05 dispensa trasmissione del moto

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO 55 CAPITOLO 4 - TRASMISSIONE DEL MOTO 4.1. GENERALITÀ Le macchine trasmettitrici, o meccanismi, sono, per definizione, quelle macchine elementari che hanno la funzione di trasmettere energia meccanica, modificando i fattori del lavoro, cioè forza e spostamento oppure coppia e angolo. I meccanismi possono essere definiti secondo molti punti di vista. In questa sede si propone il seguente raggruppamento, che tiene conto essenzialmente delle funzioni cui sono destinati: 1) meccanismi atti al collegamento di due alberi, quindi giunti ed innesti; 2) meccanismi atti a trasmettere forze e velocità con rapporto di trasmissione costante: ruote di frizione, ruote dentate, cinghie (lisce, trapezoidali e dentate) e relative pulegge variamente sagomate o catene e relative ruote dentate; 3) meccanismi atti a trasmettere forze e velocità con possibilità di variare in modo continuo il rapporto di trasmissione, detti variatori continui di velocità; 4) meccanismi atti a trasmettere forze e velocità con legge del moto varia, cioè sistemi articolati, camme e relativi cedenti, meccanismi a moto intermittente e meccanismi unidirezionali; 5) meccanismi atti alla frenatura, cioè freni con tamburo (e ceppi o nastro) o con disco. 6) Nel presente corso si tratterà unicamente dei primi due tipi di meccanismi e dei sistemi di frenatura. 4.2. GIUNTI Quando si deve trasmettere il moto tra due alberi rotanti collegati l’uno al gruppo motore e l’altro ad un gruppo utilizzatore o ad altri componenti meccanici quali rotismi, pulegge, ecc., si ricorre a due tipi di collegamenti, a seconda che si richieda o meno la possibilità di interrompere in qualunque istante il collegamento medesimo. Si distinguono in particolare: giunti fissi, se l’accoppiamento è permanente ed invariabile; giunti mobili, se l’accoppiamento è permanente ma non invariabile; giunti scioglibili, o innesti, se l’accoppiamento è temporaneo.

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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CAPITOLO 4 - TRASMISSIONE DEL MOTO

4.1. GENERALITÀ

Le macchine trasmettitrici, o meccanismi, sono, per definizione, quelle macchine

elementari che hanno la funzione di trasmettere energia meccanica, modificando i fattori del

lavoro, cioè forza e spostamento oppure coppia e angolo. I meccanismi possono essere definiti

secondo molti punti di vista. In questa sede si propone il seguente raggruppamento, che tiene

conto essenzialmente delle funzioni cui sono destinati:

1) meccanismi atti al collegamento di due alberi, quindi giunti ed innesti;

2) meccanismi atti a trasmettere forze e velocità con rapporto di trasmissione costante: ruote

di frizione, ruote dentate, cinghie (lisce, trapezoidali e dentate) e relative pulegge

variamente sagomate o catene e relative ruote dentate;

3) meccanismi atti a trasmettere forze e velocità con possibilità di variare in modo continuo

il rapporto di trasmissione, detti variatori continui di velocità;

4) meccanismi atti a trasmettere forze e velocità con legge del moto varia, cioè sistemi

articolati, camme e relativi cedenti, meccanismi a moto intermittente e meccanismi

unidirezionali;

5) meccanismi atti alla frenatura, cioè freni con tamburo (e ceppi o nastro) o con disco.

6) Nel presente corso si tratterà unicamente dei primi due tipi di meccanismi e dei sistemi di

frenatura.

4.2. GIUNTI

Quando si deve trasmettere il moto tra due alberi rotanti collegati l’uno al gruppo

motore e l’altro ad un gruppo utilizzatore o ad altri componenti meccanici quali rotismi,

pulegge, ecc., si ricorre a due tipi di collegamenti, a seconda che si richieda o meno la

possibilità di interrompere in qualunque istante il collegamento medesimo. Si distinguono in

particolare:

• giunti fissi, se l’accoppiamento è permanente ed invariabile;

• giunti mobili, se l’accoppiamento è permanente ma non invariabile;

• giunti scioglibili, o innesti, se l’accoppiamento è temporaneo.

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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4.2.1. Giunti fissi

Possono essere raggruppati in alcune categorie caratterizzate dalla posizione relativa

degli assi tra i quali viene trasmesso il moto oppure dal tipo della realizzazione costruttiva.

Secondo il primo criterio possono essere classificati in:

a) giunti che collegano assi tra loro coincidenti;

b) giunti che collegano assi tra loro incidenti;

c) giunti che collegano assi paralleli.

Riguardo al tipo di costruzione, possono essere invece suddivisi in:

a) giunti rigidi;

b) giunti flessibili.

I primi assicurano un accoppiamento rigido dei due alberi da collegare, evitando ogni

spostamento relativo sia assiale, che radiale o angolare, mentre i secondi consentono tali

spostamenti, seppure di piccola entità. Un esempio di giunto rigido è quello a bussola

inchiavettata (figura 4.2.1.1). Fra i suoi vantaggi sono la semplicità, il basso costo, l’elevata

resistenza, le ampie tolleranze nel posizionamento assiale relativo dei due alberi e la

possibilità di usare la bussola come puleggia per un eventuale azionamento a cinghia. Fra gli

svantaggi, il fatto che l’allineamento dei due alberi è difficile se essi non sono dello stesso

diametro, la scarsa equilibratura, l’impossibilità di disaccoppiare uno dei due alberi se l’altro

non può accogliere l’intera bussola, le difficoltà di montaggio e smontaggio legate alla

presenza delle chiavette. Altro esempio è il giunto flangiato ordinario (figura 4.2.1.2), in cui il

moto è trasmesso da una flangia all’altra per attrito. Per aumentare la coppia trasmissibile può

essere previsto un collegamento con chiavetta. Fra i vantaggi sono l’elevata robustezza e

l’ingombro assiale limitato, fra gli svantaggi la necessità di produrre uno spostamento assiale

per effettuare lo smontaggio di uno degli alberi.

Figura 4.2.1.1: Giunto a bussola inchiavettata Figura 4.2.1.2: Giunto flangiato ordinario

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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Un esempio di giunto flessibile è quello elastico (figura 4.2.1.3), in cui gli assi sono

collegati mediante un elemento di gomma: quando il giunto trasmette una coppia, l’elemento

di gomma, sollecitato a torsione, si deforma, dando luogo ad una rotazione relativa tra i due

alberi proporzionale alla coppia trasmessa.

Figura 4.2.1.3: Giunto elastico di gomma

4.2.2. Giunti mobili

I giunti mobili assicurano un collegamento permanente, ma non invariabile, fra i due

alberi da collegare. Fra questi sono da menzionare i meccanismi limitatori di coppia o di

sovraccarico, che permettono la trasmissione di un movimento rotatorio fra due alberi, purché

la coppia resistente non superi un determinato valore. Sono in generale adottati quando è

possibile che l’albero condotto venga improvvisamente a bloccarsi. Per piccoli carichi si

possono usare giunti con sfere caricate da molle (figura 4.2.2.1), realizzati in modo che la

molla sia vinta solo per l’intervallo di durata del sovraccarico. I giunti con superfici d’attrito

trasmettono la coppia per effetto dell’attrito radente esistente fra le superfici combacianti

compresse da molle (figure 4.2.2.2 e 4.2.2.3). ali superfici sono ricoperte da guarnizioni dello

stesso tipo di quelle utilizzate nei freni. In presenza di sovraccarico, le superfici d’attrito

slittano l’una rispetto all’altra: la differenza fra la potenza e la potenza in uscita è dissipata

sotto forma di calore. La condizione più gravosa si ha quando l’albero di uscita è arrestato

totalmente. In condizioni di strisciamento, la temperatura sale rapidamente e le superfici di

attrito si distruggono, a meno che non sia predisposto un dispositivo di allarme o di disinnesto

automatico.

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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Figura 4.2.2.1: Giunto limi-tatore di coppia con sfera emolla

Figura 4.2.2.2: Giunto limi-tatore di coppia con superficid’attrito e molle a tazza

Figura 4.2.2.3: Giunto limi-tatore di coppia con superficid’attrito e molle elicoidali

Quando si deve trasmettere una rilevante potenza fra due alberi aventi assi concorrenti,

vengono usati i giunti universali. Fra questi, per le sue numerose applicazioni, occorre

menzionare il giunto di Cardano. In esso l’albero motore e l’albero condotto sono solidali a

due forcelle poste in piani tra loro perpendicolari e infulcrate folli su una crocetta costituita da

due perni pure ortogonali (figura 4.2.2.4). La figura 4.2.2.5 mostra la posizione del giunto ad

un dato istante e quella assunta dopo una rotazione di 90°.

Figura 4.2.2.4: Giunto diCardano

Figura 4.2.2.5: Posizione del giunto in un istante generico(a) e dopo una rotazione di 90° (b)

Un inconveniente di tale giunto è quello di produrre sull’albero condotto variazioni di

velocità, dipendenti dall’ampiezza dell’angolo α formato dai due assi, di frequenza doppia

rispetto a quella di rotazione dell’asse motore, come rappresentato in figura 4.2.2.6, ove ϑ

indica l’angolo di rotazione di tale asse. Si definisce irregolarità periodica ε dell’albero

condotto il rapporto fra la differenza delle velocità angolari massima e minima e la velocità

angolare media: med

minmax

2

22

ω

ω−ω=ε . Se la velocità angolare ω1 dell’albero motore è costante, è

ω2med = ω1.

