBILI.

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IMMANUEL KANT1724 1804

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1724 - 1804

1 K t d l d ll’E i i i d1. Kant prende le mosse dall’Empirismo arrivando a elaborare il suo Criticismo (anche detto filosofia trascendentale o filosofia del limite).

2. L’attività intellettuale di Kant si può distinguere in tre periodi:tre periodi:

A) SPECULAZIONI SCIENTIFICO – NATURALISTICHEB) PRIME SPECULAZIONI FILOSOFICHEB) PRIME SPECULAZIONI FILOSOFICHEC) CRITICISMO

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3. Cosa significa “Criticismo”CRITICARE, per Kant, significa indagare sistematicamenteCRITICARE, per Kant, significa indagare sistematicamente circa il fondamento di una esperienza umana qualsiasi, chiarendone le possibilità (ovvero le condizioni di esistenza), la validità (i titoli di legittimità o non legittimità che la

tt i ) i li iti (i fi i t i licaratterizzano), i limiti (i confini entro i quali essa permane valida).

Centrale è, quindi, l’aspetto del limite. Per questo il criticismoCentrale è, quindi, l aspetto del limite. Per questo il criticismo può essere definito anche come “filosofia del limite”.

4. Le “coordinate” fondamentali del Criticismo

A) L’EMPIRISMO MA SENZA LA SUA DERIVA SCETTICA;A) L EMPIRISMO, MA SENZA LA SUA DERIVA SCETTICA;

B) IL SUCCESSO DELLA SCIENZA MODERNA;

C) LA CRISI DELLA METAFISICA.

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5. Il problema generale della Critica della ragione pura

LA C.R.P. È UNA ANALISI CRITICA DEI FONDAMENTI DEL SAPERE (“sapere” in senso forte: sapere come conoscenza

t b f d t )certa e ben fondata).

AI TEMPI DI KANT “SAPERE” SIGNIFICAVA:

1) SCIENZA 2) METAFISICA1) SCIENZA; 2) METAFISICA;

LA C.R.P. SI OCCUPA DI ENTRAMBE.

6 Scienza e metafisica si presentano agli occhi di6. Scienza e metafisica si presentano agli occhi di Kant in modo molto diversoLa scienza appariva un sapere ben fondato (cioè basato su solide fondamenta) e progressivo (si passa da una scoperta asolide fondamenta) e progressivo (si passa da una scoperta a quella successiva);

la metafisica, al contrario, con la sua pretesa di superare l’esperienza e di giungere all’assoluto appariva come unl esperienza e di giungere all assoluto, appariva come un campo di dispute continue e inconcludenti, incapace di approdare a risultati ben fondati e progressivi.

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7. Le domande della Critica della Ragion purag

A) COME È POSSIBILE CHE LA MATEMATICA E LA FISICA POSSANO, COME DI FATTO ACCADE, AVERE LO STATUTO DI SCIENZE, OVVERO DI DISCIPLINE CAPACI DI GIUNGERE A CONOSCENZE CERTE? COSA FA SÌ CHE QUESTO ACCADA?

B) LA METAFISICA, AMMESSA LA SUA INEVITABILITÀ, PUÒ ASPIRARE A DIVENIRE UNA SCIENZA?

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7.1 La prima domanda

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Abbiamo visto che le discipline scientifiche appaiono a Kant provviste delle seguenti caratteristiche:

CERTEZZA (non solo probabilità!) CERTEZZA (non solo probabilità!)

FECONDITÀ FECONDITÀ (progresso!)

La Critica vuole scoprire il perché la scienza abbia tali caratteristiche e la teoria dei giudizi, che oracaratteristiche e la teoria dei giudizi, che ora vedremo, serve proprio per assolvere a tale esigenza!

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8 Cos’è un “giudizio”?

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Non è qualcosa che abbia un valore morale (comeinvece è per noi!).

Si d fi i i di i i t tt d l tiSi definisce giudizio ogni struttura del tipo: SOGGETTO + PREDICATO.Esempi:

“Anna è bella”Anna è bella“Giove è un pianeta”“L’acqua bolle a 100 gradi centigradi”“Leibniz ha inventato il calcolo integrale”Leibniz ha inventato il calcolo integrale…

I i di i h d ibili tt i ti h /I giudizi hanno due possibili caratteristiche: SINTETICO / ANALITICOA PRIORI / A POSTERIORI

Abbiamo dunque quattro diverse possibilità: sintetico a prioriAbbiamo dunque quattro diverse possibilità: sintetico a priori, sintetico a posteriori, analitico a priori e analitico a posteriori (che

noi non consideriamo).

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8.1 I giudizi analitici a prioriIl PREDICATO NON AGGIUNGE NULLA DI NUOVO AL SOGGETTO,

g p ( )

,MA SI LIMITA A RENDERE ESPLICITO QUALCOSA CHE È GIÀ PRESENTE NEL SOGGETTO.

“I CORPI SONO ESTESI”I CORPI SONO ESTESI

SI TRATTA SÌ DI GIUDIZI UNIVERSALI E NECESSARI, MA NON CIINSEGNANO NULLA DI NUOVO: NON SONO FECONDI E QUINDI NON BASTANO PER RENDERE RAGIONE DELLA SCIENZA!

8.2 I giudizi sintetici a posteriori8.2 I giudizi sintetici a posterioriIL PREDICATO AGGIUNGE, GRAZIE ALL’ESPERIENZA, QUALCOSA DI NUOVO AL SOGGETTO.

“I CORPI SONO PESANTI”

SI TRATTA DI GIUDIZI FECONDI, MA SONO PRIVI DIÀ ÀUNIVERSALITÀ E DI NECESSITÀ!

Ciò che dipende dall’esperienza, infatti, può essere dall’esperienza smentito!

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Giudizi sintetici a posteriori Giudizi analitici a priori

g p ( )

GIUDIZI SINTETICI A PRIORIGIUDIZI SINTETICI A PRIORI

8.3 I giudizi sintetici a priori

“OGNI EVENTO DIPENDE DA CAUSE”“OGNI OGGETTO DELL’ESPERIENZA SI DÀ NELLO SPAZIO E NEL TEMPO”

QUESTI PRINCIPI SI CHIAMANO GIUDIZI SINTETICI A PRIORI.

Essi costituiscono, a parere di Kant, il fondamento delle scienze pperché ne giustificano entrambi i caratteri: la necessaria certezza e la fecondità.

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9. Cos’è , dunque, la scienza?

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LA SCIENZA, PER KANT, È LA SOMMA DI GIUDIZI SINTETICI A PRIORI E DELL’ESPERIENZA.TUTTE LE PROPOSIZIONE SCIENTIFICHE SONO BASATE SUI GIUDIZI SINTETICI A PRIORI E TRAGGONO IL LORO CONTENUTO DALL’ESPERIENZA.

“IL CALORE DILATA I METALLI”IL CALORE DILATA I METALLI

SOLO L’ESPERIENZA CE LO PUÒ DIRE: QUINDI È UN GIUDIZIO FECONDO (aspetto sintetico).

ALLO STESSO TEMPO, IL GIUDIZIO SI BASA SUL PRINCIPIO DI CAUSALITÀ (“OGNI EVENTO DIPENDE DA CAUSE”). È, QUI, IL CALORE CHE CAUSA LA DILATAZIONE DELCAUSE ). È, QUI, IL CALORE CHE CAUSA LA DILATAZIONE DEL MMETALLO (aspetto a priori).

DETTO ALTRIMENTI: L’ESPERIENZA FORNISCE ALLE SCIENZE IL MATERIALE (MATERIA) DI STUDIO MATERIALE CHE VIENEMATERIALE (MATERIA) DI STUDIO, MATERIALE CHE VIENE FORMATO (FORMA) TRAMITE I MODELLI FORNITI DAI GIUDIZI SINTETICI A PRIORI.

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10. Un grosso problema: una nuova rivoluzione copernicana

g p ( )

copernicana

SE I GIUDIZI SINTETICI A PRIORI NON DERIVANO DALL’ESPERIENZA DA DOVE DERIVANO?DALL ESPERIENZA, DA DOVE DERIVANO?

Struttura della ragione

MATERIA FORMA

TEORIA DELLA CONOSCENZAEsperienza!della ragione 

umana

MATERIAELEMENTO EMPIRICO, A POSTERIORI

FORMAELEMENTO RAZIONALE, A PRIORI

SINGOLA CONOSCENZASINGOLA CONOSCENZA

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11. Due nuovi concetti: “fenomeno” e “noumeno”

g p ( )

SI CHIAMA FENOMENO (alla lettera “CIÒ CHE APPARE”) la cosa realmente esistente così come essa appare a noi, filtrata dalle nostre forme pure a priori.p p

SI CHIAMA NOUMENO (O “COSA IN SÉ”) LA MEDESIMA COSASI CHIAMA NOUMENO (O COSA IN SÉ ) LA MEDESIMA COSA REALMENTE ESISTENTE, MA COSÌ COME ESSA È IN SÉ STESSA, DEL TUTTO INDIPENDENTEMENTE DA COME APPARE A NOI.

Esempio: la mela, l’uomo e il gatto...

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12. I gradi della conoscenza

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Kant articola la ragione (in senso ampio) umana in tre gradi fondamentali:

1) Sensibilità. Le cose del mondo ci sono date mediante i sensi in modo immediato, intuitivo, seppure già mediato dalle forme a priori della sensibilità: spazio e tempo.

2) Intelletto. Per suo tramite noi pensiamo i dati fornitici dai sensi mediatamente i concetti puri o categorie.

3) Ragione (in senso stretto). È per suo tramite che la mente, andando oltre il dettato dell’esperienza, cerca di fare metafisica, ovvero di spiegare l’intera realtà attraverso le tre idee di Anima Mondo Dioidee di Anima, Mondo, Dio.

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13. La suddivisione della Critica della ragione pura

g p ( )

La prima Critica è così suddivisa:

ESTETICA TRASCENDENTALE(forme pure a priori, cioè forme trascendentali della sensibilità: spazio e tempo)

A. DOTTRINA DEGLI ELEMENTI

LOGICA TRASCENDENTALE

ANALITICA DIALETTICAANALITICA DIALETTICA(forme pure a priori, cioè forme (le tre Ideetrascendentali dell’intelletto: metafisiche:12 categorie) Anima, Mondo,

Dio)

B. DOTTRINA DEL METODO

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14. ESTETICA TRASCENDENTALE

I t i K t t di l ibilità l f i i

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In questa sezione Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori.

La sensibilità è sia passiva (recettiva), perché riceve dall’esterno i suoi contenuti, sia attiva, perché i dati sensibili vengonosuoi contenuti, sia attiva, perché i dati sensibili vengono organizzati da essa in modo autonomo.

La materia della conoscenza sensibile, i dati sensoriali, sonoi ti di ti d ll f ( i i) d ll ibilità lorganizzati, ordinati, dalle forme pure (a priori) della sensibilità: lo

spazio e il tempo.

Lo spazio è la forma del senso esterno ed esprime l’ordine dellap pcoesistenza delle cose, cioè il loro disporsi l’una accanto all’altra.Il tempo è la forma del senso interno ed esprime l’ordine dellasuccessione dei nostri stati d’animo, ossia il loro disporsi l’unod l’ ltdopo l’altro.

Relativamente a spazio e tempo Kant confuta sia la visioneempirista (spazio e tempo sarebbero concetti tratti dall’esperienza:p ( p p pLocke) sia quella oggettivistica (spazio e tempo sono cose a sestanti, realmente esistenti: Newton).

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14. ESTETICA TRASCENDENTALE

Ri d K t l i il t NON

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Riassumendo: per Kant lo spazio e il tempo NON sono cose realmente esistenti e indipendenti da noi, ma sono parte della struttura della nostra ragione. Spazio e tempo sono, in particolare, le due modalità (forme pure aSpazio e tempo sono, in particolare, le due modalità (forme pure a priori della sensibilità) attraverso le quali l’uomo percepisce la realtà esterna.

S i t f i i t i ifi hSpazio e tempo sono forme a priori, questo significa che non dipendono dall’esperienza, ma dalla struttura della ragione umana.

Dubbio: se spazio e tempo sono strutture soggettive della mente umana, com’è p p gg ,possibile che la realtà esterna, indipendente da noi, si configuri sempre in termini spaziali e temporali? Risposta: Spazio e tempo sono soggettivi solo rispetto alla realtà in sé, ovvero i i tti i i tt ll ltà i t i f i!ai noumeni, ma sono oggettivi rispetto alla realtà conosciuta, i fenomeni!

L’aritmetica e la geometria, le fondamentali discipline matematiche, sono scienze (cioè portano a conoscenze certe) e sono produttive ( p ) p(cioè portano a scoprire cose nuove) proprio perché si basano, rispettivamente, sul tempo e sullo spazio.

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15. LOGICA TRASCENDENTALE: L’ANALITICA

I t i K t t di l’i t ll tt l f i i

g p ( )

In questa sezione Kant studia l’intelletto e le sue forme a priori.

Le forme a priori dell’intelletto sono definite da Kant con un termine aristotelico: CATEGORIE.CATEGORIE.

Le categorie sono i modi attraverso cui vengono pensati, da partedell’intelletto, i contenuti offerti dall’intuizione spazio-temporale della

ibilitàsensibilità.

La realtà ci viene data tramite i sensi, ma viene pensata tramite l’intelletto.

“Senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessunoggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizionisenza concetti sono cieche.”

Attenzione: se per Aristotele le categorie avevano valore sia gnoseologico cheontologico, Kant ritiene che esse abbiano una valenza solo gnoseologica: lecategorie sono le modalità di funzionamento della mente umana e, in quantog , qtali, hanno valore solo relativamente ai fenomeni, non ai noumeni (esattamentequanto valeva anche per spazio e tempo).

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15. LOGICA TRASCENDENTALE: L’ANALITICA

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Quante e quali sono le categorie?Visto che pensare significa giudicare, ovvero connettere un soggetto ad un predicato, vi saranno tanti tipi di categorie quanti sono le modalità del giudizio.

QUANTITÀ molteplicità unità totalità;QUANTITÀ molteplicità, unità, totalità;

QUALITÀ realtà, negazione, limitazione;

RELAZIONE sostanzialità e inerenza, causalità e dipendenza, comunanza o azione reciproca;

MODALITÀ possibilità e impossibilità esistenza e non esistenzaMODALITÀ possibilità e impossibilità, esistenza e non esistenza, necessità e casualità.

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15. LOGICA TRASCENDENTALE: L’ANALITICA

Non è difficile comprendere come le categorie indicate siano attive in uno qualunque dei nostri pensieri: - pensiamo sempre a una cosa o a più cose o a una totalità di cose (quantità);- una cosa è sempre pensata come reale oppure come non reale, oppure come distinta da questa o quella realtà (qualità);distinta da questa o quella realtà (qualità); - Il pensiero prevede molto spesso delle relazioni fra elementi distinti (esempio: “Roberto è molto maldestro: rompe sempre tutto” causalità);Il pensiero contempla anche le modalità dell’accadere (“È possibile che settimana prossima io vada al mare, ma dovrò tornare a casa al massimo entro giovedì” (categorie di possibilità e di necessità).