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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ϑ2ππ

ω2

α = 10° α = 20°

α = 30°ω2max

ω2min

ω2med

Figura 4.2.2.6: Oscillazioni di velocità dell’albero condotto nel giunto di Cardano

Quando si vuole che le velocità dei due alberi siano uguali in ogni istante (condizione di

omocinetismo), si ricorre al doppio giunto cardanico, realizzato interponendo tra l’albero

conduttore e quello condotto un albero intermedio collegato ai due precedenti per mezzo di

due giunti cardanici identici. L’omocinetismo, se i tre alberi sono complanari, si ottiene

quando gli angoli che l’asse intermedio forma con gli altri due assi sono uguali e quando le

forcelle dell’asse intermedio sono complanari. Le due possibili realizzazioni sono riportate

nelle figure 4.2.2.7 e 4.2.2.8. Dal punto di vista dell’utilizzazione è comunque opportuno che

l’angolo del giunto non superi i 15°; angoli superiori (fino a 45°) sono possibili per comandi a

mano o per funzionamenti a bassissime velocità.

Figura 4.2.2.7: Doppio giunto di Cardano Figura 4.2.2.8: Doppio giunto di Cardano

4.2.3. Giunti scioglibili

I giunti scioglibili, o innesti, hanno lo scopo di trasmettere il moto rotatorio fra due

alberi coassiali, con possibilità di poterlo interrompere in qualsiasi istante. Possono essere di

molti tipi: meccanici, idraulici, elettromagnetici.

Fra gli innesti meccanici sono da ricordare quelli a denti e quelli ad attrito. Nell’ambito

dei primi si distinguono innesti a denti frontali rettangolari (figura 4.2.3.1), a spirale (figura

4.2.3.2) e a denti di sega (figura 4.2.3.3).

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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Figura 4.2.3.1: Innesto a dentifrontali rettangolari

Figura 4.2.3.2: Innesto aspirale

Figura 4.2.3.3: Innesto a dentidi sega

Gli innesti a denti frontali rettangolari sono i più semplici e possono trasmettere coppia

in entrambi i versi di rotazione, in teoria senza dar luogo a spinte assiali, ma in pratica, dopo

un certo numero di innesti, dette spinte insorgono per l’usura. I profili a spirale o a denti di

sega permettono un solo verso di trasmissione di coppia, ma consentono l’innesto anche in

presenza di velocità, seppur modeste.

Gli innesti ad attrito, detti comunemente frizioni, sfruttano il fenomeno dell’attrito

esistente tra due superfici a contatto per poter trasmettere una certa coppia fra due elementi

rotanti a queste collegati, e possono pertanto essere utilizzati per operazioni di innesto che

debbano avvenire anche ad alte velocità ed in presenza di carichi notevoli. Quando infatti i

due elementi della frizione aventi diversa velocità angolare vengono portati a contatto, si

origina nell’accoppiamento una coppia di attrito, funzione sia della forza con cui i due

elementi vengono premuti l’uno contro l’altro, sia della geometria della frizione stessa, sia,

infine, del valore del coefficiente d’attrito relativo alla coppia di materiali a contatto. Una

volta che i due elementi della frizione hanno raggiunto la stessa velocità angolare, si passa da

una fase di trasmissione della coppia per attrito dovuta allo strisciamento ad una fase di

trasmissione della coppia per aderenza fra le due superfici, e la coppia trasmessa in queste

condizioni può assumere qualsiasi valore, purché entro il limite massimo stabilito dalle

condizioni di aderenza.

I più semplici sono le frizioni assiali a disco (figura 4.2.3.4), schematizzabili mediante

due soli dischi solidali ai due alberi da collegare, uno dei quali porta del materiale di attrito

(coefficiente di aderenza compreso fra 0.1 e 0.4). Serrando l’uno contro l’altro i due dischi

con l’ausilio di una forza assiale, si ottiene, grazie alla presenza dell’attrito esistente fra le due

superfici a contatto, una coppia all’interno della frizione.

Quando si debbano trasmettere coppie elevate, si realizzano frizioni assiali multidisco

(figura 4.2.3.5), ove i vari dischi sono alternativamente collegati con l’albero motore e

l’albero condotto. A frizione inserita, i dischi vengono tutti premuti uno contro l’altro con la

stessa forza assiale e la coppia trasmessa aumenta proporzionalmente al numero di dischi.

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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Figura 4.2.3.4: Frizione assiale monodisco Figura 4.2.3.5: Frizione assiale multidisco

Il contatto può avvenire a secco o in un bagno d’olio. A prima vista il funzionamento di

un innesto a frizione in bagno d’olio può sembrare un controsenso, in quanto il fattore

d’attrito risulta diminuito dalla presenza del lubrificante. In realtà spesso la vicinanza di altri

organi meccanici lubrificati rende difficile garantire un funzionamento a secco dell’innesto,

mentre una lubrificazione completa offre ampie possibilità di smaltimento del calore ed una

maggiore progressività dell’innesto.

Gli innesti idraulici utilizzano la presenza di un fluido per trasmettere una coppia fra

due alberi coassiali. Sono essenzialmente costituiti da una pompa affacciata ad una turbina: la

pompa, ruotando, accelera il fluido e lo cede alla turbina, ove viene nuovamente rallentato: la

variazione di energia cinetica del fluido è pari all’energia meccanica fornita dalla turbina. La

coppia trasmessa dipende dalla portata del fluido e dalla velocità relativa esistente tra pompa e

turbina.

Gli innesti elettromagnetici possono anche loro essere di diversi tipi: a isteresi, adatti

per trasmettere piccole coppie (inferiori ai 10 N·m), a correnti parassite, utilizzati soprattutto

come regolatori di velocità, in quanto presentano sempre una differenza di velocità fra gli

alberi motore e condotto, e a particelle magnetiche, utilizzati con carichi caratterizzati da

elevati momenti d’inerzia e costituiti da due dischi magnetici tra i quali è interposta una

miscela lubrificante contenente delle particelle elettromagnetiche: variando la corrente di

eccitazione dei due dischi magnetici, si varia il valore del coefficiente d’attrito della miscela,

riuscendo a creare coppie resistenti fino ad un massimo dipendente dall’intensità della

corrente eccitatrice e dalle dimensioni geometriche dell’innesto.

4.3. LA TRASMISSIONE MEDIANTE FLESSIBILI

L’adozione di flessibili (funi, cinghie, catene) in campo meccanico risulta necessaria

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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quando si vuole trasmettere il moto tra assi situati a distanza relativamente grande. In tal caso,

infatti, la presenza dei flessibili sostituisce gruppi di ingranaggi, alberi e cuscinetti, per cui,

riducendo notevolmente il numero e la complessità dei componenti della trasmissione, ne

riduce in genere di molto il costo. Inoltre, poiché i flessibili sono organi elastici di solito di

notevole lunghezza, possono servire per smorzare eventuali urti e vibrazioni. Tuttavia il loro

uso è normalmente limitato ai casi in cui le potenze da trasmettere non sono molto grandi ed a

quelli in cui non si richiede un’assoluta costanza del rapporto di trasmissione tra le velocità

angolari dei due alberi.

4.3.1. Cinghie

Le cinghie vengono normalmente usate per trasmettere il moto tra assi paralleli posti ad

una certa distanza. Si distinguono in cinghie piane, trapezoidali, dentate e speciali, queste

ultime realizzate per fini particolari.

La trasmissione di potenza sfrutta l’attrito che si sviluppa fra la puleggia e la cinghia

quando questa è soggetta a una conveniente tensione. La puleggia consiste in un corpo

cilindrico costituito da un mozzo centrale che serve al calettamento sull’albero, una corona

esterna a profilo leggermente convesso sulla quale si avvolge la cinghia e una serie di razze

che collegano la corona stessa al mozzo.

La puleggia alla quale viene applicato il momento motore si dice conduttrice o motrice,

quella cui viene applicato il momento resistente, condotta. Durante il moto i due rami della

cinghia assumono tensioni diverse: dicesi conduttore il ramo che si muove dalla puleggia

condotta alla conduttrice, condotto il ramo che si muove dalla puleggia conduttrice alla

condotta. Il ramo conduttore è soggetto a una tensione maggiore del ramo condotto.

Lo schema di funzionamento è rappresentato in figura 4.3.1.1, ove sono indicati i raggi

r1 e r2 delle due pulegge e le rispettive velocità angolari ω1 e ω2.

In assenza di slittamento, essendo uguale la velocità di traslazione della cinghia per

entrambe le pulegge, si può scrivere la relazione:

v r r= =ω ω1 1 2 2

Da questa si ricava il rapporto di trasmissione, definito in generale come rapporto fra la

velocità angolare del cedente e quella del movente:

τωω

= =2

1

1

2

r

r

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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ω1

ω2

r2r1

ramo conduttore

ramo condotto

Figura 4.3.1.1: Trasmissione mediante cinghie e pulegge

È bene, per una migliore e più sicura utilizzazione del sistema, che il ramo conduttore

sia sistemato inferiormente e il ramo condotto superiormente. Inoltre, è anche utile che nella

puleggia a raggio più piccolo l’avvolgimento della cinghia non sia mai inferiore a un terzo

della circonferenza. Ciò si ottiene adottando rapporti di trasmissione non inferiori a 1/8 e

facendo si che la distanza fra i due assi sia almeno pari a 2,5 volte il diametro della puleggia

maggiore. In casi eccezionali si può ricorrere a rapporti di trasmissione inferiori sistemando le

cinghie incrociate (con tale sistema si aumenta infatti sensibilmente l’avvolgimento della

cinghia sulla puleggia, figura4.3.1.2).