Anche in un pensiero semplicissimo come “C’È UNA MELA” entrano in azioneAnche in un pensiero semplicissimo come C È UNA MELA entrano in azione numerose categorie: unità, realtà, sostanzialità, esistenza.

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15. LOGICA TRASCENDENTALE: L’ANALITICA

Formulata la tavola delle categorie, Kant cerca di giustificarne la validità e l’uso, è il problema che lui chiama deduzione trascendentale Si tratta di giustificare diè il problema che lui chiama deduzione trascendentale. Si tratta di giustificare di diritto una pretesa di fatto.

La deduzione delle categorie non consiste semplicemente nel far vedere che esse sono adoperate, di fatto, nella conoscenza scientifica. Bisogna invece giustificare che il loro uso è legittimo e determinare i limiti della validità di questo uso.

Detto altrimenti: se le categorie sono solo caratteristiche della mente umana, come si può pretendere che esse valgano anche per la realtà esterna?

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REALTÀ (fatta di noumeni, cose in sé)

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Dati sensibili

Primo filtro ordinatore: forme pure della sensibilità, spazio e tempo!

Cosa intuita

Secondo filtro ordinatore: forme pure dell’intelletto, categorie!Cosa pensata

SOGGETTO CONOSCENTE (conosce il fenomeno!)

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16. LOGICA TRASCENDENTALE: L’ANALITICA

L’intelletto umano non è né totalmente passivo (si limita a riflettere la realtà così come essa è) né totalmente attivo (esso crea i propri oggetti di pensiero dalcome essa è) né totalmente attivo (esso crea i propri oggetti di pensiero dal nulla). Esso è invece sia passivo (agisce su materiale che proviene dall’esterno) che attivo (organizza autonomamente tale materiale).

Al quadro manca ancora un ultimo elemento: per essere pensati, gli oggetti devono essere riferiti ad un unico centro mentale unificatore che Kant chiama IO PENSO.

L’io penso unifica le percezioni sensibili, filtrate tramite spazio e tempo, utilizzandole le categorie e riferendole a sé.È come se in ogni singolo pensiero ci fosse un elemento implicito: “Io penso che...”.

Tutto ciò che pensiamo è, appunto, pensato, perché ultimamente riferito a questo centro unificatore!questo centro unificatore!

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Dati sensibili

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Primo filtro ordinatore: forme pure della sensibilità, spazio e tempo!

Cosa intuita

Secondo filtro ordinatore: forme pure dell’intelletto, categorie!C tCosa pensata

IO PENSO

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16. LOGICA TRASCENDENTALE: L’ANALITICA

L’io penso come coscienza non è la conoscenza dell’io come esso è in se stesso (per esempio come anima immortale) Non solo la conoscenza delstesso (per esempio, come anima immortale). Non solo la conoscenza del mondo esterno, ma anche quella del nostro io è solo fenomenica: io conosco me stesso solo tramite l’esperienza interna che ho di me e non in termini assoluti.

In Kant l’io può essere definito come “legislatore della natura”.Solo in senso materiale – cioè relativamente ai dati sensibili – la natura è esterna all’uomo In senso formale invece essa è interna all’uomo: le relazioniesterna all uomo. In senso formale, invece, essa è interna all uomo: le relazioni che si instaurano fra i dati sensibili, formando il fenomeno, sono tutte interne all’uomo.

Attenzione: spazio, tempo e categorie operano solo sui dati della sensibilità. Questo significa che il conoscere in senso forte, scientifico, non può in alcun modo estendersi oltre l’esperienza, prescindendo da essa.

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16 LOGICA TRASCENDENTALE L’ANALITICA

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16. LOGICA TRASCENDENTALE: L’ANALITICA

Kant paragona la conoscenza fenomenica, la conoscenza basata sui datidell’esperienza alla terra ferma di un’isola solida sicuradell esperienza, alla terra ferma di un isola, solida, sicura...L’inevitabile desiderio umano di andare oltre il fenomeno e di conoscere ilnoumeno – le cose come sono in se stesse, l’assoluto – è simile alle smanie diun navigante attratto dalla scoperta di nuove terre, ma destinato a vagareinutilmente tra i flutti, perdendosi in essi.

In altre parole: la metafisica, la pretesa di conoscere l’assoluto, non può esserescienza: passiamo così alla dialettica trascendentalescienza: passiamo così alla dialettica trascendentale.

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IMMANUEL KANT 1724 – 1804Critica della ragione pura (1781)

Prof. Monti – a.s. 2016-2017

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18. DIALETTICA TRASCENDENTALE

In questa sezione della Critica Kant si domanda se anche la metafisica, comedisciplina possa concludere a conoscenze di carattere scientificodisciplina, possa concludere a conoscenze di carattere scientifico.

Se in Platone la dialettica era la scienza suprema, ovvero la scienza delle Idee,per Aristotele essa denotava tanto il procedimento dimostrativo fondato supremesse solo probabili, quanto l’arte di costruire ragionamenti capziosi,fallaci, basati su premesse niente affatto probabili, ma fatte apparire come tali!

È ad Aristotele che Kant si richiama: la dialettica trascendentale ha lo scopo diÈ ad Aristotele che Kant si richiama: la dialettica trascendentale ha lo scopo dismascherare i ragionamenti fallaci della metafisica!

Come abbiamo già detto: anche se infondata, la speculazione metafisicarappresenta “un’esigenza naturale ed inevitabile della mente umana”.

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18. DIALETTICA TRASCENDENTALE

- Abbiamo visto che l’intelletto unifica, tramite l’attivazione delle categorie, i datiprovenienti dai sensi L’uomo però per natura tende al raggiungimentoprovenienti dai sensi. L uomo, però, per natura tende al raggiungimentodell’incondizionato e della totalità: solo di questi si mostra soddisfatto!- La ragione dell’uomo non si accontenta, non è mai paga, sempre vuole andareoltre, giungendo così alle tre idee della metafisica:

Anima: ovvero l’idea della totalità dei fenomeni interni (psicologia razionale).

Mondo: ovvero l’idea della totalità dei fenomeni esterni (cosmologia razionale)Mondo: ovvero l idea della totalità dei fenomeni esterni (cosmologia razionale).

Dio: ovvero l’idea della totalità dei fenomeni interni ed esterni, l’assolutatotalità ridotta ad unità (teologia razionale).

Il problema è che di queste tre totalità noi non abbiamo né possiamo mai avereesperienza alcuna!

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18.1 DIALETTICA TRASCENDENTALE: psicologia razionale

- Questa disciplina è, a parere di Kant, fondata su di un paralogisma, cioè un“ragionamento errato” che consiste nell’applicare la categoria di sostanza all’ioragionamento errato , che consiste nell applicare la categoria di sostanza all iopenso.

- L’io penso, però, è un noumeno: noi non possiamo sapere come esso sia.L’errore sta, dunque, nell’ipotizzare l’esistenza dell’anima e, addirittura, diattribuirle tutta una serie di caratteristiche che rispetto la nostra esperienzaattribuirle tutta una serie di caratteristiche che, rispetto la nostra esperienza,sono del tutto ingiustificate e ingiustificabili.Si dice che l’anima è semplice, libera, immortale, ecc. Ma cosa, quali daticoncreti stanno a fondamento di ciò? Nessuno.

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18.2 DIALETTICA TRASCENDENTALE: cosmologia razionale

Il cosmo l’universo la totalità del mondo fisico non rientra mai nella nostra

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- Il cosmo, l universo, la totalità del mondo fisico non rientra mai nella nostraEsperienza: noi esperiamo questo o quel fenomeno, mai la totalità dei fenomeni.L’idea di Mondo, dunque, è al di fuori di qualunque esperienza possibile.

- Nonostante ciò, i metafisici pretendono di poter dire qualcosa sul Mondo,sull’universo, come totalità: facendo questo essi incappano in quelle che Kantchiama antinomie.

- Le antinomie sono coppie di affermazioni fra loro opposte, entramberazionalmente sostenibili, ma fra le quali la ragione risulta incapace di decidere.

1. Il Mondo è finito (nello spazio e nel tempo)Il Mondo è infinito (nello spazio e nel tempo)

2. La materia è divisibile all’infinitoLa materia non è divisibile all’infinito

3. Esiste una causalità liberaEsiste solo una causalità deterministica

4. Il Mondo dipende da un essere necessario, Dio.Il Mondo non dipende da un essere necessario, Dio.

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18 2 DIALETTICA TRASCENDENTALE: cosmologia razionale

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18.2 DIALETTICA TRASCENDENTALE: cosmologia razionale

- In ogni singola antinomia tra tesi e antitesi è impossibile capire quale sia vera.Perché? Il problema sta nell’Idea di Mondo, illegittima perché non sostenuta daalcuna esperienza reale o possibile.

- Per ciò che riguarda terza e quarta antinomia, Kant puntualizza che le tesivalgono nel mondo dei fenomeni nel cui ambito non si incontra mai né Dio névalgono nel mondo dei fenomeni, nel cui ambito non si incontra mai né Dio néla libertà, mentre le antitesi potrebbero valere per la cosa in sé.

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18.3 DIALETTICA TRASCENDENTALE: teologia razionale

Kant si pone in termini critici rispetto a tutte le pretese dimostrazioni del fatto

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- Kant si pone in termini critici rispetto a tutte le pretese dimostrazioni del fattoche Dio esiste (o che non esiste!).

- Contro la prova ontologica di Anselmo. Dio, in quanto assolutamente perfetto,deve esistere.Ma come si può passare da un semplice concetto mentale, per quanto perfettopossa essere, all’esistenza reale. L’esistenza non è un predicato in mezzo adAltri: la differenza fra cento talleri immaginati e cento talleri reali non sta inAltri: la differenza fra cento talleri immaginati e cento talleri reali non sta inalcun predicato, ma nel fatto che i primi non esistono e i secondi sì!

- Contro la prova cosmologica. Tutto ciò che è contingente deve l’esistenza aqualcos’altro, che lo precede, ma prima o poi bisogna per forza giungere ad unessere necessario, Dio.Primo errore: la categoria di causa connette solo fenomeni a fenomeni, nonfenomeni a qualcosa che fenomenico non è (Dio)fenomeni a qualcosa che fenomenico non è (Dio).Secondo errore: anche ammesso questo essere necessario, come si potrebbepoi identificarlo con Dio? Impossibile!

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18 3 DIALETTICA TRASCENDENTALE: teologia razionale

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18.3 DIALETTICA TRASCENDENTALE: teologia razionale

- Kant si pone in termini critici rispetto a tutte le pretese dimostrazioni del fattoche Dio esiste (o che non esiste!).( )

- Contro la prova fisico-teleologica. Il Mondo è troppo bello e ordinato: deveesistere qualcuno che lo abbia pensato e creato.Primo errore: l’ordine della natura potrebbe stare nella natura stessa comePrimo errore: l’ordine della natura potrebbe stare nella natura stessa, comedimostrare che non è così? Impossibile.Secondo errore: l’ordine e la bellezza del Mondo che noi esperiamo sono finiti eimperfetti, quindi come possiamo sostenere che un eventuale Creatore siap q pinfinito e perfetto, cioè sia Dio? Impossibile!

In sede teorica, Kant è agnostico, in quanto ritiene che la ragione umana nonpossa dimostrare né che Dio esiste né che non esistepossa dimostrare né che Dio esiste né che non esiste.

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18.3 DIALETTICA TRASCENDENTALE: teologia razionale

- Quanto detto fino ad ora significa che le tre Idee della ragione sono inutili?Assolutamente no!Assolutamente no!

- Esse non servono a conoscere con certezza alcun fenomeno reale, ma hannoun fondamentale uso regolativo.gLe tre Idee funzionano come stimoli per la ricerca: traguardi in séirraggiungibili, ma che spingono l’uomo ad approfondire e ad allargare sempredi più le sue conoscenze!

Le idee, cessando di valere dogmaticamente come realtà, varranno in questocaso problematicamente, come condizioni che impegnano l’uomo nella ricercanaturale e lo sollecitano di evento in evento, di causa in causa, ad estenderequanto possibile il dominio della propria esperienza e di dare a questo dominiola massima unità.

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Immanuel Kant 1724 – 1804

11. LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA Il punto di partenza di quest’opera è la persuasione che esista, scolpita nell’uomo, una legge morale valida per tutti e per sempre. Come nella Critica della ragion pura Kant muoveva dall’idea dell’esistenza di conoscenze scientifiche universali e necessarie, nella Critica della ragion pratica muove dall’analogo convincimento dell’esistenza di una legge etica assoluta. La sicurezza di Kant circa l’esistenza di questa legge proviene dal ragionamento per cui o la morale è una chimera, un’illusione, in quanto l’uomo agisce in virtù delle sole inclinazioni naturali (cioè gli istinti), oppure, se esiste, risulta per forza incondizionata, presupponendo una ragion pratica “pura”, cioè capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili. La tesi dell’assolutezza e dell’incondizionatezza della morale implica, per Kant, la libertà dell’agire e la validità universale e necessaria della legge. La morale, essendo incondizionata, implica la capacità umana di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la libertà si configuri come il primo presupposto, o postulato, della vita etica. Essendo indipendente da ogni condizione particolare, la legge risulterà anche, per definizione, universale e necessaria, ossia immutabilmente uguale a se stessa in ogni tempo e luogo. Per Kant la morale è sciolta dai condizionamenti istintuali non nel senso che può completamente prescindere da essi, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto ad essi. La morale si gioca infatti in una tensione bipolare fra la ragione e la sensibilità. La morale perderebbe di senso sia se l’uomo fosse solo sensibilità (in quel caso l’uomo infatti obbedirebbe al solo istinto), sia se fosse solo ragione (raggiungerebbe la santità etica, la perfezione). La bidimensionalità dell’essere umano fa sì che per Kant l’agire morale prenda la forma severa del dovere e si concretizzi in una lotta permanente fra la ragione e gli impulsi egoistici. Da ciò la natura finita e limitata dell’uomo, che può scegliere di agire secondo la legge, ma anche contro la legge. Come nella Critica della ragion pura circola la denuncia dell’arroganza della ragione che pretende di superare i suoi limiti, nella Critica della ragion pratica circola la polemica contro il fanatismo morale, che vuole sostituire alla virtù, che è l’intenzione morale in lotta, la santità di un creduto possesso della perfezione etica. - Kant distingue i principi pratici che regolano la nostra condotta in massime e imperativi. La massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo (ad esempio alzarsi presto al mattino per fare ginnastica). L’imperativo è una prescrizione con valore oggettivo e universale. Gli imperativi, a loro volta, si scindono in ipotetici e categorici. Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di fini ipoteticamente accettati ed hanno la forma del “se … devi”. Questo tipo di imperativi (ipotetici) si specifica poi in regole di abilità, che espongono norme tecniche per raggiungere un certo risultato e in consigli della prudenza che forniscono i mezzi per ottenere ciò a cui tutti gli uomini per natura tendono: il benessere fisico ed esistenziale. Gli imperativi categorici invece ordinano il dovere in modo incondizionato e quindi hanno la forma del “devi”. Ora, essendo la morale a parere di Kant strutturalmente incondizionata, ossia indipendente dagli impulsi sensibili e dalle mutevoli circostanze, e quindi universale e necessaria, risulta evidente che gli imperativi ipotetici non potranno essere quelli che costituiscono la legge etica. Essi infatti sono determinati da interessi egoistici o,

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comunque, particolari. Per cui si ha che solo gli imperativi categorici, che sono gli unici universali, hanno in sé i contrassegni della vera moralità. Ma cosa comandano gli imperativi categorici? Kant risponde che la ragione morale comanda se stessa, cioè l’esigenza dell’universalità, e presenta tre formulazioni interconnesse dell’imperativo categorico. La prima formula prescrive “Opera sempre in modo che la massima della tua azione possa sempre valere come principio di una legislazione universale”. Bisogna, insomma, sempre tenere presenti gli altri quando si agisce. Chi mente compie sempre un atto immorale, perché se questa massima (la menzogna) venisse universalizzata i rapporti umani diverrebbero impossibili. Qui Kant esprime ciò che nel Vangelo viene indicato dalla massima “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. La seconda: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altra, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Rispetta la dignità umana, insomma. All’uomo si deve riconoscere la prerogativa di essere soggetto e non oggetto, la caratteristica fondamentale della persona umana è infatti quella di essere scopo-a-se-stessa. La terza: “Agisci in modo che la volontà, in virtù della sua massima, possa considerare se stessa come universalmente legislatrice”. Questa dichiarazione ripete, in parte, la prima. Noi ci dobbiamo sottomettere non ad una autorità esterna, ma alla nostra retta volontà, tanto che, precisa Kant, nel “regno dei fini” ognuno è suddito e legislatore al tempo stesso. Un’altra caratteristica strutturale dell’etica kantiana è la formalità, in quanto la legge non ci dice che cosa dobbiamo fare, ma come dobbiamo fare ciò che facciamo. Anche questo discende dalla riconosciuta libertà della norma etica. Infatti se questa dicesse di fare cose concrete, sarebbe legata ad esse, perdendo libertà e universalità. Nessun precetto particolare infatti può possedere l’universalità di una legge. L’imperativo etico non può risiedere in una casistica o manualistica concreta di precetti, ma solo in una legge formale-universale, la quale afferma semplicemente: “quando agisci tieni presente gli altri e rispetta la dignità umana che è presente in te e nel prossimo”. Per Kant sta poi in ognuno di noi di tradurre in concreto la parola della legge, a seconda della situazione, ricordando che questi precetti pratici sono fondati dalla legge morale e non fondanti di essa. Da tutto ciò che si è detto deriva anche il disinteresse dell’imperativo etico, che costituisce un altro dei contrassegni della morale kantiana. Infatti, se la legge si limitasse ad ordinare di agire in vista di un fine o di un utile si limiterebbe ad una serie di imperativi ipotetici e comprometterebbe, in primo luogo, la propria libertà, in quanto non sarebbe più la volontà a dar legge a se medesima, ma gli oggetti a dar legge alla volontà. Il cuore della moralità kantiana consiste invece nel dovere-per-il-dovere. Secondo la Critica della ragion pratica noi non dobbiamo agire per la felicità, ma solo per il dovere. Da ciò il rigorismo kantiano, che esclude dal dominio dell’etica emozioni e sentimenti, che sviano la morale oppure, quando collaborano con essa, ne inquinano la purezza. Nell’etica di Kant il rispetto per la legge è l’unico sentimento ammesso. Kant nota come ad un essere supremo o almeno libero da ogni sensibilità, e al quale dunque la sensibilità non può essere di ostacolo alcuno, non può essere attribuito rispetto alla legge. Il rispetto dunque implica la condizione propria dell’uomo, quella di essere finito e sensibile. Per Kant, poi, non basta che un’azione sia fatta esteriormente secondo la legge, ovvero in modo conforme ad essa. La morale implica una partecipazione interiore, altrimenti rischia di scadere in atti di legalità ipocrita oppure in forme più o meno mascherate di autocompiacimento. Non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si fa. Le varie determinazioni della legge etica che sinora abbiamo esaminato convergono in quella dell’autonomia, che le implica e riassume. Se la libertà, presa in senso negativo, risiede nell’indipendenza della volontà dalle pulsioni, in senso positivo si identifica con la sua capacità di autodeterminarsi, ovvero nella prerogativa autolegislatrice della volontà, la quale fa sì che l’uomo sia norma a se stesso. Kant polemizza aspramente contro tutte le morali

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eteronome, cioè contro tutti quei sistemi che pongono il fondamento del dovere e della morale in forze esterne all’uomo o alla sua ragione. Passando in rassegna le varie posizioni dei filosofi in relazione a questo fatto Kant individua i limiti di ciascuna, che in generale risiedono nel non riuscire a preservare l’incondizionatezza della legge morale e degli attributi in cui essa si concretizza. Infatti, se i moventi della morale risiedessero nell’educazione, nella società, nel piacere fisico o nel sentimento della benevolenza, l’azione non sarebbe più libera ed universale, in quanto tali realtà sarebbero fattori determinanti e mutevoli, ossia forze necessitanti e soggette al cambiamento. Inoltre tali motivi potrebbero al più spiegare in linea di fatto la presenza della moralità in certi uomini o gruppi di uomini, ma non giustificherebbero il carattere assolutamente obbligatorio della legge morale. Se i moventi stessero invece in un generico ideale di perfezione o in un Dio cadremmo in analoghi inconvenienti. Infatti se si dice che Dio è la perfezione morale, si cade nel circolo vizioso di dire che la morale consiste nel seguire la morale. Se invece si dice che bisogna sottomettersi alla volontà onnipotente a noi rivelata, la morale cessa di essere libera e disinteressata, e cessa anche di essere universale, dato che le varie religioni o filosofie possono interpretare diversamente la volontà di Dio. Il rifiuto di poggiare la morale su Dio dipende anche dal fatto che, essendo Dio non dimostrabile, non può costituire una solida certezza universale capace di fungere da piattaforma dell’etica. Il razionalismo, pur fondando la morale sulla ragione, l’aveva fatta dipendere dalla metafisica, fondandola ad esempio sull’ordine del mondo, su Dio… L’empirismo invece, pur sganciando la morale dalla metafisica, l’aveva connessa al sentimento (vedi la “simpatia” di Hume). Contro i primi Kant afferma che la morale si basa solo sull’uomo e sulla sua dignità di essere razionale finito, contro l’empirismo e le varie morali sentimentalistiche, sostiene che la morale si fonda sulla ragione, che sola può salvaguardarne l’universalità e la libertà. Il sentimento, anche il più filantropico, è sempre qualcosa di troppo fragile per fungere da piedistallo per un sistema etico. Se nell’Analitica della Ragion pratica, che è quanto abbiamo esposto sin qui, Kant ha studiato il dovere morale, nella Dialettica prende in considerazione l’assoluto morale o sommo bene. Come sappiamo, la felicità non può mai erigersi a movente del dovere, perché in tal caso metterebbe in forse l’incondizionatezza della legge etica. Tuttavia la virtù, pur essendo il “bene supremo”, non è ancora, secondo Kant, quel “sommo bene” cui tende irresistibilmente la nostra natura, che consiste nell’addizione di virtù e felicità. C’è in noi il bisogno di pensare che l’uomo, pur agendo per dovere, possa essere degno di felicità. Ma in questo mondo non accade mai che virtù e felicità siano congiunte, in quanto lo sforzo di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono due azioni distinte e per lo più opposte, in quanto l’imperativo etico implica la sottomissione degli istinti e dell’egoismo. Virtù e felicità costituiscono quindi l’antinomia etica per eccellenza, che forma l’oggetto specifico della Dialettica della Ragion pratica. Kant rileva come i filosofi abbiano vanamente cercato di risolvere l’antinomia o sciogliendo la felicità nella virtù, gli stoici, o la virtù nella felicità, gli epicurei. In realtà, afferma Kant, sulla scorta della tradizione platonica e cristiana, l’unico modo per uscire da questa antinomia è postulare un mondo dell’al di là in cui si possa realizzare ciò che in questa vita non è possibile, cioè l’equazione virtù = felicità. Non a caso Kant usa il termine postulato, traendolo dalla matematica classica: mentre gli assiomi sono cose autoevidenti, i postulati sono principi non dimostrabili, ma che vengono accolti per rendere possibili determinate entità o verità geometriche. I postulati tipici che Kant pone sono l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. La realizzazione della prima condizione del sommo bene, ovvero la santità, non è realizzabile nel mondo e dobbiamo quindi supporre che avremo, da qualche altra parte, dell’altro tempo indefinito, nel quale potremo raggiungerla. Il secondo elemento, ovvero la felicità proporzionata alla virtù, richiede l’esistenza di Dio, ossia in una potenza che faccia corrispondere la felicità al merito. Accanto ai due postulati “religiosi”, Kant ne pone un

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altro, quello della libertà. Questa è infatti la condizione stessa dell’etica, che nel momento stesso in cui prescrive un dovere deve supporre che si possa agire in ordine ad esso o meno, e che quindi si sia sostanzialmente liberi. Questo postulato è diverso dagli altri: infatti pur non sapendo che cos’è la libertà, possiamo almeno dire che essa esiste, mentre per primi due postulati non possiamo sostenere con certezza né che cosa sono né che esistono. Per cui postulati in senso forte sono da considerarsi solo i primi due. Kant parla di postulato anche riguardo la libertà perché ritiene che l’idea di un’auto-causalità, ossia di una fonte spontanea di atti (=libero arbitrio) non possa venire scientificamente dimostrata, in quanto il mondo dell’esperienza si regge sul principio di causa-effetto. Abbiamo visto che Kant ha detto che se nel mondo fenomenico c’è solo il determinismo, in quello delle cose in sé potrebbe esserci la libertà. La teoria dei postulati mette a capo a ciò che Kant definisce “primato della Ragion pratica”, consistente nella prevalenza dell’interesse pratico su quello teoretico, nel senso che la ragione ammette, in quanto è pratica, proposizioni che non potrebbe ammettere nel suo uso teoretico. Tuttavia, pur aprendo uno squarcio sul transfenomenico e sul metafisico, i postulati kantiani non possono valere come conoscenze. Il primato della ragion pratica rispetto a quella speculativa non significa che questa possa darci ciò che l’altra ci nega, ma semplicemente che le sue condizioni di validità comportano la ragionevole speranza (non la certezza, cioè la conoscenza) dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima. I postulati hanno un carattere di non-teoreticità e Kant lo sottolinea con grande forza, perché se essi avessero validità conoscitiva il discorso fatto nella Critica della ragion pura sarebbe apertamente violato. Inoltre anche il suo intendere la morale come libertà ed autonomia crollerebbe perché “Dio e l’eternità, nella loro maestà tremenda, ci starebbero continuamente dinanzi agli occhi… la trasgressione della legge sarebbe senz’altro impedita…” Se i postulati fossero dimostrati la morale scivolerebbe immediatamente nell’eteronomia e sarebbe di nuovo la religione a fondare la morale. Kant invece sostiene che sono le verità morali, seppure sotto forma di postulati, a fondare quelle della religione. Dio non sta all’inizio della vita morale, ma semmai alla fine, come suo possibile completamento. L’uomo di Kant è colui che agisce seguendo solo il dovere-per-il-dovere, con in più la “ragionevole speranza” nell’immortalità dell’anima e nell’esistenza di Dio.

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IMMANUEL KANTCritica della ragione pratica (1787)

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1 ANALITICALa seconda grande opera di Kant concerne non il conoscere scientifico

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La seconda grande opera di Kant concerne non il conoscere scientificodell’uomo, ma il suo agire pratico.

Nella Critica della ragion pratica Kant parte da questa convinzione: esisteuna legge etica assoluta.

Su cosa si basa tale convinzione?

Kant ritiene che o la morale è una chimera, un’illusione, e l’uomo agisce in virtùdelle sole inclinazioni naturali (gli istinti) oppure se la legge morale esistedelle sole inclinazioni naturali (gli istinti), oppure, se la legge morale esiste,allora essa è per forza incondizionata.Si tratta, cioè, di una ragione pratica “pura”, dove pura significa: capace disvincolarsi dalle inclinazioni dettate dall’istinto.

L’incondizionatezza della legge morale implica l’esistenza della libertà. Lalibertà diventa così il primo presupposto, o postulato, della vita etica.Tale legge sarà anche universale – cioè valida per tutti in ogni tempo e luogo –Tale legge sarà anche universale – cioè valida per tutti, in ogni tempo e luogo –e necessaria: non potrebbe essere diversa da com’è!

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IMMANUEL KANTCritica della ragione pratica (1787)

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ANALITICA

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Per Kant la morale è sciolta dai condizionamenti istintuali non nel senso che può completamente prescindere da essi, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto ad essi.

Se l’uomo fosse solo sensibilità – cioè se fosse esclusivamente guidato dagli g gistinti – o se fosse solo ragione – cioè se non avesse affatto istinti sensibili –allora la morale non avrebbe senso. Nell’un caso, come nell’altro, egli non sarebbe libero, non avrebbe scelta alcuna nel suo agire.

L’uomo però vive nella perenne tensione fra istinto e ragione e in lui si manifesta una continua lotta fra impulsi egoistici, istintuali, e ragione.La legge morale dice il dovere, dice ciò che è giusto che sia: l’uomo può decidere di agire in obbedienza ad essa oppure contro di essa.

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IMMANUEL KANTCritica della ragione pratica (1787)

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ANALITICA

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- Kant distingue i principi pratici che regolano la nostra condotta in MASSIME e IMPERATIVI.

La massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo (esempio:La massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo (esempio: “alzarsi presto al mattino per fare ginnastica”).

L’imperativo, invece, è una prescrizione con valore oggettivo e universale. Gli imperativi si scindono in due tipologie: IMPERATIVI IPOTETICI e IMPERATIVICATEGORICI.

Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di fini ipoteticamenteGli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di fini ipoteticamente accettati ed hanno la forma del “se … devi”.

Esempi: “Se vuoi essere una persona colta allora DEVI studiare!”“Se vuoi andare in vacanza allora DEVI lavorare!”

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ANALITICA

g p ( )

Né le massime né gli imperativi ipotetici costituiscono la legge morale.Essi, infatti, sono legati a interessi particolari, specifici, e non hanno i caratteri dell’incondizionatezza e dell’universalità.