ω1

ω2

Figura 4.3.1.2: Trasmissione con cinghie incrociate

Sempre per un corretto funzionamento del sistema, è opportuno che lo slittamento fra

cinghia e puleggia non superi il 2-3%. Ciò può essere ottenuto esercitando una opportuna

tensione sulla cinghia. Se Mm è il momento motore che si vuole trasmettere e r1 il raggio della

puleggia motrice, la forza periferica risulta pari a:

1

m

r

MF =

Per assicurare il movimento dovuto all’attrito fra cinghia e puleggia occorre però che

questa sia tesa maggiormente: l’esperienza dice in merito che nel ramo conduttore è

sufficiente una tensione F1 = 2,5 F e nel ramo condotto una tensione F2 = 1,5 F. Ne deriva che

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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la cinghia deve resistere ad una forza di trazione almeno pari ad F1 e che i perni degli alberi

devono invece resistere a forze paria a Fp = F1 + F2 = 4 F. In base a queste considerazioni è

possibile calcolare la larghezza di cinghia necessaria in funzione anche delle differenti

velocità cui viene sottoposta.

Cinghie piane

Realizzate normalmente in cuoio, gomma o materia plastica, offrono una notevole

flessibilità che ne consente l’impiego per trasmettere il moto anche lungo percorsi piuttosto

tortuosi. I principali vantaggi consistono nel costo relativamente basso, nella capacità di poter

operare in ambienti sfavorevoli, nella efficienza alle elevate velocità, nella possibilità di

assorbire variazioni anche violente di coppia. I principali svantaggi risiedono nel pericolo di

slittamento, nella rumorosità, nel modesto rendimento alle basse velocità e nel maggiore

carico sui cuscinetti in conseguenza della maggior tensione nella cinghia, richiesta dalla

necessità di garantire una forza di aderenza sufficiente fra cinghia e puleggia.

Figura 4.3.1.3: Cinghia piana

Le cinghie in cuoio sono utilizzate per velocità fino a 30 m s e per potenze fino a

350 kW; le loro tipiche applicazioni si riscontrano nella derivazione del moto a diverse

utilizzazioni a partire da un unico albero di trasmissione. Quelle di gomma costituiscono il

tipo più economico di cinghie piane; esse sono normalmente formate da uno o più strati di

cotone impregnati di gomma. La vita di queste cinghie e la potenza da esse trasmessa per

unità di superficie sono minori delle analoghe caratteristiche delle cinghie di cuoio. La

massima velocità raggiungibile è dell’ordine dei 30 m s e la potenza trasmessa non supera in

genere i 220 kW; le principali applicazioni riguardano trasmissioni di piccole potenze, con

pulegge di solito di piccolo diametro. Le cinghie di materia plastica sono costituite da sottili

strati di poliestere e vengono utilizzate quando le potenze da trasmettere non superano la

decina di kilowatt e quando si richieda grande leggerezza della trasmissione.

Per tutte le realizzazioni il rendimento è intorno al 96-98%.

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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Cinghie trapezoidali

Sono normalmente costituite da una serie di cavi immersi in uno strato di materiale

plastico che, oltre a fungere da supporto, mantiene i cavi stessi nella loro posizione corretta;

questo strato di materiale plastico è a sua volta compreso entro due strati di gomma chiusi

esternamente da una guaina anch’essa generalmente di gomma. La cinghia è sagomata con

una sezione trapezia (figura 4.3.1.4) e richiede pertanto l’impiego di pulegge a gola (figura

4.3.1.5), ossia dotate sulla corona di apposite scanalature entro cui alloggiare. I principali

vantaggi sono la lunga durata, la facilità di installazione, la silenziosità e la facile

manutenzione.

Figura 4.3.1.4: Cinghia trapezoidale Figura 4.3.1.5: Pulegge per cinghia trapezoidale

Una delle principali proprietà delle cinghie trapezoidali è costituita dal fatto che esse

possiedono un coefficiente di aderenza equivalente molto superiore (sino a tre volte) a quello

effettivamente esistente tra il materiale della cinghia e quello della puleggia. Infatti, con

riferimento alla figura 4.3.1.6, se si indica con &

N la forza normale con la quale la cinghia è

premuta contro la puleggia, tale forza è equilibrata dalle due forze ′&

N che le facce della

puleggia trasmettono alla cinghia. Imponendo l’equilibrio alla traslazione verticale, si deduce

la relazione:

N N sin= ⋅ ′ ⋅22

α

La forza tangenziale complessiva dovuta all’aderenza fra cinghia e puleggia è allora:

NfN2sin

fNf2T a

aa ⋅′=

α=′=

Per effetto della forma della sezione trasversale della cinghia si è pertanto in presenza di

un coefficiente di aderenza equivalente ′fa che è tanto maggiore quanto minore è l’angolo al

vertice della cinghia. Per il corretto funzionamento occorre però che il contatto cinghia-

puleggia avvenga solo sulle superfici laterali e non sulla parte inferiore.

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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N'

N

N'

α

→ →

Figura 4.3.1.6: Forze scambiate fra cinghia trapezoidale e puleggia

L’aumento del coefficiente di aderenza apparente diminuisce la possibilità di slittamenti

e la necessità di tensioni elevate; nello stesso tempo permette di avere rapporti di trasmissioni

che scendono fino a 1/15. Il rendimento è intorno al 96-98%.

Cinghie dentate

Sono derivate da una cinghia piana che porta una serie di denti di gomma posti a uguale

distanza tra loro lungo tutta la superficie interna che penetrano in altrettanti incavi

appositamente predisposti nelle pulegge cui vengono accoppiate (figura 4.3.1.7 e 4.3.1.8).

Tali tipi di cinghie offrono numerosi vantaggi, quali la costanza del rapporto di

trasmissione, una piccola tensione di forzamento con conseguente basso carico sui cuscinetti,

minima manutenzione e possibilità di trasmissione di potenze elevate con elevato rendimento

(95-97%). Poiché non possono slittare sulle pulegge su cui si avvolgono, in casi di urti sono

sottoposte, contrariamente agli altri tipi esaminati, all’intero carico d’urto.

Figura 4.3.1.7: Cinghia dentata Figura 4.3.1.8: Pulegge per cinghie dentate

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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Sistemi per la messa in tensione

Tutte le trasmissioni di forza richiedono la presenza di un sistema in grado di creare una

tensione iniziale o di montaggio e di mantenerla durante il funzionamento. Nelle trasmissioni

con cinghie i metodi più comuni per mettere in tensione il flessibile sono:

• L’uso di un rullo tenditore (galoppino, figura 4.3.1.9);

• Il montaggio di una puleggia su un supporto oscillante (figura 4.3.1.10);

• Il montaggio di una puleggia su un supporto traslante.

Figura 4.3.1.9: Rullo tenditore Figura 4.3.1.10: puleggiaoscillante

Figura 4.3.1.11: puleggiatraslante

4.3.2. Catene

Le catene sono, per definizione, membri flessibili atti a trasmettere forze di trazione,

composti da elementi rigidi (maglie) fra i quali è possibile un moto relativo. Vengono usate

per la trasmissione del moto in numerose applicazioni meccaniche e, a seconda del campo di

impiego, si distinguono catene ordinarie, articolate e meccaniche. Le prime sono costituite da

anelli chiusi in ferro a sezione circolare e sono anche dette di trazione perché utilizzate in

applicazioni eminentemente statiche. Quando sono calibrate possono permettere la

trasmissione di un moto lento, come ad esempio nei paranchi azionati a mano. Le catene

articolate hanno maglie costituite da più pezzi fra loro variamente collegati e sono destinate a

trasmettere potenza. Le catene meccaniche, infine, sono di gran lunga le più importanti,

almeno al punto di vista degli impieghi industriali, per la trasmissione del moto. Fra queste

sono da ricordare quelle a rulli (figura 4.3.2.1), aventi passo normalmente compreso fra 5 e 75

mm, forza di trazione massima variabile da 4 a 600 kN e potenza massima trasmissibile fino a

1100 kW.

In generale, le catene presentano i seguenti principali vantaggi. Innanzitutto

garantiscono l’assenza di slittamento e quindi una fasatura precisa fra la posizione del

membro motore e quella del membro condotto, fatto che le rende adatte alle trasmissioni di

Page 14: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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precisione e alla trasmissione di elevate potenze a bassa velocità. A parità di forza trasmessa,

rispetto alle cinghie, l’angolo di abbracciamento può essere minore e quindi l’ingombro è

minore, ed in ogni caso è possibile la trasmissione anche con distanze fra gli assi troppo

ridotte perché sia possibile impiegare una trasmissione a cinghie. Sempre rispetto alle cinghie,

non è richiesta una tensione iniziale di forzamento, e, quindi, il carico sui cuscinetti è minore.

Le trasmissioni a catene, infine, funzionano bene anche per assi molto distanti. I maggiori

inconvenienti rispetto alle cinghie sono il maggior costo, la minore velocità massima

ammissibile (dell’ordine dei 10 m s), la necessità di una maggiore manutenzione, la

rumorosità, la necessità di un sistema di lubrificazione.