C id i l i “ l i t l tti f i ti ”Consideriamo la massima “alzarsi presto al mattino per fare ginnastica”. Ciascuno di noi può decidere di seguirla, inoltre si tratta certo di una cosa utile. Ma non definiremmo immorale qualcuno che si comporta diversamente!

Consideriamo ora l’imperativo ipotetico “se vuoi essere una persona colta allora devi studiare!” Certo è vero che se io desiderio essere colto allora loallora devi studiare! . Certo, è vero che se io desiderio essere colto allora lo studio diventa mio preciso dovere... Però il fatto di impegnarsi nello studio, se ci pensiamo, non è affatto un dovere incondizionato e universale.È immorale la persona che, decidendo di non studiare, rinuncia alla cultura? Chiaramente no.

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ANALITICA

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Gli imperativi categorici sono gli unici universali e, per questo, solo essi hanno il carattere della moralità.

Ma cosa comandano gli imperativi categorici?

Kant risponde che la ragione morale comanda se stessa, cioè l’esigenza dell’universalità. Egli presenta tre formulazioni interconnesse dell’imperativo categorico, che è a tutti gli effetti unico.

1 “Opera sempre in modo che la massima della tua azione possa sempre1. “Opera sempre in modo che la massima della tua azione possa sempre valere come principio di una legislazione universale”.

2 “Agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua persona sia in quella di2. Agisci in modo da trattare l umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altra, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

3. “Agisci in modo che la volontà, in virtù della sua massima, possa3. Agisci in modo che la volontà, in virtù della sua massima, possa considerare se stessa come universalmente legislatrice”.

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IMMANUEL KANTCritica della ragione pratica (1787)

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ANALITICA

g p ( )

1. “Opera sempre in modo che la massima della tua azione possa sempre valere come principio di una legislazione universale”.

In parole povere: “Qualunque cosa tu faccia, tieni presente anche le esigenze degli altri”. Comportati in modo tale che, se tutti agissero esattamente come fai tu, nessuno avrebbe a soffrirne ingiustamente.

Esempio:pMentire, in generale, è immorale: perché?Perché se tutti mentissero i rapporti umani, e quindi la costituzione della società, sarebbero impossibili.

2. “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altra, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”.

I l “Ri tt l di ità d ll ” N t tt i ltIn parole povere: “Rispetta la dignità delle persone”. Non trattare mai un altro individuo solo come un mezzo, uno strumento, per ottenere qualcos’altro!

3. “Agisci in modo che la volontà, in virtù della sua massima, possa considerare se g , , pstessa come universalmente legislatrice”.

Questa formulazione ripete e precisa la prima.

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ANALITICA

g p ( )

L’etica kantiana è stata definita formale: questo significa che essa non ci dice che cosa dobbiamo fare, ma in che modo dobbiamo fare tutto ciò che decidiamo di fare.

Questo perché Kant ritiene che, se la legge morale dicesse di fare delle cose ben precise e determinate, allora risulterebbe legata ad esse, perdendo la libertà e l’universalità.

L’imperativo etico non può essere costituito da una casistica di precetti, ma tocca ad ognuno, a seconda della situazione specifica, di tradurre in pratica la legge stessalegge stessa.

L’imperativo etico è caratterizzato anche dal fatto di essere completamente disinteressato. Se la legge morale ordinasse in vista di un fine o di un utile si limiterebbe ad una serie di imperativi ipotetici e comprometterebbe, in primo luogo, la propria libertà, in quanto non sarebbe più la volontà a dar legge a se medesima, ma gli oggetti a dar legge alla volontà, compromettendo così anche la suaoggetti a dar legge alla volontà, compromettendo così anche la sua incondizionatezza.

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ANALITICA

g p ( )

Il cuore della moralità kantiana consiste invece nel dovere-per-il-dovere. Secondo la Critica della ragion pratica noi non dobbiamo agire, per esempio, in vista della felicità, ma solo per il dovere. Da ciò il rigorismo kantiano, chevista della felicità, ma solo per il dovere. Da ciò il rigorismo kantiano, che esclude dal dominio dell’etica emozioni e sentimenti, che sviano la morale oppure, quando collaborano con essa, ne inquinano la purezza. Nell’etica di Kant il rispetto per la legge è l’unico sentimento ammesso.

Per Kant, poi, non basta che un’azione sia fatta esteriormente secondo la legge, ggovvero in modo conforme ad essa. La morale implica una partecipazione interiore, altrimenti rischia di scadere in atti di legalità ipocrita oppure in forme più o meno mascherate di autocompiacimento. Non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si fal intenzione con cui lo si fa.

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ANALITICA

g p ( )

ANALITICA

Nulla di esterno o di interno deve costringere l’uomo al rispetto della legge morale: così essa perderebbe di senso.

Non si può neppure far poggiare la legge morale su Dio, dicendo che occorre sottomettersi alla volontà divina a noi rivelata: anche questo minerebbe l’incondizionatezza della morale e la libertà dell’uomol incondizionatezza della morale e la libertà dell uomo.

La morale si base solo e soltanto su se stessa, ovvero sull’uomo e sulla sua dignità di essere razionale finito.

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DIALETTICA

g p ( )

Nella Critica della ragione pratica, in particolare nella Dialettica, Kant prende in considerazione quello che chiama SOMMO BENE.

Abbiamo detto che per Kant la felicità non può essere il movente del dovere, della legge morale, pure è insito in noi il bisogno di pensare che l’uomo che agisce secondo morale possa essere anche felice.agisce secondo morale possa essere anche felice.

Kant ritiene che, in questa nostra vita, dovere e felicità non possano essere davvero congiunti: troppi sono gli esempi contrari! L f di i t i l’i i t d ll i f li ità i iLo sforzo di essere virtuosi e l’inseguimento della propria felicità sono azioni spesso, anzi, per lo più opposte! Virtù e felicità costituiscono L’ANTINOMIA ETICA.

Se ne esce solo postulando un al di là nel quale ci che qui non accade possa realizzarsi! Questo presuppone altri due postulati: l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Non dimentichiamo anche il postulato già citato in precedenza: la libertà!

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DIALETTICA

g p ( )

Kant usa il termine postulato, traendolo dalla matematica classica: mentre gli assiomi sono cose autoevidenti, i postulati sono principi non dimostrabili, ma che vengono accolti per rendere possibili determinate entità o verità geometrichegeometriche.

La teoria dei postulati mette a capo a ciò che Kant definisce “PRIMATO DELLARAGIONE PRATICA”, consistente nella prevalenza dell’interesse pratico su quello , p p qteoretico, nel senso che la ragione ammette, in quanto pratica, proposizioni che non potrebbe ammettere nel suo uso teoretico. Tuttavia, pur aprendo uno squarcio sul metafisico, i postulati kantiani non possono valere come conoscenzeconoscenze.

Se i postulati fossero dimostrati la morale scivolerebbe immediatamente nell’eteronomia e sarebbe di nuovo la religione a fondare la morale. Kant invece gsostiene che sono le verità morali, seppure sotto forma di postulati, a fondare quelle della religione. Dio non sta all’inizio della vita morale, ma semmai alla fine, come suo possibile completamento.

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Immanuel Kant 1724 – 1804

13. LA CRITICA DEL GIUDIZIO Come si è visto, dalla Critica della ragion pura emergeva una visione della realtà in termini meccanicistici e deterministici: la natura dal punto di vista fenomenico è una struttura causale e necessaria, entro la quale non trova posto la libertà umana. Dalla Critica della ragion pratica invece emergeva una visione della realtà in termini parzialmente finalistici, in quanto si postulavano la libertà dell’uomo e l’esistenza di Dio. Da un lato campeggiava un mondo fenomenico e deterministico, quello conosciuto dalla scienza, dall’altro un mondo noumenico e finalistico postulato dall’etica. Nella Critica del Giudizio, Kant studia il sentimento così come nelle altre due critiche aveva analizzato la conoscenza e la morale. Mentre i filosofi antichi non riconoscevano dignità che alla conoscenza e all’azione, con Kant il sentimento diviene una “terza facoltà” e un campo di attività autonomo. Il sentimento di cui egli parla, però, va tecnicamente inteso come quella peculiare facoltà, mediante la quale l’uomo fa esperienza di quella finalità del reale che la prima Critica escludeva sul piano fenomenico e la seconda postulava a livello di noumeno. Sebbene il sentimento tenda a configurarsi il mondo fisico in termini di libertà e finalità, esso rappresenta solo, secondo Kant, un’esigenza umana, che, come tale, non ha valore conoscitivo. Per Kant i giudizi sentimentali costituiscono il campo dei cosiddetti giudizi riflettenti, in contrapposizione al campo dei giudizi determinanti. I giudizi riflettenti si limitano appunto a riflettere su di una natura già costituita mediante i giudizi determinanti e ad apprenderla attraverso le nostre esigenze di finalità e di armonia. Mentre i giudizi determinanti sono oggettivi e scientificamente validi, almeno per ciò che concerne il fenomeno, quelli riflettenti esprimono solo “bisogni” di ordine umano. La Critica del giudizio è un’analisi dei giudizi riflettenti. I due tipi fondamentali di giudizio riflettente sono quello estetico, che verte sulla bellezza, e quello teleologico, che riguarda il discorso sugli scopi della natura. Nel giudizio estetico sentiamo intuitivamente la finalità della natura (un bel paesaggio pare rispondere alla nostra esigenza di armonia estetica), mentre in quello teleologico la sentiamo concettualmente (riflettendo su uno scheletro diciamo che esso è stato prodotto al fine di sorreggere un corpo). Nel primo caso Kant parla di finalità “soggettiva” e nel secondo di finalità “oggettiva”. Questa terminologia non deve però ingannare: anche il giudizio teleologico esprime solo una esigenza umana, ossia un bisogno soggettivo della nostra mente. Nella Critica del giudizio il termine estetica assume nuovamente il significato di “dottrina della bellezza”. Kant si propone di chiarire la natura specifica del giudizio estetico. Dividendolo secondo la tavola delle categorie, Kant dà quattro definizioni di bellezza. 1) Secondo la qualità il bello è “l’oggetto di un piacere senza interesse”. Io contemplo una cosa, senza interessarmi se esista e quanto valga, quanto possa essere utile, ma solo per la sua bellezza, per il piacere che la sua rappresentazione fa sorgere in me. 2) Secondo la quantità il bello è “ciò che piace universalmente, senza concetto”. Per Kant il giudizio estetico si presenta con una tipica pretesa di universalità, in quanto esige che il sentimento di piacere provocato da una cosa bella sia da tutti condiviso, senza che il bello sia sottomesso a qualche concetto. Le cose che giudichiamo belle sono tali perché vissute spontaneamente come belle e non perché giudicate tali attraverso un ragionamento o una serie di concetti. 3) Secondo la relazione, la bellezza è “la forma della finalità di un oggetto, in quanto questa vi è

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percepita senza la rappresentazione di uno scopo” L’armonia degli oggetti belli, pur esprimendo un accordo fra le parti, quindi una finalità, non soggiace ad uno scopo determinato, concettualmente esprimibile. 4) Secondo la modalità il bello è “ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario”. È un altro modo per ribadire che il giudizio estetico è qualcosa su cui tutti debbono essere d’accordo, sebbene tale consonanza non sia esprimibile tramite concetti e regole logiche, ossia tramite giudizi scientifici (determinanti). Quando si dice che “un rosso tramonto sulle nevi è bello” si presuppone che tutti debbano essere d’accordo, senza poter esprimere o giustificare tale emozione intellettualmente. Per Kant l’educazione alla bellezza non può essere fatta con un “manuale tecnico”, ma solo con la ripetuta contemplazione delle cose belle. Come si può notare, la tesi più vistosa e qualificante dell’estetica kantiana è l’universalità del bello. Tale dottrina può apparire, soprattutto alla mentalità odierna, così abituata alla varietà dei gusti, paradossale. Val dunque la pena fermarsi sulla questione. Kant intende asserire che nel giudizio estetico la bellezza è vissuta come qualcosa che deve venir condivisa da tutti. “Chi dichiara bella una cosa, pretende che ognuno dia l’approvazione all’oggetto presente e debba dichiararlo bello allo stesso modo”. Bisogna tener presente che Kant distingue nettamente fra il campo del piacevole, che è ciò che piace ai sensi nella sensazione, e il campo del piacere estetico, che è il sentimento provocato dall’immagine o “forma” della cosa che diciamo bella. Il piacere è legato alle inclinazioni individuali e quindi non ha universalità e per esso vale la massima “de gustibus non est disputandum”. Infatti quando la bellezza è prevalentemente o esclusivamente un fatto di attrazione fisica, che mette in moto più i sensi che lo spirito, come capita ad esempio con le persone dell’altro sesso, il giudizio è inquinato nella sua purezza e quindi è soggettivo. Il piacere estetico invece è qualcosa di puro, che si concretizza nei giudizi estetici puri, scaturenti dalla sola contemplazione della “forma” di un oggetto. Solo questo tipo di giudizio ha la pretesa dell’universalità, non essendo soggetto a condizionamenti fisiologici o sensuali. Un esempio può essere quello riguardante alcuni fenomeni naturali (l’arcobaleno, il cielo stellato…), fenomeni che tutti riconoscono belli. Per ciò che riguarda il piacere, ognuno riconosce la sua soggettività, ma quando si dichiara una cosa bella, si pretende che essa lo sia per tutti, si parla della bellezza come se fosse una qualità della cosa. In effetti i giudizi estetici puri sono davvero pochi. Appurata l’universalità del bello, Kant si trova di fronte, per usare le sue stesse parole, al problema della “deduzione” dei giudizi estetici puri, cioè alla “legittimazione della pretesa dei giudizi di gusto alla validità universale”. Egli risolve questo problema della sua estetica sulla base della comune struttura della mente umana. Kant afferma che il giudizio estetico nasce da un “libero gioco”, ossia da uno spontaneo rapporto, tra l’immaginazione e l’intelletto, in virtù del quale l’immagine della cosa appare rispondente alle esigenze dell’intelletto, generando un senso di armonia. E poiché tale meccanismo è identico in tutti gli individui, ecco spiegato come mai certe esperienze di bellezza sono a tutti comuni. La bellezza dunque non sarebbe una proprietà oggettiva delle cose, ma il frutto di un incontro del nostro spirito con le cose. Kant dice che “se le belle forme sono in natura la bellezza è nell’uomo”, infatti perché queste forme si traducano in bellezza è indispensabile la mediazione della mente. E proprio per sottolineare come la bellezza esista solo in virtù dello spirito, Kant afferma significativamente che essa non è un “favore” che la natura fa a noi, bensì un “favore” che noi facciamo ad essa, innalzandola al livello della nostra umanità. Se la bellezza risiedesse negli oggetti, perderebbe la propria universalità e non sarebbe più libera, perché ci verrebbe imposta dagli oggetti. L’eteronomia estetica distruggerebbe l’universalità e la libertà del giudizio di gusto, esattamente come eteronomia etica distruggerebbe l’universalità e la libertà della legge morale. La bellezza, scrive Kant, è un “simbolo” della morale e dei suoi attributi.

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Dopo aver trattato del bello, Kant passa all’analisi del sublime che era stato oggetto di particolare attenzione da parte del pensiero settecentesco. Per sublime si intende, in generale, un valore estetico che, in tutte le varie sottospecie (tragico, orrido, terribile, solenne) è prodotto dalla percezione di qualcosa di smisurato o di incommensurabile. Kant distingue il sublime matematico da quello dinamico. Il primo nasce in presenza di qualcosa di smisuratamente grande, le montagne, il diametro terrestre, la via lattea… Di fronte a queste cose nasce in noi uno stato d’animo ambivalente, da una parte dispiacere perché la nostra immaginazione non ne abbraccia le grandezze, dall’altra piacere perché la nostra ragione sa concepire l’infinito al cui confronto le maggiori grandezze naturali sono piccole. Qualcosa di smisurato, ma di finito, ha il potere di risvegliare in noi l’idea dell’infinito. Scoprendoci potatori di tale idea, che attesta la nostra essenza di esseri superiori alla natura, ne proviamo una commozione profonda, che trasforma l’iniziale senso della nostra piccolezza fisica in una coscienza della nostra grandezza spirituale. Ci accorgiamo che il vero sublime non risiede tanto nell’oggetto che ci sta di fronte, quanto in noi stessi. Il sublime dinamico, invece, nasce in presenza di strapotenti forze naturali, come le nuvole di temporale che si ammassano fra lampi e tuoni, un uragano, un terremoto… Anche in queste situazioni (se siamo al riparo dal pericolo, diversamente saremmo terrorizzati) avvertiamo in principio un senso di piccolezza materiale nei confronti della natura, in seguito avvertiamo, pascalianamente, un vivo sentimento della nostra grandezza ideale, dovuta alla dignità di esseri umani pensanti e portatori della legge morale. Dunque l’angoscia trapassa in entusiasmo. Entrambi i tipi di sublime sono caratterizzati dalla stessa dialettica dispiacere-piacere. Mentre il bello, sgorgando dalla consonanza di immaginazione e intelletto, ci procura calma e serenità, il sublime nasce dalla rappresentazione dell’informe e si nutre del contrasto tra immaginazione sensibile e ragione, provocando fremito e commozione. Entrambe le cose sono però accomunate dal presupporre, come loro condizione, il soggetto e la mente, che si configura dunque come il trascendentale dell’esperienza estetica, cioè come la sua possibilità e il suo fondamento.

Il bello di cui Kant ha parlato sin qui è sostanzialmente il bello di natura. Distinto da questo è il bello artistico, che ha la medesima definizione del primo, ma non viene appreso nelle cose mediante il giudizio del gusto ma è prodotto dal “genio”, che è ragione che opera come natura, ossia spontaneamente e creativamente. Per Kant nella scienza vi sono “ingegni”, ma i “geni” ci sono solo nell’arte. Questo apre le porte alla celebrazione romantica del genio. Fra i due belli esiste anche profonda affinità: la natura è bella quando considerata esteticamente come opera d’arte, e questa è bella quando ha la spontaneità della bellezza naturale. - Come abbiamo visto la finalità del reale, oltre che essere percepita immediatamente nel giudizio estetico, può anche essere pensata mediante il giudizio teleologico, in virtù del concetto di “fine”. Secondo Kant l’unica visione scientifica del mondo è quella meccanicistica, basata sulla categoria di causa-effetto e sui giudizi determinanti. Egli però afferma che in noi vi è una tendenza irresistibile a pensare finalisticamente. Di fronte ad un organismo vivente non riusciamo a non pensare che vi sia uno scopo per cui le varie parti sono subordinate al tutto, come, ad esempio, la funzione dei vari organi in vista della conservazione dell’individuo. Di fronte all’ordine generale della natura non riusciamo a non pensare che esso sia frutto di una mente superiore. Il meccanicismo, pur essendo scientificamente funzionale, non annulla la necessità umana di pensare le cose come effetto di un progetto razionale, concepito come realizzazione di un disegno divino. In sede etica, analogamente, avvertiamo l’interiore esigenza di credere che la natura sia organizzata in modo tale da rendere possibile la libertà e la moralità, e sia tutta finalisticamente predisposta alla nostra specie, poiché senza l’uomo, essere ragionevole, la creazione sarebbe un inutile deserto. In Kant, consapevole del fatto che non è lecito

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trasformare i bisogni in realtà, il giudizio teleologico è comunque privo di valore dimostrativo, in quanto il suo assunto di partenza, la finalità, non è un dato verificabile, ma solo un nostro modo di vedere il reale. Noi non possiamo mai fare a meno di incontrarci con la considerazione teleologica, in quanto il meccanicismo, secondo Kant, non è in grado di offrire una spiegazione soddisfacente e totale dei fenomeni naturali, in particolare degli organismi. Egli arriva addirittura a scrivere che “non c’è nessuna ragione umana […] che possa sperare di comprendere secondo cause meccaniche la produzione sia pure di un solo filo d’erba”. Il finalismo, concretamente, opera come un “promemoria” che da un lato ci ricorda i limiti della visuale meccanicistica e dall’altro ci rammenta l’intrascendibilità dell’ordine fenomenico e scientifico. Infatti, sebbene Kant lasci intendere che il finalismo, escluso nel fenomeno, possa essere valido nella cosa in sé, si rifiuta, anche nella terza critica, di procedere oltre la scienza ed il fenomeno. Saranno invece i romantici che, pur muovendo da Kant, andranno oltre lui, con la pretesa di rompere le dighe del Criticismo e di fare irruzione nel mondo della cosa in sé, trasformando i “postulati” della morale, le “esigenze” del sentimento in altrettante realtà.

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IMMANUEL KANTCritica del giudizio (1790)

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IL SENTIMENTO

g ( )

Nella Critica del Giudizio, Kant studia quello che chiama “sentimento”, così come nelle altre due critiche aveva analizzato la “conoscenza” e la “morale”.

Anche il “sentimento” di cui egli parla va inteso non nel senso comune del termine, ma seconda una accezione “tecnica” ben precisa: si chiama “sentimento” quella peculiare facoltà umana mediante la quale l’uomo fa esperienza di quella “finalità” o “scopo” del mondo reale e delle cose che lo compongono.

Si tratta di quel concetto di finalità che la prima Critica escludeva sul piano fenomenico e che la seconda postulava a livello di noumeno.

Ciò che è “sentimento” tende a vedere e a descrivere il mondo fisico in termini di libertà e finalità. Kant sottolinea che quanto questa facoltà umana propone rappresenta solo una nostra esigenza, qualcosa che, in quanto tale, non ha valore conoscitivo in senso stretto (cioè non ha valore scientifico).valore conoscitivo in senso stretto (cioè non ha valore scientifico).

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g ( )

GIUDIZI RIFLETTENTI

I i di i tt i ti i d l ti t tit i il h K t hiI giudizi caratteristici del sentimento costituiscono il campo che Kant chiama dei GIUDIZI RIFLETTENTI, in contrapposizione al campo dei GIUDIZIDETERMINANTI, cioè le affermazioni scientifiche.

Mentre i giudizi determinanti sono oggettivi e scientificamente validi, almeno iò h il f lli ifl tt ti i l “bi i” diper ciò che concerne il fenomeno, quelli riflettenti esprimono solo “bisogni” di

ordine umano.

La Critica del giudizio è appunto un’analisi dei giudizi riflettenti.

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GIUDIZI RIFLETTENTI

g ( )

Ci sono due tipi fondamentali di giudizio riflettente: quello ESTETICO, che riguarda la bellezza, e quello TELEOLOGICO, che riguarda il discorso sugli scopi della natura.

Con il giudizio estetico, osserva Kant, sentiamo intuitivamente la finalità della naturanatura.Esempio: un bel paesaggio pare rispondere alla nostra esigenza di armonia estetica.

Nel giudizio teleologico tale finalità la sentiamo concettualmente.Esempio: riflettendo sulla struttura di uno scheletro, arriviamo a dire che esso ha il fine lo scopo di sorreggere un corpoha il fine, lo scopo, di sorreggere un corpo.

Nel primo caso Kant parla di finalità “soggettiva” e nel secondo di finalità “oggettiva”.

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IL GIUDIZIO ESTETICO

g ( )

Kant ci fornisce quattro definizioni di bellezza, una per ogni gruppo categoriale.

1) Secondo la qualità il bello è “l’oggetto di un piacere senza interesse”.

Io contemplo una cosa, per esempio un’opera d’arte, senza interessarmi a quanto valga, a se e quanto possa essere utile, ma solo per la sua bellezza, per il piacere che la sua rappresentazione fa sorgere in me.

2) Secondo la quantità il bello è “ciò che piace universalmente, senza concetto”.

Per Kant il giudizio estetico si presenta con una tipica pretesa di universalità, in quanto esige che il sentimento di piacere provocato da una cosa bella sia da tutti condiviso, senza che il bello sia sottomesso a qualche concetto. Le cose che giudichiamo belle sono tali perché vissute spontaneamente come belle e non perché giudicate tali attraverso un ragionamento o una serie di concettiperché giudicate tali attraverso un ragionamento o una serie di concetti.

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IL GIUDIZIO ESTETICO

g ( )

3) Secondo la relazione, la bellezza è “la forma della finalità di un oggetto, in t t i è it l t i di ”quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo”.

L’armonia degli oggetti belli, pur esprimendo un accordo fra le parti, quindi una finalità, non soggiace ad uno scopo determinato, concettualmente , gg p ,esprimibile.

4) S d l d lità i lti il b ll è “ iò h tt è4) Secondo la modalità, in ultimo, il bello è “ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario”.

È un altro modo per ribadire che il giudizio estetico è qualcosa su cui tutti p g qdebbono essere d’accordo, sebbene tale consonanza non sia esprimibile tramite concetti e regole logiche, ossia tramite giudizi scientifici (determinanti).

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g ( )

UNIVERSALITÀ

Come si può notare, la tesi più vistosa e qualificante dell’estetica kantiana è l’universalità del bello. Si tratta di una tesi piuttosto lontana dal nostro tipico soggettivismo estetico.gg

Bisogna tener presente che Kant distingue nettamente fra il campo del PIACEVOLE h è iò h i i i ll i d ll d l PIACEREPIACEVOLE, che è ciò che piace ai sensi nella sensazione, da quello del PIACEREESTETICO, che è il sentimento provocato dall’immagine o “forma” della cosa che diciamo bella. Il piacere è legato alle inclinazioni individuali e quindi non ha universalità.universalità.

Esempio di “piacevole”: la vista di una “bella donna” appartiene al piacevole e non al piacere estetico perché coinvolge ben precise inclinazioni individuali legate alla

litàsessualità.

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UNIVERSALITÀ

g ( )

Ma come è possibile che vi siano giudizi estetici universali?

Kant risolve questo problema della sua estetica sulla base della comune struttura della mente umana.Kant afferma che il giudizio estetico nasce da un “libero gioco”, ossia da uno spontaneo rapporto, tra l’immaginazione e l’intelletto, in virtù del quale l’immagine della cosa appare rispondente alle esigenze dell’intelletto, generando un senso di armonia.Visto che queste due facoltà – immaginazione e intelletto – sono strutturate nelVisto che queste due facoltà – immaginazione e intelletto – sono strutturate nel medesimo modo in ciascun essere umano, ne deriva l’esistenza di giudizi estetici universali.

La bellezza dunque non sarebbe una proprietà oggettiva delle cose, ma il frutto di un incontro del nostro spirito con le cose.

Kant dice che “se le belle forme sono in natura la bellezza è nell’uomo”Kant dice che se le belle forme sono in natura la bellezza è nell uomo .

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IL BELLO ARTISTICO

g ( )

Distinto dal bello presente in natura, c’è il bello artistico. Quest’ultimo non viene p ,appreso nelle cose mediante il giudizio del gusto, ma è prodotto dal “genio”, ovvero dalla ragione che opera come natura, spontaneamente e creativamente.

Kant ritiene che solo nel mondo dell’arte vi sia il “genio”, solo l’artista può essere tale, mentre riserva il termine “ingegno” all’ambito della filosofia o della scienza.

Fra il bello di natura e il bello nell’arte esiste, comunque, profonda affinità: la natura infatti è bella quando viene considerata esteticamente come operanatura, infatti, è bella quando viene considerata esteticamente come opera d’arte; per parte sua, l’opera d’arte è bella quando ha la spontaneità della bellezza naturale.

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IL SUBLIME

Dopo aver trattato del bello, Kant passa all’analisi del “sublime”. Per sublime si intende un valore estetico che, in tutte le varie sottospecie, è prodotto dalla percezione di qualcosa di smisurato o di incommensurabileprodotto dalla percezione di qualcosa di smisurato o di incommensurabile.

In particolare, il “sublime matematico” nasce in presenza di qualcosa di smisuratamente grande (le stelle, le galassie...), mentre il “sublime dinamico” di fronte alle più terribili manifestazioni della natura (uragani, terremoti...).

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IMMANUEL KANTCritica del giudizio (1790)

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IL SUBLIME

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IL SUBLIME

Di fronte a queste cose nasce in noi uno stato d’animo ambivalente: da unaDi fronte a queste cose nasce in noi uno stato d animo ambivalente: da una parte proviamo dispiacere perché la nostra immaginazione non abbraccia la grandezza e potenza di tali fenomeni, ma dall’altra piacere perché la nostra ragione sa concepire l’infinito, al cui confronto le maggiori grandezze naturali sono insignificanti...

Qualcosa di smisurato ma di finito ha il potere di risvegliare in noi l’ideaQualcosa di smisurato, ma di finito, ha il potere di risvegliare in noi l idea dell’infinito: scoprendoci potatori di tale idea, che attesta la nostra essenza di esseri superiori alla natura, ne proviamo una commozione profonda, che trasforma l’iniziale senso della nostra piccolezza fisica in una coscienza della nostra grandezza spirituale.

Ci accorgiamo che il vero sublime non risiede tanto nell’oggetto che ci sta di fronte, quanto in noi stessi.fronte, quanto in noi stessi.

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IMMANUEL KANTCritica del giudizio (1790)

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GIUDIZIO TELEOLOGICO

Come abbiamo visto la finalità del reale, oltre che essere percepita immediatamente nel giudizio estetico, può anche essere pensata mediante il giudizio teleologico, in virtù del concetto di “fine”.

Secondo Kant, l’unica visione scientifica del mondo è quella meccanicistica, basata sulla categoria di causa-effetto e sui giudizi determinanti Una visione dunque chesulla categoria di causa effetto e sui giudizi determinanti. Una visione, dunque, che esclude categoricamente il concetto di “fine”.