Figura 4.3.2.1: Catena a rulli

4.4. LA TRASMISSIONE MEDIANTE RUOTE DI FRIZIONE

Le ruote di frizione sono dispositivi atti a trasmettere moti rotatori continui. Nella

schematizzazione più semplice sono costituite da due ruote mantenute a contatto per l’azione

di forze uguali e contrarie, &

N e −&

N , su di esse agenti, per cui la trasmissione del moto è

esclusivamente affidata all’attrito. Con riferimento alla figura 4.4.1, supposta motrice la ruota

di centro O1 e velocità angolare ω1 e condotta quella di centro O2 e velocità angolare ω2, il

rapporto di trasmissione è dato da:

τωω

= 2

1

In assenza di slittamento, detti r1 e r2 i raggi delle due ruote, dovendo essere uguali le

due velocità periferiche v1 e v2, risulta ω ω1 1 2 2r r= , da cui:

τωω

= =2

1

1

2

r

r

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

69

cioè il rapporto di trasmissione è anche uguale al rapporto fra il raggio della ruota motrice e

quello della ruota condotta.

O1 O2

r1

r2

δ

Mm

Mu

ω1

ω2

-T→

T→

-N→

N→

N→

-N→

Figura 4.4.1: Ruote di frizione

Per effetto delle forze &

N e −&

N , detto f il coefficiente di attrito relativo ai materiali

costituenti le ruote, nasce una forza di attrito f N che si oppone al moto relativo fra le ruote

stesse. Trascurando l’attrito volvente e l’attrito nel perno, detti Mm il momento della coppia

motrice applicata alla ruota conduttrice e T M rm= 1 la forza tangenziale corrispondente,

affinché sia mantenuto il contatto, con esclusione del pericolo di slittamento, deve essere

T f N< , cioè:

M f N rm < 1

Questa relazione mostra che il momento applicabile è necessariamente limitato e ciò

riduce le possibilità d’impiego di tale tipo di trasmissione. Per aumentare la potenza da

trasmettere si può o aumentare il coefficiente d’attrito f o la forza premente N: il primo fattore

dipende dai materiali che guarniscono le ruote di frizione, il secondo è limitato dalle necessità

di non caricare troppo i cuscinetti degli alberi, per cui sono utilizzate solo per trasmettere

piccoli sforzi.

Costruttivamente le ruote possono essere in gomma (pneumatici, ruote piene

industriali), in resine sintetiche (per elettrodomestici), in acciaio (ruote di treni, di gru).

Possono essere cilindriche, esterne (figura 4.4.2) o interne (figura 4.4.3), oppure coniche

(figure 4.4.4 e 4.4.5). Non si usano per le trasmissioni fra assi sghembi, ma solo paralleli o

incidenti.

Page 16: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

70

Figura 4.4.2: Ruote di frizione esterne Figura 4.4.3: Ruote di frizione interne

Figura 4.4.4: Ruote di frizione coniche Figura 4.4.5: Ruote di frizione piatto-coniche

4.5. LA TRASMISSIONE MEDIANTE RUOTE DENTATE

Le ruote di frizione presentano l’inconveniente di una trasmissione poco sicura, essendo

questa subordinata all’aderenza che si sviluppa fra le superfici a contatto. Tale problema viene

risolto con le ruote dentate, che assicurano, sotto particolari condizioni, la costanza del

movimento anche in presenza di forze rilevanti, grazie alla presenza di sporgenze (denti) che

ingranano reciprocamente con cavità (vani). In questo caso occorre però rinunciare alla

condizione del contatto per semplice rotolamento e accettare rotolamento e strisciamento fra

le superfici attive dei denti. Ciascuna di queste due superfici può considerarsi come

l’inviluppo delle infinite posizioni assunte dall’altra nel moto relativo delle due ruote, e per

tale ragione esse vengono definite coniugate.

Come definizione, si dice ruota dentata un organo destinato a trascinarne un altro, o ad

essere trascinato da questo, per l’azione dei denti successivamente in contatto; ingranaggio è

il meccanismo elementare costituito da due ruote dentate e dal telaio, girevoli attorno ad assi

di posizione relativa invariabile. Treno di ingranaggi o rotismo è la combinazione di più

ingranaggi (figura 4.5.1); treno planetario è un ingranaggio, o un treno di ingranaggi, in cui

almeno uno degli assi ruota attorno ad un altro (figura 4.5.2).

Page 17: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

71

Figura 4.5.1: treno di ingranaggi Figura 4.5.2: Treno planetario

Le ruote dentate possono trasmettere il moto fra assi paralleli (figura 4.5.3), incidenti

(figura 4.5.4) e sghembi (figura 4.5.5). Possono essere esterne (figura 4.5.6) o interne (figura

4.5.7): le prime hanno senso di rotazione discorde, le seconde concorde. Se in una coppia di

ruote dentate il raggio di una delle due diventa infinito, questa si trasforma in una dentiera

ingranante con l’altra (figura 4.5.8). La trasmissione del moto fra assi sghembi può anche

realizzarsi mediante un ingranamento fra ruota dentata e vite senza fine (figura 4.5.9).

Figura 4.5.3: Esempi di ingranaggi paralleli

Figura 4.5.4: Esempi di ingranaggi concorrenti

Page 18: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

72

Figura 4.5.5: Esempi di ingranaggi sghembi

Figura 4.5.6: Ingranaggi esterni Figura 4.5.7: Ingranaggi interni

Figura 4.5.8: Ingranamento tra rocchetto edentiera

Figura 4.5.9: Trasmissione con vite senza fine

Page 19: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

73

Data una coppia di ruote dentate, dette ω1 e ω2 rispettivamente le velocità angolari della

ruota motrice e di quella condotta, si può sempre pensare una coppia di ruote di frizione (ruote

primitive) che, sostituita alla coppia di ruote dentate, realizzi le stesse velocità angolari. I

raggi di tali ruote di frizione, r1 e r2 rispettivamente, si dicono raggi primitivi della coppia di

ruote dentate e le circonferenze di raggio r1 e r2 circonferenze primitive. Il movimento di una

coppia di ruote dentate può studiarsi considerando in loro vece la corrispondente coppia di

circonferenze primitive: sulle primitive si ha puro rotolamento senza strisciamento. Il rapporto

di trasmissione, come nelle ruote di frizione, vale pertanto:

τωω

= =2

1

1

2

r

r

4.5.1. Ingranamento

In ogni ruota dentata, qualunque sia il profilo dei denti, la superficie attiva di questi

ultimi viene delimitata da due circonferenze dette di troncatura esterna e di troncatura interna;

il tratto di superficie attiva del dente compreso fra la troncatura esterna e la circonferenza

primitiva prende il nome di fianco addendum del dente, mentre il tratto compreso fra la

primitiva e la troncatura interna è il fianco dedendum del dente stesso. Si definisce inoltre

passo della ruota dentata la distanza esistente tra due punti omologhi di due denti successivi

misurata sulla circonferenza primitiva (figure 4.5.1.1 e 4.5.1.2).

Figura 4.5.1.1: Grandezze caratteristiche del dente di una ruota dentata esterna. Cp:circonferenza primitiva; Ce: circonferenza di troncatura esterna; Ci: circonferenza ditroncatura interna; a: addendum; d: dedendum; p: passo; b: larghezza; c: fianco addendum; f:fianco dedendum.

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

74

Figura 4.5.1.2: Trasmissione del moto mediante ruote dentate interne; Cte: troncatura esterna;Cti: troncatura interna; Cp: circonferenza primitiva; p: passo; i: interasse, θ: angolo dipressione.

Poiché due ruote dentate devono avere lo stesso passo p per poter ingranare fra loro, è

necessario di conseguenza che siano verificate le uguaglianze:

z p r

z p r1 1

2 2

2

2

==

%&'

ππ

dove con z1 e z2 sono indicati i numeri dei denti e con r1 e r2 i raggi primitivi delle due ruote.

Il rapporto di trasmissione assume pertanto l’espressione:

2

1

2

1

1

2

z

z

r

r==

ωω

Esso può essere dunque facilmente calcolato in funzione del numero di denti. Dal punto

di vista costruttivo si tende, quando non è necessario che il rapporto di trasmissione assuma

valori rigorosamente assegnati e quando sono elevati gli sforzi da trasmettere, a realizzare

coppie di ruote dentate in cui i numeri dei denti siano primi fra loro, in modo che un dente di

una ruota tocchi progressivamente tutti i denti dell’altra prima di ritornare alla posizione

iniziale, evitando così fenomeni di usura preferenziale.

Poiché il passo è un numero irrazionale trascendente, e quindi di scarsa utilità pratica in

quanto non misurabile, nelle ruote dentate viene introdotta una grandezza particolare, espressa

da un numero razionale, detta modulo e definita da:

Page 21: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

75

mp r

z

r

z= = =

π2 21

1

2

2

Il modulo rappresenta una dimensione caratteristica della ruota dentata; quest’ultima

viene infatti normalmente proporzionata in base al valore del modulo secondo norme dette per

l’appunto modulari. Secondo tale proporzionamento l’altezza del fianco addendum, detta

semplicemente addendum, è pari al modulo, mentre l’altezza del fianco dedendum, detta

semplicemente dedendum, è pari ai 5/4 del modulo; in totale l’altezza del dente è pertanto pari

2,25 volte il modulo.