Kant però afferma che in noi vi è una tendenza irresistibile a pensare finalisticamente.

Di fronte alle cose del mondo, noi non riusciamo a non pensare che esseDi fronte alle cose del mondo, noi non riusciamo a non pensare che esse abbiano uno scopo!

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IMMANUEL KANTCritica del giudizio (1790)

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GIUDIZIO TELEOLOGICO

Noi non possiamo mai fare a meno di incontrarci con la considerazione teleologica, in quanto il meccanicismo, secondo Kant, non è in grado di offrire una spiegazione soddisfacente e totale dei fenomeni naturali, in particolare degli organismi.

Egli arriva addirittura a scrivere che “non c’è nessuna ragione umana [ ] che possaEgli arriva addirittura a scrivere che non c è nessuna ragione umana […] che possa sperare di comprendere secondo cause meccaniche la produzione sia pure di un solo filo d’erba”.

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Prof. Monti – Filosofia V – a.s. 2016-2017 – Introduzione all’Idealismo tedesco e J. G. Fichte

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Introduzione all'idealismo tedesco e

Johann Gottlieb Fichte 1762 – 1814

0. NOTE INTRODUTTIVE SULL'IDEALISMO TEDESCO L’Idealismo è stato spesso interpretato, anche dai suoi stessi esponenti, come la più autentica filosofia di quell'ampio movimento culturale che fu il Romanticismo. Questo non è del tutto esatto: Il Romanticismo ha elaborato una sua propria filosofia cui anche alcuni idealisti hanno attinto nell’ultima fase del loro pensiero (in particolare Fichte e Schelling). Non è corretto, altresì, sostenere che Idealismo e Illuminismo siano in netta antitesi, anche se così sono spesso stati presentati. Anzi: poco alla volta alcuni autori hanno portato l’illuminismo kantiano alle soglie dell’Idealismo. Certo, però, l’Idealismo portava con sé degli elementi innovativi e peculiari. Vediamone alcuni:

1. L’Idealismo si propone la ricerca di un principio filosofico fondativo del pensiero, che non rimanga in determinati limiti (come invece accade in Kant), ma che sia un principio assoluto determinato a reggere tutto il pensabile, non solo il pensiero razionale-scientifico, ma anche ciò che viene detto “irrazionale” o “metafisico”.

2. Non pago di tale allargamento, l’Idealismo immagina questo Principio non solo come regola di pensabilità, ma anche come produttivo del reale, di ciò che esiste e anche di ciò che potrebbe esistere. Esso non è, dunque, solo presupposto gnoseologico, ma ha carattere generativo rispetto alle cose. Vedremo che l’Io di Fichte, la Natura di Schelling, l’Idea o il Logos di Hegel sono visti non solo come presupposti formali-gnoseologici, ma proprio come matrici generative della realtà nella sua dimensione ontologica.

3. L’idealista non è tanto colui che trascura la realtà, come il senso comune della parola suggerisce, ma colui che accentua l’importanza del principio originario del reale cui abbiamo fatto cenno. Egli privilegia questa presenza universale rispetto alle determinazioni particolari e, anzi, ricerca il senso di queste ultime alla luce proprio del principio universale. L’idealista è spesso orientato a cogliere la presenza del Principio dentro le cose (che non sono trascurate, dunque). In effetti, uno dei nodi cruciali dell’Idealismo è quello del rapporto fra le cose determinate e il Principio che le produce: ciò che è particolare, finito, contingente, viene spiegato tramite ciò che è generale, infinito, essenziale.

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4. Idealista non è un filosofo necessariamente “astratto”, né è per forza “soggettivista”. L’idealismo è ben lungi dal privilegiare il soggetto e ancor meno l’individuo. Anche quando un idealista, come Fichte, parla di “io”, questo non va interpretato in senso esistenziale concreto. Si tratta di un Io generalissimo, universale, simile a quello kantiano (io penso, che però – attenzione! – è solo trascendentale-condizionale e non produttivo). In effetti nell’idealismo il “soggetto”, come noi lo intendiamo, ovvero come “singolo individuo”, tende ad avere un ruolo assai limitato. Semmai, per molti idealisti, il soggetto ha la prerogativa di possedere un pensiero in grado di pensare (perché congenere con il Principio) i modi e le leggi di produzione del mondo. Spesso, poi, gli idealisti per “soggetto” intendono proprio il principio, cioè soggetto come subjectum, come essenza sottostante e fondante. A volte “soggetto” indica anche il carattere dinamico e consapevole del Principio.

5. L’idealismo ha, infine, un carattere dinamico, che però si manifesta in termini diversi nei vari autori, un dinamismo evidente soprattutto nella forza del Principio che produce il reale. Un dinamismo, una forza, un processo evidenti nella produzione del reale da parte del Principio. C’è un movimento che caratterizza sia le vicende dell’oggettività naturale sia quelle della soggettività conoscente. Il tendere, lo streben romantico, è assai presente nel pensiero idealistico.

* * *

1. VITA DI FICHTE Fichte compì studi teologici a Jena e Lipsia, in Germania, fronteggiando una situazione di grave indigenza (i genitori erano contadini). Il pensiero di Kant lo entusiasmò e ispirò il suo primo scritto, Saggio di una critica di ogni rivelazione, pubblicato (per intercessione di Kant medesimo) anonimo nel 1792 gli diede precoce fama. Il governo prussiano, assai attento in tema di dottrina religiosa, censurò questo scritto e Fichte, indignato, rivendicò fermamente la libertà di pensiero: atteggiamento che divenne filo conduttore della sua vita e che lo avrebbe portato, per certi versi, a divenire una sorta di guida morale del suo paese, soprattutto in occasione dell’invasione napoleonica. Fondamento della dottrina della scienza, del 1794, è il titolo della sua opera più nota, opera che segna un netto distacco da Kant, con la svolta dal Criticismo all’Idealismo. Fichte non pubblicò durante la sua vita altri scritti teoretici, ma, nel corso degli anni, approfondì i temi qui proposti, soprattutto attraverso le sue lezioni. Sempre nel 1794 ottenne la cattedra di filosofia a Jena, dove sarà ispiratore di molti allievi entusiasti. Nel 1799, però, dopo aver pubblicato una Dottrina morale e una Dottrina del diritto, venne accusato di ateismo ed è costretto a lasciare la cattedra. Cominciò così il periodo berlinese del suo insegnamento, durante il quale andarono accentuandosi gli aspetti religiosi del suo pensiero, e qui continuò anche la sua opera di impegno politico e morale.

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Ricordiamo anche gli scritti Missione del dotto (1794) e Discorsi alla nazione tedesca (1808). I testi delle sue lezioni verranno pubblicati solo dopo la sua morte.

2. PENSIERO All’inizio, Fichte riteneva insuperabile la prospettiva non ontologica, ma esclusivamente gnoseologica di Kant. Oggetto della filosofia non è l’essere, ma il sapere (dell’essere) insieme alla esigenza fondazionale (cioè dare fondamenta solide al sapere) di Kant. Ben presto, però, iniziò la critica: Kant pare ancora legato a un ottica di carattere dogmatico, perché egli presuppone ma non giustifica in alcun modo la cosa in sé. Per Fichte infatti, ammettere che esiste qualcosa indipendentemente da ciò per cui esiste (la coscienza, ndr) è come ammettere qualcosa che si sottrae alla riduzione ad un unico principio capace di spiegare la realtà, qualcosa che si sottrae alla sistematizzazione.

Tale principio è, dice Fichte, (1) incondizionato: non può ammettere qualcosa di esterno che lo condizioni e determini. Dunque, in quanto incondizionato, esso non potrà essere una realtà data ma un atto, un’attività, perché altrimenti non potrebbe essere primo, assoluto, incondizionato.

In secondo luogo dovrà essere un atto che (2) agisce su un contenuto che gli è interno (se ciò su cui agisce fosse ad esso esterno, infatti, questo dovrebbe rimandare a un altro principio...). Tale principio, per Fichte, è esprimibile mediante la formula “l’io pone se stesso” la quale mostra, a suo avviso, il carattere incondizionato e condizionante del principio. Chiamare “io” la realtà prima e assoluta vuol dire coglierla al suo livello nascente, sorgivo, dove appare come soggettività produttrice e non come frutto di un processo. Questo io è capace di “porre” (cosa? Innanzitutto se stesso!), dunque ha valore assoluto. Questo “io” non ha nulla fuori di sé: tutto ciò che “ha di fronte” (pensate al mondo di fronte alla coscienza, così come all’oggetto di fronte al soggetto) non può essere una alterità, anche se tale appare. Tale (apparente) alterità è, non a caso, la stessa soggettività, l’“io”, fattosi contenuto (della propria azione), è la soggettività che prende sé medesima a contenuto della propria azione e della propria riflessione, sdoppiandosi come in uno specchio. Per provare a chiarire tale concezione, Fichte evoca il principio di identità. Il fatto che A è A, che A = A, risulta autoevidente, non ha bisogno di alcuna dimostrazione. Nulla costituisce il fondamento di tale principio, nulla è più chiaro o basilare o fondamentale di esso, sì da poterlo spiegare, giustificare. È dunque l’“io” stesso che – in se stesso, senza ricorrere a nulla di esterno – fonda la validità di tale principio: A = A appare all’io immediatamente chiaro, evidente, evidente in se stesso, senza bisogno di altro. “L’io pone se stesso” è come questo principio matematico. L’io pone se stesso (come oggetto) come identico a sé, identico al proprio operare (come soggetto). In questo primo principio di identità è implicito anche l’ulteriore e diverso principio della separazione e della opposizione.

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Se l’“io” pone se stesso, vuol dire che l’“io” pone se stesso come altro da sé. Esso, infatti, pone sé non come soggetto, ma come oggetto (quale è in quanto prodotto dall’attività dell’“io”, posto dall’attività dell’“io”). Dunque nel principio dell’“io” si deve pensare simultaneamente l’identico e il diverso, l’uguale e l’opposto: l’“io” in quanto puro atto e identità assoluta e l’“io” in quanto si oggettiva e si oppone a sé. Ne risulta una forma di opposizione nella quale l’“io” risulta sdoppiato. L’io, ponendosi, si pone come soggetto e come oggetto, in termini fichtiani come “io” e come “non io”. Sotto questo ultimo profilo l’io per Fichte si manifesta come natura, come inconscio, come tutto ciò che è presente alla coscienza sotto l’aspetto dell’esteriorità e dunque come mondo. Si ha così che l’esteriorità risulta una produzione dell’io stesso. La contraddizione tra le due posizioni dell’io deve però venir risolta: ciò accade con il terzo principio, il principio di ragione. In accordo con tale principio, il “non-io” è negazione non dell’“io” stesso, ma solo di una parte di lui. L’io assoluto, infinito e illimitato, viene a trovarsi limitato e in sé diviso dal suo atto autoponente, dunque, come già detto, oppone sé a se stesso: oppone sé come soggettività a sé come oggetto, oggetto che viene colto come limite e ostacolo all’estrinsecazione della soggettività stessa. - Il processo attraverso il quale l’“io”, ponendo se stesso, si autolimita è incondizionato. In quanto soggetto che si condiziona da sé, dunque, l’“io” è l’assoluto stesso: è quell’assoluto di cui la coscienza, che è finita, ha coscienza. La coscienza è coscienza (anche) dell’assoluto e tuttavia è finita. Qualcosa, che pure è prodotto dall’“io”, può porsi come limite, esterno ed altro rispetto all’“io” stesso. Ma come può l’“io” esibire alla coscienza come altro da sé ciò che invece le appartiene? Fichte si appella a una facoltà che chiama immaginazione produttiva alla quale attribuisce la produzione non cosciente di quanto sta davanti alla coscienza e che le sta di fronte come natura. Così Fichte giustifica il punto di vista comune, secondo il quale la natura è esterna alla coscienza, ma giustifica anche l’esigenza che l’io sia il produttore di tutto il reale, la natura: la produce in modo pratico (sul terreno dell’agire fattivo) e in modo libero (incondizionato).

3. LA DIMENSIONE ATTIVA E ETICA DI FICHTE Nelle successive elaborazioni dell’opera Fondamento della dottrina della scienza, Fichte si muoverà verso una filosofia della pratica, verso un pensiero tutto centrato sull’azione e sulla libertà. In effetti già l’“io” assoluto è libertà, perché agisce da sé incondizionatamente. L’io (personale, quello del singolo uomo) e la coscienza, dunque, sono costitutivamente chiamati alla libertà e con essa ad un continuo agire: un agire consistente non tanto nel compiere atti determinati quanto nel superare tutte le “posizioni” (inevitabilmente limitate) e ciò in direzione di quell’Assoluto nel quale la coscienza si riconosce (almeno come ideale regolativo). Questo continuo tentativo di oltrepassamento caratterizza in senso fortemente etico il pensiero di Fichte. L’agire della coscienza è agire morale, innanzitutto per il valore che tale agire ha in se stesso: lo sforzo di superare determinazioni finite e limitanti. In secondo luogo, la moralità consiste nel proposito della coscienza di sottomettere gli impulsi e le inclinazioni alla voce della ragione.

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L’infinito, come criterio orientativo di tale cimento, diviene l’ordine etico del mondo. Ordine non “positivo” e dato, ma come obiettivo da perseguire senza sosta, in un processo che riguarda innanzitutto il rapporto fra l’uomo e gli altri uomini. È un processo mai concluso e in via di continuo perfezionamento. In quanto ideale, l’infinito è lo scopo della moralità. In quanto reale, l’infinito è l’assoluto, è Dio stesso. Il pensiero di Fichte oscilla sempre tra questi due poli. Ciò spiega l’opposizione che si trova tra le prime edizioni della Dottrina della scienza e quelle più tarde e la continua insoddisfazione di Fichte della esposizione del suo pensiero. Dunque ora è attaccato come ateo (quando accentua il primo aspetto) ora si dice che il suo pensiero ha una svolta in senso religioso (quando accentua il secondo).