4.5.2. Profili dei denti

I profili dei denti debbono essere realizzati secondo forme opportune in modo da poter

assicurare la trasmissione del moto fra le due ruote secondo la legge voluta. I primi denti ad

essere adottati erano a profilo cicloidale. Dal punto di vista matematico, si definisce cicloide

la curva descritta da un punto situato su una circonferenza quando questa rotola senza

strisciare su una retta, epicicloide la curva descritta da un punto situato su una circonferenza

quando questa rotola senza strisciare esternamente ad un’altra circonferenza e ipocicloide la

curva descritta da un punto situato su una circonferenza quando questa rotola senza strisciare

internamente ad un’altra circonferenza. Questo tipo di dente è ora limitato ad alcune

particolari applicazioni, mentre il profilo di dente universalmente diffuso è quello a evolvente

di circonferenza. Si definisce evolvente di circonferenza la curva piana generata da un punto

situato su una retta, detta generatrice, tangente ad una circonferenza, detta circonferenza

fondamentale, quando la retta rotola senza strisciare sulla circonferenza stessa (figura 4.1.2.1).

L’evolvente di circonferenza può anche essere pensata come la curva descritta dall’estremo di

una fune quando questa viene svolta da un rullo sul quale era arrotolata.

La ragione principale della diffusione dei denti con profilo a evolvente di circonferenza

risiede nella grande semplicità di lavorazione della superficie del dente stesso in confronto

alla complessità di lavorazione di un dente cicloidale. La migliore lavorazione rende inoltre

possibile una maggiore accuratezza delle dimensioni del dente e si traduce in definitiva in un

miglior funzionamento della trasmissione. Si può poi dimostrare che la direzione della forza

scambiata fra due denti durante il normale funzionamento si mantiene inclinata rispetto alla

retta congiungente i centri delle due ruote di un angolo costante, detto angolo di pressione.

Infine, si può anche dimostrare che le ruote dentate a evolvente di circonferenza possiedono

un’ulteriore proprietà molto importante nella pratica e cioè se i centri delle due ruote

Page 22: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

76

dovessero subire durante il funzionamento un modesto allontanamento reciproco, la

trasmissione continua a funzionare correttamente, nel senso che restano invariate le velocità di

rotazione e quindi il rapporto di trasmissione; ciò che varia è solamente l’angolo di pressione.

O

H

P

Q

rf

θγ

Figura 4.1.2.1: Generazione dell’evolvente

4.5.3. Ruote dentate cilindriche a denti dritti

È questo il caso più semplice di applicazione di ruote dentate alla trasmissione del moto

(figura 4.5.3.1). In esso ciascun dente di ogni ruota è costituito da due profili a evolvente

simmetrici; la forza scambiata fra i denti viene trasmessa da uno o dall’altro dei profili a

seconda del verso di rotazione delle ruote e a seconda che esse siano motrici o condotte. Negli

ingranaggi cilindrici a denti dritti inoltre il contatto tra i denti avviene in modo simultaneo

lungo tutta una generatrice dei denti stessi in quanto tutte le sezioni delle ruote ottenute con

piani perpendicolari agli assi sono uguali tra loro.

Affinché l’ingranamento fra due ruote dentate possa realizzarsi in modo corretto è

necessario che il contatto avvenga unicamente lungo il profilo a evolvente dei loro denti. Può

però verificarsi il caso, quando ad esempio l’addendum di una delle due ruote è troppo

grande, di contatto tra la punta del dente di una ruota e la parte del dente dell’altra ruota

interna alla circonferenza fondamentale, caso questo che corrisponderebbe ad avere una

compenetrazione tra i denti delle due ruote, ossia ad avere una interferenza fra le ruote

medesime. Si può dimostrare che questa può essere evitata dotando la ruota di diametro

minore di un numero di denti superiore a un valore minimo dipendente dall’angolo di

pressione e dal rapporto di trasmissione. Qualora per esigenze costruttive non sia possibile

Page 23: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

77

rispettare la condizione sul numero di denti, sempre per evitare l’interferenza si ricorre a un

proporzionamento diverso da quello modulare, originando così una dentatura corretta,

caratterizzata da una diminuzione, sempre entro certi limiti, dell’addendum nella ruota di

diametro maggiore e un aumento dello stesso nella ruota di diametro minore.

Figura 4.5.3.1: Ruote dentate cilindriche a denti dritti

4.5.4. Ruote dentate elicoidali

Quando si trasmette il moto sfruttando accoppiamenti costituiti da ruote dentate

cilindriche a denti dritti si osserva che, ogni qualvolta inizia o termina il contatto tra una

coppia di denti, si origina un cambiamento nella distribuzione del carico fra tutte le coppie di

denti in presa. Poiché tale variazione avviene in modo estremamente rapido, soprattutto

quando si hanno rilevanti giochi fra i denti, è chiaro che, durante il funzionamento della

trasmissione, l’accoppiamento diventa fonte di rumori e di vibrazioni di sensibile entità. Per

evitare o quanto meno ridurre questi fenomeni è dunque necessario che le variazioni della

distribuzione del carico fra i denti in presa avvengano in forma graduale e non repentina. Ciò

può ottenersi ricorrendo alle ruote elicoidali, ottenute ruotando nello stesso verso di una

quantità infinitesima l’una rispetto all’altra le infinite sezioni trasversali di una ruota a denti

dritti, in modo da far assumere al dente, nel senso della sua lunghezza, uno sviluppo appunto

di tipo elicoidale (figura 4.5.4.1). In tal modo il dente ha un imbocco prolungato, cosicché è

maggiore il numero di denti contemporaneamente in presa, con il risultato di avere un

ingranaggio più veloce e silenzioso, tipicamente utilizzato per la realizzazione del cambio di

velocità negli autoveicoli. Per il resto, le ruote elicoidali mantengono la stessa nomenclatura e

le stesse regole di proporzionamento modulare delle ruote cilindriche a denti dritti. Ai fini del

montaggio occorre comunque ricordare che una ruota con elica sinistrorsa può ingranare

solamente con una dotata di elica destrorsa.

Page 24: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

78

Un aspetto per cui gli ingranaggi a denti elicoidali si differenziano da quelli cilindrici a

denti dritti è la presenza di una componente assiale della forza scambiata fra i denti in presa.

Per annullare tale componente, o quanto meno ridurla a valori molto piccoli, e quindi per

evitare l’utilizzo di cuscinetti reggispinta, vengono costruite ruote dentate elicoidali a freccia

(figura 4.5.4.2) formate da due parti uguali aventi inclinazioni di elica opposte. In tal modo,

nell’ipotesi di distribuzione uniforme del carico tra le due parti, le componenti assiali delle

forze scambiate sono uguali e di verso opposto e pertanto si equilibrano reciprocamente.

Figura 4.5.4.1: Ingranaggielicoidali: a) ruota motrice; b)ruota condotta

Figura 4.5.4.2: Esempi di dentature elicoidali a freccia

Un ultimo pregio degli ingranaggi a denti elicoidali è la possibilità di realizzare

bassissimi rapporti di trasmissione, a differenza delle ruote dentate cilindriche a denti dritti

dove difficilmente si può scendere al di sotto di 1/4, a meno di non utilizzare più ruote in

serie. Ciò è possibile sia perché sono minori i problemi di interferenza, potendo

maggiormente ribassare l’altezza dei denti, sia soprattutto perché, con sistemi tipo vite-

madrevite con trasmissione del moto fra assi ortogonali (figura 4.5.8), il rapporto di

trasmissione τ = z z1 2 , pari al rapporto fra il numero di filetti della vite e il numero di denti

della ruota, può assumere valori molto bassi, anche inferiori a 1/50, semplicemente

aumentando il numero di denti della ruota.

4.5.5. Ruote dentate coniche a denti dritti

Le ruote dentate coniche (figura 4.5.5.1) vengono utilizzate ogni qualvolta si debba

trasmettere il moto tra due assi incidenti. In analogia al caso di trasmissione del moto fra assi

paralleli, si può dimostrare che il moto individuato da due ruote dentate coniche è

Page 25: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

79

schematizzabile in quello di due coni che ruotano attorno ai propri assi, mantenendosi in

contatto secondo una generatrice lungo la quale la velocità relativa tra i coni stessi è

ovviamente nulla (figura 4.5.5.2).

Figura 4.5.5.1: Coppia di ingranaggi conici Figura 4.5.5.2: Coni primitivi di una coppia diingranaggi conici

Per determinare il valore del rapporto di trasmissione, si osserva nella figura 4.5.5.2 che

la velocità &

V del punto P di contatto fra due coni è data da V r r= =ω ω1 1 2 2, e quindi:

τωω

= =2

1

1

2

r

r

Essendo d’altra parte:

OPr

sin

r

sin= =1

1

2

2ϕ ϕ

si ha pure:

τϕϕ

=sin

sin1

2

Poiché la somma degli angoli di apertura dei due coni è pari all’angolo ψ compreso fra i due

assi 21 ϕ+ϕ=ψ , si è in grado di calcolare il valore degli angoli di apertura ϕ1 e ϕ2 dei due

coni una volta che siano noti, come normalmente accade, i valori dell’angolo ψ e del rapporto

di trasmissione τ:

ψ+τψ

ψτ+ψτ

cos

sintan

cos1

sintan

12

11

Page 26: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

80

Come per le ruote dentate ad assi paralleli, così anche per le ruote coniche il profilo dei

denti universalmente adottato è quello a evolvente, ed in questo caso l’evolvente è quella

descritta dai punti di una retta solidale ad un piano che rotola senza strisciare su un cono

fondamentale.

4.5.6. Rotismi

Si definisce rotismo un sistema costituito da più ruote dentate ingrananti tra loro in

modo tale che la rotazione di una ruota determini di conseguenza la rotazione di tutte le altre.

Un rotismo viene detto ordinario se gli assi di tutte le ruote dentate che lo costituiscono sono

fissi (figura 4.5.1), viene detto epicicloidale quando almeno uno di tali assi è mobile (figura

4.5.2).

In un rotismo ordinario le velocità angolari di tutte le ruote sono note in valore e in

verso una volta nota la velocità di una di esse; per convenzione il rapporto di trasmissione

viene assunto negativo se due ruote dentate ruotano in versi opposti (caso di due sole ruote

con ingranamento esterno), positivo se ruotano nello stesso verso (caso di due sole ruote con

ingranamento interno). Con riferimento all’esempio di figura 4.5.6.1, si ha:

b

a

a

bb,a z

z−=

ωω

d

c

c

dd,c z

z−=

ωω

d

c

b

a

d

c

b

ad,cb,a

a

b

c

d

a

dd,a z

z

z

z

z

z

z

z =

−=τ⋅τ=

ωω

ωω

=ωω

=τ=τ

In un rotismo ordinario il rapporto di trasmissione globale è quindi pari al prodotto dei

singoli rapporti di trasmissione degli ingranaggi componenti.

Se un rotismo contiene una ruota che ingrana contemporaneamente con altre due (figura

4.5.6.2), il rapporto di trasmissione tra la prima e l’ultima ruota non vede alterato, a causa

della presenza della ruota intermedia, il suo valore, ma unicamente il segno. Si ha infatti:

τωωa b

b

a

a

b

z

z, = = −

τωωb c

c

b

b

c

z

z, = = −

τ τωω

τ τ= = = ⋅ = −

=a cc

aa b b c

a

b

b

c

a

c

z

z

z

z

z

z, , ,

Page 27: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

81

Per questo motivo alla ruota intermedia viene dato il nome di ruota oziosa.

aωbω

Figura 4.5.6.1: Esempio di rotismo ordinario Figura 4.5.6.2: Esempio di rotismo ordinariocon ruota oziosa

In un rotismo epicicloidale semplice (figura 4.5.6.3) si distinguono due ruote dentate

principali, dette solari, che non ingranano tra loro e che ruotano attorno a due assi fissi e

coincidenti, e una o più ruote dentate, dette satelliti, che ingranano con le due ruote solari ed i

cui assi sono portati da un elemento rigido, detto portatreno, che ruota a sua volta attorno ad

un asse fisso coincidente con l’asse delle ruote solari. In un rotismo epicicloidale coesistono

dunque tre elementi indipendenti che ruotano attorno allo stesso asse, e cioè i due solari e il

portatreno, ed altri che ruotano attorno ad assi solidali al portatreno, e cioè i satelliti.

ωs

Ω

ω1

Figura 4.5.6.4: Rotismo epicicloidale con corona esterna fissa

È chiaro che in un rotismo epicicloidale non tutte le ruote dentate possono essere scelte

l’una indipendentemente dall’altra, poiché debbono essere evidentemente rispettate alcune

condizioni di carattere geometrico. Ne consegue che i parametri che caratterizzano una ruota

Page 28: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

82

dentata risultano automaticamente determinati una volta che siano stati stabiliti quelli relativi

a tutte le altre.

4.5.7. Rendimenti degli ingranaggi

Per quanto riguarda i rendimenti degli ingranaggi paralleli e concorrenti, si osserva che

le perdite sono concentrate prevalentemente nei contatti fra i denti e negli appoggi radiali e

assiali; vi sono inoltre perdite per ventilazione e sbattimento del lubrificante. Ingranaggi

paralleli e concorrenti ben costruiti e lubrificati, funzionanti in scatole chiuse, hanno in genere

rendimenti superiori a 0,97.

Il rendimento degli ingranaggi sghembi è invece, in generale, assai più modesto perché

nel contatto fra i denti gli strisciamenti sono elevati e mai nulli. Rendimenti superiori a 0,75

sono considerati elevati per l’ingranaggio a vite e l’ingranaggio sghembo elicoidale. Con

l’ingranaggio ipoide si possono ottenere rendimenti confrontabili con quelli degli ingranaggi

cilindrici, a condizione di realizzare i fianchi dei denti in modo da rendere minimi gli

strisciamenti e poco diverse le curvature nei denti nel punto di contatto.

4.6. SISTEMI DI FRENATURA

I freni sono dispositivi per mezzo dei quali, utilizzando resistenze passive, si

modificano le condizioni di moto di un organo o di una macchina, al fine di ridurne e al limite

annullarne la velocità o di rendere questa costante. La loro funzione principale consiste nel

trasformare l’energia cinetica di un corpo o di un sistema in calore e nel dissipare poi

quest’ultimo nell’atmosfera.

Qualunque sia la natura del sistema a cui il freno è collegato, questo è sempre costituito

da un cilindro rotante solidale al sistema stesso, su cui si applica l’azione frenante. Nei freni

ad attrito, il materiale usato può essere di varia natura: in taluni casi esso è metallico oppure

organico, ma in generale è costituito da miscele di gomma, amianto e resine sintetiche

impregnate di asfalto e rinforzate mediante fili di rame, denominate commercialmente ferodi.

Va osservato che, qualunque sia il tipo di freno che si considera, due sono i fattori di

primaria importanza che stanno alla base del suo dimensionamento, e precisamente la

massima coppia resistente che deve essere realizzata e la quantità di calore che deve assorbire,

e successivamente dissipare, ad ogni frenatura. Riguardo a quest’ultima caratteristica è bene

rammentare che se al sistema da frenare sono applicate forze o coppie, motrici o resistenti, la

quantità di calore sviluppata durante la frenatura dipende anche dalla loro intensità.

Page 29: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

83

I freni si possono distinguere in vari tipi, secondo la natura della resistenza passiva

utilizzata.

4.6.1. Freni ad attrito

Nei freni ad attrito l’azione frenante è demandata alle forze di attrito che si sviluppano

fra la superficie del cilindro solidale all’organo da frenare e quella dell’organo di frenatura.

Con riguardo al modo in cui si realizza l’accoppiamento tra cilindro rotante e materiale di

attrito, i freni vengono normalmente suddivisi in tre categorie differenti, e precisamente in:

a) freni a tamburo (o freni a ceppi);

b) freni a disco;

c) freni a nastro;

mentre se si considera il tipo di comando ad essi applicato si possono distinguere freni a

comando meccanico, idraulico, pneumatico od elettrico.

Per poter valutare l’entità della coppia resistente fornita da un certo freno è necessario

conoscere la distribuzione delle pressioni esistenti nelle superfici a contatto

dell’accoppiamento; solo quando è nota questa distribuzione di pressioni si è in grado di

risalire alla relativa distribuzione di azioni tangenziali di attrito ed ottenere di conseguenza il

valore del momento frenante. La determinazione in via teorica della distribuzione delle

pressioni di contatto in un freno presenta però notevoli difficoltà, e può essere ottenuta solo in

prima approssimazione sulla base di assunzioni ed ipotesi di validità tutt’altro che generale. Si

suddividono in:

Freni a ceppi o a tamburo: sono costituiti da una coppia di ceppi, spesso muniti di

opportuna guarnizione (ferodo) avente un elevato coefficiente d’attrito e limitata durezza,

affinché possa subire la quasi totalità dell’usura che si produce per effetto dell’attrito. I ceppi

sono quasi sempre collegati rigidamente alle rispettive ganasce che, ruotando a guisa di leve

attorno ad un fulcro, si serrano su una puleggia (puleggia del freno), generalmente in ghisa.

L’impiego di due ceppi diametralmente opposti consente di equilibrare, almeno in parte, le

spinte sul tamburo. I tamburi sono solitamente cilindrici: talvolta sono usati tamburi con gole

trapezoidali per aumentare la forza di attrito, a parità di forza di serraggio (effetto cuneo).

I ceppi possono essere esterni (figura 4.6.1.1) o interni (freni a espansione, figura

4.6.1.2) secondo che agiscono esternamente o internamente alla fascia della puleggia.

Page 30: 05 Dispensa Trasmissione Del Moto

CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

84

Figura 4.6.1.1: Freni a ceppi esterni Figura 4.6.1.2: Freni a espansione

I freni a tamburo con i ceppi esterni sono antichi quanto i veicoli a ruote con trazione

animale. All’inizio della costruzione delle vetture automobili, verso il 1895, la frenatura fu

realizzata mediante soluzioni analoghe a quelle fino ad allora impiegate per i veicoli a

trazione animale, facendo agire i ceppi direttamente sui cerchioni in acciaio delle ruote.

Successivamente l’uso dei freni a ganasce per automobili fu abbandonato ed oggi tale tipo di

freno trova altre applicazioni quali ascensori, argani, gru, macchine di cantiere, teleferiche,

ecc.

I freni ad espansione sono costituiti da uno o più ceppi (in genere due), rivestiti da

guarnizioni la cui superficie attiva, di forma cilindrica, si appoggia, durante la frenatura, ad un

tamburo dello stesso raggio, posto esternamente ai ceppi e reso solidale al membro da frenare.