4. INTERPRETAZIONE DELL’ARTE E RIFLESSIONE SUL PERFEZIONAMENTO UMANO; MISSIONE DEL DOTTO

La perseveranza con cui Fichte rielaborò la Dottrina della scienza ha fatto sì che l’attenzione si concentrasse solo su questa opera, mettendo in ombra altri aspetti del suo pensiero. Ne Sullo spirito e la lettera della filosofia Fichte affronta il problema dell’arte. Lo spirito di un’opera è altra cosa dalla sua lettera: tale spirito è come ciò che anima e vivifica la materia, dunque l’artista rende l’umanità consapevole in modo eminente del principio animatore del tutto. Tale principio, che gli artisti colgono immediatamente e lo trasmettono, è oggetto di un sentimento che può essere rafforzato e affinato tramite un’opportuna educazione. Su tale compito deve riflettere la pedagogia, come si vede ne La missione del dotto e i Discorsi alla nazione tedesca. Bisogna che l’uomo si lasci pervadere dall’impulso potente che lo porta al perfezionamento continuo e alla realizzazione dell’ideale. L’uomo, rendendosi capace di tanto, pone la condizione della palingenesi, ovvero della futura rigenerazione dell’umanità. Questo non è un progetto utopico: Fichte è anzi acutamente consapevole dell’ineludibile contrasto fra bene e male, verità ed errore che caratterizza l’uomo. Tale consapevolezza, però, non produce rassegnazione, al contrario Fichte mostra grande fiducia nelle possibilità dell’uomo. Alla figura del dotto, in particolare, Fichte affida il compito filosofico-sociale più alto: quello di mostrare in prima persona i modi di una graduale realizzazione del “perfezionamento morale”. Il dotto deve guidare sia con il pensiero che con l’esempio concreto il processo di maturazione dell’uomo. Fine ultimo dell’uomo è proprio il perfezionamento morale (di sé). Nessuno può operare felicemente per il ravvedimento morale altrui se egli stesso non è un uomo retto. Non si insegna solo con la parola, ma in modo più efficace con l’esempio. Più di tutti è il dotto ad essere debitore del buon esempio.

5. LO STATO COMMERCIALE CHIUSO E L’IDEA DI NAZIONE Il perfezionamento dell’uomo può avere luogo solo a patto che esso collabori con gli altri uomini. Migliorarsi è un diritto: come Kant, Fichte ritiene che l’unico ordinamento politico radicalmente ingiusto è quello che rifiuta di potersi modificare. C’è però anche il dovere di recare il proprio contributo al bene di tutti.

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Nel suo tempo, e anche fra i suoi discepoli, era piuttosto diffusa la convinzione che la divisione del lavoro e la specializzazione delle funzioni fosse una assurda restrizione e una rinuncia alla pienezza umana. Fichte invece sostiene che solo sviluppando capacità specifiche il singolo può contribuire allo sviluppo umano. Nel Fondamento del diritto naturale (1796-1797) e nello Stato commerciale chiuso (1800), Fichte delinea il modello di uno Stato sociale fondato sul presupposto che il diritto all’attività significa più diritto al lavoro che diritto alla proprietà. Innanzitutto, nessuno deve vedere messa in pericolo la propria sussistenza dalla sfrenata concorrenza altrui, la quale produce sempre maggiore disuguaglianza. Per Fichte, se il diritto al lavoro non è garantito la società non è costituita: gli uomini si troverebbero così nello stato di natura, di guerra di tutti contro tutti. Per evitare questo deve esistere una comunità all’interno della quale un potere forte vigili sul comportamento di tutti, in modo da scoraggiare chi voglia allargare in modo illecito le proprie attività. La funzione “costrittiva” della legge, del resto, si applica solo sull’operare “esterno” dell’uomo, senza proporsi (né sarebbe possibile) di premere sulla sua coscienza. È questa la ragione per la quale il “diritto” viene da Fichte distinto nettamente dalla “morale”, la quale, come anche la religione, è di stretta pertinenza personale. Comunque, sotto la coazione dello Stato, gli uomini si abitueranno a vivere secondo giustizia, tanto che alla fine lo Stato medesimo diverrà superfluo. Il corpo sociale, così rigidamente strutturato, è composto da individui miranti ciascuno alla tutela dei propri diritti. L’altro modello che Fichte delinea è quello fondato sul principio-valore del “popolo” o della “nazione” ove a tenere insieme gli uomini non è il vincolo della legge, ma il senso di una continuità spirituale e di una missione. Nazione per eccellenza, anzi popolo originario, è per Fichte il popolo tedesco. Mentre le altre comunità dell’Europa hanno a suo avviso, nel corso dei secoli, perduto o corrotto i loro caratteri (ad esempio la lingua) i tedeschi sono rimasti identici a loro stessi. Lo spirito che li ha spinti a lottare prima contro l’Impero romano e poi contro il Papa deve animarli anche nella lotta contro Napoleone, emergendo così come il popolo egemone in Europa. Per queste dottrine, che sono esposte soprattutto nei Discorsi alla nazione tedesca (1808), Fichte è stato spesso dichiarato un antesignano del nazionalismo tedesco. I Discorsi vennero effettivamente letti in quello spirito, anche se molto tempo dopo la loro stesura. I contemporanei ne ebbero una ricezione differente. Fichte non pensò mai a un dominio politico della Germania sull’Europa, anche perché l’espansione dei tedeschi li avrebbe costretti alla mescolanza con altri popoli. Fichte, poi, riteneva che al di sopra delle divisioni fra i popoli vi fosse una sorta di “repubblica dei dotti” della quale dovrebbero entrare a far parte tutti gli uomini di cultura e di libera intelligenza. È, questo, un principio cosmopolitico di chiara matrice settecentesca.

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ADESIONE A KANT …

Il primo Fichte riteneva che la prospettiva emersa con Kant fosse, in ambito filosofico, insuperabile.

-1-Oggetto proprio della Filosofia non è l’Essere (quindi l’ontologia) ma il sapereOggetto proprio della Filosofia non è l’Essere (quindi l ontologia) ma il sapere (quindi la gnoseologia).

-2-La gnoseologia, inoltre, deve assumere una prospettiva di tipo fondazionale, proprio come in Kant.p pOccorre, quindi, scoprire e chiarire al meglio quali sono i caratteri capaci di garantire all’uomo un sapere solido e fecondo.

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Johann Gottlieb Fichte1762 - 1814

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… SUBITO SMENTITA!

Ben presto, Fichte si distacca da Kant e, anzi, lo critica aspramente!

-1-Kant presuppone ma non giustifica in alcun modo la cosa in sé il noumenoKant presuppone, ma non giustifica in alcun modo la cosa in sé, il noumeno.

-2-Ammettere l’esistenza di qualcosa – il noumeno, appunto – che si pone come del tutto indipendente da chi ha consapevolezza e sapere di tale esistenza – cioè l’uomo –p p psignifica accettare qualcosa che si sottrae alla riduzione ad un unico Principio capace di spiegare la realtà, qualcosa che si sottrae alla sistematizzazione.

Insomma: il noumeno di Kant non è accettabile perché si tratta di qualcosa diInsomma: il noumeno di Kant non è accettabile perché si tratta di qualcosa di radicalmente inspiegabile.

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IL PRINCIPIO

Proponiamo ora una breve descrizione di come Fichte provi a qualificare il Principio assoluto da lui chiamato “Io”.

1 Il Principio è INCONDIZIONATO

Cioè non c’è nulla che, esternamente ad esso, lo condizioni e determini. In Principio, in quanto tale, non ha nulla prima e fuori di sé, ma tutto deriva da lui: esso è “originario” e “originante”.

In quanto incondizionato, poi, il Principio non potrà essere una realtà data – una sorta di “oggetto”, diciamo – ma dovrà essere un atto, una attività.

Solo l’azione infatti – “in principio era l’azione” dirà anche Goethe – può essere radicalmente prima. Ogni “cosa”, infatti, richiede una qualche giustificazione che la preceda, dunque non può essere un vero Principio.

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IL PRINCIPIO

Proponiamo ora una breve descrizione di come Fichte provi a qualificare il Principio assoluto da lui chiamato “Io”.

2 Il Principio AGISCE SU UN CONTENUTO CHE GLI È INTERNO

Se, infatti, il Principio che è attività agisse su qualcosa che gli è ab origine esterno, allora non sarebbe più il Principio. Questo qualcosa di esterno, infatti, proprio perché esterno al Principio richiederebbeQuesto qualcosa di esterno, infatti, proprio perché esterno al Principio richiederebbe un altro principio giustificativo.

PRINCIPIO

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IL PRINCIPIO

In considerazione di quanto appena ricordato, Fichte ritiene che il Principio si possa esprimere efficacemente tramite la seguente “formula”:

L’IO PONE SE STESSO

Tale formulazione mostra tanto il carattere incondizionato quanto quelloTale formulazione mostra tanto il carattere incondizionato quanto quello condizionante del Principio.

Chiamare il Principio “Io” significa coglierlo non come frutto di un processo (ciò che vale per ogni “cosa”, ogni “oggetto”), ma come soggettività originariamente produttrice (e non prodotta!).

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IL PRINCIPIO

L’IO PONE SE STESSO

Questo “io” è appunto azione, attività: in effetti esso “pone”.

Pone che cosa?

Pone innanzitutto se stesso!

Dire questo significa che l’Io non ha nulla di fronte a sé come esterno a sé, ma tutto è q g ,interno ad esso e da esso “posto”.

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IL PRINCIPIO

L’IO PONE SE STESSOL IO PONE SE STESSO

Non esiste alterità alcuna: tutto ciò che il Principio compie, è sempre e comunque interno a se stesso.

In questo assoluto monismo, l’alterità è sempre e solo apparente. Ciò che chiamiamo “alterità” (l’altro da me) è, non a caso, la stessa soggettività, l’“io”, fattosi contenuto (della propria azione). È la soggettività che prende sé medesima afattosi contenuto (della propria azione). È la soggettività che prende sé medesima a contenuto della propria azione e della propria riflessione, sdoppiandosi come in uno specchio.

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CHIARIMENTO

Per provare a rendere più chiara questa sua concezione così astratta, Fichte evoca il PRINCIPIO DI IDENTITÀ.

A = AIl fatto che A è A, che A = A è autoevidente. Si tratta, cioè, di qualcosa che non abbisogna di alcuna dimostrazione, spiegazione, chiarimento, fondazione, ecc.

Nulla costituisce il fondamento di tale Principio: nulla infatti è più chiaro o basilare o fondamentale di esso, sì da poterlo spiegare o giustificare. Al contrario, è a partire da esso ogni cosa può essere spiegata, dimostrata, ecc.p g p p g

“L’io pone se stesso” di Fichte è come questo principio logico-matematico (almeno nell’opinione di Fichte medesimo!).

L’io pone se stesso (come oggetto) come identico a sé, identico al proprio operare(come soggetto).

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CHIARIMENTO

A = AIo pone se stesso

In quanto soggetto In quanto oggetto

Esempio: pensiamo a una persona che si ponga davanti a uno specchio. Accade proprio che l’io (in quanto soggetto che guarda l’immagine) pone se stesso (si pone come oggetto guardato) dicendo, appunto, “quello che vedo qui davanti (oggetto) sono io (soggetto)”sono io (soggetto) .

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Johann Gottlieb Fichte1762 - 1814

Prof. Monti – a.s. 2016-2017

CHIARIMENTO

Nel Principio di identità, Fichte ritiene di ritrovare implicitamente un secondo principio, il PRINCIPIO DELLA SEPARAZIONE E DELLA OPPOSIZIONE.

È vero che “l’io pone se stesso” come identico a sé, ma anche e necessariamente come altro da sé: in effetti l’io pone se stesso non come soggetto, ma come oggetto.

Dunque nel principio dell’“io” si deve pensare simultaneamente l’identico e il diverso, l’uguale e l’opposto: l’“io” in quanto puro atto e identità assoluta e l’“io” in quanto si oggettiva e si oppone a sé.

Nei termini di Fichte, l’io è allo stesso tempo “io” e “non io”, cioè soggetto e oggetto.Il “non io”, in particolare, è la natura: ciò che si manifesta alla coscienza di ciascuno come esteriorità.

Qui la contraddizione è palese, ma l’esempio dello specchio ci aiuta a comprenderne la necessità: di fronte alla mia immagine rifletta posso dire, e posso farlo allo stesso tempo, sia “quello sono io” sia “quella è solo la mia immagine”.

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Johann Gottlieb Fichte1762 - 1814

Prof. Monti – a.s. 2016-2017

CHIARIMENTO

La contraddizione appena denunciata viene però “risolta”: se ne occupa il PRINCIPIO DI RAGIONE.

In accordo con tale principio Fichte afferma che il “non-io” è negazione non dell’“io”In accordo con tale principio, Fichte afferma che il non io è negazione non dell io stesso, ma solo di una parte di lui.

L’io assoluto, infinito e illimitato, viene a trovarsi limitato e in sé diviso dal suo atto autoponente L’io oppone sé come soggettività a sé come oggetto oggetto che vieneautoponente. L io oppone sé come soggettività a sé come oggetto, oggetto che viene colto come limite e ostacolo all’estrinsecazione della soggettività stessa.

Il processo con il quale l’io si autolimita è di per sé incondizionato: in quanto soggetto che si condiziona da sé l’“io” è l’assoluto stesso: è quell’assoluto di cui la coscienza singola, che è finita, ha coscienza.

Esempio: una persona prende una decisione libera e consapevole dicendo a se stessa: “diventerò un avvocato!”. Questa medesima decisione, di per sé incondizionata (almeno idealmente!) limita e condiziona il soggetto che pure ne è l’artefice Ciò che la persona ha posto la sua decisione nell’atto stesso della sual artefice. Ciò che la persona ha posto, la sua decisione, nell atto stesso della sua effettiva realizzazione “limiterà”, “ostacolerà” il soggetto stesso (per diventare avvocato devo fare certe cose e devo escluderne altre!).

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Friedrich Wilhelm Schelling 1775 – 1854

1. VITA

Frequentò la celebre scuola teologica di Tubinga, dove conobbe Hegel e Holderlin, dei quali divenne amico, per poi passare alle università di Lipsia e Jena (qui, fra le altre cose, assistette alle lezioni di Fichte). Già a 23 anni, con l’aiuto di Goethe, Schelling è docente presso l’università di Jena e già nel 1800 pubblica la sua opera, Sistema dell’idealismo trascendentale, che attira l’interesse sia dei romantici che degli idealisti. Del 1809 è l’opera Ricerche filosofiche sulla libertà umana che segnò una svolta nel suo pensiero. Dagli anni Venti in poi tutti i suoi sforzi sono orientati al superamento di quel razionalismo metafisico che egli vede espresso nella figura di Hegel. Proprio ad Hegel, nel 1841, succede sulla cattedra di filosofia presso l’università di Berlino.