I primi freni ad espansione apparvero attorno al 1903 e furono brevettati da Liversidge, in

Inghilterra, nel 1906. Essi presentavano due vantaggi evidenti nel settore automobilistico:

nessun ingombro all’esterno del tamburo e protezione del freno da polvere e sporcizia per la

presenza del tamburo stesso. Erano azionati meccanicamente. Nel 1910 l’italiano Franchini

depositò un sistema di comando meccanico assai più razionale e, negli anni successivi, i

comandi meccanici ebbero rapidi e continui miglioramenti. Per evitare che sia trascinato in

rotazione dal tamburo, durante il frenamento, il ceppo deve essere vincolato ad un appoggio,

il che consente alla guarnizione di appoggiarsi meglio al tamburo, compensando le inevitabili

imperfezioni di lavorazione. Durante i periodi di riposo i ceppi sono mantenuti staccati dal

tamburo dalla presenza di molle.

L’azionamento dei ceppi è realizzato, nelle autovetture, mediante i pistoni di cilindri

idraulici e con lo stesso mezzo, oppure mediante camme azionate pneumaticamente, negli

autocarri.

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

85

Freni a dischi: sono costituiti dall’accoppiamento di un disco rotante, solidale al

sistema da frenare, e di una coppia di pattini rivestiti di materiale d’attrito; il contatto tra i due

organi dell’accoppiamento può essere esteso a tutta la superficie del disco, oppure solo ad una

sua parte, e viene realizzato premendo su questa i pattini in una direzione ad essa ortogonale

(figure 4.6.1.3 e 4.6.1.4).

Figura 4.6.1.3: Schema di freno a disco Figura 4.6.1.4: Freno a disco

Tale tipo di freno fu ideato da Lanchester il cui brevetto, nel 1902, anticipa molte delle

moderne soluzioni. Per mezzo secolo fu trascurato, essendogli preferito, per la frenatura dei

veicoli, il freno ad espansione. Ma, anche in questo periodo, nella storia dei trasporti non

manca qualche esempio di applicazione: si ricordi, ad esempio, che i freni “sul cerchione”

delle biciclette sono freni a disco a guarnizione parziale. Durante la seconda guerra mondiale,

i freni a disco furono largamente adottati nel settore aeronautico. Le necessità di far atterrare

aerei sempre più pesanti a velocità sempre più elevate mostrarono i limiti dei freni a tamburo

in condizioni di esercizio severe. I freni multidischi sostituirono così quelli a tamburo, in

quanto permisero, a parità di ingombro, di ottenere coppie frenanti assai più elevate e, quindi,

di accorciare notevolmente le piste di atterraggio. Dopo il 1945 i freni a disco furono adottati

anche nel settore automobilistico: il grande pubblico li conobbe nel 1953, in occasione della

gara “24 ore di Le Mans”. Successivamente furono montati su vetture di classe (Citroen DS

19, nel 1955), quindi su vetture di grande serie. Oggi sono diffusi anche in altri settori: veicoli

ferroviari, macchine utensili, argani, ecc.

Nei freni a disco i ceppi, portati da apposite staffe, sono premuti contro le facce di uno

(o più) dischi montati solidalmente all’albero che deve essere frenato. I dischi comunemente

utilizzati hanno forma di cilindri di modesta larghezza, almeno nella parte attiva; le facce

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

86

opposte del disco portano le piste di strisciamento. I ceppi possono essere completi o parziali.

I ceppi completi, a forma di corona circolare, sono oggi utilizzati solo in qualche caso per il

frenamento di veicoli lenti (trattori, ecc.) ed in aviazione. Consentono di mantenere più

facilmente le pressioni specifiche di contatto entro valori accettabili. Nel settore

automobilistico sono oggi universalmente adottati i ceppi parziali, che ricoprono una porzione

angolare assai ridotta del disco. Questa soluzione, lasciando libera la maggior parte del disco,

consente un migliore smaltimento del calore.

Tali freni, pur presentando svariati vantaggi rispetto agli altri tipi, e principalmente una

maggiore costanza nell’azione frenante, una minore sensibilità alla contaminazione (da acqua

o da olio) grazie ai valori molto piccoli del gioco esistente tra le superfici di attrito ed il disco,

ed una uguale capacità frenante in entrambi i versi di rotazione, debbono tuttavia essere

sottoposti ad una forza di comando più intensa per originare, a parità di dimensioni, un

momento frenante pari a quello relativo ai freni a tamburo. Il materiale di attrito che li

costituisce deve pertanto essere in grado di sopportare pressioni maggiori di quelli insorgenti

in un contatto ceppo-tamburo.

Freni a nastro: sono quelli in cui la puleggia del freno può essere abbracciata, lungo un

arco che si cerca di rendere molto grande, da un nastro di acciaio, spesso munito di opportuna

guarnizione, i cui rami terminano sui bracci di una leva (figure 4.6.1.5 e 4.6.1.6): agendo

sull’estremo di uno di questi, si provoca l’aderenza del nastro sulla puleggia, e la differenza

delle tensioni che nascono nei due rami genera la forza frenante. All’occorrenza, questa può

essere aumentata montando più nastri uguali in parallelo.

Figura 4.6.1.5: Freno a nastro Figura 4.6.1.6: Freno a nastro

Attualmente i freni a nastro sono utilizzati nel settore della locomozione, su apparecchi

di sollevamento e trasporto, specie a bordo delle navi. Oggi, non sempre per giustificati

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

87

motivi, il loro uso tende ad essere limitato ai casi in cui il funzionamento del freno è saltuario

(freni di emergenza), oppure quando la coppia di frenatura è modesta.

4.6.2. Freni elettromagnetici

Sono generalmente costituiti da una elettrocalamita (induttore) che genera un campo

magnetico fisso nel quale ruota un indotto costituito da un semplice disco di rame. Questo,

diventando sede per induzione di correnti parassite, genera un secondo campo magnetico che,

reagendo sul primo, tende ad opporsi al moto relativo. L’intensità della coppia frenante è

proporzionale sia alla velocità angolare relativa fra indotto e induttore sia all’intensità del

campo magnetico induttore. Poiché a indotto fermo la coppia resistente è nulla, tali tipi di

freni vengono unicamente utilizzati per creare coppie resistenti al moto e non per mantenere

un carico in condizioni statiche. I vantaggi risiedono nel non presentare superfici striscianti e

nel possedere di conseguenza una vita notevolmente maggiore di quella relativa ad altri tipi di

freni.

4.6.3. Confronto fra i vari tipi di freni

Appare manifesto che un buon freno deve avere:

• modesta forza di comando;

• notevole efficacia, ma non tanto da provocare brusche variazioni di velocità, quindi

grandi forze d’inerzia e relative brusche sollecitazioni del sistema;

• regolare azione di frenatura, ma anche assenza di vibrazioni e costanza di prestazioni;

• scarsa necessità di manutenzione;

• forma costruttiva semplice e di facile realizzazione;

• costo modesto, in relazione al tipo di macchina sul quale il freno è installato.

In relazione al problema, importantissimo, della costanza delle prestazioni in condizioni

di esercizio gravose, va ricordato che la frenatura avviene sempre per trasformazione di

energia (cinetica o potenziale) in calore. Nei freni a tamburo questo calore, grosso modo, si

ripartisce il 5% nelle guarnizioni (se a base di amianto) e il 95 % nel tamburo.

A causa, però, delle caratteristiche isolanti delle guarnizioni, il calore assorbito dalle

stesse può portare facilmente la temperatura di un sottile strato superficiale a contatto con il

tamburo a valori più elevati di quelli richiesti per la polimerizzazione. Ne segue che la resina,

in superficie, incomincia a decadere chimicamente, ad ossidarsi ed a sporcare il tamburo.

Fintantoché la temperatura non supera valori compresi, a seconda del tipo di

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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guarnizione, tra i 100 ed i 150 °C, l’usura delle guarnizioni è modesta. Se si supera la

temperatura di sicurezza si manifesta, in modo piuttosto repentino, il fenomeno

dell’affievolimento (fade) delle prestazioni dell’accoppiamento: l’usura aumenta

esponenzialmente con la temperatura, il fattore d’attrito diminuisce e diventa instabile.

Inoltre, il tamburo può distorcersi e ciò dà luogo a fenomeni vibratori. Di qui la necessità di

raffreddare con getti d’aria (od altri mezzi) i tamburi (ed i dischi) in condizioni di esercizio

gravose.

I tamburi hanno una capacità termica superiore a quella dei dischi e perciò, a parità di

lavoro frenante, i dischi raggiungono temperature superiori. Essi però (almeno nel caso usuale

di disco pieno) ricevono simmetricamente il calore in corrispondenza delle piste di

strisciamento e lo evacuano direttamente nell’atmosfera a partire da tali piste. Quindi, in

generale, non presentano punti caldi, né rischi di cricche, anche in condizioni di

funzionamento severe. Per contro, nel caso di freni a tamburo, il calore, per essere evacuato,

deve attraversare il tamburo, provocando variazioni irregolari della sua temperatura. Inoltre il

riscaldamento del tamburo si traduce in una notevole dilatazione radiale dello stesso. Nei freni

a tamburo è quindi indispensabile la presenza di un gioco relativamente consistente, sicché, ad

esempio, per freni ad espansione regolati in modo da funzionare ad una certa temperatura,

occorre evitare che il tamburo resti bloccato quando il freno è a temperatura ambiente. Tale

inconveniente non esiste nel caso dei freni a disco.

La maggiore possibilità di smaltire il calore prodotto per attrito e l’assenza di distorsioni

rendono i freni a disco più adatti a condizioni gravose d’esercizio, in particolare a sopportare

cicli ripetuti di frenatura. Al riguardo si è inoltre verificato sperimentalmente che, a parità di

tipo di guarnizione, il fenomeno dell’affievofimento delle prestazioni (fade) si manifesta

prima nei freni a tamburo che in quelli a disco. Questi ultimi possono perciò sopportare

temperature superiori. Inoltre i freni a disco hanno guarnizioni piane e ciò, come accennato,

consente di utilizzare materiali più idonei alle alte temperature. Data la leggerezza dei ceppi

ed il piccolo gioco esistente fra gli stessi, i freni a disco si prestano meglio di quelli a tamburo

a compiere ripetuti cicli frenatura-sfrenatura, specie se sono azionati elettricamente e sfrenati

meccanicamente. Un freno a disco singolo azionato elettricamente può compiere un ciclo

completo ogni 1,7 s; un freno a dischi multipli arriva al massimo ad un cielo ogni 5 s; un

freno a ganasce azionato meccanicamente può fare, al più, un ciclo ogni 20 s.

I freni a tamburo con ceppi esterni ed interni hanno applicazioni industriali ben

caratterizzate. I freni a ganasce sono molto diffusi per macchine di sollevamento (carroponti,

gru, ecc.), macchine da cantiere, teleferiche, argani, ascensori, ecc. Loro inconvenienti sono

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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l’ingombro necessario al sistema articolato che porta i ceppi e, quando il telaio è mobile, la

massa notevole. Per questo motivo nella costruzione di autoveicoli, sono universalmente

diffusi i freni a tamburo con ceppi interni (ad espansione), che hanno minor ingombro e minor

massa.

Una certa moda tende oggi a mettere in disparte i freni a nastro nelle macchine di

sollevamento, limitandone l’impiego ai casi di uso poco frequente (freni di emergenza). Ciò è

solo dovuto al fatto che il progetto di un freno a nastro richiede molta competenza; per

tamburi di diametro inferiore ai 2500 mm, un freno a nastro ben scelto può essere più

vantaggioso, meno ingombrante e meno costoso (perché costruttivamente più semplice) di un

freno a ganasce. Caratteristica certamente negativa dei freni a nastro è la notevole diversità di

pressione specifica lungo l’arco di abbracciamento (superiore a quella dei freni o ceppi) e,

quindi, la diversa usura della guarnizione.

I freni a ceppi (sia esterni che interni), come quelli a nastro, possono essere autofrenanti

e, al limite, autobloccanti. L’impiego di sistemi autofrenanti deve essere fatto con grande

cautela, e solo quando debba regolarsi il moto di grandi masse. Dovrebbe essere evitato negli

ascensori ed ogni volta che eventuali rotture possano mettere in pericolo la vita umana. La

condizione limite di autobloccaggio può infatti prodursi, anche se non desiderata, per effetto

di un aumento del fattore d’attrito dovuto, per esempio, al variare delle condizioni ambientali.

Ciò comporta severi fenomeni d’urto, che possono facilmente portare a rotture improvvise.

Nel caso dei freni a tamburo, le forze frenanti sono applicate al maggior diametro

possibile del membro rotante sicché, nei casi usuali, essi danno luogo a coppie di frenatura da

due a quattro volte superiori a quelle di un freno monodisco dello stesso ingombro. Per

contro, va osservato che, nel caso di freni a disco, le forze di comando sono equilibrate e sui

cuscinetti, durante la frenatura, grava soltanto la reazione dovuta alla forza d’attrito fra

guarnizioni e ceppi. Ma anche quest’ultima può essere equilibrata disponendo due staffe in

posizione simmetrica rispetto all’asse di rotazione del disco.

I freni a tamburo, salvo rari casi, sono efficaci (per efficacia è da intendersi il rapporto

fra la forza d’attrito massima applicata al tamburo e la forza massima di comando), ma

pagano tale efficacia con una modesta regolarità (rapporto fra la variazione percentuale della

coppia di frenatura e la variazione percentuale del fattore d’attrito). Il contrario avviene per i

freni a disco.

Nei freni a tamburo la ripartizione della pressione di contatto, e quindi l’usura, è

disuniforme, a meno di non adottare particolari accorgimenti costruttivi, peraltro poco usati.

Nei freni a disco, invece, la pressione è molto più uniforme e l’usura più regolare. Ciò

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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consente registrazioni meno frequenti, anzi, nel caso dei freni a disco con comando idraulico,

il recupero del gioco provocato dall’usura è automatico. Va inoltre osservato che il tempo

occorrente per sostituire le guarnizioni dei freni a disco è molto inferiore (= 1/3) di quello

necessario per sostituire le guarnizioni dei freni a tamburo.

La forma costruttiva dei freni a disco è più semplice di quella dei freni a tamburo. Il

numero di componenti che costituiscono un freno a disco è circa la metà di quello costituente

un freno a tamburo: il peso è quindi inferiore nella misura del 20-50%.

In sintesi, i maggiori vantaggi dei freni a disco sono:

• regolarità di funzionamento, anche in condizioni severe di esercizio;

• assenza di surriscaldamenti e distorsioni dell’organo rotante;

• uguale efficacia nei due versi di rotazione;

• assenza di fenomeni di autofrenatura;

• modesti (o quasi nulli) carichi sui cuscinetti;

• possibilità di utilizzare guarnizioni di tipo idoneo ad ogni particolare condizione di

esercizio;

• usura uniforme delle guarnizioni e possibilità di recupero automatico dei giochi;

• peso modesto, a parità di coppia di frenatura;

• facilità di sostituzione delle guarnizioni;

• possibilità di sopportare cicli di funzionamento ad alta frequenza.

Fra i principali svantaggi:

• modesta efficacia intrinseca;

• corsa di lavoro elevata, tenuto conto delle grandi dimensioni dei pistoni di azionamento;

• difficoltà di realizzare un doppio comando (idraulico e meccanico).

4.7. VOLANI

I volani sono dispositivi meccanici atti a regolarizzare i moti rotatori delle macchine, in

particolare quelli periodici. Il punto di partenza per il loro dimensionamento è l’equazione

fondamentale della dinamica per le macchine rotanti:

dt

dJMMM pum

ω=−−

ove Mm indica il momento motore, Mu il momento resistente utile, Mp il momento resistente

passivo e J il momento d’inerzia delle masse rotanti. Posto per semplicità Mu + Mp = Mr, con

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

91

Mr momento resistente complessivo, ne segue che nei casi in cui è Mm > Mr, è pure 0dt

d>

ω e

quindi la velocità angolare è crescente, mentre il contrario si verifica quando è Mm < Mr.

Supponendo per semplicità che il momento resistente si mantenga costante, con riferimento

alla figura 4.7.1 si può affermare che la velocità angolare è crescente da ωmin a ωmax fra gli

istanti t1 e t2 e decrescente da ωmax a ωmin fra gli istanti t2 e t3. Il periodo del moto è T = t3-t1.

Scopo dei volani è appunto quello di contenere entro limiti opportuni lo scarto di velocità

angolare (ωmax a ωmin) nel periodo, in modo da uniformare il moto.

t1 t2 t3

t1 t2 t3

MMm

Mr

t

t

ω

ωmin

ωmax

ωmed

Figura 4.7.1: Diagrammi dei momenti e della velocità angolare

Si definisce grado di irregolarità nel periodo la quantità:

med

minmax

ωω−ω

dove, a rigore, la velocità media dovrebbe essere definita come:

∫ ω=ωT

0med dtT

1

Tuttavia, tenendo conto che lo scarto di velocità deve essere piuttosto modesto, si può

effettuare l’approssimazione:

2minmax

med

ω+ω=ω

Sulla base dell’equazione generale delle macchine, si può affermare che nell’intervallo

di tempo intercorrente da t1 a t2 si ha un incremento di energia cinetica

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CAPITOLO 4 TRASMISSIONE DEL MOTO

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( )2min

2maxmax J

2

1E ω−ω=∆ pari all’eccesso di lavoro motore ∆Lmax sul lavoro resistente. Si può

allora scrivere:

( )2min

2maxmax J

2

1L ω−ω=∆

Tenendo adesso conto della definizione del grado di irregolarità, si ha che:

( ) 2medminmax

minmaxmax J

2JL ωδ=ω−ω

ω+ω=∆

da cui:

2med

max

J

L

ω∆

che è la relazione fondamentale per il calcolo dei volani. Da essa infatti si deduce che, poiché

∆Lmax è una caratteristica propria della macchina e non può essere modificata, per contenere il

grado di irregolarità nel periodo occorre aumentare il momento d’inerzia delle masse rotanti.

Quando il valore di J relativo alle masse rotanti della macchina non è sufficiente ad assicurare

il grado di irregolarità previsto per l’impiego della macchina stessa, - è ad esempio δ = 1/40-

1/30 per i motori veloci a combustione interna - si deve ricorrere all’aggiunta di un volano,

ossia di un rotante assialsimmetrico avente momento d’inerzia Jv tale che l’intero sistema

abbia un’inerzia J’ = J + Jv tale da assicurare il grado di irregolarità desiderato. Detto δ0 tale

grado di irregolarità, dovrà pertanto aversi:

( ) 2medv

max0 JJ

L

ω+∆

da cui si ricava il momento d’inerzia che dovrà possedere il volano:

JL

J2med0

maxv −

ωδ∆

=