2. IL "FARSI SPIRITO" DELLA NATURA: LA FILOSOFIA DELLA NATURA Schelling prende le mosse da Fichte: occorre cercare nel Soggetto ciò che Kant aveva cercato nel mondo esterno, nella oggettualità della cose in sé. Anche per Schelling, quindi, la natura non è semplicemente una "cosa" (in sé o meno!), ma è il prodotto interno dello Spirito, dell'Assoluto. Essa però non sarebbe, come invece sosteneva Fichte, un limite che l’“io” impone a se stesso nel suo continuo processo di autosuperamento, la natura cioè non sarebbe solo l’altro dell’io, ciò che l’io oppone a sé, semplice non-io, ma l’“io” più segreto ed oscuro. La natura, insomma, non è solo posta dallo Spirito come altro da sé in opposizione a sé, ma è anche, per così dire, la sua “preistoria”. Essa, non a caso, è definita "Spirito visibile" e correlativamente lo Spirito è "natura invisibile". Accade, quindi, che è assoluta unità fra la natura, fuori di noi, e lo Spirito, dentro di noi. La natura, ad avviso del nostro, segue un percorso di sviluppo che la vede “farsi spirito” in maniera progressiva e secondo alcune “potenze”, o “forze”. In essa si riscontra quella medesima dinamica di azione di cui abbiamo detto in relazione a Fichte. Vediamo, seppure in termini del tutto schematici, i tre stadi di sviluppo della natura. Sia detto che ciascuno stadio è più ricco e complesso del precedente, sino a giungere all'uomo come culmine: in esso quella "intelligenza inconscia" che si manifesta sin dalla mera materia raggiunge la coscienza di sé, l'autocoscienza:

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In un primo stadio di sviluppo, la natura comprende tutto ciò che è inorganico: questo stadio ha come propria legge regolatrice la forza di gravità: qualcosa, dunque, di puramente meccanico e che si addice come norma alle “cose”. Attenzione però: già in questo primo stadio la materia altro non è se non “spirito irrigidito”, le cose sono “vita che dorme”. Il terzo stadio comprende, invece, tutto ciò che è organico, ciò che è governato da quelle forze che sono la sensibilità, l’eccitabilità, l’istinto a procreare. In particolare, una volta affacciatasi nel regno della dimensione spirituale conscia con l'uomo, in esso la natura troverà ancora tre potenze, analoghe alle precedenti, che sono quelle della conoscenza, dell’azione e dell’arte. Ecco che l'uomo - minuscolo essere nella immensità del cosmo - risulta essere niente di meno che il fine, lo scopo della Natura tutta! È solo nell'uomo, infatti, che lo Spirito di “risveglia” e diviene cosciente di sé. Il secondo stadio, invece, funziona come una specie di termine mediatore fra il primo e il terzo e vede il mondo inorganico elevarsi progressivamente fino a giungere alla presa di coscienza di sé. Le potenze connesse al secondo stadio sarebbero le leggi dell’elettromagnetismo. Seguire il percorso che abbiamo sin qui delineato è ciò che Schelling chiama “filosofia della natura” (Primo progetto di un sistema di filosofia della natura, 1799) che ha, appunto, lo scopo di riconoscere nella natura – cioè in tutto ciò che si manifesta nella forma dell’esteriorità, dell’oggettività – una manifestazione dello Spirito. “ Una perfetta teoria della natura sarebbe quella in forza della quale l’intera natura si dissolvesse in un’intelligenza. Gli inerti e inconsci prodotti della natura non sono che tentativi falliti della natura per riflettere se stessa, e la cosiddetta natura morta non è altro in generale che un’intelligenza immatura; perciò nei suoi fenomeni già traluce, ancora inconscio, il carattere intelligente. Il fine supremo, che è quello di diventare interamente oggetto a se stessa, la natura lo attinge soltanto con la suprema e ultima riflessione, che non è altro se non l’uomo, o, più generalmente, ciò che noi chiamiamo ragione, per mezzo di cui la natura ritorna per la prima volta completamente in se stessa, e diventa manifesto che la natura è originariamente identica a ciò che in noi viene riconosciuto come principio intelligente e cosciente. ” (F.W. Schelling Sistema dell’Idealismo trascendentale) Ancora: “ Porre come primo l'obiettivo [oggetto] e ricavare il subiettivo [soggetto] è, come abbiamo già accennato, il compito della filosofia della natura. Ora, se una filosofia trascendentale esiste, non le rimane altro che seguire il cammino opposto [...]. In tal modo la filosofia della Natura e quella dello Spirito si sono distinte secondo le due possibili direzioni della filosofia; se ogni filosofia deve riuscire, o a far nella Natura un'intelligenza, o dell'intelligenza una Natura, ne

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segue che la filosofia trascendentale a cui spetta quest'ultimo ufficio, sia l'altra necessaria scienza fondamentale della filosofia. ” (F.W. Schelling Sistema dell’Idealismo trascendentale)

3. IL CAMMINO INVERSO: CENNI SULLA FILOSOFIA TRASCENDENTALE Quella appena descritta è solo la prima via che la filosofia deve percorrere – quella che dall’oggetto (inerte) va al soggetto (spirituale): la seconda, che è la via trascendentale, compie il cammino inverso, dal soggetto all’oggetto (come Schelling dice nella seconda citazione sopra riportata). È la filosofia trascendentale che, partendo dal soggettivo come primo assoluto, ne deve derivare l’oggettivo. Il cammino "opposto" a quello della filosofia della natura! La via trascendentale parte dunque dall’Io. L’“io”, come mostrato da Fichte, ha in sé il suo fondamento: esso è, nella terminologia di Schelling, “atto puro”. L’atto puro è un sapere al quale non conducono concetti e mediazioni per via di ragionamento, ma è un intuire. Tale intuizione si sviluppa in tre fasi:

1. La coscienza considera il proprio oggetto come fuori di sé, infatti l’oggetto è dato alla coscienza innanzitutto dalla sensazione che proviene dall’esterno; io sono cosciente di ogni oggetto innanzitutto come cosa che mi sta di fronte, fuori di me, cosa che i miei sensi mi consentono di afferrare.

2. La coscienza riconosce se stessa nell’oggetto, riconoscimento che genera l’uomo come essere intelligente; a questo livello, infatti, l'oggetto non è semplicemente oggetto di sensazione (e nulla più), ma diventa oggetto di coscienza, interiorizzato: questo significa, per esempio, che alle cose comincio ad attribuire delle finalità, degli scopi, dei significati, ecc.

3. La coscienza concepisce se stessa come proprio oggetto: è l’autocoscienza piena. L'Assoluto, l'atto puro che si avvede di essere tale.

4. L'ASSOLUTO E IL PROBLEMA DELLA SCISSIONE E DELL'INFELICITÀ Filosofia della natura e filosofia trascendentale percorrono la medesima via nei due possibili versi, giungendo al riconoscimento che la Natura e lo Spirito sono così legati da essere uno. La Natura è lo Spirito nella forma dell’esteriorità, mentre lo Spirito è la Natura nella forma dell’interiorità: questa identità è l’Assoluto. Ancora: l’Assoluto è indifferenza dei contrari. In esso tutto ciò che dal particolare punto di vista della singola coscienza finita appare separato e distinto è uno e identico. Ma l’Assoluto si può cogliere in quanto tale?

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Schelling ritiene di sì, e pensa che questo sia il compito dell’arte. Nell’opera d’arte interno ed esterno, conscio ed inconscio, materia e forma, natura e spirito, oggettivo e soggettivo si rivelano per ciò che veramente sono: uno. Se ogni prodotto artistico è finito e determinato, esso mantiene sempre una possibilità di significazione e di interpretazione infinita. Ecco che "L'arte porta l'uomo intero, come egli è, alla conoscenza del sommo vero [cioè dell'Assoluto, ndr], e qui riposa l'eterna diversità e il portento dell'arte". Nell'arte l'Assoluto viene intuito (e non conosciuto intellettualmente!). Ricorderete come già Fichte assegnasse all'arte un grande valore conoscitivo - elemento, questo, caratteristico non solo dell'intero Idealismo tedesco, ma anche di tutto il Romanticismo - ma qui Schelling va certamente oltre, assegnando all'arte una posizione del tutto privilegiata: "[...] c'è da aspettarsi, per tirare ancora questa conclusione, che la filosofia, come è stata prodotta e nutrita dalla poesia nell'infanzia del sapere, e con essa tutte quelle scienze, che per mezzo suo vengono recate alla perfezione, una volta giunte alla loro pienezza, come altrettanti fiumi ritorneranno a quell'universale oceano della poesia, da cui erano uscite." Questa concezione di Schelling è quanto viene definito idealismo estetico. Con una tale concezione della intuizione artistica-estetica, Schelling concepisce l'Assoluto abbandonando idee di Fichte che vedevano nell'assoluto un "Soggetto", un "Io" e una "Autocoscienza", per intendere l'Assoluto (proprio come abbiamo detto poche righe sopra!) come identità originaria di Soggetto e Oggetto, Io e non-io, Conscio e Inconscio, coincidentia oppositorum (coincidenza degli opposti) appunto. La posizione di Kant è ormai del tutto rovesciata: con Schelling la filosofia diventa conoscenza assoluta delle cose come sono in sé e questo accade perché soggetto (conoscente) e oggetto (conosciuto) si risolvono nell'identità assoluta di cui sopra: "[...] appartiene alla natura della filosofia considerare le cose come sono in sé, ciò in quanto sono infinite, e sono l'Identità assoluta stessa". Ogni essere singolo - soggetto o oggetto - deriva dall'assoluto, ma senza distanziarsene o distaccarsene! Ogni essere singolo è la differenziazione qualitativa dell'Identità assoluta, ma rimane radicato in tale identità e, come cosa in sé, si identifica con essa. Come non è difficile immaginare, questa filosofia dell’identità approda ad un esito di carattere panteistico di tipo spinoziano. Come ricorderete, per Spinoza nulla si trova "al di fuori" dell'unica Sostanza divina: Schelling dice lo stesso affermando che "tutto ciò che è, in quanto è, è l'infinità stessa". Ora emerge, naturalmente, la grave difficoltà dello spiegare in che modo dall'identità assoluta e infinita nascano cose finite e fra loro differenziate. Detto diversamente: se la realtà è in se stessa così unitaria e armonica, tale da essere assoluta identità, come mai essa è così spesso sentita e vissuta come scissa, lacerata, divisa, e abitata da dolore e infelicità? Se, come Schelling di fatto sostiene, il mondo e tutte le cose del mondo sono l’esplicazione di Dio, l'Assoluto, al punto tale che ogni singola cosa in sé è tale Assoluto, come mai pare esserci una così drammatica frattura fra mondo e Dio medesimo? Schelling ammette che, se è vero che il mondo manifesta ed esprime Dio, che il mondo e le sue cose sono in Dio, pure esso se ne allontana.

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È un po’ il concetto di “caduta”, comune a molte tradizioni religiose. Schelling dice infatti che "l'origine del mondo sensibile può spiegarsi solamente con un distacco dall'Assoluto mediante un salto". Tutto questo, come vedremo ora, implica la questione della libertà.

5. IL PROBLEMA DELLA LIBERTÀ Ecco che a Schelling il quadro proposto ne il Sistema dell’Idealismo trascendentale comincia a parere incompleto. Nelle sue Ricerche filosofiche intorno alla libertà umana, del 1809, il nostro mette a tema proprio la libertà dell’uomo. Se Dio e mondo sono il medesimo, in che modo salvaguardare ciò che caratterizza l’essere umano, ovvero la sua libertà? La soluzione tradizionale era di carattere dualistico: da una parte c’è Dio, nella sua trascendente necessità, e dall’altra c’è il mondo della natura, con i suoi innumerevoli fenomeni contingenti e, in quanto tali, liberi. In questo modo però succede che la libertà esiste a patto di mettere Dio, cioè l’Assoluto, fra parentesi, staccandolo nettamente dalle cose del mondo. Il problema è che di fronte a Dio l’uomo non sarebbe davvero libero: se lo fosse Dio non potrebbe essere ciò che è, cioè unità e identità originaria in cui tutto è pienamente compreso. Se le cose stanno così, allora la libertà è solo apparenza. Schelling prova a risolvere questo problema e, nel farlo, modifica notevolmente alcune sue posizioni appena descritte, in particolare quella sull'Assoluto come Identità. Dio, l’Assoluto, in origine sceglie liberamente il bene e rifiuta il male: questo significa che il male, in qualche modo, esiste e rimane una possibilità sempre aperta. Questo presuppone l'accettazione, da parte di Schelling, di una idea del tutto esclusa tanto da Spinoza quanto da Fichte. Dio è una "persona" (solo così, infatti, ha senso parlare di "scelta"!). Inoltre, se Dio "sceglie" fra Bene e Male, è chiaro che ora Schelling vede Bene e Male non più come identità assoluta (come invece riteneva precedentemente!), ma come elementi separati e in lotta dentro l'Assoluto stesso! Anche l’uomo, proprio come Dio, è chiamato a compiere la medesima scelta, ma egli ha scelto (liberamente!) il Male. Schelling sta, con una concezione assai audace, sostenendo che Dio e l’uomo sono stretti in un comune e ineludibile vincolo, quello della scelta originaria. Se il Male c'è nel mondo, è perché c'è già in Dio! Dio però sceglie il Bene e solo così “si fa” Dio: ecco che egli non può essere inteso come principio immutabile (dunque oggettivistico!), ma deve essere piuttosto visto come una persona (soggetto): egli è in quanto agisce e diviene! Nel suo agire Dio è legato all’uomo: egli è dunque coinvolto totalmente nella storia umana. Se è così, è chiaro che questa storia non è decisa una volta per sempre, non è necessaria, ma Dio e l’uomo ne portano, insieme, la responsabilità! Questa responsabilità è la libertà: scegliere il Bene oppure il Male. Appare molto chiaro che, in questa ultima fase del suo pensiero, Schelling ha di molto modificato la sua concezione dell'Assoluto.

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6. CONTRO HEGEL L’ultimo Schelling, come abbiamo detto, si pone in termini critici di fronte al razionalismo metafisico che trova la sua massima realizzazione, come vedremo, in Hegel. A questo riguardo, Schelling distingue ciò che chiama “filosofia negativa” da ciò che chiama “filosofia positiva”. La prima è quella che determina il reale solo nella sua negatività, ovvero nel suo semplice poter essere, nelle condizioni razionali-formali che lo rendono possibile. Insomma: la filosofia negativa stabilisce che una cosa è possibile (o, eventualmente, impossibile), ma non dice nulla sulla effettiva realtà di quella cosa! È come, per fare un esempio banale, se io dicessi: "ho la possibilità di acquistare casa, perché ho abbastanza soldi per pagarla": questo NON significa, di per sé, che io davvero comprerò casa! La filosofia positiva, invece, riconosce il reale nella sua positività, cioè nel suo essere stato posto da un atto libero che, in quanto tale, non è mai deducibile dalla pura ragione. Il punto è questo: entrambi i percorsi devono essere seguiti, ma la pretesa hegeliana di dedurre il reale, ciò che di fatto esiste, dalla ragione, cioè dalle sue condizioni di possibilità, è sbagliato. Spiegare in termini perfettamente razionali il reale, come Hegel cerca di fare, non basta infatti a giustificarne l’esistenza. Anche se tutto fosse perfettamente spiegato, almeno una cosa resterebbe inspiegata e inspiegabile, che il reale, il mondo, effettivamente c’è! Insomma: non basta che una cosa sia razionalmente possibile affinché quella cosa esista! Se il reale, semplicemente, si dà, c’è, allora esso non si può dedurre a priori tramite principi razionali e condizioni di possibilità: esso può soltanto essere spiegato, a posteriori, seguendo il dipanarsi del suo sviluppo.